Capitolo 13 - L’OSTERIA DEL GAMBERO ROSSO

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.

– Fermiamoci un po’ qui, – disse la Volpe, – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.

Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.

Il gatto e la volpe mangiarono di tutto e di più, in grandi quantità, facendo discorsi su finte diete e mancati appetiti chiaramente falsi. Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio, chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.

Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:

– Dateci due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire schiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.

– Sissignori, – rispose l’oste e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!...».

Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò di colpo e principiò a sognare il campo dei barbagianni pieno di alberi ricolmi di zecchini d’oro, ma quando fu sul più bello, ossia mentre cercava di raccogliere i così preziosi frutti dell’albero fu risvegliato all’improvviso da tre colpi alla porta.

Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata.

– E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino.

– Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.

– Perché mai tanta fretta?

– Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.

– E la cena l’hanno pagata?

– Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.

– Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:

– E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?

– Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno.

Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.

Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un salto indietro per la paura, gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là?

Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.

– Chi sei? – gli domandò Pinocchio.

– Che vuoi da me? – disse il burattino.

– Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo che piange e si dispera per non averti più veduto.

– Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.

– Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro.

– E io, invece, voglio andare avanti.

– Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini!

Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.