I primi anni.
Talento e "straccurataggine".
La breve vita di Masaccio, povera com' è di vicende personali e così difficile da intravedere dietro la grandezza dell'opera (anche per la poca documentazione che ne abbiamo), ha suggerito il luogo comune secondo cui essa si sarebbe consumata tutta nell'amore per la pittura. Probabilmente la sua figura, pur eccezionale, è stata idealizzata rendendo opportuno cercar di tracciare dalle rare notizie un ritratto più concreto dell'artista. Masaccio nasce a Castel San Giovanni in Altura, oggi San Giovanni Valdarno, il 21 dicembre 1401, e prende il nome del santo in quel giorno, Tommaso, mentre il cognome, Cassai, gli deriva dal mestiere del nonno Simone e del prozio Lorenzo, falegnami mobilieri. Tommaso è primogenito di genitori giovanissimi : "ser Johanni", appena ventenne ma già notaio, come indica l'appellativo, e la diciannovenne madonna Jacopa di Mugello. Dei cinque anni seguenti l'unica notizia documentata riguardo il possesso da parte dei Cassai di tre terreni e di una casa nell'abitato. Nel 1406 muore Giovanni, la cui pur prestigiosa professione è però avviata da troppo poco tempo perchè egli possa lasciare alla vedova, a Tommaso e al secondogenito che nascerà entro l'anno e che porterà il suo nome, sostanze sufficienti ad assicurare il sostentamento.
Nè basta l'aiuto offerto alla famiglia, cosicchè Jacopa, secondo una consuetudine accettata, si risposa nel volgere di breve tempo con un uomo molto più anziano, Tedesco, di professione speziale e a sua volta vedovo e padre di due figlie. Il secondo matrimonio dura circa un decennio, sino cioè alla morte di Tedesco, subito dopo la quale è probabile, anche se non si hanno notizie certe in merito alla data, che la famiglia si trasferisca a Firenze. A quest'epoca Tommaso ha già senz'altro manifestato la sua vocazione e deve aver seguito una sorta di apprendistato, assimilando i primi rudimenti d'arte presso qualche pittore locale, considerato che una volta nella capitale gli basteranno meno di cinque anni per immatricolarsi pittore autonomo e presentare un'opera di altissima qualità come il 'Trittico di San Giovenale ( tavv. 1-4 )'. E' infatti il 7 gennaio 1422 che "Masus S. Johannis Simonis pictor populi S. Nicholae de Florentia ", abitante nella parrocchia di San Niccolò Oltrarno, si iscrive all'Arte dei Medici e Speziali, mentre il trittico porta la data del 23 aprile. I due avvenimenti vanno collegati l'uno con l'altro in quanto il dipinto è stato portato a termine su commissione della famiglia Castellani, una delle più famose allora in Firenze, che certo aveva richiesto l'impiego di un professionista. L'immatricolazione di Masaccio risulterebbe altrimenti incomprensibile, dati gli oneri fiscali cui erano allora sottoposti gli artisti indipendenti. Lo stile e alcune soluzioni adottate nel dipinto permettono di avanzare anche altre ipotesi. La prima è che Masaccio, dopo il suo arrivo a Firenze, abbia frequentato la bottega di Bicci di Lorenzo - famoso soprattutto come affrescatore - dove probabilmente la sua tecnica si è affinata e ha maturato una notevole capacità di esprimersi in modo originale.
Quindi è pensabile che in quell'anno egli sia già in amicizia con Donatello, all'epoca al culmine di un'eccezionale creatività scultorea, e soprattutto con l'architetto Filippo Brunelleschi - cui si deve tra l'altro la cupola del duomo di Firenze - del quale si ritrova un'evidente influenza nell'impianto spaziale della tavola di centro. Ad avvalorare ulteriormente questa possibilità è un altro dipinto, un affresco andato perduto, la Sagra, di cui però rimangono diversi disegni in copia. Masaccio lo esegue intorno al 1424 nel chiostro della chiesa del Carmine, a ricordo della consacrazione del luogo avvenuta il 19 aprile 1422, e vi raffigura in processione personaggi importanti della vita fiorentina che egli comunque deve già conoscere a sufficienza, tanto da poterne ritrarre i volti a memoria. Fra costoro, appunto, vi sono Donatello e Filippo Brunelleschi .
Con chiari debiti verso le innovazioni di Brunelleschi è anche il progetto per " La liberazione dell' indemoniato in cui la citazione del maestro - l'immagine della cupola del duomo - si accompagna a un notevole esercizio di tecnica, volendo presentare "casamenti bellissimi in prospettiva, tirati in una maniera che è dimostrano in un tempo medesimo il di dentro et il di fuori" (Vasari). Ne risulta una scelta estremamente complessa, tanto nell'impianto prospettico quanto nella raffigurazione dell'episodio, addirittura troppo complessa perchè vi possa esprimere la naturalezza tanto ricercata da Masaccio, il quale è probabile che abbandoni precocemente l'esecuzione del dipinto, lasciandolo ultimare in seguito agli aiuti di bottega. Di quest'opera va notata la particolare struttura del tempio, piuttosto estranea alle linee architettoniche della costruzione fiorentina e assai più simile invece a quelle romane. Proprio Roma è la meta di un viaggio compiuto nel 1423 , in osservanza al proclamo giubilare. Nell'occasione, ad accompagnare Masaccio vi è probabilmente anche Masolino da Panicale ( Tommaso di Cristofani Fini ), immatricolatosi pittore a Firenze pochi mesi prima, ormai già quarantenne. Fra i due si era instaurato da qualche tempo un rapporto di collaborazione artistica che verosimilmente aveva origine in un sentimento di stima reciproca e non, come a lungo si è pensato prendendo a pretesto la differenza di età, in un presunto discepolato del più giovane al seguito del più anziano. Risulta infatti difficile definirli maestro e allievo quando nella pittura di Masaccio si riscontrano poche influenze masoliane - mentre sono evidenti gli insegnamenti di Donatello e di Filippo Brunelleschi - e soprattutto quando il talento dell'allievo si rivela subito tale da elevarlo al di sopra di tutti i contemporanei, Masolino compreso.
L'affiatamento che essi presto raggiungono è comunque grande, al punto da farli accostare in un "duo preciso e noto" (Berti) e da indicarli, verso la metà del 1423, a Felice Brancacci per l'incarico di affrescare la cappella di famiglia nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. Masaccio dimostra di essere stato, come nessun altro del suo tempo, un vero seguace delle grandi e severe leggi del comporre trovato da Giotto, chiudendo così splendidamente un glorioso periodo per aprirne uno nuovo con la sua bella e grandiosa maniera, la quale, se per un rispetto si lega sempre a Giotto, per un altro dà la mano e prepara la via al Ghirlandaio, a Frà Bartolomeo e a Raffaello [...]. Come Michelangelo, anche Masaccio sembra che durante i suoi concepimenti faccia astrazione da quanto lo ricorda, per trovare nella sua mente l'espressione e la forma più acconcia a rappresentare il pensiero e l'azione delle figure da lui ritratte. I conterranei di Masaccio si gloriano del pittore immortale, i visitatori del Valdarno s'accostano riverenti alla terra che dette semenza di tanta bellezza, l' Italia in lui si esalta. Ma qual è il posto del Grande nel Pantheon della gloria? E dov' è il degno monumento erettogli dalla critica moderna?
Per tutto il Trecento, Giotto dominò dalle rive dell'Arno, e la sua grandezza gravò sulla libertà dell' arte pittorica. Masaccio, fuor dalle castella giottesche, cercò, sotto altri e moderni punti di mira, la verità della vita. Nuovo imperio fu il suo sulla natura, perchè manifestasse appieno il rigoglio, la forza, il carattere delle cose, e l'umanità trionfò nell'arte di Masaccio, riebbe le sue proporzioni sopra uno sfondo monumentale, respirò, liberamente si mosse e altamente pensò. Ciò che nessuno dei suoi predecessori o contemporanei poteva insegnargli è la pienezza e densità del suo stile poderoso, l'intonazione tragica del suo racconto sobrio e serrato, la specie della sua maniera che celebra la materia viva della visione comune nell'ordine e con l'accento straordinario delle sue rappresentazioni risolutive, aliene da qualunque modulazione stilistica che non si adegui prontamente alle figure o alle cose rappresentate, conservandone quasi la materialità. Il carattere dominante della sua pittura è questo, ed è italiano per eccellenza, nel senso che presuppone la fede e la certezza inseparabili e peculiari di tutta l'arte del Trecento toscano in una realtà oggettiva da rappresentare oggettivamente, anche là dove appare sopramondana [...]. La pittura di Masaccio grandeggia perciò stesso quale una incarnazione simbolica del nostro antico spirito cristiano, la cui maggior virtù poetica e figurativa fu di esprimersi, giunto a maturità, classicamente, di pieno accordo con la natura. Le idee di proporzionalità tra le parti e il tutto, di rapporti matematici, e di armonia, che erano le idee dominanti l'estetica della Grecia Antica e che una volta di più sono interpretate dai teorici del Rinascimento, pervennero anche tramite le invasioni saracene [...]. Quest'idea di proporzionalità pervade interamente l'opera di Masaccio. Non è possibile comprendere appieno le profonde influenze dell' antichità nella sua arte se non la affrontiamo nella sua totalità e se non risaliamo al carattere della sua ispirazione.
Masaccio muore a Roma nell' estate del 1428.