Indice del testo
Introduzione
I. Dalla tarda antichità all'età longobarda
II. L'età carolingia e ottoniana
III. Dall'anarchia postcarolingia alla riorganizzazione ottoniana
IV. La prima metà dell'XI secolo
V. La lotta fra conti e vescovi, Matilde di Canossa
VI. Il primato dei vescovi e Federico Barbarossa
VII. La signoria dei Pannocchieschi e la resistenza del Comune
VIII. L'avvento della repubblica, l'incubo di Firenze
IX. I Belforti e il duca d'Atene
X. La peste, la tirannia e il protettorato fiorentino
XI. La rivolta contro le tasse, da Inghirami a Landini
XII. La crisi del Quattrocento
XIII. Il sacco fiorentino e la caduta della repubblica
Introduzione
Questa sezione di VolterraWeb descrive la storia del medioevo volterrano procedendo con una analisi storica puntuale ed esauriente dei maggiori avvenimenti culturali del periodo. Se vuoi conoscere la storia di Volterra, indagarla nel dettaglio e navigare in un viaggio unico tra storia e cultura, questo è il posto giusto.
L'analisi che troverai in queste pagine è suddivisa in capitoli tematici a cui potrai accedere facilmente tramite le voci del testo. I capitoli seguono l'avanzamento temporale della cronologia storica di Volterra e vogliono offrirti una visione complessiva e soddisfacente. I maggiori avvenimenti narrati ed i monumenti descritti si legano alla relativa pagina presente nella Timeline, così potrai approfondire la tua indagine e "vedere" la storia che stai analizzando.
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Dalla tarda antichità all'età longobarda
Volterra è considerata una delle più antiche e importanti città etrusche divenne poi municipio romano dopo la guerra sociale (90 a.c.) e colonia in età triumvirale o augustea (42 a.c. e 37 d.c.). Mantenne almeno fino al VI secolo dopo Cristo il ruolo di centro amministrativo civile, essendo già divenuta nel V secolo sede vescovile. Nei secoli successivi pur conservano il nome e le prerogative di città e pur rivestendo un importante ruolo nel controllo delle reti di comunicazione della attuale Toscana centrale , entrò in una profonda crisi che la rese incapace di divenire il centro di aggregazione politico, economico e sociale del territorio ad essa circostante.
Sul periodo di passaggio tra la tarda antichità e l'alto medioevo manca una documentazione storica valida e numericamente significativa.Tale lacuna lascia ovviamente posto all'ipotesi che, come avviene in altri certi urbani del tempo, molti spazi urbanizzati mutassero d'uso divenendo aree di sfruttamento agricolo.
Non si hanno dati sicuri sulla prima diffusione a Volterra del Cristianesimo, la documentazione storica è troppo scarsa.Secondo le fonti agiografiche ( le testimonianze che costituiscono la memoria della vita di un santo e del culto a lui tributato) però, che tuttavia sono spesso poco attendibili, in quanto spesso contaminate da storie rurali e folkloristiche, avrebbe avuto origini volterrane San Lino, il successore di San Pietro e nella medesima città avrebbe predicato San Romolo, lì inviato direttamente dal Principe degli Apostoli.
Il liber pontificalis, celebre raccolta altomedievale delle vite dei pontefici romani, descrive infatti Lino come originario della Tuscia, un termine che allora stava ad indicare un ampio territorio più vasto dell'attuale Toscana, comprendente anche il Lazio e l'Umbria. San Romolo, invece, pare che visse dopo l'epoca delle persecuzioni e fu diacono o prete della Chiesa di Fiesole, anche se una Passione probabilmente inattendibile dell'XI secolo lo descrisse come vescovo di Fiesole e martire.
Se si guarda ai dati storici verificati le prime notizie sui vescovi volterrani risalgono soltanto agli ultimi decenni del V secolo, quando in alcune lettere di papa Gelasio I degli anni 495 e 496 viene nominato il vescovo Eucaristo ed i suoi predecessori Eumazio ed Opinione, si tratta quindi di informazioni tarde.
Sappiamo che almeno dall'età longobarda erano venerati a Volterra i tre santi Giusto, Clemente e Ottaviano. Dato comune anche ai santi più antichi del litorale tosco-romano-campano la tradizione riferisce che essi approdarono sulle coste italiche fuggendo a persecuzioni dei Vandali. E' forse più ragionevole ritenere invece che si trattasse di santi locali, probabilmente eremiti come riporta un manoscritto dell'XI secolo.
Dalle lettere di Gelasio in poi si registra una totale assenza di fonti relative alla città, che impedisce di ricostruire il ruolo di Volterra tra la fine dell'antichità e l'inizio del medioevo, cioè ci mostra come inizialmente a cavallo tra queste due epoche storiche mancasse una documentazione ufficiale che ritraesse la città di Volterra in un qualsiasi ruolo. Ci è ignoto anche l'assetto del territorio volterrano dopo la fine della guerra gotica del 553. Le conseguenze della guerra si fecero sentire sull'Italia per alcuni secoli, anche perché la popolazione per non essere coinvolta aveva abbandonato le città per rifugiarsi nelle campagne, portando a compimento quel processo di ruralizzazione e d'abbandono dei centri urbani iniziato nel V secolo che portò ad un uso del territorio in senso agricolo.
Una ridefinizione dei confini territoriali avvenne sicuramente quando i Longobardi, entrati nella penisola nel 569, intrapresero la conquista della Toscana con tappe ancora non ben precisabili che tuttavia ebbero come punti fermi la formazione dei ducati di Lucca e di Chiusi tra il 572 e il 574. Sappiamo che Volterra rimase fino all'inizio del VII fuori dal dominio longobardo, ma anche che pagò l'autonomia con la perdita di grandi zone del vasto territorio che fino ad allora apparteneva all'antico ager Volaterranus. Infatti il territorio di Volterra venne ridotto, la città privata del litorale tirrenico e il municipio spogliato delle sue libere magistrature. Fino a questo momento Volterra, come gran parte della Penisola Italica, assistette inerme alle invasioni di popolazioni straniere e non ebbe l'autonomia che, datogli prestigio in epoca etrusca e romana, adesso veniva meno e non permetteva un'imposizione territoriale e amministrativa forti.
Volterra fu sede di un gastaldo che rispondeva direttamente al re e poi, data la natura del territorio volterrano fu scelto più volte come sede preferita del duca longobardo in Toscana. Alla metà del secolo successivo alla città faceva capo una circoscrizione civile (iudiciaria), della quale però non conosciamo né l'epoca di costituzione né l'estensione territoriale, in ogni caso diversa da quella diocesana. Ugualmente sono povere le informazioni sull'assetto della Chiesa volterrana, il cui elenco dei titolari mostra un'ampia lacuna tra il VI e il VII secolo.
In particolare il silenzio delle fonti copre circa novanta anni, poiché dopo il vescovo Gaudenziano (inizio VII sec d.c. ) dobbiamo attendere l'ottobre 649 con l'elezione di Galgano.
Anche il tessuto della città sembra suddividersi, frazionarsi e distribuirsi sul territorio in una serie di nuclei, uno dei quali sarebbe da localizzarsi intorno al complesso episcopale ed un'altro nella zone delle Balze, dove partendo dall'epoca etrusca era localizzata una necropoli. Non esiste più un nucleo cittadino.
In essa sarebbero stati sepolti i santi Clemente e Giusto e in loro memoria sarebbero state erette due memoriae (luoghi di culto fondati sul ricordo del santo e sulla sua celebrazione), che vennero poi sostituite o inglobate in una o forse due chiese erette per iniziativa del gastaldo Alchis al tempo del re longobardo Cuniperto (688-700) e del vescovo Gaudenziano.
La Tuscia subì sostanziali mutamenti, il ducato e la diocesi di Lucca, una delle più importanti città della Tuscia longobarda, inglobò infatti a Nord le valli inferiori degli affluenti di sinistra dell'Arno tra l'Era (già confine con Pisa) e l'Elsa (confine con Firenze); a ovest alla diocesi di Populonia, occupata dai Longobardi prima del 591, passò la fascia costiera fra Bolgheri e San Vincenzo; Siena, divenuta longobarda intorno al 576, ottenne a est l'area sulla destra della Merse tra Sovicille e San Lorenzo a Merse, a sud di Tocchi, quella tra la Farma e la Merse fino alla loro confluenza. A ovest invece divenne pisano il lembo di terra tra i fiumi Fine e Cecina, probabilmente rimasto in mano ai pisani, alleati dei volterrani contro i Longobardi, quando questi ultimi conquistarono Volterra.
L'età carolingia e ottoniana
Se è vero che Volterra, dopo la caduta dell'Impero Romano, visse un'epoca buia, le sue sorti non migliorarono con l'arrivo dei Franchi.
La città era direttamente sotto làImpero, i Carolingi, conquistato il Regno Longobardo nel 774, mirarono a far coincidere le giurisdizioni civili con quelle ecclesiastiche, ma non è facile dire quale fu la conformazione amministrativa del territorio volterrano. Infatti a Volterra non fece capo un comitatus, cioè una circoscrizione civile retta da conti.
Nel periodo franco a Volterra agivano soltanto alcuni scabini, ossia giudici pubblici: Ringo e Rodolfo nell'ottobre 833, Vualfuso nel marzo 884, Eimerico nel marzo 918, Vualberto nel febbraio 923.
Il relativo vuoto di potere che si creò con la mancanza di un alto ufficiale civile che risiedesse nel territorio fu probabilmente colmato dai vescovi che, grazie a molti privilegi concessi loro dai sovrani, assunsero un ruolo ed una autorità di primo piano, divenendo punto di riferimento della vita cittadina.
La strategia carolingia di avvicinare il potere civile e religioso diede ampi diritti e poteri ai presuli del territorio volterrano che oramai privo di un conte sottostava in tutto alla volontà di vescovi ai quali nessuno mancò di fare concessioni.
Carlo Magno ed i suoi successori, infatti indirizzarono ai vescovi volterrani numerosi privilegi, Volterra rappresentava un centro politicamente essenziale alle mire carolinge, era il cuore pulsante della Toscana e soltanto ai vescovi della città di Arezzo, altro punto nodale, furono dati più privilegi. Questa situazione apparentemente incoerente è motivabile con la scelta degli imperatori di smorzare le pretese territoriali di vassalli troppo intraprendenti.
Sappiamo quindi che Volterra fu sottomessa a lungo tra le dispute vescovili e dei marchesi, ma non abbiamo molte altre notizie. Conosciamo soltanto alcuni privilegi concetti ai prelati cittadini:
Carlo Magno (- .814), in un diploma perduto e confermato dal figlio Ludovico, pose la Chiesa volterrana, intitolata alla Vergine e a San Giusto, sotto la sua 'plenissima defensione et immunitatis tuitione', ossia sotto protezione imperiale. Ludovico il Pio, a sua volta, nel privilegio al vescovo Grippo datato al 27 ottobre 821, specificò il contenuto della protezione, proibendo ai funzionari pubblici di entrare nelle chiese e nelle proprietà vescovili per svolgere funzioni giudiziarie o esigere tasse e servizi dagli 'uomini di questa chiesa' sia liberi sia servi; in seguito Lotario I concesse al vescovo d'istituire in città due mercati l'anno, nelle località di San Silvestro e di Sant'Ottaviano, cui Ludovico II nell'851 ne aggiunse altri due, uno presso la chiesa vescovile (dove riposava il corpo di Sant'Ottaviano) per la festa di Santa Maria il 15 Agosto e l'altro nella curtis vescovile di Camporise presso la chiesa di San Pietro, con la proibizione ai pubblici funzionari di esigere i dazi sulle merci (teloneo).
Dopo Carlo Magno i vescovi ricevettero almeno altri due diplomi, oggi perduti, dai re Berengario I, Ugo e Lotario II, e una donazione di re Ugo.
Ad appesantire la situazione pare che non tardò a giungere il popolo degli
Dall'anarchia postcarolingia alla riorganizzazione ottoniana
Le notizie sulla chiesa e la città di Volterra si fanno lievemente più abbondanti soltanto nel decimo secolo anche se pongono grandi problemi di verifica ed interpretazione, passiamo in pratica da una mancanza pressoché totale di fonti a documenti dallàorigine incerta.
Secondo lo storiografo seicentesco Scipione Ammirato il Giovane il 1° settembre 896 Adalberto II, marchese di Tuscia avrebbe donato al vescovo Alboino e ai canonici della chiesa di Sant'Ottaviano in Volterra la 'libera giurisdizione su Berignone, Casoli, Montero, Sasso e Marciana' , importanti possedimenti tra cui castelli e borghi del territorio volterrano, strategici per il controllo del territorio circostante la città. Il documento pare però molto sospetto sia per le località nominate sia per la terminologia adoperata, sicuramente riferibile ad un'epoca più recente. La donazione del marchese Adalberto II, se non falsa, è stata quindi largamente interpolata, ossia ampliata e modificata in epoca successiva. L'importanza del documento è in ogni caso grande, troviamo informazioni sulla chiesa di Volterra in uno scenario che la vede beneficiaria nei confronti del potere politico ufficiale.
Il vescovo Adalardo ottenne dal re Ugo il 30 agosto 929 la donazione del monte 'qui dicitur Turri' presso San Gimignano. Il documento è importante perchè contiene la prima menzione di un comitatus di Volterra, attestato successivamente nell' agosto 968, mentre dei titolari del comitatus mancano notizie sicure fino al giugno 967. Il documento del 929 è quindi la prima testimonianza della definizione istituzionale del territorio volterrano, fino a quel momento privo di una propria fisionomia ed in balia di forze esterne.
Gli anni Settanta del X secolo apportarono significativi mutamenti all'assetto del Volterrano, allorché alla realtà istituzionale del comitatus fu da Ottone I data concretezza con la nomina di un conte. Al 12 giugno 967 risale infatti sia la prima notizia di un placito (assemblea giudiziaria) tenuto in quel territorio, presieduto da Oberto marchese e conte di palazzo alla presenza dell'imperatore stesso nella dimora vescovile presso Monte Voltraio, sia la prima sicura menzione, tra i partecipanti al placito, di un conte di Volterra, Rodolfo Volaterensis comes.
Si tratta di uno dei primi membri della famiglia poi nota dal Duecento con il cognome Della Gherardesca, della quale non siamo tuttavia in grado di determinare làarea di provenienza, ma è essenziale il ruolo che rivestì la casata nello scenario politico di Volterra che ebbe per la prima volta un conte, un rappresentante del potere politico.
Al periodo ottoniano, molto importante per la storia della città, appartengono due documenti che è il caso di approfondire: il falso diploma di Carlo III dell'887 e il privilegio indirizzato dall'imperatore Ottone I al vescovo Pietro III del 2 Dicembre 966.
Il falso diploma dell'877 attribuisce al presule di Volterra alcuni diritti giurisdizionali e la facoltà d'impadronirsi dei beni di coloro che, avendo rifiutato di rendere giustizia al vescovo, si trovavano per un anno al bando dell'impero. Se fosse autentica questa concessione avrebbe limitato alquanto i poteri del conte, di conseguenza la falsificazione dimostra che maturò a quell'epoca un tentativo di contrastare il nuovo assetto territoriale e giurisdizionale promosso da Ottone I e di riaffermare il ruolo politico precedentemente goduto dai vescovi di Volterra. Questo fu un elemento importante per l'evoluzione politica successiva, si attuarono i presupposti per i quali Volterra visse ed in seguito coesistette con una bipolarità dei poteri, quello ecclesiastico vescovile e quello imperiale, con i conti. Il contrasto non è soltanto esplicitato nei documenti storici, è la topografia cittadina l'esempio più manifesto di questa realtà; a luoghi in cui sorgono edifici ecclesiastici (Piazza San Giovanni) si contrappose in epoca successiva l'edificazione di uno spazio cittadino alternativo, proprio alle sue spalle, con la Piazza dei Priori.
In ogni caso il 2 dicembre 966 Ottone I, durante una sosta nel castello marchionale di Vada, rilasciò al vescovo Pietro III un ampio e insolito privilegio, a testimonianza dell'importanza che l'area volterrana e il suo vescovo rivestivano nella politica imperiale in Toscana. L'imperatore confermò la protezione imperiale sulle proprietà della Chiesa e consentì l'annullamento dei contratti ritenuti dannosi per il vescovado; per agevolare la restaurazione del patrimonio ecclesiastico, concesse la nomina di quattro avvocati, i quali non potevano agire in assenza del vescovo né intraprendere azioni armate senza il suo consenso, e accordò l'esenzione della giurisdizione ordinaria per i residenti sui beni della Chiesa, riservata a messi inviati dal sovrano, e l'esenzione delle multe giudiziarie di coloro che erano commendati al vescovo.
Altre norme miravano a ristabilire il pieno controllo del presule sulla diocesi, attraverso la scomunica dei sacerdoti che non prestassero la dovuta obbedienza, sottraessero le decime alle pievi e rifiutassero di presentarsi alla sinodo vescovile e l'affermazione del dovere per ogni cristiano di pagare la decima alla propria chiesa battesimale.
Ottone I rivestì quindi un ruolo di importante mediazione culturale e sociale tra i due poli del potere volterrano, i conti e i prelati, definì i limiti amministrativi di entrambi i poteri coinvolti ma creò una situazione di contrasto duraturo.
Nell'XI secolo si registra, infatti, una progressiva perdita di importanza e di potere dei conti. Dopo il già citato conte Rodolfo della Gherardesca, i documenti menzionano i fratelli Redice I e Gherardo II, e il figlio primogenito di Redice I, Ugo I. Con la morte di quest'ultimo, tuttavia, avvenuta al tempo di Enrico III tra il 1045 e il 1046, scompare ogni menzione dei conti di Volterra.
Forse non è un caso che i vescovi di Volterra non ricevettero altri privilegi fino a quello concesso nel 1052 Enrico III, quando i conti avevano evidentemente perduto l'ufficio comitale.
La prima metà dell'XI secolo
La morte quasi contemporanea del marchese Ugo (21 dicembre 1001) e dell'imperatore Ottone III (23 gennaio 1002) creò una difficile e pericolosa situazione in Toscana e nel Regno, poiché alla corona imperiale aspiravano due pretendenti, il marchese Arduino d'Ivrea ed Enrico di Baviera.
I conti Gherardeschi, un tempo conti di Volterra ma ora potenti signori del territorio, si schierarono con il secondo. Tale posizione fu verosimilmente seguita anche dal vescovo Benedetto, definito noster dilectus fidelis da Enrico II nel privilegio concesso nel marzo 1014, poco dopo la sua incoronazione ad imperatore.
Al successore di Benedetto, il novarese Gunfredo, risale la prima fondazione monastica vescovile della diocesi: nel 1034, con il consenso dei canonici, egli fondò e dotò un monastero benedettino maschile presso le chiese dei SS. Giusto e Clemente vicino alla città di Volterra: il presule confermò al cenobio i possessi e le decime già detenute da quelle chiese e donò altre proprietà insieme con la vicina area di Prato Marzio.
Il documento rappresenta anche l'ultima menzione di legami tra i conti e la città: dopo tale data nessun Della Gherardesca compare più in relazione con Volterra e con il territorio immediatamente circostante, né con enti o personaggi cittadini. I Gherardeschi, infatti, radicati in aree periferiche o esterne al territorio volterrano, pur intrattenendo rapporti con i canonici e con i vescovi, non riuscirono ad inserirsi pienamente nella compagine cittadina e preferirono concentrare i propri interessi nelle aree dove si raccoglievano i loro possessi.
Ritirandosi i conti dall'amministrazione della città di Volterra, si ricreò di conseguenza un vuoto amministrativo che, come in passato, fu sopperito dal potere vescovile col tempo diventato sempre più egemone.
In questo senso va dunque intesa la fondazione monastica, che appunto mirava a rafforzare la posizione e la presenza vescovile, consolidando attraverso il monastero il controllo episcopale dell'area occidentale della città.
Nello stesso contesto si colloca l'importante privilegio indirizzato dall'imperatore Enrico III il 17 maggio 1052 al vescovo Guido, successore di Gunfredo, al quale fu concessa l'alta giurisdizione sui chierici e i servi della Chiesa e su tutti coloro che risiedevano sulle terre ecclesiastiche. Anche se una tale concessione rientrava nella politica perseguita dal sovrano in Toscana a favore dei vescovi contro la potenza dei marchesi Canossiani e dei conti e ufficiali pubblici a essi legati, il privilegio contribuì potentemente al rafforzamento delle prerogative e del ruolo del vescovo in Volterra.
Guido seguì un'attenta politica d'acquisizione di centri incasellati e di monasteri, tra i quali si distinguono il cenobio dei SS. Giusto e Clemente vicino Volterra, fondato nel 1034 da un tale Adelmo e donato il 24 maggio 1042 al vescovado volterrano.ll vescovo Guido riuscì così ad ampliare il patrimonio vescovile e a ottenere attraverso la giurisdizione riconosciutagli dall'imperatore un più forte dominio sugli abitanti del territorio. Con il suo episcopato sembra giungere a compimento quel processo di definizione del ruolo vescovile nella città di Volterra iniziato con i Carolingi e accresciutosi attraverso la serie dei diplomi regi e imperiali. Comincia un'ulteriore evoluzione delle funzioni e delle prerogative vescovili in senso spiccatamente signorile e territoriale: il vescovo appare detenere infatti una serie di diritti e di giurisdizioni pubbliche non più confortata da diplomi imperiali ma basata sulla capacità concreta di controllare e di coordinare un determinato ambito territoriale. Volterra finì con l'essere assoggettata al potere giurisdizionale e signorile del proprio vescovo e si trovò circondata da castelli anch'essi sottoposti alla signoria vescovile: l'autonomia comunale quindi poté svilupparsi solo attraverso una lenta e faticosa gestazione, con caratteri particolari rispetto alle più potenti e famose città toscane.
La lotta fra conti e vescovi, Matilde di Canossa
A Volterra l'alternanza fra vescovi e conti proseguì anche dopo l'anno 1000.
La forza vescovile riusciva oramai a minare l'autorità dell'aristocrazia imperiale, accusandola di offendere la chiesa ed i suoi diritti. Il potere prelare, un tempo nutrito da diplomi e lasciti imperiali, adesso dettava le sue leggi, sui rappresentanti di quel potere che gli aveva dato forza. Possiamo ricordare l'imperatori Enrico II il Santo (Hildesheim, 6 maggio 973 o 978 - Grona presso Gottinga, 13 luglio 1024) ed Enrico III, che nel corso dell'XI secolo intervennero per proteggere i vescovi. Al vescovo Guido, che si lamentava dell'intransigenza del conte, fu garantita nel 1052 un'ampia immunità ecclesiastica che da quel momento sottrasse i vescovi da ogni residuo obbligo fiscale verso i conti.
Il primato passò definitivamente nelle mani dei vescovi, il cui potere si estendeva ben oltre le mura cittadine. In quei tempi,
Giunta a Volterra, secondo alcune fonti dimorò presso porta Marcoli presso S.Andrea. Pare che in quegli anni la città avesse già ripreso l'usanza di eleggere i suoi consoli; era stato il marchese Bonifacio detto 'Tiranno' (985 - 6 maggio 1052 ), duca di Toscana e padre di Matilde di Canossa, che con un atto del 1042 aveva concesso a Volterra di eleggere i consoli, anche se si pensa che fosse il vescovo a sceglierli.
In questo periodo storico si ricordano tre eccezionali calamità che colpirono profondamente Volterra; una edipemia influenzale di dimensioni bibliche nel 1004, il flagello delle cavallette il 1068 ed una
Il primato dei vescovi e Federico Barbarossa
Col XII secolo il primato vescovile divenne incontestato. Il vescovo Ruggero nella prima parte del secolo, aveva sottomesso con forza l'aristocrazia di San Gimignano che pretendeva di ribellarsi per poi muover guerra ai feudatari imperiali e quindi a Siena, cadendo prigioniero. I suoi successori, prima Crescenzio quindi Adimaro e Galgano, misero da parte intenzioni belligeranti e si mossero verso un approccio più diplomatico guadagnando molte terre e castelli. Volterra disponeva in questi tempi di grandissime risorse di un terreno ricco d'acque, saline, pascoli, foreste paragonabili ai possedimenti del fiorente periodo etrusco e romano.
Federico Barbarossa (Waiblingen, 1122 - Saleph in Terra Santa, 10 giugno 1190) si accorse del cambiamento in atto ed aveva conti in sospeso con i comuni dell'Italia del nord che si erano già liberati ed emancipati, per questo aveva occhi di riguardo per quelle città che accettavano ancora l'autorità di un principe. Nel 1164 il Barbarossa concesse ufficialmente al vescovo di Volterra, Galgano de Pannocchieschi, il totale e legale dominio sulla città. Di questo vescovo volterrano conosciamo solo il nome.
La sua attribuzione alla casa dei Pannocchieschi si deve, infatti, ad una nota d'archivio di quattro secoli posteriore vergata dal notaio e cancelliere vescovile Lodovico Falconci in una sua cronotassi dei vescovi volterrani compilata per l'ingresso in Volterra del vescovo Lodovico Antinori (1568-1573). In tale scritto, infatti, a fianco di varie notizie completamente errate sulla vita e sulle opere di tale vescovo, egli annota che Galgano proveniva dalla casa dei Pannocchieschi di Castiglion Bernardi, stabilendo così un'assegnazione genealogica che fu accettata acriticamente da tutti gli storici successivi fino al 1955 quando uno studio di M.Cavallini chiarì definitivamente l'equivoco.
Che le sue origini familiari non apparissero comunque certe agli scrittore di cose volterrane è inoltre dimostrato dal fatto che lo stesso Curzio Inghirami (1614-1651) inserì arbitrariamente Galgano nell'albero genealogico della propria famiglia. Nella cronologia dei vescovi volterrani il nome di Galgano compare per la prima volta il 3 Agosto 1150 come successore di Adimaro.
Teso a recuperare e a difendere i beni della chiesa volterrana, dal 1156 al 1162 fu in lite col conte Ranieri I Pannocchia per il possesso di Gerfalco. Anche se nel periodo successivo all'elezione dell'antipapa Vittore V (1159) Galgano restò fedele al legittimo pontefice Alessandro III, in seguito passò dalla parte dell'antipapa, sostenuto dall'imperatore, ottenendo così nel 1164 da Federico I la giurisdizione sulla città di Volterra e sui castelli della diocesi. La sua posizione politica favorevole all'imperatore e all'antipapa e la tentata sottomissione del Comune di Volterra in ragione dei diritti signorili da lui acquisiti, provocarono però un contrasto talmente aspro e profondo tra
La famiglia Pannocchieschi apparteneva alla nobiltà da più di due secoli e dette a Volterra vescovi, consoli e podestà anche se sovente non ottennero il potere con mezzi leciti. Il fondatore Galgano, ad esempio, si servì persino della scomunica ed ebbe una tale considerazione delle proprie facoltà da provocare l'insurrezione del popolo volterrano che lo uccise sulla porta della cattedrale di Volterra, correva l'anno 1173. L'offesa percepita dai cittadini riguardava la pretesa del prelato di contestare la giurisdizione delle nuove classi nel contado se non la tassazione esosa delle proprietà. Da qui in poi, con la consapevolezza di appartenere ad una nuova classe relativamente coesa, nacque quella coscienza cittadina fino ad allora sconosciuta.
La signoria dei Pannocchieschi e la resistenza del Comune
La signoria dei Pannocchieschi a Volterra, a cavallo tra il XII e il XIII secolo si trovò di fronte ad eventi che stavano cambiando l'assetto politico dell'Italia. La pace di Costanza (1184) aveva sancito, infatti, il nuovo potere comunale repubblicano ma aveva anche confermato le signorie dei vescovi-conti laddove già esistevano. A Volterra quindi il passaggio alla piena indipendenza comunale fu più lento rispetto ad altre città.
Ai tempi c'è noto che a regolamentare la vita dei liberi comuni provvedevano gli Statuti, ossia atti solenni, che costituiranno lo strumento giuridico che dava certezze amministrative all'ordinamento politico, sanciva il diritto civile e penale e provvedeva alla difesa e la vita economica, ogni aspetto della politica cittadina.
Il più antico Statuto Volterrano è del 1199 via via aggiornato con 'rubriche' secondo le necessitò politiche. Seguendo lo scandire di queste rubriche possiamo farci un'idea del susseguirsi degli eventi politici, i difficili rapporti tra Comune e vescovo e via dicendo moltissimi aspetti burocratici all'interno della città. Nei primi venti anni del Duecento gli statuti costituiscono i documenti principali a testimonianza della lotta cittadina, era il tempo in cui va affermandosi lo spirito d'indipendenza dei cittadini nonostante i settori più alti della società continuassero a percepire il potere vescovile.
In questi anni la città aveva gia deciso di incamminarsi verso la via della repubblica comunale ed il potere vescovile già minato. A smuovere gli assetti ed a spingere tale iniziativa si ricordano anche le mire espansionistiche di città vicine come Pisa e Siena, che avendo un gruppo comunale molto potente, miravano ad inglobare nel proprio territorio anche altre città, tra cui Volterra. Pisa e Siena inoltre con il loro appoggio incitavano gli abitanti ed i signori a ribellarsi al potere vescovile ed a dichiararsi indipendenti.
Vediamo che a Volterra dovette crescere un nuovo spirito d'unione e collaborazione, di comunione d'intenti per poter eliminare l'egemonia vescovile. Inizialmente i vescovi volterrani tentarono di resistere allo sforzo ma indebitati con prestatori fiorentini, ovvero con una Firenze che volendo arginare le minacce pisane e senesi si decise a prestare nuovi introiti ma a carissimo prezzo. I vescovi non avevano in ogni modo le garanzie di un tempo, il potere che li rese protagonisti nei secoli precedenti si basava sulle ricchezze, che adesso venute meno, minavano alla radice il loro prestigio.
Dalle rubriche agli atti comunali vediamo che la politica che adottò il clero fu allora quella di allearsi ora con Siena, ora con Pisa, ora con Firenze, una politica che chiaramente insospettiva i potenti vicini e per la quale il governo volterrano non poteva che essere giudicato instabile ed inaffidabile. Questa situazione non cambiò molto con la repubblica, Volterra era lo stesso costretta a pagare la propria debolezza politica.
Parlando ancora della famiglia de Pannocchieschi, il vescovo Ildebrando (?-1211) figlio del conte Ranieri I Pannocchia, probabilmente fu il loro esponente più illustre ed esercitò il suo potere in Volterra dal 1185 al 1212. Egli intese la situazione precaria in cui versava la politica volterrana e scelse di lasciare l'amministrazione pubblica ai magistrati cittadini, che in base alle necessità si trovavano ad amministrare anche guerre o accordi di pace ed alleanze.
Ildebrando si limitava a sovrintendere ed a battere moneta ma i magistrati posti ad amministrare non lesinavano insubordinazioni ed approfittando dei pesanti conflitti di quel tempo fra chiesa e impero tentarono più volte persino di far assumere alla città posizioni politiche diverse da quelle di Ildebrando.
Nel 1197 vediamo Ildebrando farsi promotore e fondatore in Castelfiorentino della così detta
Morto Ildebrando però le forze all'interno della città ripresero con vigore a darsi battaglia, il successore, Pagano de Pannocchieschi( seconda metà sec XII-1239) fece più danni che atti conciliatori e disperse i buoni frutti prodotti dal predecessore. Pagano tentò addirittura di restaurare la tirannia ed i volterrani il giorno di Pasqua del 1219 tentarono addirittura di ucciderlo durante la messa in chiesa. I volterrani agirono per conto proprio e sordi agli ordini del papa e incoraggiati dall'indifferenza dell'imperatore costrinsero Pagano alla capitolazione, nel 1237.
Si può dire che, prima della metà del XIII secolo il potere temporale dei vescovi a Volterra era stato abbattuto ed a rappresentare tutto ciò era già sorto nel cuore della città, alle spalle della cattedrale di Santa Maria Assunta, il nuovo palazzo comunale, il più antico della Toscana. La prima pietra della
L'avvento della repubblica, l'incubo di Firenze
Volterra giunse alla repubblica dopo molte altre città Toscane. Il suo territorio si era considerevolmente esteso negli ultimi anni e la sua popolazione era cresciuta di conseguenza, i commerci erano floridi e le miniere nei territori circostanti fornivano risorse e ricchezza. Ma va considerato che, sebbene la situazione fosse florida, essa proveniva da scenari di fervido contrasto interno dai quali, agli occhi delle città toscane, Volterra pareva governata in modo instabile ed incoerente. Considerando ciò è comprensibile il fatto che essa non riuscì ad imporsi nello scenario politico, almeno per quanto le risorse che poteva utilizzare avrebbero permesso.
Volterra allora, in questi anni della repubblica accrebbe notevolmente le proprie ricchezze ma rimase in quel bacino d'influenze e controllo che avevano le città di Firenze, Pisa e Siena; a livello geografico quindi, e non solo, Volterra era il centro nevralgico delle mire di comuni più autorevoli.
Tornando all'interno delle mura i contrasti tra vescovi e magistrati non cessarono con l'estinguersi della casata dei Pannocchieschi, ma anzi i loro successori non lesinavano nell'offendere e dichiararsi contrari alle delibere comunali appoggiandosi persino a Firenze, come in passato, che non aveva nessuna remora ad appoggiare chiunque potesse permettergli il primato politico in Toscana.
Al pari di tante altre città toscane Volterra fu lacerata dalle lotte fra guelfi e ghibellini, ma con una caratteristica del tutto peculiare: lo scontro cittadino non era solo un riflesso della battaglia politica generale che aveva incendiato tutta la Toscana, ma anche e soprattutto una conseguenza d'infiltrazioni esterne che miravano soltanto ad indebolire lo Stato comunale volterrano.
La battaglia di Montaperti del1260 aveva sancito la restaurazione ghibellina, filo imperiale, in Toscana portò a Volterra i funzionari di re Manfredi, ma la rovina della casa sveva a Benevento ad opera di Carlo d'Angiò (21 marzo 1266 - Foggia, 7 gennaio 1285) aprì a Volterra una fase difficilissima per il partito ghibellino che in città era sempre stato assai vivace anche per contrastare i vescovi troppo ossequienti alla volontà della guelfa Firenze, che oramai, era divenuta una tangibile minaccia.
Firenze non era amata ma temuta, oltre a ciò Volterra doveva guardarsi da Pisa e da Siena che a loro volta volevano mantenersi alla pari di Firenze. Quest'ultima già alla metà del XIII secolo si era data Statuti fortemente democratici e vedeva crescere nel suo seno la forza dei ceti popolari che idenificava il partito ghibellino come il partito dei signori e dava perciò un connotato di classe alla sua battaglia per la Toscana.
Volterra non avrebbe potuto resistere a lungo alle mire fiorentine, ed infatti, il 1254 fu presa dai Fiorentini ed evitò il saccheggio soltanto grazie al vescovo Ranieri degli Ubertini, succeduto ai Pannocchieschi. Lo sforzo in ogni modo valse a poco e Volterra arresasi dovette cacciare i ghibellini dalla città a cui furono preposti podestà fiorentini. Fu abolito il governo aristocratico dei consoli e stabilito il potere dei 12 Anziani ai quali seguirono rapidamente due nuove magistrature popolari: i 12 Difensori e gli 8 Priori.
Il podestà imposto dai fiorentini suscita reazioni profonde e proprio per questo il vescovo Ubertini, che nel 1254 era riuscito a scongiurare il sacco della città, si trovò nominato dai volterrani podestà e capitano del popolo. La reazione non tardò, chiamato a Firenze dovette discolparsi dall'accusa di debiti e per tale accusa fu perseguitato.
I volterrani intesero immediatamente i toni fiorentini e l'ostilità che nel tempo si erano tirati addosso, prese parte alla guerra contro Pisa del 1288. L'anno seguente, il 1299, a Campaldino dove con Arezzo erano stati dispersi i ghibellini toscani, Volterra partecipò ancora al fianco di Firenze schierando un discreto numero di fanti e cavalieri.
La città stava, in questo momento, perorando qualsiasi iniziativa fiorentina così da farsi amica o comunque non ostile una potenza repubblicana. Ma ciò non bastava a Firenze che non voleva città indipendenti in Toscana e conosceva gli animi dei volterrani, sicuramente ancora ostili. Firenze quindi appoggiò la causa di San Gimignano, antica rivale di Volterra, conquistando il controllo della Valdelsa ma ciò non bastò ad abbatterla.
La scelta dei fiorentini inevitabilmente ricadde sulle sorti dei volterrani, quando i primi decisero di imporre sulla scena politica qualcosa o qualcuno che riuscisse ad arginarne l'ardore indipendentista. Volterra era troppo importante per i fiorentini, con il suo seppur ristretto accesso al mar Tirreno ed i suoi terreni ricchi.
E' così che a Volterra, agli inizi del XIV secolo, venne messo un primo rampollo della famiglia Belforti, Ranieri, la cui dinastia riuscirà finalmente ad esercitare un controllo efficace sulla città. Con lui nacque una nuova signoria che ad intermittenza si sarebbe erta a scudo dell'autonomia volterrana ma sempre col sostanziale beneplacito di Firenze. Un gioco ambiguo, tra forze avverse, che li condusse alla rovina.
I Belforti e il duca d'Atene
I Belforti appartenevano alla nobiltà ma non discendevano dall'aristocrazia tedesca e non avevano tradizioni feudali, erano in ogni modo stati amici del vescovo anche perché l'appoggio della chiesa era da sempre considerato più sicuro, ma avevano anche pagato lo scotto di quest'alleanza, ad esempio al tempo del vescovo Pagano Pannocchieschi quando erano stati banditi da Volterra al momento dell'attentato in cattedrale (1219).
Erano Guelfi imparentati con importanti famiglie toscane, e riuscirono, allorché il vescovo iniziò ad ostacolare le loro mire politiche, a sostituirlo. Avvenne così nel 1300, quando Ranieri appena salito al potere pensò subito alla signoria e non alla diocesi, tutto ciò ancora una volta colpì Volterra, minandola alle radici già oltremodo ferite, concordemente ai desideri dei Fiorentini. Ottaviano Belforti(seconda metà sec. XIII - c.a. 1349) salito al potere nel 1320, alla morte del fratello, cercò di approfittarne ma fu costretto allo scontro con la contraria famiglia Allegretti che ora era riuscita ad esprimere il vescovo contro la candidatura di suo nipote Benedetto Belforti che pure era abbastanza ben visto addirittura dalla Santa Sede d'Avignone.
Volterra si trovò colpita dall'interno, questa volta non vi era la controparte vescovile da tempo allontanata, ma potenti casate. La lotta durò venti anni e coinvolse popolo, Comune e diocesi in una serie drammatica di scontri ma in conclusione Ottaviano Belforti ebbe la meglio distruggendo gli Allegretti e si fece proclamare capitano generale e capitano di giustizia nel 1340.
Punto fermo dei disegni del Belforti era quello di non offendere in alcun modo o di mettere in sospetto i fiorentini, l'occasione si presentò due anni dopo nel 1342 e fu clamorosa.
In quell'anno Firenze, infatti, cadde sotto la tirannia di Gualtieri di Brienne (1304 ca - 19 settembre 1356), detto duca d'Atene, e Ottaviano Belforti corse a consegnarli Volterra e l'intero territorio.
Dobbiamo fare un passo indietro per capire il momento storico, come è noto l'avvento del duca d'Atene in Toscana fu forse l'ultimo capitolo della lotta tra guelfi e ghibellini. Respinti gli ultimi assalti dei condottieri ghibellini Uguccione della Faggiola (Casteldelci delle Marche, 1250 - Vicenza, 1 novembre 1319) e Castruccio Castracani (Lucca, 1281 - Lucca, 3 settembre 1328 ) la calata dell'imperatore Ludovico il Bavaro (Monaco di Baviera, 1 aprile 1282 - Furstenfeldbruck - 11 ottobre 1347) tra il 1327 e 1330 ridette nuovo fiato ai ghibellini, anche a Volterra. Ma la situazione non durò a lungo, Firenze infatti chiese aiuto a Roberto d'Angiò (1277 - 16 gennaio 1343), re mecenate di Napoli che tardò ad approfittare dell'occasione di estendere il proprio potere politico sulla Toscana. Rispedì a Firenze la cavalleria del duca d'Atene.
Dobbiamo, in questo punto della storia volterrana, osservare cosa potesse essere una politica sbagliata. Gualtieri di Brienne erano stato voluto dai magnati fiorentini spaventati per i moti popolari, ma la loro fiducia era mal riposta e fu tradita, egli prese a processare i potenti per corruzione, a confiscare loro i beni, a chiamare al governo il popolo minuto e la piccola borghesia, in sintesi una rivoluzione interna. Ridusse i prezzi, aumentò i salari, promosse le associazioni di mestiere per le categorie fino ad allora indifese. Il partito degli ottimati ed il popolo allora, che pure lo aveva acclamato inizialmente, non lo difesero.
Le scelte fiorentine rimbalzarono inevitabilmente anche su Volterra dove Gualtieri fu proclamato appunto signore.
Il 25 luglio 1343 il duca d'Atene fu cacciato da Firenze a conclusione di una triplice insurrezione simultanea di nobili, borghesi e popolo, e come contraccolpo il Belforti che era diventato consigliere del tiranno e da lui si era fatto affidare il compito di costruire la fortezza sull'acropoli di Volterra, poteva essere rovesciato se probabilmente l'opposizione fosse stata più pronta. Ma il Belforti ancora una volta reagì prontamente occupando la rocca con i suoi armati e da li incitò la città alla rivolta.
La peste, la tirannia e il protettorato fiorentino
La
Bocchino, infatti, temendo la cittadinanza e diffidando dei Fiorenti tentò di cedere Volterra per 32 mila fiorini a Pisa, ma i pochi cavalieri pisani inviati in suo soccorso furono sconfitti da milizie cittadine improvvisate ed il Belforti, arrestato per tradimento da Giovanni Inghirami che capitanava la rivolta, fu giustiziato, decapitato in piazza per ordine dei 12 Difensori nel 1361.
Chiaramente l'esecuzione del tiranno fece molto scalpore, le tante famiglie toscane imparentate con i Belforti s'impegnarono per dare una severa lezione alla città, ma Firenze più la più svelta. Inviò un'ambasceria affinché si congratulasse con i volterrani per la riconquista della libertà e dette la propria disponibilità a proteggerla contro chiunque, in cambio però e soltanto per la sua sicurezza, Volterra avrebbe dovuto mantenere un presidio militare fiorentino.
Firenze, alla fine del XV secolo riuscì allora, con un fine pretesto politico, ad entrare saldamente all'interno delle mura volterrane.
Il protettorato fiorentino comunque riuscì ed i pisani e gli altri potentati toscani che volevano vendicarsi per la vicenda del Belforti non mossero un dito, e neanche i fiorentini di cui uno divenne stabilmente il capo di giustizia a Volterra. Firenze con sottili manovre politiche riportò la serenità all'interno delle dispute cittadine, agevolò i contatti dinastici e familiare tra le casate volterrane e fiorentine ed in conclusione sancì che per accedere alle cariche politiche era consigliabile la cittadinanza fiorentina.
La rivolta contro le tasse, da Inghirami a Landini
Il lieto viver di fiorentini e volterrani non era destinato a durare, Firenze rappresentava in ogni caso una potenza esterna insediatasi stabilmente nei centri di controllo cittadino e ciò non poteva che scontrarsi con l'animo da sempre ribelle dei volterrani.
Nel 1393 il capitano di giustizia fiorentino aveva fatto arrestare il nobile Jacopo Inghirami che contrario alle nuove pretese dei fiorentini di imporre nuove tasse a Volterra aveva suscitato un ampio movimento di resistenza. La tassazione, di per se, avrebbe dichiarato la sottomissione assoluta di Volterra. I fiorentini allora per evitare ribellioni liberarono l'Inghirami e sospesero la tassa trovando un accordo con il quale i volterrani avrebbero pagato al capitano di giustizia soltanto alcuni fiorini e un po' di sale e soltanto ' per i pubblici e i comuni bisogni come soci di Firenze, non già come sudditi'.
Dopo quest'episodio e sempre per ragioni fiscali, dobbiamo giungere al 1427. Firenze in quegli anni aveva bisogno di soldi per finanziare gli impegni militari, motivazione primaria per molte tassazioni dell'epoca, e per ciò decise di tassare tutti i suoi domini, tra cui Volterra. La tassa disponeva che ogni cittadino volterrano dovesse denunciare i suoi beni ed i suoi redditi al capitano di giustizia. Ancora una volta, sebbene ai volterrani non fosse interessato fino ad allora il dispotismo fiorentino nelle scelte più prettamente politiche, però gli dispiacque una legge che minasse le ricchezze.
Volterra inviò prontamente un'ambasceria a Firenze ma tutto ciò valse alla cattura dei magistrati inviati. Da ciò la scintilla, per la quale Giusto Landini ed Antonio Verani decisero di insorgere dalla parte del popolo; assalirono il palazzo pretorio dove risiedeva il capitano di giustizia Bernardo Acciajuoli, lo catturarono e bandirono da Volterra, quindi raggiunta la torre più alta di Piazza dei Priori innalzarono il gonfalone del popolo. La leggenda vuole che al grido 'viva il popolo!' e 'Volterra, libertà!' il popolo minuto movendosi dalle botteghe e le case fosse giunto nella piazza, il popolo era così finalmente unito.
Giusto Landini tentò di consolidare la libertà ottenuta, divenne capitano del popolo per acclamazione e tentò, invano, di allearsi con Siena e Lucca. Quest'ultime probabilmente intimorite dalle probabili ritorsioni fiorentine, che in effetti, non tardarono ad arrivare per mano di Niccolò Fortebraccio (Sant'Angelo in Vado, 1383 - Fiordimonte, 23 agosto 1435) incaricato di assoggettare Volterra con ogni mezzo.
Trapelata la notizia, i volterrani presero paura, fra tutti i priori in carica. Pare che Giusto Ladini, convocato a palazzo per discutere della difesa comune fu pugnalato e ancora vivo defenestrato sulla piazza, era il 7 novembre 1429. Il popolo senza una guida cadde sotto Fortebraccio che subentrò senza colpo ferire ma impose un'occupazione severa fatta di saccheggi, ostracismi, confische ed esecuzioni dei capitolo che almeno in trenta trovarono la morte; tra di loro anche Antonio Verani, ideologo della tentata rivoluzione.
Firenze s'impose nuovamente su Volterra, rafforzò le difese della fortezza e stanziò stabilmente truppe fiorentine.
La crisi del Quattrocento
Le alte classi volterrane erano oramai consapevoli del declino in cui versavano ma anche delle potenzialità offerte dal dominio di Firenze. Volterra era sì sottomessa ma anche pressoché intoccabile da altre città della Toscana come Pisa e Siena. Gli animi si risollevarono nel 1431 quando nei disegni di una politica conciliatrice, ancora una volta, i fiorentini esentarono Volterra dalle imposte sul catasto e lentamente ripristinarono gli antichi privilegi signorili.
Ma Volterra ed i volterrani erano, ancora una volta, divisi sul da farsi. La fazione filo-fiorentina trovava gratificazione dalle rinnovate garanzie fiscali mentre l'altra, che covava rancore e fierezza, non accettava il dominio dei fiorentini. Furono anni di lotte e congiure interne, la più rilevante ricorre l'anno 1432 quando il viaggio dell'Imperatore Sigismondo (Norimberga, 15 febbraio 1386 - Znojmo, 9 dicembre 1437) in Italia e la sua sosta a Siena sembrarono l'occasione per scuotersi dal giogo fiorentino. I priori Benedetto Lisci(1621-?) e Bartolomeo Paganelli insieme a qualche aristocratico delle famiglie Inghirami e Picchinesi tentarono il colpo di Stato. Erano d'accordo con un gruppo di volterrani andati in esilio per l'appoggio dato a Giusto Ladini durante la sommossa precedente e si erano garantiti l'intervento di cinquecento soldati che dovevano giungere da Siena, per la quale questa poteva essere una valida occasione di riscatto nei confronti di Firenze.
Appena fossero giunti i rinforzi poi avrebbero dovuto eliminare il commissario Mariotto Baldovinetti e i principali esponenti del partito filofiorentino saccheggiandone poi le case e disperdendone le famiglie. Quindi, preso il palazzo comunale avrebbero dovuto convocare i cittadini per spiegare le ragioni del colpo di Stato, la parola d'ordine da urlare per le strade, si narra, era 'Viva il popolo! viva la libertà!, morte a Firenze!'.
Tutto ciò però non avvenne, i volterrani furono traditi da Giusto Della Bese che poche ore prima della congiura rivelò tutto al commissario Baldovinetti che immediatamente arrestò i congiurati. In sei furono giustiziati, si salvò forse il più illustre dei congiuranti, il nobile Antonio Inghirami (sec. XV). Si fece arrestare ma dimostrò la sua innocenza, mentre il Della Bese fu ricompensato divenendo persino priore per i successivi 10 anni.
La situazione si mantenne in questa situazione di statico fermento fino alla metà del Quattrocento. Il volterrano come le signorie italiane erano state lacerate dalle guerre per il controllo del ducato di Milano. L'esercito napoletano d'Alfonso I d'Aragona (Median del Campo, 1396 - Napoli, 27 giugno 1485) che nell'ottobre 1447 con oltre ventimila soldati entrò nel territorio volterrano, saccheggiò Pomarance e rovinò le campagne.
Le guerre per Milano furono un affanno nazionale producendo quella situazione di stallo politico in cui nessuna signoria riusciva a prevalere sulle altre, e per il quale l'Italia non aveva ancora l'unità degli altri stati europei. Signorie come Venezia, Genova, Napoli e Firenze vedevano Milano come il territorio da dover annettere per la creazione di un proto-Stato italiano. Firenze nella fattispecie, colse la necessità di estendere la sua egemonia su tutta la Toscana.
Questi furono i presupposti che videro, in conclusione di un processo politico travagliato, l'evento che più di tutti scosse e rovinò la storia millenaria di Volterra, il
Il sacco è da considerarsi l'evento che ancor oggi suscita maggior sdegno nell'animo della cittadinanza di Volterra, mentre una parte degli storici, per il più fiorentina, giustifica le motivazioni che portarono Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1 gennaio 1449 - Firenze, 9 aprile 1492) a decidere lo scempio, mentre la parte degli storiografi volterrani suppone il contrario.
Il sacco fiorentino e la caduta della repubblica
Per Firenze e per Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1 gennaio 1449 - Firenze, 9 aprile 1492) era giunto il momento di annettere definitivamente il dominio di Volterra, quando uno scandalo finanziario scoppiato a Volterra nel 1471 gli offrì il pretesto. Una frangia degli storici motiva le decisioni del Magnifico supponendo che egli fosse alle strette con il partito antimediceo di Firenze ed in ristrettezze economiche. In quegli anni Firenze non poteva nemmeno contare, è da dire, sulla vecchia alleanza con Napoli e Milano, il sovrano di Napoli Ferdinando I d'Aragona (2 giugno 1423 - 28 gennaio 1494), desiderava ergersi ad arbitro in Italia e stava pensando di occupare una parte della Toscana meridionale, aveva sbarcato truppe e Piombino ed inviato agitatori a Volterra affinché movessero gli animi contro Firenze.
A Milano Galeazzo Maria Sforza (Fermo, 24 gennaio 1444 - Milano, 26 dicembre 1476) voleva riprendersi una rivincita su Lorenzo che si era progressivamente sganciato dall'influenza milanese. Gli emissari antimedicei assicurarono ai volterrani che, con l'intervento dell'armata di Bartolomeo Colleoni (Solza, tra il 1395 ed il 1400 - Malaga, 2 novembre 1475), Lorenzo sarebbe stato deposto e Volterra, se avesse partecipato, riavrebbe ottenuto il dominio di San Gimignano e Colle, quindi della Valdelsa.
Queste teorie si basano soprattutto sui documenti lasciati dai fiorentini, anche da Lorenzo. Quest'ultimo approfittò sicuramente degli squilibri politici in Volterra e Firenze e puntò ad una vittoria che lo avrebbe reso grande agli occhi delle altre signorie italiane. Volterra aveva fama di essere una città fortissima ed imprendibile, godeva poi di una reputazione negativa, nata nei decenni precedenti, per la quale veniva vista come una repubblica inquieta ed instabile capace di sconvolgere l'equilibrio mediceo. La sua rovina quindi avrebbe fatto piacere a molti.
Passiamo all'evento decisivo, Volterra aveva un territorio ricco di minerali preziosi che in passato fecero la fortuna delle sue più importanti famiglie, come i Guidi ed i Riccobaldi, i Picchinesi e i Minucci. Negli ultimi mesi del 1470 però fu scoperto un giacimento di un minerale importantissimo per l'economia dell'epoca, l'allume di rocca, indispensabile per la lavorazione della lana, per la tintoria e la fabbricazione della carta.
I giacimenti ritrovati nel 1470 parvero imponenti potendo persino, in previsione, sottrarre l'Italia alla dipendenza dall'Oriente per questo minerale e avrebbero potuto vanificare il monopolio che ai tempi il papa manteneva sui commerci italiani in questi settori.
Le più importanti famiglie volterrane si trovarono l'una contro l'altra. Il Comune deliberò di appaltare lo sfruttamento delle miniere ad una società il cui titolare era lo scopritore del giacimento, il senese Benuccio Capacci, ma in breve si distinse una parte dei signori, quella filomedicea.
L'ira delle parti rimaste escluse travolse la città, ancora una volta dal suo interno. Il Comune aveva inviato la sua milizia ad occupare le allumiere ma si vide intimare da Lorenzo de Medici di ripristinare i diritti degli appaltatori. Firenze ancora una volta, con mosse forse più finanziarie che politiche, entrò più a fondo nella vita dei volterrani mettendoli gli uni contro gli altri. Fu così che Firenze ne approfittò, il Comune sospettava che il capo della famiglia Inghirami, forse la più potente, Paolo detto Pecorino (? - 1472), amico di Lorenzo il Magnifico e suo alleato aspirasse ad istituire la sua signoria a Volterra. Per fronteggiarlo non si esitò ad armare il popolo ed i contadini, finalmente uniti contro la potenza medicea, e contro il loro concittadino Paolo, ucciso in un tumulto il 23 febbraio 1472.
Lorenzo il Magnifico non agì da solo, usare la forza della sola signoria fiorentina poteva mettere a rischio gli equilibri politici italiani di cui Firenze, appunto, voleva divenire la promotrice illuminata. D'altro canto e sottovoce, Venezia e Siena promisero qualche aiuto a Volterra. Fu così che un esercito italiano di settemila soldati ed artiglieria pesante, al comando di Federico da Montefeltro (Castello di Petraia, 7 giugno 1422 - Ferrara, 10 settembre 1482), conte d'Urbino, assalì Volterra nel maggio del 1472.
La città ed i cittadini resistettero fino a che le risorse lo permisero e fino a che, ancora una volta, si crearono fratture cocenti all'interno della popolazione e delle più alte famiglie che l'un l'altra si passarono a fil di spada.
E' da notare allora che all'interno della tragedia avvenuta per decisioni esterne alle mura volterrane, subentrò anche un aspetto classista. La lotta di classe appunto determinò la fine d'ogni residua speranza, ai contadini che avevano un antico contenzioso con la città e ai quali era stata garantita l'abolizione d'ogni debito se fossero stati al fianco del Comune assediato, fu gridato dai priori nelle ultime ore che con i fiorentini ritornava a Volterra il vecchio potere dei magistrati. Cosicché, quando e prime avanguardie degli assedianti, a tregua firmata, penetrarono in città, furono i contadini ad impugnare le armi e a proseguire la resistenza. Il che bastò al Montefeltro per dare mano libera alla soldataglia.
I vincitori si abbandonarono ad un saccheggio selvaggio. Anche le truppe veneziano che erano arrivate a Volterra per difenderla si unirono ai conquistatori. Fu il regno del terrore e dell'orrore reso ancora più fosco da un crudele terremoto che percosse uomini e cose.
Così cadde la repubblica volterrana il 18 giugno 1472. La signoria di Firenze, per segnare il suo giogo imperioso, fece erigere i suoi simboli, due leoni in pietra che ancora oggi si ergono imperiosi ai lati esterni del palazzo comunale.
al primo capitolo (Dalla tarda antichità all'età longobarda)
al secondo capitolo (L'età carolingia e ottoniana)
al terzo capitolo (Dall'anarchia postcarolingia alla riorganizzazione ottoniana)
al quarto capitolo (La prima metà dell'XI secolo)
al quinto capitolo (La lotta fra conti e vescovi, Matilde di Canossa)
al sesto capitolo (Il primato dei vescovi e Federico Barbarossa)
al settimo capitolo (La signoria dei Pannocchieschi e la resistenza del Comune)
al ottavo capitolo (L'avvento della repubblica, l'incubo di Firenze.)
al nono capitolo (I Belforti e il duca d'Atene)
al decimo capitolo (La peste, la tirannia e il protettorato fiorentino)
all' undicesimo capitolo (La rivolta contro le tasse, da Inghirami a Landini)
al dodicesimo capitolo (La crisi del Quattrocento)
al tredicesimo capitolo (Il sacco fiorentino e la caduta della repubblica)
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