Una volta messe a confronto tra loro la versione letteraria, teatrale e cinematografica del testo, una cosa è saltata subito all’occhio: sebbene tutte e tre narrino la stessa storia, scomporle in elementi paralleli non è affatto semplice.
Eppure, la loro fruizione comunica fondamentalmente il solito messaggio: una ragazza dai facili costumi e un uomo dalla rigida morale si trovano a passare una temporanea ma forzata convivenza; avvengono dei contrasti, con l’uomo che vuole imporsi sulla ragazza; ci riesce, ma inaspettatamente cede al proprio codice morale e si uccide; la ragazza torna come prima.
Si potrebbe anche aggiungere molti dettagli ulteriori, comuni al racconto alla commedia o al film; eppure la divisione parallela in sequenze si ferma a quattro grandi blocchi comuni:
1. Sistemazione alla locanda
2. Gli scontri tra Sadie e Davidson
3. La redenzione
4. Epilogo
All’interno di queste macro-sequenze le sezioni, in genere le solite, si accavallano, si sdoppiano, spariscono o appaiono dal nulla. Perché tale diversità di forma, per narrare fondamentalmente la stessa storia?
Nell’ultimo secolo, l’arte della drammatizzazione è decisamente mutata, cadendo in qualche modo in discredito.
È singolare infatti osservare che invece opere come Lear e Faust siano entrambe drammatizzazioni di prosa narrativa, e che quasi tutti i più grandi drammaturghi del passato, da Euripide a Wagner, abbiano inventato i miti o le trame delle proprie opere. Il moderno drammaturgo o adattatore (teatrale, ma anche cinematografico o televisivo) non è invece una figura che dà nuova forma attraverso il potere della sua visione creativa a del materiale esistente; spesso è piuttosto colui che nel tradurre del materiale serio e complesso al livello del gusto della massa lo appiattisce e lo rende insignificante.
In questa ottica Pioggia di John Colton e Clemence Randolph rappresenta in una certa misura un ritorno al metodo tradizionale; tuttavia con una caratteristica prettamente moderna.
La differenza è che in questo caso il drammaturgo, o meglio il drammatizzatore, non si può permettere di porsi ad un livello superiore a quello del testo da drammatizzare. Shakespeare glorificò della novella italiana e delle saghe inglesi, Goethe rese immortale un comune chap-book; la posizione di Colton e Randolph rispetto al testo di partenza è essenzialmente differente: non si saranno forse trovati tra le mani l’opera migliore di Maugham, ma comunque si trattava dell’opera di un autore notevole.
Per questo, il loro obiettivo principale è non è stato impiegare la propria visione creativa per introdurre nuovi personaggi, implicazioni o svolte della trama, bensì trarre dalla storia originale tutto ciò che la mente, il carattere e l’arte di Maugham avrebbe inserito nell’intreccio e dargli una forma teatrale. In altre parole, il loro compito è stato scrivere la commedia che Maugham avrebbe scritto se lui stesso, alla rappresentazione di Pioggia nella sua mente, avesse dato la forma di una commedia in tre atti anziché quella di una breve prosa narrativa. Quelle che hanno fatto, di per sé, è stato già liberare la storia dalla gabbia del libro, come da infiniti anni si faceva prima di loro e come i membri dell’Oulipo avrebbero teorizzato in seguito, fino a farne il punto di partenza della loro riflessione sulla letteratura potenziale.
Già dire così, per quanto come operazione non sia nuova, è comunque riconoscere a Colton e Randolph un grande merito.
Nelle stesura generale dell’intreccio, Colton e Randolph hanno nelle basi seguito l’originale. Il graduale crescendo dell’anima drammatica del Pioggia di Maugham era troppo forte e inevitabile per ammettere cambiamenti.
È necessario ricorrere un’attenta analisi sia della storia che della commedia per vedere quali decisi ma delicati artigianato, con quale lealtà i loro autori hanno effettuato la trasformazione dalla forma narrativa a drammatica. In altre parole, una semplice fruizione dei due testi lascia l’impressione di una sostanziale corrispondenza.
L’asciutto carattere della mente di Maugham brilla non solo nei dialoghi presi dall’originale e riplasmanti in un nuovo tessuto, ma in ogni riga aggiunta. Ci sono la sua sobrietà, la sua passione diligentemente ordinata, la sua contenuta tenerezza, la sua serena tolleranza.
Questi elementi, inoltre, sembrano avere dato forma ai due personaggi che i drammatizzatori hanno creato basandosi su meri accenni nella storia: Sadie Thompson stessa e Joe Horn.
Per quanto possa sembrare stupefacente infatti Sadie ha poco spazio nel racconto, sebbene ne sia indubbiamente il cardine.
Nella commedia, invece, il suo ruolo è stato innalzato da mera sofferenza ad azione. Il dramma, proprio per la sua natura, richiede che ella non sia lasciata passiva, un mero oggetto di cui discutere, ma che sia di per sè sorgente di interesse e energia.
Osserviamo lo schema delle corrispondenze tra le unità minime narrative del racconto di Maugham e della commedia di Colton:
A leggerne i titoli, risulta allora evidente che la scena resta principalmente sua. Nel racconto le osservazioni del dottor Macphail non ci fanno avvertire questa assenza, ma indubbiamente c’è.
Così, nella commedia di Colton e Randolph, Sadie è concepita e proiettata come Maugham l’avrebbe concepita e proiettata se solo avesse potuto vivere muoversi tra quella compagnia di notevoli creatura che popola Schiavo d’amore.
Un altro personaggio che nella commedia assume un peso del tutto speciale è il personaggio di Joe Horn, sviluppato in un modo ancora più intimo che nella sorgente originaria.
Praticamente, le prime parole attribuite a lui nella commedia sono parole prese dalle labbra di Charles Strickland in La lune e i sei soldi. Horn è americano, un semplice commerciante dei Mari del Sud, una specie di ubriacone. Eppure è anche Strickland: l’uomo con una dura e infallibile visione, determinato a tagliare con i sentimentalismi e le finzioni della civilizzazione e a fondare la condotta della propria vita dando libero sfogo ai suoi desideri.
Così la sua presenza aumenta considerevolmente, dando modo così anche di fornire al dottor Macphail un interlocutore con cui esternare le proprie osservazioni, e in qualche modo accollarsene in parte il ruolo. Se infatti nel racconto la guida del lettore, in un certo senso, è il dottor Macphail, nella commedia lo spettatore è accompagnato nei momenti di riflessione e scaricamento di tensione da entrambi questi personaggi quasi in eguale misura. Lo dimostra la semplice constatazione che, mentre nel racconto lo scambio di vedute tra i due occupa un momento solo della trama, nella commedia non è solo approfondito, ma addirittura raddoppiato: il breve dialogo che intrattengono i due prima dello scontro iniziale tra Sadie Thompson e Davidson corrisponde a due diversi momenti della trama nella commedia.
La maggiore innovazione della commedia rispetto al racconto, però, è indubbiamente il personaggio del sottoufficiale O’Hara.
Osserviamo la differenza più rilevante all’interno del trittico: il personaggio di O’Hara. Mentre nel racconto di Maugham è totalmente inesistente, nella commedia assume un ruolo da coprotagonista, senza per questo risultare un elemento che lo spettatore avverte come “in più”. L’equilibrio drammatico e narrativo rimane stabile, anzi: dovessimo togliere O’Hara dalla commedia (ma il discorso varrà anche per il film) troveremmo l’opera statica e monolitica, troppo letteraria appunto.
Il teatro e il cinema, infatti, richiedono che vi sia azione scenica davanti agli occhi dello spettatore, altrimenti si riducono a mero testo recitato. Non a caso, quando Colton chiese a Maugham il parere su una possibile drammatizzazione di Pioggia, ebbe in ritorno «drammatizzi quello che desidera, non c’è dramma qui».
C’è poco plot nel Pioggia di Maugham, infatti: tranne l’iniziale isolamento forzato dei personaggi alla locanda di Pago Pago. Da quel momento in poi, ogni personaggio non deve far altro che essere quello che inevitabilmente è, ed esprimere quest’essere in un modo caratteristico per raggiungere il culmine come la catastrofe. Dal momento che Davidson vede Sadie, è destinato. Prova ad essere «terribile» come è sempre, secondo sua moglie, «ogni qualvolta il suo giusto furore è sollecitato». Ma il veleno immagazzinato nel suo sangue esplode. Ed è O’Hara, il semplice e rozzo soldato che manifesta tolleranza, pietà ed amore e comprensione, a salvare Sadie.
Il film Sadie Thompson è stato prodotto nel 1927, un momento molto particolare per l’industria cinematografica.
Il sistema di studio hollywoodiani si era già affermato, con le major che iniziavano ad imporsi sulle altre case di produzione. Alle soglie dell’avvento del sonoro, Hollywood era così un’industria fiorente e stabile.
Gloria Swanson, una delle attrici più quotate e dotate del momento, decise di mettersi in proprio e produrre dei film indipendenti. Mettendo su una casa di produzione divenne così una dei pochi artisti (assieme a Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e Mary Pickford) ad avere totale controllo sulla scelta dei ruoli, un privilegio raro per un sistema dove erano gli studio a decidere anche per le star più grandi. Poteva così assicurarsi una maggiore libertà e un maggiore audacia, che sfruttò subito: la scelta di interpretare Sadie Thompson ne fu un fulgido esempio.
Nonostante l’indipendenza, comunque, doveva ugualmente venire a patti con l’Uffico Hays, ovvero il centro di autoregolamentazione e censura che vegliava sui prodotti cinematografici che aveva preso il nome dal suo direttore Will H. Hays. Sebbene non avesse ancora raggiunto il periodo di pieno controllo sugli studio, cosa che avvenne negli anni a seguire, era stato instituito nel 1926 per arginare la presunta onda di immoralità che Hollywood diffondeva nel paese con i suoi film. La colonia del cinema, oltre a produrre pellicole non perfettamente in linea con la morale religiosa, specialmente cattolica, era stata negli ultimi anni al centro di numerosi casi di cronaca che avevano portato alla luce realtà allora sconvolgenti (suicidi, pesante consumo di droga, party con alcool di contrabbando, processi per stupro, relazioni omosessuali); si pensò, a questo punto, di “dare una ripulita” all’immagine pubblica di Hollywood.
E in questa clima Pioggia, che aveva avuto un immenso successo a teatro, era stata preventivamente inserita in una lista di soggetti vietati per lo schermo. «It ain't goin' to Rain no more», aveva detto Hays.
Nonostante questo Gloria Swanson riuscì ad ottenere i diritti per girare (di lì a sette anni, la cosa sarebbe divenuta completamente impossibile), a patto però di apporre alcune modifiche alla storia.
Assieme al regista Raul Walsh, già celebre per portare sullo schermo soggetti difficili, Gloria Swanson decise così di evitare le parolacce e i riferimenti blasfemi e di rinominare il Reverendo Davidson come “Mr. Davidson”: in questo modo, tramutandolo da sacerdote in normale cittadino la suscettibilità degli spettatori più religiosi non sarebbe stata urtata, o comunque lo sarebbe stata in modo misura minore. Inoltre, i due assicurarono all’Ufficio Hays che era per amore della moralità che producevano il film, come fece Irving Thalberg per The scarlet letter.
Il titolo, Sadie Thompson, già denota una delle caratteristiche del film: al centro di tutta l’opera sta il personaggio di Sadie, più ancora che nella commedia. A tal proposito, è curioso notare che il titolo italiano fu Tristana e la Maschera: Tristana è l’italianizzazione coatta del nome proprio Sadie (da “sad”, triste), ma la maschera risulta ancora oscuro capire da dove sia venuta fuori…
D’altronde, la centralità di Sadie Thompson non deve sorprendente più di tanto se si considera che il film è stato prodotto da Gloria Swanson per la promozione dell’immagine di se stessa; tuttavia, le ragioni di fondo sono anche altre.
Osserviamo gli schemi di paragone del film con il racconto e la commedia:
Decisamente, la pellicole segue più fedelmente la commedia (un testo in qualche modo “di seconda mano”) che il racconto originale di Mugham. Tra questo e il film ci sono solo dieci unità minime narrative in comune; con la commedia, invece, ce ne sono ben sedici.
Perché una simile disparità? Eppure, non è affatto scontato che un film ignori in modo così deciso un racconto.
Nella famosa intervista a François Truffaut, Alfred Hitchock dice:
È per questo che si commette un errore affidando l’adattamento di un romanzo allo stesso autore; è ovvio che non conosce i principi del trattamento cinematografico.
Invece l’autore drammatico, quando adatta la propria commedia per lo schermo, otterrà risultati migliori, a patto che prenda coscienza della difficoltà. La sua esperienza di teatro gli ha insegnato a tener viva l’attenzione per due ore, senza interruzioni.
L’autore teatrale potrà essere un bravo sceneggiatore nella misura in cui è abituato a scrivere i propri lavori mediante una successione di scene che gradatamente raggiungono il loro punto culminante. Sono convinto che le sequenza di un film non debbano mai procedere con lentezza, ma sempre in modo che l’azione si sviluppi, proprio come un treno che avanza incessantemente o, meglio ancora, come un treno ”a cremagliera” che sale la sale la ferrovia di montagna tacca per tacca. Non bisognerebbe mai paragonare un film ad un lavoro teatrale o ad un romanzo. Quello che più gli si avvicina è il racconto, che si fonda sulla regola generale di contenere una sola idea che arriva ad esprimersi nel momento in cui l’azione raggiunge il punto drammatico culminante.
Avrà notato che raramente lo sviluppo di un racconto incontra punti morti, ed è qui che sta la sua somiglianza con il film. Questa esigenza comporta la necessità di uno sviluppo sicuro dell’intreccio e la creazione conseguente di situazioni che tengano fissa l’attenzione dello spettatore; esse, come primo requisito, devono essere presentate con notevole abilità visiva.
Ed in questo, Sadie Thompson e il racconto di Maugham si assomigliano abbastanza: la veloce regia di Raul Walsh non lascia neppure un minuto di inazione, com’è giusto che sia sullo schermo, data la sua natura (ovviamente si sta parlando di azione cinematografica, contrapposta al cosiddetto “teatro in scatola”, non di azione intesa come movimento dei soggetti inquadrati; altrimenti, sotto questo punto di vista Sadie Thompson sarebbe da considerarsi un film pieno di dialoghi statici).
L’evoluzione del personaggio di Sadie è completa, quindi: dalla presenza/assenza di personaggio un po’ irritante e in seguito ispiratore di pietà che ha nel racconto di Maugham, attraverso la conquista attiva della scena nella commedia di Colton e Randalph, con l’interpretazione di Gloria Swanson nel film Sadie diventa il centro irradiante di tutta la storia. La diva, con la cui figura Maugham ha sempre avuto un legame particolare, si trova ad essere di nuovo mezzo d’eccellenza per la sua intermediazione col pubblico.
Lo spirito di base, infatti, è in fondo lo stesso di Maugham, nonostante tutti questi slittamenti di forma: anzi, è proprio in virtù di questi slittamenti che la qualità letteraria del racconto si trasmette anche agli altri prodotti.
Proprio perché ogni mezzo espressivo ha un proprio linguaggio, e a tale si deve adeguare, per comunicare lo stesso messaggio, paradossalmente, il messaggio stesso deve cambiare. Così è naturale che il salto dal racconto alla commedia sia minore che dal racconto al cinema, proprio perché il primi due mezzi espressivi sono più distanti tra loro di quanto lo siano gli ultimi.
L’interpretazione a tratti ferina, a tratti garbatamente ironica di Gloria Swanson ben rende giustizia a questo ruolo, tanto da rubare spesso la scena all’espertissimo Lionel Barrymore nel ruolo di Davidson; addirittura, arriva ad aggirare la censura con il semplice labiale. Sebbene infatti gli intertitoli siano stati attentamente vagliati dall’Uffico Hays e depurati da ogni volgarità o riferimento irrispettoso alla religione, non altrettanta cura è stata messa nella visione del girato: in più punti Sadie pronuncia frasi forti, eppure essendo un film muto non ne avvertiamo il sonoro; chi è però abituato a leggere il labiale può riconoscere espressioni come «You'd rip the wings off of a butterfly, you son of a bitch!» urlate da un’indemoniata Gloria Swanson in cappello e giro di perle.
Questo è così uno dei pochi casi in cui uno spettatore sordo (e quindi, avvezzo a decifrare il labiale) non solo può semplicemente godersi un film maggiormente di uno spettatore normodotato, ma ne fruisce addirittura una visione più vicina a quella nelle intenzioni degli autori, pur avendo davanti il medesimo prodotto: un caso che la dice lunga sui diversi livelli di lettura di un’opera cinematografica.
Nonostante questo episodio, indubbiamente la versione cinematografica di Pioggia risulta ben più rassicurante per lo spettatore di quella originaria (e le trasposizioni successive lo saranno ancora di più, col Codice Hays che acquisirà sempre maggior controllo sulle produzioni).
Ad esempio, la redenzione di Sadie è un evento approfondito e completo, pur nella brevità della scena finale: lo spettatore non deve minimamente sospettare che non sia dispiaciuta di quel che è successo.
Dottore
Mr. Davidson si è ucciso. L’hanno trovato questa mattina con la gola tagliata.
Sadie
Allora lo posso perdonare - Avevo pensato che uno scherzo fosse per me ma mi sa di no.
Sig.ra Davidson
Capisco, Miss Thompson - mi dispiace per lui e mi dispiace per voi.
Sadie
Credo che mi dispiaccia per tutto il mondo - Per qualcuno la vita è un regalo ben bizzarro.
Nel racconto non c’è spazio per la redenzione del personaggio, anzi il suo atteggiamento contiene in sé una sorta di biasimo. Di conseguenza, anche la reazione di Mrs Davidson all’atteggiamento finale di Sadie è diversa: non scappa più in camera sua, divorata dalla bruciante offesa, ma mestamente accoglie il turbamento di Sadie.
D’altro canto, il cinema più difficilmente riesce a comunicare le sfumature psicologiche rispetto alla parola scritta, perlomeno all’interno degli stessi spazi, così per forza anche l’opposizione tra Davidson e il dottor Macphail si fa più accentuata: adesso il reverendo non obbliga anche gli altri locatari nella sua preghiera, conducendo così una battaglia del tutto solitaria.
Torna però il dubbio che Sadie sia davvero una prostituta: mentre nella commedia si dice esplicitamente che Sadie confessa a Davidson una falsità nella speranza di imbonirlo, questa aggiunta torna e non esserci nella versione cinematografica.
Il film fu un successo, uno dei maggiori della carriera di Gloria Swanson.
Dopo di questo si imbatté nello sfortunato Queen Kelly, capolavoro incompiuto di Erich Von Stroheim finanziato da John Kennedy ma la cui lavorazione si interruppe a metà. Un evento portentoso era infatti appena avvenuto: il 6 ottobre 1927 esce nelle sale The jazz singer, con Al Johlson, il primo film sonoro della storia del cinema. L’industria cinematografica ne è sconvolta alle fondamenta, e Kennedy interrompe subito i finanziamenti per Queen Kelly, che in quanto film muto si stava rivelando vecchio già prima di essere nato.
Anche Sadie Thompson risentì di questo cataclisma economico e culturale: sebbene stesse andando benissimo in termini di critica e botteghino, tanto che iniziava a guadagnarsi la posizione di film di maggior successo della stagione, venne travolto dal gran numero di film sonori che fu messo in distribuzione.
Come avvenne per altri grandi film muti, nel giro di pochi anni ne fu girato un remake sonoro e Sadie Thompson venne presto dimenticato, ingiusta sorte che toccò a molti altri meritevoli film muti.
Se non fosse per una sola copia, mancante dell’ultima bobina, della performance di Gloria Swanson come Sadie Thompson oggi non ne resterebbe niente. L’ultima bobina fu perduta da qualche parte negli anni ’50, quando la copia fu immagazzinata nel caveau di Mary Pickford, dove erano immagazzinati molti titoli della United Artists.
Nel la pellicola 1986 è stata restaurata dalla Kino Internatinal. Il lavoro, supervisionato da Dennis Doros, oltre al salvataggio del supporto filmico comprese la creazione della mancante bobina numero nove. Usando fotografie di scena, il copione originale, una clip di Rain di Milestone (il film con Joan Crawford, sempre fotografato da Oliver Marsh) e la registrazione degli intertitoli, Doros ha tentato di ricreare come il finale sarebbe potuto apparire.