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Chiara Frugoni
Gli scacchi nel Medioevo

Diversamente da carte e dadi, passatempi da taverna legati alla fortuna, associati al bere smodato, alle risse e alle bestemmie, gli scacchi non attirarono la riprovazione dei predicatori: erano un gioco d’ingegno, sottile e ricercato passatempo dei re e dei nobili. Addirittura il domenicano Iacopo de Cessolis li utilizzò come metafora di tutta la società medievale nel suo Ludus scaccorum, composto all’inizio del Trecento, trama di una supposta omelia: la scacchiera è la città dove si muovono i rappresentanti di tutte le classi sociali, con i loro vizi e con le loro virtù. Nella prima miniatura del manoscritto del 1468 conservato alla Vaticana, il domenicano mostra dal pulpito una grande scacchiera come se predicasse, spostando su e giù le pedine come marionette.


(…) Il gioco degli scacchi rappresentato su numerosissimi cofanetti e su copertine di specchi tutti d’avorio del XIV e XV secolo, sempre giocato da re, dame e cavalieri, diventa a tal punto il simbolo dell’aristocrazia che un ricco mercante desideroso di promozione sociale può volerlo dipinto nella propria camera nuziale all’interno della tragica storia della Chastelaine de Vergy. È questo il caso dei dipinti di Palazzo Davanzati a Firenze, dove la storia degli infelici amanti fu affrescata in occasione delle nozze nel 1395 di Tommaso Davizzi, allora proprietario del palazzo, con Caterina degli Alberti.


Secondo Iacopo de Cessolis gli scacchi sarebbero stati inventati come astuto mezzo pedagogico da parte di un filosofo per correggere il crudele Evilmerodach, figlio di Nabucodonosor, senza correre il rischio di perdere la vita. Tale racconto è già rappresentato nel frammentario mosaico pavimentale di San Savino a Piacenza, delle fine del XII secolo. Del resto numerosi pezzi di scacchi, provenienti dall’Italia centrale e meridionale, databili tra la fine dell’XI secolo e la fine del XII, dimostrano come gli scacchi dovessero essere largamente diffusi.


A San Savino, all’interno di un tondo, un uomo in trono con in mano il sole e la luna rimanda alla solita iconografia di Annus. Da una parte e dall’altra del clipeo si distinguono quattro riquadri: in quello superiore, a destra, un re in trono (rex) guarda un libro su cui è scritto lex, mostratogli da un valletto inginocchiato. In alto appare la scritta iudex, che doveva appartenere ad un personaggio andato distrutto. Nel riquadro sottostante un uomo d’età, con barba e baffi, sta spiegando il gioco degli scacchi – la scacchiera è rappresentata in prospettiva ribaltata per una migliore visibilità – ad un qualcuno purtroppo non più visibile. Dall’altro lato, nel riquadro superiore, due guerrieri in lotta; in quello inferiore, gravemente compromesso, una figura seduta, certamente un giocatore di dadi, e un bevitore con il bicchiere in mano. Secondo l’esegesi di William Tronzo, che porta una serie di convincenti raffronti, il mosaico mostra che il gioco dei dadi, sottomesso alla fortuna, fa nascere la violenza delle risse, quello degli scacchi, che comporta riflessione e intelligenza, produce benefici effetti: il filosofo (il personaggio baffuto) sta infatti insegnando a Evilmerodach ad essere rispettoso delle leggi.


Gli scacchi ebbero origine nell’India del VI secolo, e da lì si diffusero verso l’Oriente e, attraverso la Persia, verso l’Occidente. Fra il giugno e il dicembre del 1058 san Pier Damiani, allora cardinale vescovo di Ostia, scrisse a Gherardo di Firenze, poi papa Niccolò II, e all’arcidiacono Ildebrando, futuro Gregorio VII, lamentandosi di aver trovato il vescovo di Firenze intento a giocare a scacchi. Raccontò di aver aspramente ripreso il “peccatore” ammonendolo che, secondo il diritto canonico, un vescovo che giocasse a dadi poteva essere deposto (“Praesertim cum canonica decernat auctoritas, ut aleatores episcopi deponantur”). L’accusato si era difeso dicendo che “una cosa erano i dadi e un’altra gli scacchi. Perciò se l’autorità espressamente proibiva di dadi, per il fatto stesso di non dire nulla a proposito degli scacchi, li permetteva.” San Pier Damiani allora ricorda trionfalmente: “Per questo il testo non parla di scacchi – dissi – perché il gioco dei dadi comprende i due tipi di giochi, di dadi e di scacchi” e conclude: “poiché quel vescovo era d’animo mite e di grande intelligenza” (“ille mitis est animi et perspicacis ingenii”), si arrese ed accettò la penitenza imposta. Evidentemente quelle doti avevano fatto valutare all’imputato la potenza di chi gli stava di fronte.


Gli scacchi nel corso del loro lungo viaggio dall’Oriente all’Occidente subirono una serie di modifiche, alcune sostanziali. Rimasero invariati i pezzi corrispondenti al Re, al Cavallo e ai Pedoni. L’arabo Ualfil (ossia l’elefante) diventò un uomo, Alfiere in italiano, Fou (pazzo) in francese, e Bishop (vescovo) in inglese. Il Rukh arabo-persiano, il cammello, tradotto nel latino Rochus si trasformò in Torre. Il Fers, il visir, il comandante dell’Oriente, mutò addirittura sesso, divenendo Fiers, ossia la Vergine, la Dama o la Regina, un personaggio assai poco appropriato in un gioco che simula una guerra. Tuttavia nel più bell’insieme di pezzi conservato fino alla Rivoluzione francese nel tesoro di Saint-Denis, conosciuto come “la scacchiera di Carlo Magno” (in realtà della fine dell’XI secolo), troviamo ancora l’elefante al posto dell’alfiere, probabilmente proprio per l’influsso di modelli arabi, dato che questi scacchi sono stati creati nell’Italia meridionale.


Le pedine medievali non avevano libertà di movimento né di sferrare l’attacco da lontano; come oggi procedono con piccoli spostamenti, riflettendo il modo di combattere dell’età feudale che era essenzialmente uno scontro corpo a corpo.