5. Il vero nemico Il vero nemico è la vita. WILL EISNER 1. Curvature temporali 10 settembre, Bologna, quartiere Bolognina, ore 2.30. Entro in classe, appendo il tascapane al bordo del banco, mi siedo. Dentro il tascapane c’è un libro, un «Alan Ford», «Lotta Continua», il cylum: niente testi scolastici, un paio di quaderni e l’agenda bastano. Tanto oggi è una giornata inutile. Chiacchiere in attesa della campana: hai saputo, non mi dire, proprio loro, sì, sì, io al posto loro… Ascolto distratto, ho altro per la testa. Sarà il caso che cominci a studiare, non ho fatto un cazzo in questi primi mesi, troppi pensieri per la testa, è che proprio non ci sto quest’anno.Vabbe’, oggi pomeriggio tirata da record: non ho ancora aperto il manuale di Letteratura e sono l’unico senza voto in Italiano, quindi domani è matematico che chiama me. Alla peggio non vengo, resto in biblioteca a studiare tutto il giorno e mi faccio interrogare dopodomani. Campanella. Silenzio. Rumore di tacchi in corridoio. Cosa ci fanno quei tacchi? C’è quella lì che come sempre comincia a piangere ogni volta che sente i tacchi della professoressa Sibenò risuonare in corridoio, tac tac tac, neanche le avessero montato i tacchetti sotto la suola degli anfibi.Come fa la Sibenò a far risuonare gli anfibi come fossero tacchetti da donna? Eppure ci riesce, il suono del suo passo marziale la precede, le mancano gli alamari poi è perfetta, e quella lì che si mette a piangere, sono cinque anni che piange ogni mattina che… Che cosa ci fa la Sibenò in corridoio? Porca miseria, ma che giorno è oggi? Doveva esserci la vecchia Paturnia Alzheimer che invece è nell’aula di fronte, l’assurda in persona che si vede già vecchia e cadente raccontare a tutta la gente col suo fare demente, poi le allegre comari di Windsor… E invece? No, non ci posso credere, ho sbagliato a guardare l’orario, oggi c’è Italiano, porca miseria sono l’unico senza voto e ho finito le giustificazioni, oggi mi becca, Dio, come ho fatto a cannare così? Forse se mi nascondo sotto il banco non mi vede, mi dò assente, eccola che arriva, si ferma sulla porta a parlare con la Cariatide, già, che strano, il professore di Matematica è assente e al suo posto hanno nominato la Cariatide, mi abbasso e dico al mio compagno di banco di coprirmi, secondo me se ne accorge mi fa Bob Rock, tu fai finta di non avermi visto rispondo, tutti in piedi, entra la Sibenò che fa l’appello, Lettiga Geremia: assente! Cos’ha Lettiga? È malato signora professoressa, è sempre malato.Ma cos’avrà quel ragazzo? Poi la porta si apre ed entra il bidello che mi dice: Dài, Guglielmo, esci fuori di lì, porca miseria, Raffaele, non fare la spia, ma il grasso bidello alcolizzato continua, e intanto la campanella ricomincia a suonare suonare suonare… Non è la campanella. Non sono in classe. Sospiro di sollievo: l’ho fatta franca. Ma allora perché continua a suonare? Cosa sta succedendo? Visione: il corpo bianchissimo di Lara alla luce della strada che entra dalle finestre rimaste aperte. Lara che lentamente si avvia alla porta, afferra la cornetta del citofono e chiede chi è. Voce maschile. Sì, sono io, che succede? Ancora la voce maschile. Lara dà il tiro senza dire altro. Mi guarda. Guarda l’orologio alla parete: scuote la testa. Ferodo, mi dice. Apre la porta. Ferodo entra: è agitatissimo. Poi si ferma: Lara è nuda. – Be’? – dice Lara sbadigliando. – Non ti ricordi più come sono fatta? – No, – dice Ferodo, – è che tu… è che, scusa, ma… – dice imbarazzato puntando col dito verso di lei. – Si chiamano tette, Ferodo: le abbiamo tutte, noi donne, ti sei scordato? A quest’ora sarò libera di non mettermi a cercare una maglietta, o no? Ferodo si guarda intorno: è già ritornato in sé. Ruota veloce la testa per memorizzare i dati e fotografare la situazione. Sul tavolino basso due bottiglie vuote e due bicchieri. Piattini con tracce di formaggio, briciole, noccioli di olive. Per terra una pila di «Alan Ford»: altri albi sporgono da una scatola di cartone. Un altro «Alan Ford» è per terra, vicino al letto: Un tiro mancino. Sul letto: un insulso investigatore stravolto dalla combinazione: «GruppoTnt»+2(Lara+Vernaccia)+(2h)sonno. – Cosa c’è, Ferodo? Bologna, quartiere Barca, ore 0.30. Restare calmo: devo restare calmo, si dice Ferodo. Devo razionalizzare. Ricontrolla le protezioni della sua linea telefonica: inserite. Il mio computer non lo rintracciano, questo è certo. Non mi conoscono: li avrei trovati qui ad aspettarmi. Guarda dalla finestra sollevando la stecca della tapparella: non si vede nessuno in strada. Nessuna machina parcheggiata. Avrei fatto una brutta fine, si ripete, una brutta fine. Come Lester: una brutta fine. Quindi non mi conoscono: però sanno che uso il computer in Santo Stefano. Come fanno? Lester non prendeva precauzioni, chi ci pensava all’epoca? Non avevamo certo paura della polizia postale, e agli altri… Quali altri? Non importa. Non importa chi: importa capire come, il resto viene da sé. Ho usato delle protezioni in Santo Stefano, non sono certo entrato nel sito della Nato: mi ci gioco le palle che non mi hanno rintracciato via Internet. Tutte e due magari no, ma una me la gioco di sicuro: non è così che mi hanno trovato. No. Non è me che hanno trovato. Chiaro: se non mi conoscono ancora vuol dire che non è me che hanno trovato. Chi, allora? Il poliziotto? L’investigatore? Il giornalista no, non c’è mai venuto. Neanche Andrea, allora. Però con Andrea ci si sente da lì: il telefono, accidenti, dovevo guardare dentro il telefono. No, tempo sprecato: ci sono altri sistemi per controllare un telefono, non basta sapere che non c’è una cimice. L’investigatore. Lara. Porcoddio, Lara: è in pericolo anche lei, allora. Ci siamo dentro tutti: non si scappa. Tutti. No, Lara. Soprattutto lei. Degli altri può importare meno. Lara no. Hanno già preso Lester, Lara non la toccano. Devo avvertire Lara. Telefonino in mano. No: niente telefoni. Il mio è protetto, quello di Lara no. Anche quelli mobili, nessun telefono è sicuro. Uno di noi può essere già stato intercettato. Di persona, non c’è altra via. Andarci di persona. Calma. Razionalizzare, devo razionalizzare, si ripete Ferodo. Fare la lista della spesa. Cosa manca in cucina? Telefonini, almeno quattro. Sim card, di quelle sicure. Carte clonate. No, troppo pericoloso girare tutti con carte tarocche. Usare i contanti. Schede da telefono fisso. Ci vorrebbero anche dei piccioni viaggiatori, se è per questo: ma si torna al passato, poco ma sicuro. Il vetusto non è controllabile. E un rifugio. Nessuno è sicuro in casa propria: ci vuole un rifugio sicuro. Ogni cucciolo nella sua cuccia, quando in cielo volano i porci: a shelter from pigs on the wind. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 1.20. Auto ferma davanti al portone. Strada vuota. Eco lontana del Reno. Sulla pulsantiera: Lara. Niente cognome. Il portone cede a un normale passepartout. Niente luce per le scale, torcia elettrica. La porta della ragazza. Serratura nuova, non facile. Ci vuole la chiave giusta: c’è. Lavorare con calma, con la torcia in bocca puntata sulla serratura. Dal palazzo nessun rumore: tutti a dormire. Dopo dieci minuti lo scrocco gira: porta aperta. Dentro. Giro panoramico con la torcia: nessun segno di vita. Luce accesa: alogene. Lara non c’è. Riflettere. Ipotesi. Lara è al lavoro. Ipotesi scartata: Lara non lavora mai di notte, non a Bologna. Per la notte si fa pagare la trasferta fuori Bologna. Lara è in giro. Ipotesi scartata: se c’è Ferodo a Bologna Lara lo chiama, e non ha chiamato. Lara è dal moroso. Ipotesi possibile: Lara innamorata è una novità, i suoi comportamenti non sono prevedibili. Frigorifero. Birra svedese: Ferodo si serve da solo. Riflettere. Razionalizzare. Prendere decisioni. Quartiere Bolognina, ore 2.50. – Cosa vuol dire: sanno di noi? – Sono entrati nell’appartamento di via Santo Stefano e hanno acceso il computer, poco ma sicuro. E hanno rimesso tutto com’era prima. Lara, pallidissima, torce i polsini della camicia che ha preso dall’armadio. Non si preoccupa di abbottonarla: con le mani tormenta i terminali delle maniche. Dice una sola parola. Lester. Lester, ripete Ferodo annuendo: sta succedendo di nuovo. Dici che sono loro?, chiede Lara. Dico che sono loro, dice Ferodo. Perché?, chiedo io. Perché me lo sento. Perché la metodologia è la stessa. Perché ha senso: noi gli stiamo dietro, loro iniziano a difendersi. Lara mi guarda. Che facciamo adesso?, dice. Tu che ne pensi?, chiedo io a Ferodo. Penso che siamo in guerra, dice Ferodo: tu dici di no? Faccio segno di sì. Adesso è Ferodo a guardarmi.Tu te la senti di continuare?, chiede. Abbiamo altre possibilità?, gli chiedo io. Solo una: mollare tutto e sparire. Sparire dove?, chiede Lara. Per quanto tempo? E come sappiamo quando è finita? Metto su la moka: faccio un caffè forte, poi lo correggo con un goccio di rhum e una punta di cacao in polvere. Lo servo in tazze grandi. Lara tiene la sua tra le mani, come avesse bisogno di scaldarsi. Le maniche le penzolano oltre i polsi, i seni scoperti salgono e scendono al ritmo del suo respiro. – Ha ragione Ferodo, – dico, e hai ragione anche tu, bimba. Non abbiamo altra possibilità che sparire, e sparire non è una possibilità. Quindi tanto vale andare avanti. Cosa abbiamo in mano? C’è del lavoro da fare in Rete che Ferodo non ha ancora terminato, e che potrebbe portarci delle novità. C’è una cimice in un bar frequentato da gente che pensiamo sia coinvolta: è un altro filo che potrebbe portarci da qualche parte. C’è una nave fantasma da qualche parte: dobbiamo scoprire dov’è e cosa c’è a bordo prima che… Prima che? Cosa dovrei aggiungere? – Prima che ci facciano fare la fine di Lester, – dice Lara. – C’è un problema, – dice Ferodo.– Questa è una guerra. Non l’abbiamo dichiarata noi, ma c’è. E noi non siamo soldati. Noi. Ha ragione. Noi non siamo soldati: loro sì. Loro. È Ferodo a spezzare il silenzio: dove abita il vostro amico sbirro? Bologna, abitazione di Andrea Vannini, ore 4. Il biglietto di Chiara è più conciso della rabbia con la quale deve averlo scritto. Uno di quei biglietti da ultimo messaggio, da tanto vale farla finita, da prendo il primo che incontro. Da c’è più soddisfazione con un manico di scopa, almeno non ti illudi che abbia qualcosa da dirti. Per quel che vale, il manico di scopa è comunicativo tanto quanto. Oppure: almeno il manico di scopa ti fa godere senza la fatica di dover ricambiare il favore. Deve aver pensato cose di questo genere, Chiara, mentre raccoglieva le sue cose, forse si rivestiva e andava via più o meno alle due. Che non le abbia scritte è anche peggio: risaltano sul foglietto come fossero il segno lasciato sulla velina dal tratteggio della matita. Andrea ha lasciato il Togliattti verso la mezza, con un lungo, mutuo abbraccio: di quelli senza parole, fatti con la consapevolezza che potrebbe essere l’ultimo. Il cellulare era spento: non lo ha riacceso. Non ha chiamato Chiara. A Bologna è arrivato verso l’una. Non è andato a casa: è andato al Pierino, a scambiare misture alcoliche e chinotti con Raffaele. Non aveva niente di che da dire stasera, Raffaele: ogni tanto pure i filosofi sotto spirito tirano il fiato. Però è rimasto a parlarci, Andrea. Senza riaccendere il telefonino. Due ore dopo stava sotto casa di Chiara. Lei era sveglia, la luce accesa, ogni tanto la vedeva passare alla finestra. Forse camminava su e giù col telefono all’orecchio, cercandolo.Inutile, il telefonino di Andrea è rimasto spento. Cos’era quella luce azzurrina che illuminava l’altra stanza? Probabilmente la televisione. Spazzatura notturna, qualche soft porno italiano di quelli che piacciono tanto alla nuova critica cinematografica, quelli che se non è cult non è cinema. Andrea si è addormentato davanti all’Ultimo tango a Parigi, l’Impero dei sensi lo ha mollato lì a metà, figurarsi la Fenech e Carmen Villani: e Chiara di certo non la pensa diversamente. Però, a quest’ora di notte, se ti devi far male lo fai sul serio: serve anche a questo, la spazzatura televisiva. Andrea non ha suonato, non è salito: è rimasto giù, sotto la finestra, per mezz’ora. Poi è andato via. Senza riaccendere il cellulare. La notizia della sua sospensione dal servizio Chiara deve averla saputa in questura. Vent’anni fa non c’erano i telefonini, le segreterie telefoniche, i messaggi. Non c’erano molte, moltissime cose. Non c’era neanche Chiara. Il Togliatti sì: lui c’era. C’erano un paio di funzionari di questura, in genere silenziosi, con i quali non ha mai scambiato più di un saluto.Andrea sa che sono stati loro a far sparire il fascicolo informale su di lui. È così che è andata. I suoi amici, Cristiano: loro c’erano. Ci sono ancora. Il nuovo mondo, il mondo degli anni Novanta, il mondo flessibile, fluido, il mondo di quelli che hanno capito tutto leggendo il Tao-te-ching e dicono che bisogna seguire il flusso, il mondo di quelli che operano piccoli movimenti sul corso dell’essere, il mondo degli invisibili, dei televisori con novantanove canali quasi tutti vuoti, anche quando trasmettono: questo mondo sta diventando come trasparente, perde spessore, si assottiglia. E dietro trapela un altro mondo, duro, pietra sotto lo smalto lucente, bianco e nero sotto i colori fluorescenti, pesante sotto la leggerezza sostenibile degli esseri, duro al fondo della morbida inconsistenza degli eventi. Non è colpa di Chiara se nel vecchio mondo non c’è: non c’è, questo è quanto. Gli anni Novanta finiscono all’indietro, si riavvolgono e si allacciano sul nodo degli anni Settanta: è così che funziona, il tempo. Tante stringhe intrecciate come in una matassa di lana ancora da raggomitolare, tanti fili in apparenza proiettati da qui a lì, dal prima al poi.E invece ogni tanto qualche stringa si incurva, si piega all’indietro e si riannoda al passato. Da quaggiù a là dietro, dal poi al prima.Così fa il tempo, a volte. Raffaele glielo ha spiegato, il tempo: se un cilindro di materia iperdensa venisse fatto ruotare, il suo movimento incurverebbe il tempo. Purtroppo sgretolerebbe anche la materia circostante, se mai potesse essere costruito. Quindi, concludeva Raffaele, tanto vale berci sopra: non era ancora arrivato il tempo dei chinotti. Eccolo qui, il cilindro, eccolo qui. Ha iniziato a ruotare, lentamente, impercettibilmente, quasi senza alcuno spostamento.Solo un piccolo granello posto al di sopra è scivolato giù piano. Poi i granelli hanno cominciato a essere due, tre, cinque, sette, undici: finché il movimento del cilindro è diventato percepibile. Allora il tempo ha cominciato a incurvarsi, e la sostanza del mondo a incresparsi, dapprima con sottili scricchiolii, poi con fragore crescente, sino allo sgretolamento. Dalla sua posizione di osservatore in stato di quiete Andrea osserva il suo universo sgretolarsi: senza far nulla, tutto viene da sé. La rotazione produce una specie di vortice che attira e ingoia le macerie circostanti, aspirate senza alcun moto di compassione. È davvero così duro il cuore di Andrea? Davvero è capace di rimanere lì, immobile, a guardare Chiara svanire? Anche lei è fatta di materia impalpabile, anche lei è trasparente? Lo era pure prima?Era trasparente quando facevano l’amore? Verso le quattro Andrea torna a casa. Prende dalla vetrinetta un bicchiere basso e largo, da whisky. Poi lo rimette a posto e lo sostituisce con uno alto, da cocktail. Lo riempie a metà di ghiaccio. Colma il vuoto col Lagavulin. Cominciato a tirare le somme. Bilanci. Quando il campanello suona non pensa possa essere Chiara. Infatti non è lei. 2. L’amico americano Linea aerea New York-Roma, ore 8.30. Poco meno di un’ora all’arrivo. Cielo relativamente sereno: dal finestrino si vede l’azzurro del Mediterraneo. Le macchie verdi e la terra brulla della Sardegna. Volo diretto. Peccato: uno scalo nell’isola… L’uomo seduto nella seconda fila della business class si allenta il nodo dell’elegante cravatta chiara a piccoli pois, slaccia il colletto della camicia bianca e fa segno all’hostess di avvicinarsi. L’uomo seduto in seconda fila ha nome Michael: il suo cognome è noto, ma in genere non ha bisogno di usarlo. In genere non è un uomo che viene chiamato: in genere, l’uomo di nome Michael preferisce presentarsi prima ancora di esser richiesto. Come spesso gli capita, è latore di qualcosa: è un inviato. L’hostess chiede compita, in perfetto inglese, se gradisce un drink. A soft-drink, please: a quest’ora l’inviato di nome Michael non prende alcolici. Tonic with lemon. L’inviato di nome Michael apre la borsa in pelle nera e controlla la documentazione: scrupoloso, come sempre. La barbetta grigio-bianca incornicia il sorriso lievemente obliquo, la lucida volta del cranio conferisce un’aria a metà tra l’inquietante e il rassicurante, la versione business class di Donald Pleasence. Contenuto della borsa in pelle nera: carte. Il mondo è governato dalle carte. All’interno della borsa: rivista di relazioni internazionali. Il numero del secondo quadrimestre. All’interno del fascicolo patinato: Open Letter to the President, 19 febbraio 1998. Quaranta rispettabili cittadini dell’Unione si rivolgono al loro presidente: Many of us were involved in organizing the Committee for Peace and Security in the Gulf in 1990 to support President Bush’s policy of expelling Saddam Hussein from Kuwait, scrivono. Obiettivo della lettera: aprire gli occhi del Presidente, renderlo cosciente del pericolo costituito dalla dittatura irachena. Obiettivo dichiarato. Molti di noi sono stati coinvolti nell’organizzazione del Comitato per la pace e la sicurezza durante la Guerra del Golfo del 1990, il cui scopo era di sostenere il presidente Bush nella sua politica di espulsione di Saddam Hussein dal Kuwait. Sette anni dopo Saddam Hussein è ancora al potere a Baghdad. Nonostante la sua sconfitta nella Guerra del Golfo, il perdurare delle sanzioni e lo sforzo determinato degli ispettori dell’Onu nello scovare e distruggere le sue armi di distruzione di massa, Saddam Hussein è riuscito ad acquisire armi biologiche e chimiche. Sottolineando la minaccia costituita da questi congegni mortali, i segretari di Stato e alla Difesa hanno dichiarato che tali armi potrebbero essere usate contro il nostro popolo. E Lei ha detto che questo problema è tra «le sfide del xxi secolo». La posizione irachena è inaccettabile. L’Iraq non è l’unico Paese a possedere simili armi, ma è il solo ad averle usate – non soltanto contro i suoi nemici, ma contro il suo stesso popolo. Noi dobbiamo convincerci che Saddam si sta preparando a usarle nuovamente. Ciò costituisce un pericolo per i nostri amici, i nostri alleati e la nostra nazione. L’inviato di nome Michael ha sottolineato alcuni passaggi della Open Letter. Ne ha con sé alcune copie, da consegnare ai suoi interlocutori italiani. Interlocutori accomunati dalla condivisione dell’analisi della situazione irachena: È chiaro che questo pericolo non può essere eliminato finché il nostro obiettivo sarà il semplice «contenimento» e i mezzi per conseguirlo si limiteranno alle sanzioni e agli appelli. La lista delle firme è tanto autorevole quanto muscolare. C’è come un flettersi di bicipiti al di sotto del tono accorato con cui le parole occupano gli spazi bianchi dei fogli. È l’insieme a dare un’idea di forza: qualcosa di più vasto di una lobby di pressione, qualcosa di più concreto di un centro studi strategici o di una linea di political studies, qualcosa di più sottile di un manifesto ideologico. Qualcosa come l’insieme di tutte queste cose, e ancora di più: qualcosa come un governo ombra. All’interno della borsa: bozza preliminare di un atto presidenziale. Versione quasi definitiva: la risposta del Presidente alla Open Letter. Verrà presentata al Congresso in ottobre, presumibilmente. L’inviato di nome Michael è uno dei quaranta firmatari, non certo vicino al Presidente: questo non gli impedisce di avere con sé l’anteprima di un atto presidenziale, of course. Titolo probabile: Iraq Liberation Act. Suona bene: un guanto di velluto liberal per ricoprire il pugno di ferro neocon del contenuto. Con un’accorta gestione parlamentare, il documento sarà acquisito dal Congresso senza in pratica essere letto. Il primo risultato non dichiarato della Open Letter è stato raggiunto. Il primo. Prepararsi all’atterraggio, annuncia la voce del pilota. L’aereo atterra senza problemi. L’altoparlante comunica l’apertura delle porte. L’inviato di nome Michael estrae dalla borsa in pelle nera un telefono satellitare. Compone un numero: meglio sincerarsi che a Fiumicino sia tutto in ordine. All’altro capo: telefono mobile su autovettura. Risponde il generale Corvino: tutto come concordato. L’inviato di nome Michael verifica alcuni numeri su una piccola agenda. Nomi e numeri. Pochi nomi sono cancellati, alcuni numeri sono cancellati e riscritti: l’agenda è aggiornata, ma non nuova. Bologna, edicola dei giornali. Via del Pratello angolo via Pietralata, ore 13. Non so com’è che siamo finiti a parlare di hamburger, visto che Lara è vegetariana – no, non mangia la carne rossa, la bianca sì, purché sia allevata con certi criteri eccetera – e a me i McDonald’s fanno schifo solo per il puzzo con cui impestano l’ambiente circostante: sta di fatto che siamo qui, davanti all’edicola-libreria di Lino, col quale potremmo parlare dell’ultimo Lucarelli come di Fois che passava di qui proprio ieri, anzi, aveva un appuntamento con uno che doveva incontrare e non si è visto, insomma la scuola bolognese, e magari confrontarla con Pennac, ovvero parlare della scena psicoanalitica lacaniana nelle sue ultime propaggini, o del ritorno ai classici, o cercare di scoprire che c’è almeno un libro che Lino non ha letto, tanto per metterlo alla prova, e pensare che si fa le sue brave dieci ore qua dentro a vendere giornali; oppure potremmo focalizzare le nostre parole su noi stessi, visto che se Ferodo non è andato fuori di brocca siamo sotto controllo e probabilmente in pericolo di vita, e siamo anche senza telefonino, perché Ferodo ci ha convinti a spegnere i nostri e a darci appuntamento qui senza cellulare, che tanto a quello ci penso io, ha detto. O magari ragionare su che cosa potrebbero essersi detti stanotte Andrea e Ferodo in una gara che dev’essere stata dura tra chi riesce a parlare meno.O potremmo riflettere sui cambiamenti del Pratello, che per ragioni differenti sia io che Lara abbiamo smesso di frequentare. Invece no: siamo qui, arrivati per primi, e stiamo parlando dei McDonald’s. No: non stiamo parlando. Lara parla: io ascolto. – Insomma, se la menano tanto con la storia dell’allevamento rispettoso della natura e della carne di prima qualità, come se togliere spazio alle foreste per creare allevamenti fosse una forma di rispetto della natura.Che poi la paghiamo tutti la deforestazione e la devastazione dell’ecosistema attraverso le emissioni e i resti dei macroallevamenti, ma comunque facciamo finta che sia così come ce la vendono. È che poi i loro manzi li fanno macellare in pochissimi grandi macelli, e qui in Europa ci becchiamo quelli macellati in Inghilterra, con turni di lavoro bestiali e contratti a termine.Un mio amico inglese ci ha lavorato, e mi ha detto che in media uno dura tre mesi là dentro, poi gli scade il contratto e va via, o molla anche se ha il contratto perché non regge i ritmi e lo pagano uno schifo.In Inghilterra non c’è il minimo salariale, no, cioè, adesso c’è, ma più che un tetto è un pavimento, e quindi funziona come prima, insomma dopo tre mesi uno va via, e sai qual è la cosa più difficile per chi lavora in un macello? Te lo dico io, è imparare ad annodare le budella del manzo all’interno della bestia prima di tirarle fuori.Il mio amico dice che ci vogliono sei mesi per imparare a farlo bene, quindi là dentro non lo fanno bene, e se le budella non sono ben annodate c’è il pericolo che la merda dall’intestino si rovesci sulla carne. E secondo te buttano via un manzo solo perché ci è finita sopra la sua stessa merda? Certo che no, quindi nella carne del McShit ci sono tutti i batteri della sua stessa merda.Ma lo sai di quanto è più alto il rischio di prendere la salmonella con un McShit rispetto a una bistecca macellata a regola d’arte? E se per assurdo sul rullo trasportatore ci finisse un lavoratore clandestino, un pakistano senza carta d’ingresso, sarebbero capaci di non fermare il nastro, che tanto del pakistano non frega niente a nessuno e in fondo è sempre carne macinata quella che se ne ricava, e ti dico che per me è già successo e non ne sappiamo niente! Fuori come un balcone, Lara, oggi. Anch’io, forse, visto che comincio a parlare come lei. Per fortuna arriva Diego a creare un diversivo. – Be’, cosa fate qui fuori? Si prende un aperitivo al barazzo? – Non è più il barazzo di una volta, Diego, – risponde sdegnosa Lara indicando una mescolanza di vecchie e nuove facce, tra le quali sembra prevalere lo studente radical-chic piuttosto che il punk occupante o il vecchio comunista da bar. – Tutto cambia, bambina: niente è più come una volta, – risponde serafico Diego. – Fottiti, stronzetto! – risponde Lara piccata, dimenticando con chi ha a che fare. – Con molto piacere, – risponde sorridente Diego attraversando per primo la strada. Andrea e Sandro arrivano a metà del primo Campari, giusto in tempo per condividere. L’aperitivo, mica le informazioni. Il loro mutismo si taglia a fette spesse come il salame col quale il barista ci farcisce le rosette. Ferodo giunge al secondo Campari, mentre Lara contratta un mozzarella-lattuga senza maionese, sì, senza maionese, perché nelle salse grasse i batteri sopravvivono, e il barista prende in mano i soldi con le stesse mani con le quali prepara il panino, e il principale veicolo di propagazione dei batteri sono i soldi. Quindi niente salame perché viene dal maiale, niente maionese perché è infetta, e la foglia di lattuga presa dal cespo, non di quelle già lì nella vaschetta per favore grazie. Allora?, apostrofa Andrea. Tutto pronto, risponde Ferodo.Cos’è che bevete? Sì, perfetto, uno anche a me, no, solo il Campari, senza panino. Tutto pronto cosa?, chiedo. Tutto, risponde Ferodo indicando un tavolino all’esterno. Mi piace poco la sua espressione: quella di Andrea ancora meno, se è per questo. – Partenza? Quale partenza? Ferodo fa segno ad Andrea: tocca a lui parlare. – Facciamo il punto, – dice a voce bassa. – Abbiamo toccato un nervo scoperto, perché qualcuno ha risposto. Se sanno del computer che usavamo vuol dire che sanno molto su di noi. Per qualche strana ragione non hanno scoperto tutto, però.Ad esempio, chi usava il computer, altrimenti avrebbero tentato qualcosa contro Ferodo. Chiaro fin qui? – Quindi il sequestro dei cellulari dipende da questo? – chiedo. – Nessun sequestro, – risponde Ferodo aprendo la valigetta di plastica nera.– Ecco qui dei cellulari nuovi, con Sim card a prova di intercettazione. Quelli personali li lasciate a casa, – dice distribuendoci dei bagagli colorati. – Ricopiate la rubrica a mano, senza inserire la nuova Sim card nei vecchi. E comunque poche telefonate, solo se necessario. – A casa? Perché, dove dobbiamo andare? – Passiamo al punto due, – interviene Andrea. – C’è una nave che ci siamo persi da qualche parte, e c’è Bologna che per qualche giorno è meglio lasciar perdere: chiaro anche questo, no? Quindi si va giù a trovare un paio di vecchi amici, tanto per cambiare aria, e già che ci siamo vediamo di scoprire se una certa nave è arrivata oppure no e cos’ha scaricato. Domande? – Sì, – chiede Lara. – Dove dovremmo andare? Andrea mi guarda: lo sa che ho già capito. Faccio segno di sì: a questo punto si va fino in fondo. Ferodo studia la situazione. Guarda Lara: ce l’hai un bikini nuovo, sorellina? No, perché? Allora mi sa che oggi pome ti tocca andare a fare shopping. Roma, hotel Parco dei Principi, ore 15.30. L’inviato di nome Michael mescola con disinvoltura un mazzo di carte, come si preparasse a servire una mano: mescola, rimescola, smazza. Ricompone il mazzo. Ricomincia. – Lei gioca a bridge, generale? – Poco. Poco e male, – risponde il generale Corvino. – È un peccato, generale, davvero un peccato. È un gioco che consente di tenere in esercizio capacità intellettuali che a lei di certo non mancano: una notevole intelligenza e una altrettanto notevole capacità di interpretare e prevedere le mosse dei suoi nemici. – Intendeva dire avversari? – Prego? – Avversari, Mister, non nemici: nel gioco ci sono gli avversari. È in guerra che ci sono i nemici. L’inviato di nome Michael sorride: certo, generale, certo. Deformazione professionale, aggiunge, continuando a mescolare il mazzo di carte, deformazione professionale. Corvino, come sua abitudine, accenna appena un moto d’assenso. Seduto in poltrona nella suite, ha un’aria volutamente marziale, sulla quale convergono l’eccessivo rigore, al limite della cifosi, della postura del busto e l’inespressiva espressione sulla quale si potrebbe leggere uso a obbedir tacendo. Tacendo, per l’appunto, Corvino segnala la presenza di quella tacita coazione a obbedire che dovrebbe essergli cucita sulla viva pelle, più o meno assieme ai proverbiali alamari che un carabiniere dovrebbe tenere cuciti non solo sulla divisa. Muto come un pesce, in definitiva: uno di quei pesci che assumono colore e postura di un corallo o di un’alga, e così facendo si mimetizzano, o se percepiti appaiono rassicuranti e pacifici nella loro immobilità. Rassicuranti e pacifici: l’importante è apparire tali. L’inviato di nome Michael continua a giocherellare con le carte, in attesa delle telefonate. Il telefonino satellitare è in ricarica, ma attivo. Il primo appuntamento è per l’after hour: aperitivo, cena, e naturalmente partita a bridge. C’è qualche nuovo giocatore da conoscere, a quanto pare. Un po’ di cose stanno cambiando, nel piccolo bicchier d’acqua italiano. L’inviato di nome Michael ha un primario interesse per i grandi corsi d’acqua, per i fiumi in piena: per quelli che rompono gli argini e… come dite qui in Italia sui corsi d’acqua che sembrano quieti, generale? Che rovinano i ponti, Mister: le acque chete rovinano i ponti. Già: pronto e sveglio, sotto quell’aria da calendario dell’Arma, il generale Corvino. I ponti che rovinano, gli argini che saltano: anche un rivoletto può servire a fare sistema. Anche il piccolo bicchier d’acqua chiamato Italia. Il telefono satellitare squilla. Invio: da telefono fisso a telefono satellitare. All’altro capo: Studio notarile Fratelli Zanni. – Notaio Zanni, Mister. – Ben trovato. Come sta il nostro comune amico? – In attesa. Con molte aspettative, devo dire. È spiacente di non poterla incontrare di persona, salvo imprevisti. – Dispiaciuto anch’io, per questa volta. E lei, avrò il piacere di incontrarla? – Sarò di sicuro della partita, domani sera. Non garantisco per l’aperitivo, ma non stia ad aspettarmi. Mi muoverò non appena ricevuti certi documenti. – La persona che dovrei incontrare? – L’aspetta alle 19 al bar dell’hotel. Non dubiti della sua puntualità, e non si preoccupi: sarà lui stesso a riconoscerla. L’inviato di nome Michael annota qualcosa sulla planing agenda. Il generale Corvino è ancora seduto. – Che tipo è questo Mister Beta che ha in programma di farmi incontrare, generale? – Un tipo interessante, Mister. Le piacerà. – Spero non sia una perdita di tempo, generale. Sa che ho molti impegni, e Roma è solo una breve parentesi. – Stia tranquillo, Mister. Tutto potrà dire di questi incontri, salvo che siano uno spreco di tempo. Lucca, studio notarile Fratelli Zanni. Invio: da telefono fisso a telefono cellulare. All’altro capo: casa circondariale di Lucca. Il vibracall segnala una chiamata in entrata. Il detenuto Francesco Costante estrae il telefono dalla tasca, legge il numero sul display e preme l’Ok. – Dimmi, Zanni. – È arrivato l’amico americano. – Novità? – No: tutto come preventivato. – Che mi dici del senatore? – Non so se accetterà l’incontro. Non è facile sapere quello che gli passa per la testa. – Guarda che quello non è matto come vuol fare credere, Zanni. Se dice no è perché ha qualche altra cosa in ballo. Stai appresso a Corvino, devi sapere cosa bolle in pentola ai Quattro Mori. – Terrò le orecchie aperte. – Bene, Zanni. E marca stretto anche Beta: non mi fido di lui. Roma, hotel Parco dei Principi, ore 19. L’uomo chiamato Beta è arrivato alle 18.45. È rimasto in taxi un quarto d’ora davanti all’hotel. Due minuti prima delle 19 ha aperto lo sportello ed è entrato nell’albergo. Non ha chiesto dov’è il bar. L’uomo chiamato Beta non chiede mai informazioni: sapere dove sono i luoghi e gli uomini è il suo mestiere, per così dire. Uno degli allievi non riconosciuti e non designati del Maestro, che peraltro non ha mai annunciato il suo ritiro dai giochi. Del resto non aveva mai comunicato neanche il suo ingresso: come si fa a entrare o uscire da un gioco del quale non è mai stato dato l’inizio? E come si fa a far terminare un gioco che non è mai iniziato? Si può: solo che non è scritto nei manuali del Role Game. Qui non si gioca a Dungeon & Dragons: può accadere che il gioco parta senza essere cominciato, termini senza che i partecipanti lo sappiano e continui anche se i giocatori ne hanno decretato la fine. E magari il termina e prosegue contemporaneamente, e i giocatori continuano pur avendo smesso, e terminano senza smettere: di nuovo, questo non è un Dungeon: c’est la vie, mes amis. La vita… L’inviato di nome Michael arriva pochi minuti dopo le 19: preferisce osservare con attenzione i convenuti. Si siede sulla poltroncina e fa cenno al cameriere in guanti bianchi. Il cameriere arriva col suo drink preferito, Martini cocktail molto secco con goccia di pernod: molto New York roaring years. L’uomo chiamato Beta saluta compito, a distanza: mostra lo stesso cocktail. L’inviato di nome Michael indica la poltroncina di fronte. Il cameriere arriva con le ciotole di patatine e noccioline salate, olive condite e fiori di cappero all’aceto. 3. Verso il metallo urlante 11 settembre. Autostrada A14, casello di San Lazzaro, ore 23. Midnight ronkers city slickers gunmen and maniacs all will feature on the freakshow and I can’t do nothing ’bout that, no… – Era proprio necessario partire in macchina, Ferodo? Non potevamo prendere un vagone letto? – No, Lara. – No cosa? – Non potevamo, Lara. I treni non sono sicuri. – Ma non hai sempre detto che la Saab 9000 è una macchina da stronzi? – Sì, Lara. – E allora? – E allora? L’ho rubata, mica l’ho comprata, no? – Non la riporti quando abbiamo finito? – Non lo so quando finiamo, quindi non so se posso riportarla. Poi che problema c’è? Tanto il proprietario è uno stronzo. – Lo conosci? – No che non lo conosco. – E allora come fai a sapere che è uno stronzo? – Perché ha una Saab 9000. You can free the world you can free my mind just as long as my baby’s safe from harm tonight… – Cos’è che ascoltiamo? – chiedo. – Massive, – mi risponde Lara. – Vero, lì davanti? – Vero, – risponde Andrea dal posto della suocera. – Massive Attack, per essere precisi. Poi hanno dovuto cambiare il nome. Troppo militarista, dicevano alla Bbc: c’era la Guerra del Golfo, quella vera, e Massive Attack sembrava troppo esplicito. Meglio non ricordarla, la guerra. Soprattutto quando c’è. I was lookin’ back to see if you were lookin’ back at me to see me lookin’ back at you… Autostrata A14, tra Rimini e Pesaro, ore 0.15. – Te l’avevo detto che questa è una delle stazioni a cinque stelle, no? Felice come una bambina, Lara indica il banco salumeria. In effetti è vero: salume Dop, formaggi invitanti, conserve semiartigianali. Vini di nome e di buona etichetta. Il prezzo magari non è proprio quello della Coop, però a quest’ora è quasi irresistibile la tentazione dello spuntino di mezzanotte. Peccato per il vino: ma in macchina c’è un bauletto da campeggio pieno di birra e ghiaccio tritato. Io avevo proposto di portarci dietro della pizza al taglio, per fortuna non mi hanno dato retta. Certo che questa delle stazioni di servizio con l’alimentare regionale mi mancava: del resto da quant’è che non faccio un bel viaggio in autostrada? Pago io, tranquilli, dice Ferodo sfoderando una American Card. Dài, almeno dicci quanto spendi che dividiamo, no? No. Come, no? No, dice Ferodo: io sono solo quello che paga, non quello che ci mette i soldi. Lara sorride e gli regala un bacetto sulla guancia, poi mi prende per mano e mi fa: perché secondo te Ferodo lascia una traccia con la sua vera carta di credito? No, vero? No. Autostrada A14, poco oltre Ancona, ore 1.30. Really hurt me baby, really cut me baby how can you have a day without a night you’re the book that I have opened and now I’ve got to know much more… – E Sandro, allora? – Sandro serve a Bologna. Tiene sotto controllo il giro del Prezioso, registra le voci captate dal giocattolino di Ferodo, e soprattutto non dà nell’occhio scomparendo all’improvviso. – Come te, Andrea? – Come me. Io però sono giustificato. Mi hanno costretto a prendere le ferie, sono sotto inchiesta, insomma mi hanno caldamente invitato a sparire finché non si calmano le acque. – Quindi? – Quindi sono sparito. Sono in vacanza, più o meno. Sono talmente incazzato da non aver avvertito nessuno: comprensibile, mi sembra. – Quasi, – sottolinea Lara. Andrea sospira. Lo sa cosa vuol dire Lara: almeno a Chiara avrebbe dovuto dirlo. È proprio una bastardata sparire così, senza neanche uno squillo. Infatti è così che si sente Andrea: bastardo dentro. Di là dall’autostrada, il mare nerissimo gli fa eco in silenzio. Ma di quel mare Andrea se ne frega: mai piaciuto, l’Adriatico. Like a soul without a mind in a body without a heart I’m missing every part… Bologna, abitazione di Chiara Zanotti, ore 0.05. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso. All’altro capo: Sandro Valle. – Scusami, Sandro, mi dispiace davvero disturbarti, ma proprio non sapevo a chi altro rivolgermi, cerca di capirmi, non so a chi telefonare. – Cosa succede, Chiara? Stai piangendo? – Lo so che non è giusto, Sandro, non è che sono tanto stronza da non capirlo, tu sei l’ultima persona a cui dovrei telefonare a quest’ora, per quel bastardo poi, e siete amici, però ti prego, Sandro, dimmi se sai dov’è Andrea, se puoi fargli avere un messaggio, Cristo, e per dirgli cosa? Non so nemmeno che cosa gli ho fatto.All’improvviso scompare, stacca il telefono, è da ieri che non risponde, non so neanche se è andato via o se gli è successo… Cosa devo pensare, Sandro?… Dimmi qualcosa almeno tu, ti prego, hai ragione ad avercela con me, mi sento un verme, ma credimi, sto male davvero, e non so neanche per cosa devo stare male… Sandro, seduto per terra, guarda la cornetta. E adesso cosa deve fare, Sandro? – Chiara? – Sì, ci sono ancora. – Andrea è partito. Non so altro, devi credermi. Ha preso un low cost per l’Irlanda, non so neanche dirti da quale aereoporto. Uno di quei voli all’ultimo minuto. Ce l’aveva con tutto e con tutti, dopo quello che è successo ieri mattina in questura: lo sai, vero? – Sì che gli credo, lo so che lo hanno incastrato, Sandro: ma ti pare giusto che debba venirlo a sapere dai colleghi, giù al bar? Non mi ha neanche chiamata, Cristo di Dio! – Lo sai com’è fatto, no? – No, Sandro: a questo punto non lo so più, com’è fatto. Non lo so più… – ripete Chiara mentre la voce le scema. Sandro, seduto per terra, continua a chiedersi cosa deve fare. (Silenzio). – Sandro? – Dimmi. – Scusami, Sandro. Non ti ho neanche chiesto come stai. – Sto. Come si dice… un po’ così… (Silenzio). – Chiara? – Dimmi… – Che hai intenzione di fare? – Prenderò qualcosa per dormire, senza non ci riesco. Qualcosa di leggero, non stare in pensiero… Sandro? – Sì… – Sei proprio sicuro di non sapere dov’è Andrea? (Silenzio). – Scusami, Sandro. Non volevo mettere in discussione la tua sincerità. Posso chiederti un favore? Ti dispiace se domani mangiamo una cosa insieme, alla mezza? Una cosa tranquilla, al bar, in mezzo agli altri… tanto per non sentirmi sola… te la senti? Seduto per terra, Sandro si ripete la stessa domanda cui ha appena risposto di sì: te la senti, Sandro? Proprio sicuro di sentirtela? Autostrada A14, tra Pescara e Vasto, ore 3.15. It’s you I love and not another and I know our love will last forever you I love and not another and I know we’ll always be together… – La mia preferita! – dice Lara accucciandosi con la testa sulle mie gambe. – Una birra per festeggiare, sister? – fa Ferodo porgendo una coppia di lattine. – Grazie, – dico io, – però se la destra la rimetti sul cambio mi sento più sicuro. – Perché? – dice Ferodo. – Devo mica cambiare. Velocità di crociera, più o meno centoquaranta in questo momento. Guida bene, Ferodo: niente mosse brusche, niente scossoni. Scivola via sull’autostada: senza mai togliersi gli occhiali scuri. Apro la prima lattina, bevo un sorso e la passo a Lara. Lara si rigira e manda giù a canna una lunga sorsata. Bello questo Cd: hanno fatto altro?, chiedo. Sì, un paio di altri dischi. Belli uguale? Sì, più o meno. E allora perché ascoltiamo solo questo?, chiedo osservando il cubo dentro il quale, a occhio e croce, Ferodo deve aver stipato una cinquantina di dischetti. Perché tu non hai ancora capito come funziona Ferodo, mi fa Lara riaccucciandosi. Ferodo ascolta un solo disco per volta. Uno solo, non importa per quanto tempo: per ogni cosa che fa ha un solo disco. Come The Nightfly? Come quello, dice Lara: se deve surfare sul serio, se deve craccare qualcosa mette su Donald Fagen. E i Massive per cosa sono?, chiedo. I Massive sono notturni, risponde Ferodo senza voltarsi: notturni e meditativi. Quindi, se devi pensare, metti su… – No. – Come: no? Hai detto tu che… – Se devo pensare, ed è notte. Allora metto su i Massive. – Se è giorno no? – Se è giorno no. – E adesso… – Sto pensando. Infatti ho su i Massive: tutto chiaro, là dietro? Tutto chiaro. Un pelino meno brusco di Andrea, ma il concetto è lo stesso: comunica se e quando ne ha voglia, altrimenti stacca le comunicazioni. Naturale che i due si siano presi subito: sono fatti l’uno per l’altro. – Andrea? – Di’. – No, solo per sapere se dormivi… – Non dormo: di’ pure. – Cosa ti aspetti di trovare, giù a Taranto? – Non mi aspetto di trovare qualcosa. Mi aspetto di non trovare qualcosa. La nave, ad esempio. – Non ti capisco: se sai di non trovarla, cosa scendiamo a fare laggiù? – Intanto cambiamo aria, che a Bologna il terreno comincia a scottare. – Va bene: poi? – Poi… poi, se sapessi cosa cercare, non avrei bisogno di andare a cercarlo di persona, no? Se le cose stanno andando come è probabile che sia, quella nave laggiù non la troviamo, poco ma sicuro. Se fosse placidamente ancorata nel porto non sarebbe la nave che penso. – Dài mò, Andrea, non farti tirar fuori le parole con la tenaglia. Cosa c’è laggiù? – Non lo so cosa c’è. So cosa potrebbe esserci. Facce: facce da guardare negli occhi, espressioni da cogliere. Notizie da mettere insieme un pezzo per volta… Mal che vada, vecchi amici che non vedevamo da un quarto di secolo, più o meno: rifacciamo una vacanza dei nostri vent’anni, una rimpatriata, tipo Italia-Germania 4-3. – Quel film non mi piace, Andrea. Mi ha fatto persino incazzare: ma ti sembra che noi eravamo dei coglioni come quelli lì? Coi figli di papà diventati yuppies e lo sfigato a fare il professorino? – No che non eravamo come quelli lì: nel Sessantotto stavamo finendo le elementari, noi! – Le elementari, col grembiulino e il fiocchetto! – si inserisce Lara ridendo, sempre accucciata. – Vuol dire che avete visto lo sbarco sulla Luna in diretta quando eravate bambini: che viaggio, babies! – No, Lara, non ho visto un bel niente. Ai tempi i bambini andavano a letto dopo Carosello, magari d’estate si strappava qualcosa in più, però lo sbarco sulla Luna l’ho perso perché ero stato mandato a letto. E anche i supplementari di Italia-Germania: Schnellinger pareggia, finiscono i tempi regolamentari e io vengo spedito a nanna mentre quello zappaterra mancato di Poletti si fa infinocchiare da Müller che gli dice: guarda, lì per terra c’è la tua salama da sugo, e mentre lui cerca la salama gli frega il pallone e lo mette dentro, con le urla di tutto il vicinato che entravano dalle finestre aperte per il caldo d’estate. Credevo che fosse finita sette a quattro, per via delle urla, figurati. – Ecco, magari è per quello che eravate così arrabbiati quando siete cresciuti: perché vi hanno mandati a nanna senza farvi vedere il gol di Rivera. – Chissà, – commenta sardonico Andrea, – magari è vero che le ingiustizie subite da bambini ci hanno reso più sensibili all’ingiustizia del mondo. – Scusa, Andrea: perché dici l’ingiustizia del mondo? Non dovresti dire le ingiustizie? – No: l’ingiustizia. L’ingiustizia è come la libertà: ce n’è una sola. – Mmm… poi magari domani ci penso, se sono d’accordo. Non è che mi faresti un favore, Ferodo? Mi rimetti su One Love, magari ripetuta un paio di volte? – Come ai vecchi tempi, sorellina? – Come ai vecchi tempi, fratellino. – Perché, – dice Andrea, – avete fatto in tempo ad avere anche voi ragazzini i vecchi tempi? – Certo, ispettore Sheridan: altrimenti come facciamo a comunicare, noi e voi, senza i vecchi tempi? – risponde Ferodo toccando i tastini del lettore Cd di serie senza scomporsi. Lara si è rigirata. La sua mano scivola sotto la mia maglietta, mi carezza il petto con gesti sottili, quasi impercettibili. Le metto le dita tra i capelli per ricambiare. Mi prende la mano e con gentilezza mi sfiora la punta delle dita con le labbra e la lingua. Vuoi l’ultimo sorso di birra?, le chiedo.No, risponde a voce bassissima, non quella, dice mentre si sfila con un unico movimento il top. Mi prende la mano e se l’appoggia tra i seni, sorridendo. Gli occhi le luccicano. – Andrea? – sussurra Lara. – Di’, Lara… – Non è che per un po’ potresti non voltarti? I believe in one love I believe in one love, oh girl I believe in one love I believe, girl, oh yeah in one love, in one love in one love, in one love… Taranto, ore 5.40. Nelle ultime due ore Ferodo ha dato fondo alla potenza del motore, sempre senza scossoni. All’uscita dall’autostrada ha passato il volante ad Andrea.Siamo quasi arrivati, meglio lasciare il comando a chi conosce la strada. Perché Andrea, dopo più di vent’anni, si ricorda ancora com’è fatta Taranto. La sua leggendaria memoria da elefante. – Credevo fosse una città di mare! – dice Lara. – Infatti: tra un po’ ci arriviamo. – No, volevo dire: non credevo ci fosse tutto questo metallo industriale. Sembra Blade Runner, con quelle torri che sputano fuoco. Anch’io non ricordavo quanto fosse estesa l’area industriale. Grande quanto quella degli uomini, questa città delle macchine e delle tute blu. Con le colonnine degli altoforni che fiammeggiano verso il cielo alla luce dell’alba che illividisce il paesaggio. Lara sembra quasi affascinata: pura fantascienza, ai suoi occhi. – Be’, sì, a te non piace? Mi ricorda Metropolis, hai presente il vecchio film, quello con la musica dance? Ecco, è questo il punto. Lara Metropolis lo ha visto colorato e fracassonato da Giorgio Moroder, io l’ho visto muto e in bianco e nero. Per lei i personaggi di Metropolis sono figure che danzano al ritmo della disco elettronica, per me schiavi anneriti dal fumo e dalla fatica. Chissà se lo abbiamo mai capito cosa dovevamo farne di questi mostri metallici, dopo aver fatto la rivoluzione. Sta di fatto che loro sono ancora qui, a fagocitare ogni otto ore migliaia di esistenze e a ricordarci con la loro arrogante presenza i nostri peccati e i nostri fallimenti: metallo urlante. – Cosa c’è? – Niente… solo che Metropolis era in bianco e nero. – Ed è una differenza così importante? – No… cioè, non in sé. È importante quello che significa… non è facile da spiegare, Lara, magari ne parliamo un’altra volta, va bene? – Oh, ma voi uomini dovete sempre essere tristi dopo aver fatto l’amore? Già: tristi dopo l’amore. Dev’essere andata così.Una fiammata di erotismo politico, e il resto del tempo a piangere sulle nostre melanconie. Questi caseggiati neri da edilizia popolare invece me li ricordo. Si chiamava Tamburi, questo rione. No: si chiama ancora così, caseggiati popolari anneriti dalle polveri industriali. Sarebbe stato bello trovarci delle case pulite, un quartiere umano, col suo verde e le sue zone di socializzazione. Sarebbe stato bello. A quest’ora non c’è nessuno in strada: però me le ricordo le donne di questo quartiere vestite di nero non per lutto ma per uso, comincio a figurarmi i volti un po’ più induriti degli altri tarantini: brutta zona, dicevano all’epoca. Vale a dire: la parte più povera. Poi, da quello che mi sembra di aver letto, la maglia nera è passata ad altri rioni: altre famiglie deportate in qualche nuova periferia senza piazze, verde, luoghi di socializzazione, altri gruppi a disgregarsi per essere riaggregati dal mercato dell’eroina, della malavita organizzata, del lavoro nero in subappalto – che qui a Taranto sono spesso lo stesso mercato, con gli stessi figuri politici e gli stessi portaborse di oggi che si preparano ad essere i pagliacci in primo piano di domani. Nessun rumore dalle strade sporche, nessun rumore dalla gente che ancora dorme, o non è ancora tornata a casa, nessun rumore dal mare. Nessun rumore dalle case: la pietra sporcata non parla. Dal metallo urlante alla pietra silente. Poi il lungo cavalcavia ci immette quasi di colpo sul vecchio ponte in pietra, dopo il curvone semielevato che scorre sotto la macchina quasi di sorpresa – me lo ricordavo il cavalcavia: disegnato male, ci ho visto una Seicento volare giù, dice Andrea come parlasse di una cartolina d’epoca – ed eccoci alla città vecchia. Uno schifo di fontana ci accoglie a sinistra, lo Jonio si presenta a destra, le case fronteggiano il mare lasciando intravedere vicoli e strade in pietra: Taranto vecchia dal lato del Mar Grande. Perché Mar Grande?, chiede Lara. Perché lo Jonio del golfo qui lo chiamano così, per distinguerlo dal Mar Piccolo, dice Andrea. Mar Piccolo?, insiste Lara. Cosa vuol dire? Aspetta: ci stiamo arrivando, avverte Andrea proseguendo la circumnavigazione a mancina della città vecchia. E infatti dopo l’ultima curva a sinistra si apre la piazza del Municipio, la piazzetta con il chiosco delle granatine (le faranno ancora?), le due colonne pomposamente chiamate Tempio di Nettuno, il castello Aragonese alla destra, e si va giù per la discesa, come si chiama questa discesa? Cazzo, Andrea, rallenta, che ci ribaltiamo! Tranquillo, me la ricordo la curva del Vasto, ecco la discesa del Vasto, dico tirando il fiato. Wow!, esclama Lara colta di sorpresa dal sole che sorge sul vibrato dell’aria del Mar Piccolo, tremolando sull’acqua i suoi riflessi mescolati alle immagini specchiate dei pescherecci che oscillano all’aria salmastra. – Ma allora? Come fa a esserci il mare a Oriente? Era a ovest, il mare. – Siamo su un’isola, Lara. La stiamo circumnavigando: una piccola isoletta tra due lembi di terra, collegata con due ponti. All’interno l’isola chiude un arco di terra a forma di occhiale: ecco perché lo chiamano Mar Piccolo: una specie di lago non chiuso, quindi salato. Un porto naturale per i pescatori. E per le navi da guerra: sai quanto ci hanno marciato qui sulla naturale vocazione della città alla Marina militare. Andrea ha fermato la macchina: ci fa cenno di scendere, guarda con calma i movimenti nelle botteghe e i pescatori che stanno terminando lo scarico. Nostalgia?, chiedo.No, risponde. Niente nostalgia. Sto solo cercando di respirare l’aria di vent’anni fa. Lo hai visto il castello? Sì, certo. Andrea annuisce. Cos’è quel castello, chiede Ferodo. Base della Marina, risponde Andrea.Ci ho fatto metà del servizio. Roba dura? Roba dura. C’era gente che sarebbe dovuta finire a Gaeta, là dentro. Cos’è Gaeta? Il carcere militare. E perché non era a Gaeta, quella gente? Perché per loro Gaeta non era abbastanza dura. E allora? E allora li mandavano qui: non era un carcere, però ti assicuro che era peggio. Ti ricordi quello dell’olio?, mi fa: quello dell’olio? Sì… sì, adesso che me lo dici, sì. Chi era quello dell’olio? A dire il vero erano in due: e non c’era verso di tenerli. Per farsi dare un congedo uno di loro si versò dell’olio bollente sul piede, senza un solo lamento. Stai scherzando? No, risponde Andrea.Ti ho detto che c’era gente tosta, là dentro. E l’altro?, chiede Lara.L’altro si diede una martellata sulla rotula due giorni dopo, per uscire anche lui. Che fine avranno fatto?, gli chiedo. Mah… un paio d’anni dopo qualcuno mi ha detto di averli incontrati a Copenaghen… non penso che avessero intenzione di rimettere piede in Italia. – Dove andiamo, adesso? – Tore abita qui, in questa via lungo la marina piccola. C’è solo da cercare il numero, ma dev’essere in fondo. A passo d’uomo seguiamo la sequenza dei numeri, l’alternanza di case abitate e portoni sbarrati o sfondati che alludono a finestre dagli infissi mancanti, abitazioni pericolanti, travi che sostengono case cadenti. Sembra che metà di queste case sia stata bombardata, dice Lara. – Non sembra, risponde Andrea. – È stata bombardata. Dalla miseria, dall’abbandono, dall’incuria. Dai politici di merda. Succedeva già la prima volta che ci siamo venuti. È come un corpo malato: se non lo curi la malattia degenera. Andrea ferma. È lì di fronte: siamo arrivati. Svegliamo i tuoi amici a quest’ora, chiede Lara? Non è troppo presto? Andrea indica con una mossa del capo una finestra. Una faccia sorridente, sovrastata da un mare di capelli rossi. Non si sveglia nessuno: Tore è lì che ci aspetta. Si sbraccia per salutarci, poi mostra un paniere e lo cala con la corda. Andrea prende il paniere e ci trova dentro una vecchia chiave in ferro: la chiave del portone. Lara continua a osservare stupita l’insieme del paesaggio: le vecchie case, i palazzi cadenti, i gabbiani che sorvolano la superficie del Mar Piccolo, le navi che beccheggiano, il pescatore che cuce la nassa, gli uomini che scaricano le casse dai pescherecci. Anche il gesto antico di Tore la lascia sorpresa. Imperturbato, Ferodo mi mette la mano sulla spalla e indica il punto tra le mie scapole: cosa c’è, Ferodo? La tua maglietta. Cos’ha la mia maglietta? Ha l’etichetta all’esterno. Come, all’esterno? Hai la maglietta al rovescio, tesoro mio, risponde Lara ridendo, te la sei rimessa senza rivoltarla: ma devo proprio fare tutto io con te? Mentre mi sistemo la maglietta, un uomo in canottiera si avvicina al paniere di Tore, lo riempie con due buste e saluta con un Ne vedime, Tore. Statte buene, Giuanne, risponde il nostro vecchio amico. 4. La politica è sporca e fa male alla pelle Taranto, città vecchia, ore 6.30. Nella cesta Giovanni ha messo una grasta di cozze, una busta piena di ghiaccio e una bottiglia di bianco di Martina Franca. Il ghiaccio viene da una cassa di pesce, perché qua e là c’è qualche gambero, un paio di granchi, un pescetto sfuggito alla pesa. Il ghiaccio finisce in un secchio di plastica, il bianco dentro il ghiaccio: non sarà Alessi, ma è un signor secchiello per il bianco gelato. Un po’ più grosso, un po’ più rosso (sarà il sole d’estate), la pelle un po’ più bruciata dal sole salato, qualche segno all’angolo degli occhi: per il resto Tore è sempre lui. Gli uomini possono invecchiare, non i miti. – E ’sta uagnedde? – chiede indicando Lara. Lara non capisce neanche il suono di questo dialetto troppo duro per le sue orecchie: credo che abbia chiesto chi sei. Chi è questa ragazza, se mi ricordo qualcosa. Si chiama Lara, Tore: è la mia ragazza. Tore allarga le braccia e ci sommerge in una stretta collettiva, tutti e due: una specie di drago buono che coccola i figli di Laocoonte, invece di stritolarli. Con due braccia così, è una fortuna averlo per amico, uno come Tore. Da dove si comincia a raccontare vent’anni? Dal vino ghiacciato dei trulli martinesi, naturalmente. E dalla colazione in casa di Tore. Che non ammette discussioni. – Stai scherzando? – dice Lara stupita. – Cozze crude a quest’ora! Tore fa sì con la testa, mentre la macchina del mitile ha già preso l’avvio: cozza nella mano sinistra, coltellino ad hoc – ’a crammèdde, una specie di coltellino per il parmigiano – nella destra, leggera pressione del pollice a rompere il guscio, la punta della crammèdde entra e con un solo gesto curva a occhiello seguendo il contorno della valva e al tempo stesso separando il mitile dal guscio, la cozza viene rovesciata nell’altro semiguscio e deposta in un piatto. Il ritmo è da primato: più o meno dieci cozze al minuto, senza smettere di parlare. O meglio: di ascoltare Lara che cerca di spiegargli il rischio del colera, del tifo e di altre malattie derivanti dall’abitudine di mangiare pesce e molluschi crudi. Poi tutta la sporcizia filtrata da questi spazzini del mare che lascia residui, senza contare che… – Uagne’, m’e ste’ tremende? Ce tte crère, ca n’ ’u sacce? Lara risponde con lo sguardo perso. Tore capisce: aggie ditte… ho detto: mi hai guardato bene a me? Credi che non lo so? Attáneme… mio padre… je so fìgghie ’e nu piscature: sono figlio di pescatori, uagne’. E allora? E allora pìgghie e sende, po’ vide ce tene ’a dicere, aggiunge porgendo a Lara un guscio pieno. Io Lara non so come farla smettere, quando parte con le sue tirate. Non che abbia torto, non che non sia d’accordo: però se parte deve finire quando dice lei. Tore allunga una mano che ai suoi tempi ha impugnato diversi generi di strumenti atti a offendere o a difendersi, le porge con delicata fermezza un piccolo guscio con dentro l’oggetto di una tirata che poteva continuare da qui a domani, e la guarda sorridente con i suoi occhioni blu. La cozza dentro il guscio sembra quasi viva, sospesa a mezz’aria nella manona. Lara, lentamente, allunga la sua sottile mano bianca, prende la cozza con attenzione e la lascia scivolare in bocca. L’acqua di mare le riempie il palato come fosse vino: Lara lascia che quel sapore forte la impregni, poi con un colpo secco spezza sotto i denti il muscolo. Resta quasi immobile, poi il sorriso le si allarga piano sul volto, mentre la miscela di sale e cozza scende in gola lasciando un inatteso retrogusto amarognolo che anni di cozze adriatiche e spagnole ci avevano fatto dimenticare, e che Lara non conosceva. Si alza, si avvicina a Tore, gli sfiora le labbra con un bacio, prende un altro guscio, fa scivolare la cozza nella bocca, viene verso di me e baciandomi me la passa. Tore versa dell’altro bianco nei bicchieri. – Me’, uagneddo’: mo’ ce tene ’a dicere? – Che ti dico? Che non c’è ostrica che tenga, Tore. Mai mangiato niente di simile, – dice ridendo mentre spegne il sale con un sorso di vino che esalta la punta di amaro, sulla quale va ad appoggiarsi la cozza successiva. Tore riprende a sgusciare, riempiendo il piatto: pressione del pollice, inserzione della punta, occhiello, guscio capovolto, cozza a fiore pronta: la gioiosa macchina da guerra dei due mari. Roma, Hotel dei 4 Mori. Residenza romana del senatore Cappas, ore 13. Il senatore Cappas sfoglia con apparente interesse il fascicolo del bollettino appena consegnatogli dal suo ospite. In particolare è l’intervento del direttore del bollettino a incuriosirlo: Adeguare le regole dell’export alle esigenze della Difesa, recita il titolo. Senza punto di domanda: è una precisa richiesta. Cappas sorride osservando la leggera sottolineatura del titolo sull’indice. – Vede, dottor Pola, io le sono grato per l’attenzione e la cortesia che credo di dover ricambiare con un invito a pranzo: ma non doveva disturbarsi, né dubitare delle mie fonti di informazione. Perché al bollettino io, come è naturale, sono abbonato. Lei non può dimenticare la mia attenzione costante, in un passato non troppo recente, alle legittime esigenze del nostro sistema di difesa nazionale, e alle relative implicazioni politiche di questo tema solo in apparenza tecnico. Ed è ovvio che io segua con estremo interesse il dibattito sulle prospettive culturali della difesa nazionale anche attraverso questo e altri organi di informazione. E del resto, non hanno forse i militari in servizio nelle strutture ministeriali pieno diritto di esprimere la loro libera opinione? Il dottor Pola annuisce, soddisfatto: sembra evidente che il suo incarico di sondare il difficile terreno del senatore Cappas avrà l’esito sperato. Non che ci fosse da dubitarne, in teoria: ma la linearità non è mai stata il segno distintivo della condotta dell’emerito senatore, che solo poche settimane prima aveva annunciato il suo ritiro dalla politica attiva, la dimissione da tutte le cariche e il conseguente ritorno alla cattedra universitaria, senza apparentemente ricordarsi di non aver mai ottenuto l’incarico di docenza e la relativa cattedra: cose che possono succedere, quando si ha a che fare col senatore Cappas. – Guardi, dottor Pola, guardi qui questo pre-print del prossimo quaderno del bollettino che io ho l’onore di ricevere in anteprima. Le sarà certo presente il tema dell’allargamento della Difesa atlantica. Ecco il passo che volevo sottoporre alla sua attenzione. Oggi esistono due archi di crisi, uno orientale che dal Baltico attraverso l’Europa centrorientale e i Balcani giunge fino al Caucaso. Le altre crisi vengono dal settore meridionale, che corre lungo la fascia nordafricana attraverso il vicino Medio Oriente e si spinge al Golfo Persico. Per la Difesa atlantica l’allargamento interessa principalmente l’area dell’arco orientale. Ma è di un’importanza fondamentale anche la sfera della sicurezza euromediterranea, che deve essere in grado di esplicare la sua azione a 360°. Teniamo a sottolineare che l’allargamento deve essere condotto in maniera da accrescere la sicurezza e la stabilità dell’Europa, e non deve in alcun modo essere invece motivo di attrito. Lo dico solo perché molti presentano queste difficoltà. Il dottor Pola legge con interesse l’anteprima. Accanto, fermo in un dissimulato attenti, il generale Corvino sorride, dietro la faccia impietrita, dell’abilità con cui il senatore Cappas mette in chiaro chi ha in mano il comando, e chi è il questuante che con umiltà viene a chiedere udienza. Il cameriere compare discreto sulla soglia e attende. Il leggero cenno del senatore Cappas conferma che il pranzo può essere servito nella saletta attigua. L’odore è inconfondibile: capretto arrosto con erbe selvatiche. Il cameriere scopre l’ampio piatto in acciaio e indica con la punta del coltello il quarto di animale fumante. Il senatore Cappas prende con naturalezza il coltello dalle mani del cameriere, lo passa e ripassa alcune volte sull’affilatoio e indica all’ospite la testa del capretto: è segno di riguardo, l’offerta della testa. – Vede, senatore, quello che la nostra associazione si propone è un’azione di pressione volta alla modifica della legge 185/90 che regolamenta il commercio delle armi prodotte in Italia sul mercato estero. Lei sa bene che all’interno di questa legge vi sono vistose contraddizioni e norme illiberali, introdotte dall’area culturalmente più utopistica e massimalista del nostro Parlamento, davvero assurde: ad esempio, i limiti relativi alla vendita verso i Paesi in via di sviluppo. Il senatore Cappas continua a mangiare, con apparente scarso interesse verso il suo interlocutore. Del resto non ha bisogno della bocca per ascoltare, né delle orecchie per mangiare: quindi le due cose gli riescono alla perfezione, non senza un sottile senso di sadico compiacimento per la difficoltà con la quale il dottor Pola ha mandato giù la testina di capretto. – Prima ancora che la legge in questione, ciò che noi riteniamo si debba modificare è l’atteggiamento politico e culturale nei confronti dell’intera materia, non sottacendo la continua erosione degli spazi della nostra industria a causa di queste e altre norme infelici che vanno a congiungersi con i tagli al bilancio della Difesa, la scarsa propensione al rischio e la lentezza industriale nelle innovazioni, il carente sostegno governativo e la costante ostilità delle aree pacifiste. – Dottor Pola, la mia appartenenza all’area liberal non può che trovarmi accanto a chi intende esercitare legittime pressioni affinché il nostro Paese, come del resto ogni altro, possa adottare liberamente e come iniziativa nazionale la normativa più intelligente. Converrà con me che a questo scopo è basilare un mutamento degli attuali orientamenti politici. In un diverso e più disteso clima, credo che il vostro studio sulle politiche dell’esportazione possa trovare non solo ascolto, ma anche accoglienza in un gruppo interministeriale che potrebbe venire a costituirsi allo scopo di monitorare le leggi e le norme in vigore, per poterle poi, se è il caso, modificare. – In altri termini, senatore, lei sta pensando… – In altri termini, dottore, – conclude il senatore Cappas pulendo il piatto con un pezzo di pane, – sto parlando di un’attività di lobbing. Lei lo sa che in America il termine lobby è del tutto privo di quelle connotazioni segrete e del sapore vagamente massonico che ha acquisito qui da noi? Ore 15. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso. All’altro capo: studio notarile Fratelli Zanni. – Parlo col notaio Zanni? – Il colloquio ha avuto l’esito sperato? – Sì. Avremo l’appoggio del senatore. – Che impressione le ha fatto, dottor Pola? Le è sembrato convinto, o potrebbe trattarsi solo di un favore in qualche modo dovuto? – Guardi, notaio, dovuto direi proprio di no: non mi pare che qualcuno possa far compiere al senatore qualcosa di, come dire, poco gradito… No, mi è sembrato convinto dell’utilità della costituzione del nostro gruppo di pressione. Piuttosto… ho l’impressione che il senatore avesse in mente un disegno politico senz’altro compatibile col nostro intento, ma di più ampie proporzioni. – Il senatore ha sempre in mente più ampi disegni, a prescindere. Quantomeno, è la valutazione del nostro amico Costante sul senatore. – Bene, caro notaio: non manchi di salutarmelo, quando le inoltrerà il report del nostro incontro. Il notaio Zanni resta interdetto, dopo aver chiuso la comunicazione: ha detto quando, non se. Pola dà per scontato che questa telefonata sarà immediatamente girata a Lucca. Come portavoce della lobby sembra sveglio, questo Pola. Invio: da telefono mobile schermato su autovettura privata. All’altro capo: telefono cellulare clonato con scheda estera. Beta: – Allora? – Direi che il livello di interesse previsto è stato confermato dai fatti. Beta: – Il senatore? – È interessato. E fa bene. Il progetto è convincente, il gruppo sembra avere molte frecce nella faretra. Andrebbero avanti comunque, anche se il senatore avesse declinato la sponsorizzazione politica. Beta: – Allora può procedere con la seconda parte del nostro piccolo progetto, generale: combini senz’altro l’incontro dell’uomo del gruppo di pressione con l’amico americano. – Crede che abbia interesse? Beta: – Oh, senz’altro. E non solo per il cartello di produttori che rappresenta: conoscendolo, giocherà a tre sponde, e sfrutterà il rapporto col gruppo di pressione per arrivare a Cappas. – E noi? Beta: – E noi, generale, siamo curiosi di sapere se il senatore vuole incontrare l’amico americano o no. – Bene. Bene? Il generale Corvino resta soprappensiero, perché al generale Corvino il senatore Cappas continua a non piacere. E anche quel noi siamo estremamente curiosi usato da Beta non gli è piaciuto: il noi, in particolare. L’incontro con l’inviato di nome Michael sembra aver dato al tono di voce di Beta una spolverata di entusiasmo che lo insospettisce. Vedremo, conclude il generale Corvino posando la cornetta. Il leggero tocco sul vetro isolante segnala all’autista che la macchina può avviarsi. Il generale Corvino si sfila piano i guanti d’ordinanza che aveva indossato per telefonare. Usa sempre i guanti con i telefoni, il generale Corvino. Ha una istintiva diffidenza per i ricettacoli di germi: e una cornetta telefonica spesso lo è. Soprattutto se usata per certi scopi: «La politica è sporca e fa male alla pelle», diceva qualcuno. Ecco perché il generale Corvino usa i guanti: per non sporcarsi le mani, mai. Lucca, studio notarile Fratelli Zanni. Invio: da telefono fisso a telefono cellulare. All’altro capo: casa circondariale di Lucca. Il vibracall segnala una chiamata in entrata. Il detenuto Francesco Costante estrae il telefono dalla tasca, legge il numero sul display e preme l’Ok. – Com’è andata, Zanni? – Bene, a quanto sembra. – Cos’altro? – Be’… interessante, direi. Ti leggo dall’appunto che ho preso mentre parlavo con Pola: «Ho l’impressione che il senatore avesse in mente un disegno politico senz’altro compatibile col nostro intento, ma di più ampie proporzioni». Tipico, vero? – Tipico, certo. Cappas ha sempre in mente un più ampio disegno. – È quello che ho detto anch’io. – Sì, Zanni: per lui ogni oggetto deve essere parte di un insieme, che deve far parte di un altro insieme, che dev’essere incluso in un ancor più vasto insieme, e così all’infinito. Cappas soffre di una sorta di incapacità di limitare il processo di inclusione. Il che ha senso nel mondo dei sogni, della matematica e dell’inconscio: nella vita reale l’incapacità di porre un limite al processo può creare qualche problema. E siccome il senatore non è un paranoico, più che vedere più vasti disegni là dove non ne esistono, si preoccupa di inventarli. – Ha uno spirito creativo… – Ha uno spirito dionisiaco, Zanni: il punto è che Cappas i più ampi disegni li crea per il gusto di distruggerli con le proprie mani. La gente normale si accontenta dei castelli di carte, lui no! – Forse ha avuto un’infanzia difficile… – Non credo proprio, Zanni: gli dev’essere talmente piaciuta che non ne è più uscito. Guarda come siamo ridotti noi adulti grandi, seri e vaccinati, costretti a girare attorno a un eterno fanciullo… Francesco Costante ripone il cellulare nella tasca dei calzoni e riflette. Proprio così: uno spirito fanciullesco. Tranne che per l’ingenuità: al suo posto montano la guardia ringhiando secoli di sospettosa saggezza insulare. Altri tempi, quando del giovane ministro Cappas si poteva giustamente dire che ha bisogno di essere guidato, per rendere bene nei suoi compiti. Ma appunto, erano altri tempi, conclude il detenuto Francesco Costante rimettendo il fascicolo, da cui ha riletto l’appunto, al suo posto: nel suo piccolo archivio. Taranto, città vecchia, ore 16. Ecco, la bellezza di quando non solo gli ideali erano più ideali e i valori avevano più valore, ma anche – soprattutto!, urlano i miei muscoli lombari – quando i divani erano più divani. Quello di Tore dev’essere lo stesso che c’era nella sezione di Lotta continua, e forse vent’anni fa era anche comodo. Vent’anni fa pure la mia schiena era più abituata a dormire in sacco a pelo sotto i ponti. Adesso mi devo tirare su a scatti, con una fitta dolorosa che sottolinea ogni movimento. Andrea è seduto sulla sedia all’incontrario, appoggiato alla spalliera. Dal tinello viene un odore celestiale: Tore, finita la militanza, si è dato alla cucina, qualcuno ce l’aveva anche detto, era stato nel suo locale, quando ne aveva uno, vai a ricordarti chi: ma aveva ragione, da quel che sento. – Lara? – chiedo sbadigliando ad Andrea. – Si è svegliata mezz’ora fa. È in quella stanza, a fare strani movimenti. Mi sciolgo un po’ i muscoli, ha detto. Apro la porta. La camera è nella semioscurità. È vero: Lara fa strani movimenti, soprattutto con le gambe. Ben svegliato, baby, mi dice senza voltarsi, flettendo in avanti la gamba destra. Cosa fai?, le chiedo. Un po’ di stretching, giusto per non impigrirmi, visto che oggi non credo che andrò in palestra. Mi mancava la palestra. E questo fisico da urlo come credi che lo mantenga in forma, baby? Non basta la natura, ci vuole esercizio: vado da un maestro thai, non te l’avevo detto? No, non me l’avevi detto, ma non è importante. È importante, invece: dovresti venirci anche tu, per un po’, così quella pancetta sparisce e diventi più carino. Se divento più carino poi magari c’è più di una donna sulla faccia della Terra che mi trova interessante, e a te non conviene, Lara. Rotazione su un piede, ginocchio in su, piede a terra, stop: finisce l’esercizio, mi allunga la mano dietro i capelli, e mi regala il suo classico fottiti, stronzetto. – Allora, tenete fame o no? – irrompe Tore. – Mmm, che odorino, – commenta Lara alla prima pentola che arriva in tavola. – Aspetta, che ti prendo il sottopentola, se mi dici dove… Tore poggia la pentola bollente sul tavolo in legno, guarda Lara: che tieni da prendere, uagneddo’? Niente, risponde Lara scuotendo la testa. Cosa ci hai preparato? Cozze a puppitègne, dice con fierezza Tore sollevando il coperchio e versando in ogni piatto una mestolata di cozze fumanti. – Si cacciano nella pentola con olio, petrosino, pepe, un bicchiere di bianco e due pomodorini inserti, – dice indicando alle sue spalle un lungo grappolo di pomodorini cuciti l’uno sull’altro e appesi alla parere, – e si fanno aprire sul fuoco. Le puèppete sono i contadini, quelli che vengono dalla campagna, che non sanno aprire le cozze a mano e le aprono sul fuoco. Calde, fumanti, sono saporitissime, soprattutto per il profumo che promana dalla pentola e avvolge l’intera tavolata. Finite in un baleno, Tore va a prendere una pentola più piccola e ci intima di cacciare via i gusci dai piatti. Nella pentola piccola c’è del riso in bianco: Tore lo butta nella pentola delle cozze e con due rapide rimestate lo amalgama, poi col mestolo ci serve questa specie di pastone. L’acqua di cottura delle cozze viene assorbita dal riso, che ne prende il sapore e l’aroma: una specie di pentola dell’abbondanza, che Tore rafforza macinandosi un’abbondante porzione di pepe sul piatto. Poi, davanti a Lara che stava per chiedere una posata (perché Tore non ne ha messe a tavola), ci fa vedere come usare i gusci come cucchiai per tirare su il riso. Dopo un attimo di esitazione siamo tutti d’accordo con Tore, che dice: non è che non ne tengo do’ cucchiare a’ casa méja: jé ca accussì songhe cchiù bone. Proprio così: il guscio mantiene caldo il riso e le cozze sollevati dal piatto, li accompagna alla bocca aggiungendo il suo profumo al loro. Da sotto il tavolo ricompare il secchio col ghiaccio, pieno di bottiglie di birra, canadesi a collo lungo. Birra Raffo: locale, leggera, da bere ghiacciatissima. Ci sono poche birre che, in certe occasioni, scendono meglio: come scopre Lara, la patita delle birre aromatiche e robuste, lasciando scivolare in gola questa birretta senza fronzoli. Finite le cozze col riso, Tore comincia a tagliare ampi spicchi da un auricchio piccante. Hors d’ouevre, plat du jour, dessert: un pranzo da signori, condito dalla biografia romanzata di Tore che a Lara mancava. – Quella volta, a Reggio Calabria, alla manifestazione nazionale per il Sud: ie steve jintre’a l’operaie dell’Italsider. Centomila, centocinquantamila: non n’u sacce, non lo so: eravamo assaje, assaje proprie. E le fasciste dai vicoli ne sfottevene a nuje: tiravano pietre, bottiglie, bulloni. Be’, a un certo punto ho detto: mo’, avàste! Tenevamo attorno il servizio d’ordine nazionale del sindacato, per non farci uscire dal corteo. Ma a me mi aveva imparato una specie di arte marziale un maestro vietnamita, adesso me la sono dimenticata, ma allora la sapevo fare bene. Ho sfondato il cordone di forza, stavano quattro fascisti dentro un vicolo e io mi butto appresso a loro: uno è scappato così veloce che non l’ho più visto, gli altri no. Alla fine sono venuto dal vicolo che mi stavo pulendo le mani, con gli operai dell’Italsider che mi facevano l’applauso. – Wow! Sembra una scena da western, il cow-boy buono che esce dal saloon dopo aver picchiato i cattivi con le porte che gli sbattono alle spalle! Ha proprio ragione, Lara: è un western. La vita di Tore è stata un western, i buoni di qua, i cattivi di là, e lui non aveva dubbi su quale fosse la parte giusta. Una bella vita, la sua.Bella abbastanza da farci un film. – A proposito: e Ferodo? – Andato, – risponde Andrea.– Ha un amico da queste parti, dice che il lavoro di ricerca iniziato a Bologna lo può fare da qui, torna entro due giorni con tutto quello che ci serve. – Cosa vuol dire: tutto quel che ci serve? – Vuol dire che se vuoi la foto della comunione del bambino di uno di quelli che stiamo cercando, e quella foto è nel suo computer, Ferodo te la porta. – Ha amici anche lui, qui? Non ne aveva fatto parola. – Non puoi mai sapere quanti amici ha, né dove li ha, Ferodo: tra di loro si conoscono quasi tutti per nickname, si tengono in contatto sul Web, si incontrano alle convention, quasi sempre senza pubblicizzarle. Quando serve, basta lanciare un appello in Rete: evidentemente un hacker tarantino ha risposto. Oh, già che sei lì, mi passi un altro pezzo di formaggio? Grazie, no, Tore, il salamino piccante no, niente carne rossa per me. – E noi come restiamo, Andrea? – Restiamo che Tore ci ospita qui. Il suo coinquilino si è trasferito da altri amici per farci posto, in quattro ci stiamo. Stasera ce la prendiamo comoda, ci facciamo un giro per la città accompagnati da Tore, tanto gli orari sono andati a farsi benedire. Domani ci dividiamo: io e Tore saremo via a fare una ricerca su alcune cose, compresa la famosa nave. Voi vi prendete una giornata di vacanza. – Vacanza? In che senso? – Sei a Taranto, no? Porti la morosa al mare! – Scusa, Andrea, ma senza la macchina di Ferodo come ci muoviamo? – Io mi muovo con Tore, sul sidecar del suo Vespone. – E noi? – chiede Lara.– Io non prendo gli autobus. Troppa gente, tutti sudati, e c’è sempre qualcuno che ti mette la mano sul culo.Scommetto che anche qui a Taranto ci sono i porci sugli autobus. – E vuje, – sorride Tore, – vu’ tenite ’na sorpresa. Faccio un caffè per tutti, poi scendiamo e la vediamo. – Allora? – dice Lara appena scesa in strada. L’aria è più calda e appiccicosa, c’è pochissima gente a quest’ora. La strada sembra quasi bagnata, le moto dei ragazzini sfrecciano su una o due ruote. Giriamo l’isolato, dietro il vicoletto che dà sulla Marina si apre un piccolo spiazzo. Tore solleva una saracinesca che chiude un locale unico: il suo garage, più o meno. Porta fuori a braccia, con apparente facilità, un Vespone con sidecar rosso fiammante, sposta un paio di pile di casse e indica una forma d’automobile coperta da un telo grigio. Mi guarda e sorride. Un pensiero mi passa per la testa: ma naturalmente non può essere. Tore comincia a riavvolgere il telo con calma. Scopre piano l’automezzo. Continuo a dirmi che non può essere. Non può essere una vecchia Due cavalli granata e nera che più di vent’anni fa tirò le cuoia proprio su queste strade, dopo aver fatto più di quanto fosse giusto chiederle. La vecchia Due cavalli con cui andavamo ad attaccare manifesti, che caricava e scaricava materiale di ogni tipo ai concerti, alle manifestazioni, ai presidi. La Due cavalli su cui ho imparato a guidare, nella quale facevo l’amore, che io e Cristiano ci passavamo di mano a sere alterne. Tore finisce di scoprire la mia vecchia Due cavalli: lucida come uno specchio, persino tirata a cera. Apre lo sportello, si siede dentro, gira la chiave. Non parte, non può partire. Tore scuote la testa, secondo tentativo: in moto. Il motore tossisce con regolarità impressionante.Deve avere le valvole nuove, a giudicare dal suono. L’avevamo lasciata quaggiù per farla rottamare, questo lo ricordo bene. Avevamo restituito targa e libretto, anche questo me lo ricordo bene. E allora? – E allora dopo due anni n’ame ditte: uagliu’, l’avim’a aggiusta’! Ci abbiamo messo le mani, io e un paio di compagni che con i motori sono anche più meglio di me. Abbiamo sistemato le cose con l’immatricolazione, abbiamo fatto fare i documenti da ’nu uagliune ca tene certe mane… Insomma, eccola qua. – Fammi capire, Tore: targa e documenti sono taroccati? Fa segno con la testa, come a dire: be’, sì, che problema c’è? – E tu ci vai in giro, con questa? Di nuovo mi guarda stupito: be’, sì, che problema c’è? – Tore: se ti fermano? Sorride. Scrolla le spalle. Se mi fermano? Io non tengo manco la patente, ce me vonn’acchíare, ’u sé ce me ne futt’a mme dell’immatricolazione… Già: non ha la patente. Tore è andato a Barcellona in moto senza patente: perché doveva preoccuparsi dell’immatricolazione? 5. Dado scala tenaglia pozzo Bologna, bar Prezioso, piazza Galileo Galilei, ore 19.30. Ciao, Clerico. Ehi, Valle, ciao, siedi qui, come ti butta? Mah, è un periodo un po’ così, non è che ci stia capendo molto. Cosa c’è, Valle? Aspetta, hai smontato, vero? Allora prendi l’aperitivo con noi, dài, ora che hai imparato a socializzare… Preferisci ordinare, o faccio io? Mah, non so… un Americano rosso, magari, però anche con un tramezzino, sennò mi fa un buco nello stomaco, che ho saltato il pranzo. Benissimo, due Campari, un Americano rosso, un tramezzino e quella pizzetta scaldata a spicchi.Allora, Valle, cos’è che ti tormenta? Cosa vuoi che sia? C’è un’inchiesta in corso per la storia del Livello 57, c’è quella storia di Vannini che nessuno ci ha spiegato: ti pare che non ci sia da preoccuparsi? L’agente Ivano Clerico si alza a prendere il vassoio, fa segno di mettere sul suo conto e serve i colleghi.Ascolta uno più anziano di te, Valle, dice facendo cin col Campari sull’Americano rosso. Primo, ti sei trovato in mezzo in uno scontro tra vasi di ferro, non è colpa tua, e se proprio devo dirtela tutta c’entra anche un po’ di nonnismo, perché Vannini ha un brutto carattere, questo lo sappiamo, quindi noi nonni, se possiamo, in coppia con lui cerchiamo di non andarci, e tu eri il pivello appena arrivato, e comunque è anche vero che Vannini è una buona scuola: dura, ma buona, e infatti sei un ottimo agente, questo lo dicono tutti qui dentro, però Valente e Vannini non si sono mai presi, e forse Vannini ci ha messo del suo per il carattere che ha. Ma non si può spaccare in due la questura, Valle, e se io devo schierarmi, mi schiero dalla parte di Valente per una semplice questione di ordine gerarchico: però tu in tutto questo non c’entri, e non devono tirarti dentro; secondo, Vannini non ha ricevuto provvedimenti disciplinari, per noi, ne abbiamo parlato, per noi sono stati corretti, non potevano fare altrimenti: col tossico ha esagerato, il referto medico non è uno scherzo, è che Andrea certe cose a noi le ha sempre rinfacciate, e adesso che le fa lui, si fa beccare con le mani nella marmellata: vuol dire che era stressato, forse gli fa bene starsene alla larga in attesa che le acque si calmino. Però tu sei qui a discuterne con i colleghi, lui balla da solo come sempre: è una questione di stile, e anche di cameratismo, perché qui dentro da soli siamo ciascuno un dito, Valle, è quando siamo uniti che siamo un pugno, e questo Vannini non l’ha mai capito (pausa: sorso di Campari, fettina di limone). Guarda che mi dispiace, Vannini è e resta un elemento al di sopra della media per capacità e intelligenza; terzo, la storia del Livello: se vuoi ne riparliamo, non qui dentro, tra amici ma senza pubblico, quando vuoi. Però noi apprezziamo che tu ti sia comportato bene, anche se sei rimasto fuori e non eri tenuto a farlo, diciamo che era una specie di banco di prova, e ci fa piacere che tu lo abbia superato. Sandro Valle gioca con i cubetti di ghiaccio nel bicchiere quadrato, facendoli ruotare con apparente distrazione. Fingere un tic aiuta a distogliere l’attenzione, soprattutto quando ti puntano i fari addosso per osservarti meglio e credono che tu non te ne sia accorto. Un piccolo, insignificante tic: una di quelle robe da manuale, in certe situazioni tutti devono avere un tic, un dito passato sul bordo del bicchiere, una sigaretta, il ciuffo dei capelli. Fagli credere che sei nervoso, simula apprensione: non si accorgeranno dei tuoi fari puntati su di loro. L’agente Valle è un ottimo elemento: soprattutto nell’applicare gli insegnamenti dell’ispettore Vannini. – Ascolta, Valle, io e Aldo andiamo, abbiamo una cosa da fare. Tu continua a farti vedere qui al bar, dopo il servizio. Magari una sera si va a prendere una pizza insieme, – dice Ivano Clerico stringendogli la spalla. – Perché no? – risponde Sandro ricambiando la stretta. Ivano Clerico e Aldo Petrone si alzano, indossano gli occhiali scuri ed escono dal bar. Qualche altro avventore si sposta dai tavoli al bancone, esce, va verso le macchinette: crea spazio. Si apre uno squarcio visuale tra Sandro Valle e il banco del bar. All’interno dello squarcio: Chiara Zanotti. Bologna, rione Santa Rita, ore 20.15. Clerico e Petrone parcheggiano davanti al parrocchiale: piuttosto lontano, ma è meglio così. Scendono dalla macchina. Petrone estrae una busta chiusa da sotto il sedile e la mette nella tasca del giubbotto. Anche Clerico ha il giubbotto chiuso, i pugni in tasca, gli occhiali scuri. E scarpe pesanti. Si avviano in silenzio, sul lato destro di via Massarenti, verso il bar più lontano: li vedranno arrivare a piedi, non identificheranno la macchina. – Chi ha il mazzo in mano, adesso? – Un gruppetto del quartiere. Si muovono tra la teppa del rione, quelli che vengono dai paesini, e tengono a bada gli albanesi. Piuttosto bravi: niente casini, niente pistole. Quello che succede resta chiuso tra qui e il grattacielo, non arriva alla stampa. – Dentro il gruppetto chi comanda? – Due fratelli. Il terzo, il maggiore, è alla Dozza da due anni per accoltellamento. – Quarti di nobiltà. – Proprio così. – E tu? – Io ho in pugno il minore: è uno dei miei informatori, io gli faccio sapere se ci sono problemi in arrivo, e se serve gli tolgo dai piedi un concorrente straniero di troppo. Arrivano davanti al bar: tipico bar della teppa di periferia. Petrone resta fuori a fumare, Clerico entra senza togliersi gli occhiali. Punta dritto al biliardo: le stecche si bloccano, le palle in movimento sfuggono alla vista dei giocatori. Quello senza stecca si sgancia dalla parete e fa cenno con la testa. Clerico gli indica il bagno. Parlano poco, sottovoce. Gli altri tornano a giocare. Clerico apre la busta bianca. Il ragazzo prende il pacchetto all’interno e lo infila in tasca. Clerico intasca la busta vuota. Clerico prende le sigarette, ne accende una e offre al ragazzo, che accende dalla sigaretta di Clerico. Il ragazzo fa segno di aspettare: torna nella sala, gira dietro gli amici e lascia che qualcosa gli venga fatto scivolare in mano. Torna in bagno: passaggio di consegne con Clerico. Clerico scosta leggermente gli occhiali per guardare meglio. Peruviana, risponde il ragazzo. Poca ma buona. Escono dal bagno. Il ragazzo torna alla parete. Clerico esce senza guardare. Supera Petrone senza fermarsi. Petrone gli va dietro. Attraversano la strada e tornano alla macchina dall’altro lato: meglio non rifare lo stesso tratto, non si sa mai. – Allora? – chiede Petrone dopo aver messo in moto. – Il pacco è stato consegnato. Ci pensano loro a farlo avere al destinatario, nessun problema. Taranto, bar Via col vento, città vecchia, ore 22.30. Zia Rosaria ci passa le Raffo: gelatissime, al limite della formazione di cristalli all’interno. Giù a sorsate: questo caldo è insopportabile, mi sembra di avere i vestiti incollati addosso. Il famoso scirocco tarantino, in qualunque stagione soffi porta sempre con sé umidità. Lui va via, lei resta: nella schiena. Poi è anche vero che sono cinque ore che andiamo a zonzo, tra la parte storica del centro – il Borgo – e la città vecchia. Dal lungomare con le palme siamo risaliti al vecchio rione operaio dov’erano le sedi politiche, povero e sporco come allora, forse più, storicamente a ridosso del pomposo e borghese centro del Borgo: a un certo punto c’è un’invisibile linea che segna la separazione tra le due zone, una frontiera con un di qua e un di là. Di qua le case popolari, le bottegucce nelle quali spesso non è chiaro quale sia il genere commerciale prevalente, le merci esposte all’aria, i bambini seminudi, le sale da gioco con i calcetti Balilla, il cinema porno. Poi, all’improvviso, i palazzi signorili, decorati, solidi e imponenti, rassicuranti. Le vetrine, i vestiti, le scarpe, le borse: senza apparente soluzione di continuità – però c’è, si intuisce. La pizzeria dove compravamo maritozzi giganteschi c’è ancora, la prima radio costruita con una scatola Radio Elettra doveva essere in una di queste palazzine, la sezione fascista dalla quale rubammo la bandiera tricolore, con Cristiano che correva via e i panarìedde che gli gridavano dietro Italia-Italia: eccetera. Le due piazze del centro, quella con l’orribile monumento ai caduti, ma ti ricordi che volevi dipingerlo di rosa in una notte? No, io avrei pensato una stronzata del genere? Mica solo quella, ti ricordi di quando non riuscimmo a organizzare qualcosa per impedire il comizio fascista e tu arrivasti con due scatole di fialette puzzolenti? Sì che me lo ricordo.E l’altra piazza, quella con gli alberi e il verde, e lo zio Pink… Chi era lo zio Pink? Zio Pink era un albero, stava proprio lì, e in primavera esplodeva in un’incredibile fioritura di color rosa: lo zio Pink che non c’è più, chi ha ucciso lo zio Pink? E l’edicola di Fucci, dentro l’atrio di un portone del centro come tutte le vecchie edicole, dove si leggevano i giornali e si discuteva di politica, Luigi Fucci, il vecchio rivoluzionario che vendeva i giornali e partecipava alle processioni della Settimana aanta, e il vecchio Marche Polle che passava e ti chiedeva sempre ’A vué ’na buste, la vuoi una busta, anche quando la busta non era più l’involucro con dentro tre numeri del Lotto ma il biglietto della lotteria o ’a Sisale, la schedina del Totocalcio precompilata, ’A vué ’a Sisale, una vita con indosso un impermeabile più grande e un berretto sghembo… Poi di nuovo la città vecchia con le sue strade in pietra, i balconcini e le facciate medioevali, i tubi Innocenti che arrugginiscono nelle impalcature tra casa e casa, le porte e le finestre murate delle case morte e i palazzotti barocchi, e le chiese, la cattedrale austera e barocca al tempo stesso, e San Domenico con la sua scalinata dalla quale si snoda il lungo serpente dell’Addolorata, che la notte del Venerdì santo esce col cuore in mano alla ricerca del figlio perduto, le statue con i simboli del dolore del Sacro cuore: il dado delle vesti tirate a sorte, la scala della crocifissione, la tenaglia che leva i chiodi. E tu, Taranto, cosa sei adesso: dado, scala, tenaglia? Il getto del destino che deve ancora compiersi o il cinismo della spartizione dei resti? La scala per salire o quella per deporre? La tenaglia del carnefice, o l’attrezzo dell’artiere? O pozzo, il pozzo nel quale viene calato il corpo del Cristo morto? O il fondo dal quale capisci quanto alta è l’acqua che ti sovrasta, sul quale punti i piedi per darti la spinta verso l’alto? – No, non era questa la città dei nostri vent’anni, credimi, Lara, lo toccavi con mano che le cose potevano mutare, c’era una gioia, una voglia di cambiare che non ho visto oggi. È così dappertutto, perché dovrebbe essere diverso? – Piccè, acquá, – sospira Tore,– qua stiamo su un’isola e ’mbrà le còzze, stiamo tra le cozze. Siamo chiusi come i gusci delle cozze, isole su un’isola: è la testa nostra, se poteva cambiare cambiava. Ma forse non può. No, Tore, lo interrompe Andrea, guarda che sei troppo duro con te e con la tua città. Anche quest’isola è stata costruita dagli uomini, è stato scavato il canale navigabile, me lo spiegavi proprio tu, poi è stato edificato il ponte, e l’isola non è più un’isola per opera degli stessi tarantini. L’uomo crea la natura, l’uomo la può cambiare. ’Na vóta, dice Tore, ’na vóta , quando ci stava più entusiasmo: quando usciva fuori il tarantino spontaneo, schietto e popolare, sfottente: qua sfúttimm’a tutte e no’ prendiamo sul serio nijnde, e una volta sfottevamo anche ai padroni, e sfottevamo la miseria. Ma mo’, se vado e dico a ’ste uagliune che le cose possono cambiare mi sento dire: no’ me ne fútte níjnde, oppure ce m’a face fá, chi me la fa fare. Il lavoro non ci sta più, l’Italsider è finita, e per lavorare devi essere amico di questo e quello. E le uagliune ce fanne? S’iscrivono a’ cooperativa ca face fatijá, che ti dà lavoro, non importa di chi è: magari alla cooperativa amica a quidde varvascione de Giancarlo Ceffo. ’U bosse politiche. Giancarlo Ceffo: la star, o l’ex star, della politica locale. Un fascista da lunga data che vantava la sua cintura nera di karate e la sua forza fisica, ma si dice avesse picchiato solo dei ragazzini all’uscita dalla scuola: davanti a Mustaki è sempre scappato, il Ceffo. Anche quella volta che lo andò a minacciare armato di pistola davanti alla sede di Lotta continua, e Mustaki si precipitò fuori con in mano un piccone che, dopo averlo inseguito e raggiunto, conficcò sul cofano della macchina nella quale Ceffo si era rifugiato, terrorizzato. Poi è arrivata la politica degli sceriffi: gli anni Novanta a Taranto. – Qua c’è stata una guerra, una guerra brutta che non l’ha raccontata nisciune: centocinquanta morti all’anno, qua. I fratelli minori del Messicano che fanno saltare in aria la madre per dichiarare la guerra al fratello grande: col tritolo. La miseria, l’eroina, la guerra, e Ceffo che con la sua televisione si ricostruisce una reputazione da Peron dei due mari, mentre il denaro sporco dello spaccio e quello ripulito delle lavanderie calabresi scorrono a fiumi nelle finanziarie, nei negozi in centro aperti in leasing, nei ristoranti con i prezzi sempre più alti. Butta giù una Raffo intera con una sola sorsata. Però, aggiunge Tore sollevando il sopracciglio, però ci stanno anche dei ragazzi che ricominciano a s’arrajarse, che cominciano a svegliarsi… Siamo fatti così, a Taranto: senza mezze misure. Rosa’: vide ce ne face quàtte panine co ’e purpètte a me e all’amiche mije, ca tenghe ’na lópa. – Cos’ha chiesto? – chiede Lara osservando i gesti strani di zia Rosaria, che apre uno degli scomparti del bancone e invece di tirar fuori una bottiglia cala giù un mestolo e lo ritira pieno di sugo. – Specialità locale, Lara. Panini con le polpette al sugo. – Polpette? Che polpette? – Purpètte de cavàdde, – risponde Tore. Di cavallo. – No, scusa, Tore, perché secondo te io mangio il cavallo? Accidenti, che abitudini che avete, io non mangio carne rossa e… Dura poco la tirata di Lara: tra due estremismi, quello vegetariano di Lara (ma lo sai quanto sono intelligenti i cavalli? Vabbuo’, allora le facciamo con il nostro sindaco le polpette? Fottiti, stronzetto!) e quello tradizionalista di Tore (Stai venendo da Bologna per levarmi a me le polpette al sugo di zia Rosaria?), il ragionevole livello di mediazione politica è raggiunto attraverso un ampio pezzo di auricchio, al quale zia Rosaria con incredibile pazienza aggiunge un pomodoro tagliato a fette, chiuso dentro un panino bianco: e la discussione sulla natura insulare dei tarantini, sulla continua oscillazione tra un estremo e l’altro può continuare a pancia piena, sino alle friselle col pomodoro di mezzanotte. 12 settembre, Taranto, città vecchia, ore 8.30. Tore e Andrea escono salutando. Sul tavolo hanno lasciato il bricco del caffè, lo stradario di Taranto, una cartina provinciale, chiavi e documenti della Due cavalli: tutto quello di cui ho bisogno per una giornata al mare. Da Ferodo non aspettiamo notizie: ha detto domani, e domani sarà. Bevo la prima tazza di caffè con la schiena dolente per le molle d’epoca, osservando la bianca lunghezza del corpo di Lara fasciata dai raggi di luce filtrati dalle persiane che ne elencano i muscoli, le costole, gli arti scomposti e pendenti dal letto. Nessun segno d’abbronzatura. Il gocciolio del rubinetto nel bricco di metallo mima il passare del tempo. Cos’altro è la bellezza, se non questi momenti in cui il mondo resta fuori dalla luce che invade il buio della stanza, dalla porta che respinge l’affannarsi delle vite indaffarate e delle urgenze che eguagliano uomini e cose? Questo senso d’immobilità violato dal ritmico ploc ploc dell’acqua sul metallo che dice che un altro tempo è possibile, un tempo nel quale le urla del negozio umano sono attutite dallo spessore antico delle mura? Nel quale i sapori della povertà che abbiamo gustato si ripropongono grati al ricordo, e la miseria diventa gioia di vivere ogni istante senza pensare al successivo? Prima o poi la vita riprenderà i suoi diritti su questo momento di luce: adesso però tutto è perfetto. Il giro di Tore e Andrea comincia dai piccoli contrabbandieri di sigarette. Tavolini costruiti con due cassette di legno, sigarette americane originali: un buon posto di lavoro. Tore è conosciuto, nessuno si stupisce del suo passare da un venditore all’altro. Andrea, dal sidecar, osserva i brevi scambi di battute in un dialetto strettissimo, consonantico, incomprensibile. L’ultima indicazione è buona. Tore si allontana dalla città vecchia, si sposta nel rione Tamburi, chiede di qualcuno: gli dicono di aspettare. Arriva in cinque minuti. Si appartano, discutono. Tore viene via. Il suo interlocutore estrae un telefonino dalla tasca: la cosa non sfugge ad Andrea. Nuova inversione: pieno di benzina, e via per la litoranea. Un lungo stradone, una pescheria: qualcuno sta aspettando Tore. La discussione dura parecchio, ci sono telefonate nel mezzo. Una stretta di mano segna la conclusione dell’incontro. Si riparte. Alla fine approdano a Gandoli. Due uomini aspettano davanti alla sala giochi: uno resta a custodia della moto, l’altro carica Tore e Andrea sull’Alfetta e si infila nelle stradine, verso una villa. Sul tetto della villa due uomini osservano: un terzo apre il cancello e fa strada all’interno. Andrea resta fuori. Accompagnato, Tore è atteso all’interno. Pochi minuti: Tore esce, l’espressione del volto è diventata scura. Sono ricondotti alla sala giochi. Tore entra nel bar e prende due birre piccole. Sguardo interrogativo di Andrea. – È venuta. – Cos’hai saputo? – Due notti fa c’è stato un arrivo. Con due gommoni. Hanno portato un carico a riva. Non è contrabbando: hanno chiesto ai contrabbandieri di stare lontani, hanno pagato bene, ma non hanno voluto uomini né barche. Hanno fatto tutto loro. Non erano sigarette, né droga. – Possibile un altro ramo della sacra corona? – No. È qualcuno che può chiedere un favore del genere alla sacra corona. Alla pari. – Dove hanno portato il carico? Tore scuote la testa: ’u vulìsse sape’ pur’íje… Capo San Vito (Taranto), ore 13.20. Il mare e il sole mettono fame, soprattutto se il sole picchia così forte: torniamo indietro e ci infiliamo con la Due cavalli nelle stradine di San Vito. Programma: un piatto di pasta con le cozze, un paio di birre da portar via e si torna a mare. Tore dice che il posto c’è ancora, seguo la cartina e in effetti è qui. L’insegna dice: «Ci t’è muerte». – Cosa vuol dire? – Più o meno l’equivalente del romano «Li mortacci tua». – Mmm… posto accogliente. Dici che si mangia bene? – Io mi ricordo di sì, Tore conferma: rischiamo? – Rischiamo, – dice Lara entrando per prima nello stanzone con i tavolacci in legno. Ci sediamo e diamo un’occhiata alla carta: smilza, ma invitante. Forse dovrei avvertire Lara che qui c’è l’abitudine di scherzare pesantemente, ma non faccio in tempo: il ragazzo con il foglietto delle ordinazioni è già qui. – Cosa prendiamo, signori? Ci sono i tubetti con le cozze freschissime, tubetti per due? Tubetti per due, confermo mentre il ragazzo ha già segnato sulla tovaglia di carta. Due antipasti per aspettare? Un secondo? Lumache, fegatelli alla brace, due cazzetti degli angeli? – Cosa sono i cazzetti degli angeli? – mi chiede Lara. Piccole salsicce grandi quanto un dito. No, grazie, per me niente cazzetti. – La signora non gradisce i cazzetti? Non si direbbe proprio! Vuole provare allora con i saltimbocca, signora? Ecco, è di questo che dovevo avvertirla. Come se Lara si lasciasse smontare da una battuta. – No, credo che li abbiate finiti, i saltimbocca. Il cameriere resta interdetto: finiti? No, non credo. E sì, risponde seria Lara: ho appena visto uscire tua sorella, deve averli presi tutti quanti lei. Il cameriere abbozza, sorride e contratta un piatto misto grigliato: cazzetti e fegatelli, poi ce li spartiamo io e Lara. Due tavoli più in là, due uomini aspettano il loro turno. Uno dei due, col giubbotto da marinaio e il pizzetto nero, ha seguito lo scambio di battute, ha sorriso e ora dice a voce bassa qualcosa al suo amico. L’altro ascolta, e alla fine ride. Si accorge di essere osservato, si volta verso di noi e saluta. – Mi scusi, – dice a Lara l’uomo col pizzetto. – Il mio amico è francese, gli ho tradotto il dialogo che avete avuto col cameriere. Spero di non averle mancato di rispetto. – No, no, – dice Lara. – Magari volete sedervi qui con noi? I due si scambiano una battuta, il francese assentisce. Vengono al tavolo. – Voi cosa avete preso? – Tubetti con le cozze, la specialità della casa. Veniamo tutti i giorni a mangiarli. – Moi, j’adore les moules, – dice il francese con un accento molto pulito. Nel Nord Europa la moda delle cozze è una vera febbre, con prezzi da filetto al pepe. Per lui trovarle a questi prezzi è l’Eldorado, sottolinea il suo amico. – Marinai, – conferma l’uomo col pizzetto. – Facciamo parte dell’equipaggio di un cargo marsigliese che ha attraccato una settimana fa. Siamo di passaggio: tra qualche giorno un altro cargo viene a prelevarci. Una specie di prestito: invece di tornare a Marsiglia ci imbarchiamo su una nave che ha bisogno di un secondo navigatore e un paio di braccia esperte in più. C’è crisi anche nel settore navale, le compagnie di navigazione se non chiudono riducono, e se c’è l’occasione di fare del lavoro in più non ce lo si lascia certo sfuggire. In attesa ci godiamo qualche giorno di vacanza. – E venite qui a mangiare le cozze, – insiste Lara. – Be’, personalmente cerco di variare un po’. Gilbert no, è di una monotonia sconcertante: vivrebbe di cozze. Poi qui le cucinano in modo diverso, per lui è anche una novità. Il cameriere arriva con quattro piatti sul braccio, senza scomporsi per il cambio di posizioni. Segna sulla tovaglietta di carta le ordinazioni e torna in cucina. Il pranzo fila via in allegria, con Lara che punzecchia di domande il marsigliese per rinfrescare il suo francese e a un certo punto comincia a parlare con una specie di cantilena che fa sorridere Gilbert. L’uomo col pizzetto è un po’ più sulle sue, ogni tanto ci osserva mentre parliamo col suo collega. Finiamo col caffè, che i nostri commensali ammazzano con l’amaro San Marzano. Mettiamo le birre fredde nella borsa termica e salutiamo: noi torniamo al mare. – Be’, simpatici, – dico a Lara. – No. – Come? Ma se ci hai scherzato tutto il tempo. – Tu ti fidi troppo delle persone, amore mio. Lasciati servire, non sono simpatici. Sì, è vero, io sono quello che in partenza si fida sempre, però… – Primo: quel Gilbert non è francese. Ha un accento troppo pulito, senza cadenza locale: dimmi tu dove trovi un marinaio che parla così. Poi ha detto che sta di base a Marsiglia, e non è vero. – Perché dici che non è vero? – Perché gli ho fatto il verso: ho scimmiottato la cadenza marsigliese come la storpiano i parigini per prenderli in giro, e lui si è messo a ridere. Prendevo in giro i marsigliesi: ti assicuro che non glien’è fregato niente. E un’altra cosa. Quel Gilbert è una brutta persona, è marcio dentro. Gli piace far male. È uno da tenere a distanza, fidati. – E questo da cosa l’hai capito? – Istinto, baby. Col lavoro che faccio ho imparato a capire gli uomini al primo sguardo. Di te mi sono fidata subito, ti ho portato a casa mia la prima sera senza problemi: lo sapevo già che eri uno giusto. Con uno come Gilbert piuttosto rinuncio a un pomeriggio di lavoro, ma ti assicuro che con lui sola in una camera d’albergo non ci vado. È istinto, te l’ho detto: serve a distinguere voi pochi maschi civili dagli altri. Mi mette la mano sulla destra appoggiata sul pomello del cambio, cerca di sforzare un sorriso, di cancellare la traccia di quella porzione di buio che anche una ragazza di luce e sole come lei nasconde nel cuore. Per fortuna oggi lo scirocco non soffia, il mare è cristallino e l’aria calda, ma non appiccicosa. Troviamo una conchetta tra gli scogli, parcheggiamo la Due cavalli quasi sulla scogliera e stendiamo le stuoie di paglia. Lara si sveste, si lascia ammirare il tempo di accorgermi che non ha il reggiseno del bikini, e con una flessione perfetta delle caviglie si dà la spinta in avanti ed entra nell’acqua, facendola scrosciare attorno al suo lungo corpo. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda sudamericana. All’altro capo: l’uomo chiamato Yves. [L’intera conversazione si svolge in lingua francese]. – Aggiornami. Yves: – Nessuna novità: quindi tutto bene. – Stasera vedo Ti. Yves: – Come ti muovi? – Non mi muovo. Arriva lui. Yves: – Problemi? – No. Il triestino mi scorta a pranzo e cena, il triestino resta a distanza di giorno. Un cagnolino fedele… Yves: – Se devi liberartene? – Non me ne libero. Perché dovrei? Non sono qui per fare turismo. C’è una strana televisione qui in Italia, mi faccio una cultura. Yves: – Cosa hai imparato? – Che se lo meritano quello per cui mi pagate. Yves: – Fammi sapere di stasera. – Certo. A domani. L’interlocutore dell’uomo chiamato Yves sbircia fuori scostando due stecche delle persiane: in fondo al viale l’uomo col pizzetto è sempre dentro la macchina, sull’incrocio. Immobile. Ogni tanto fa una telefonata. L’uomo si sfila la maglietta e i bermuda, e comincia una serie di flessioni a due braccia. Poi passa alle flessioni a un solo braccio: un braccio d’appoggio, l’altro dietro la schiena, alternativamente. Di tanto in tanto osserva i propri muscoli allo specchio. Il bicipite destro ha un tatuaggio: un motto. Vrij Vlaanderen: Fiandra Libera. 6. L’anima mia è verso il Signore più che la sentinella verso l’aurora Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 22.45. La strada è vuota: tutti a fare il sabato a Bologna, i ragazzi. I nonni al centro sociale, o alla trattoria dove stasera lavora anche la vecchia impicciona, quella Rachele che attraversa il paese con cento occhi aperti. Yakup aspetta il palo tirando la brace della sigaretta. Ha lavorato bene, Yakup: studiato i movimenti, calcolato l’ora adatta, trovato il complice senza mai farsi vedere in giro con lui. Un lavoro fatto occhei, niente imprevisti, niente problemi. In casa ci sono solo i due vecchi, non ce li vede proprio a fare resistenza, Yakup. E comunque il secondo basterà a spaventarli con la sua presenza: facile pensare a una banda, oggi. La banda delle ville arriva anche a Bologna: domani i giornali diranno notizie. Boccata dalla sigaretta. Sarà meglio dire qualche parola serba, stasera. Non si sa mai. Rumore di marmitta difettosa: coglione d’un italiano coglione, arriva sino all’altro lampione con quel motorino fracassone. Speriamo non faccia altre cazzate. Magari ha anche bevuto. Infatti: un paio di Campari con gli amici, per darsi coraggio, coglione d’un italiano. Il Cisposo: guarda mò che razza di soprannome. Allora, vediamo di fare le cose per bene. Entriamo insieme, tu resti sulla porta a sorvegliare la strada, io tiro fuori il coltello e mi faccio dare i soldi dai nonni. Poi mi dài una mano, li leghiamo e li imbavagliamo, così non fanno chiasso. Fuori dal paese telefoniamo da una cabina e avvertiamo i carabinieri, così non rischiano di soffocare. Liscio come l’olio, no? Sì, liscio come l’olio: e se invece non si spaventano? Guarda che l’altro vecchio è piazzato, l’ho visto l’altra sera al bar. Eccolo qui: la moto che fa rumore, i Campari, e adesso viene fuori che fissa al bar il vecchio per farsi notare, coglione d’un coglione Cisposo. Tu pensa a non fare cazzate, che ai vecchi ci penso io. Se non si spaventano afferro il prete e gli metto il coltello alla gola. Vedrai che l’altro sta buono. Andiamo, Cisposo. E mettiti i guanti, cazzo! Le luci della casa. Stanzone d’ingresso: spento. Stanzino dove dorme il vecchio: spento. Cucina: accesa. Stanza del parroco: spenta. Sono in cucina a giocare a carte. Se va bene sono anche mezzi ubriachi. – Tu che dici, Ruggero? Ieri non sono venuti. – Vuol dire che vengono stasera. – Penso anch’io. Oh, tranquillo, eh? Niente alzate d’ingegno, Ruggero. – Mai avute alzate d’ingegno, parroco dei miei baiocchi. Non ci arrivavo alla vecchiaia se avevo delle alzate d’ingegno. – Sicuro che vengono in due? – Sicuro, sicuro. So anche chi è l’altro. L’ho visto che tremava mentre mi guardava al bar. Credeva di non essere visto. – Un’altra briscola? – Un’altra briscola. Servi mò. Don Ricrea comincia a dare le carte, sorridente come sempre. Ha appena fatto in tempo a scoprire la briscola a denari, che sente i passi nell’altra stanza: la porta d’ingresso senza catenaccio, quante volte la Rachele… Eccolo qui. Rumore nell’altra stanza: uno è rimasto indietro. Entra. Ha il passamontagna. Il Togliatti si alza lentamente, mantiene le mani basse. Studia la situazione con calma. Anche la testa resta bassa: meglio non innervosirlo guardandolo negli occhi. Non è un ragazzo, ma neanche tanto grande. Ha le mani scure: dev’essere slavo o albanese. Non è un pivello: la lama la impugna bene. Don Ricrea avanza piano, con le braccia larghe e le mani aperte. Il suo sguardo oscilla tra l’uomo col coltello e Ruggero. – Cosa vuoi, figliolo? – Alza le mani! Alza le mani, cazzo! Anche tu! Tutti e due! I soldi: dove sono i soldi? Tira fuori i soldi, prete, se no ti buco la pancia. Capito? I soldi, cazzo! Don Ricrea fa un altro passo in avanti e mette le mani dietro la testa. Il Togliatti sembra non capisca: sempre in piedi, a testa bassa, con le mani quasi sul tavolo. – Cosa c’è, figliolo? Qui soldi non ce ne sono, questa è la casa di un servo del Signore. Ci sono solo pochi spiccioli: ma se ne hai bisogno li divido volentieri, senza bisogno di usare quel coltello. Yakup li osserva. Sembrano innocui, due vecchi rincoglioniti. Però non hanno paura: meglio mettergliela, la paura è benzina buona per il motore del cuore. Avanza verso don Ricrea, poi all’improvviso gli afferra un braccio e lo fa voltare: la sinistra a tenere il braccio torto dietro la schiena, la destra col coltello puntato sotto la gola. – Dividere un cazzo! Non si divide niente! Adesso il tuo amico si muove da lì e va a prendere i soldi, tutti! Guarda che ti buco la gola, prete! Don Ricrea guarda rassegnato il Togliatti: fai come dice… Augusto. – Dove sono i soldi? – chiede Augusto a voce bassa. – Nella cassetta dentro la legnaia. – Bene! – esclama Yakup. – Dov’è la legnaia? – Quella porticina in basso, dietro la catasta della legna fresca. C’è una scatola di alluminio, una scatola dei biscotti. I soldi sono là dentro. – Tu! – urla Yakup indicando col coltello. – Tu, togli quella legna da lì. Sgombera la porta! Augusto afferra una bracciata di legna e la butta nell’angolo. La legna cadendo fa rumore. La porta si apre all’improvviso: è il Cisposo, pallido. Per fortuna si è ricordato del passamontagna. Cosa succede? Niente, succede: è il vecchio che ha fatto casino con la legna. Già che ci sei resta lì. Il Togliatti continua a spostare la legna. Yakup mantiene il coltello sotto la gola del prete e controlla la situazione: sta andando tutto come doveva, a parte quel coglione del Cisposo. Neanche la mano in tasca a far finta di avere un’arma, cazzo! – Finito. Apro la porta? – No, tu non apri niente. Vai nell’angolo lontano. La porta la apre il prete. Hai capito, prete? Adesso apri quella porticina, piano. Ricorda che il coltello ce l’ho io. Don Ricrea abbassa la testa molto, molto lentamente. Vuol dire: ho capito. Augusto è nell’altro angolo della stanza, innocuo. Don Ricrea indica all’uomo col coltello la tasca destra: la chiave è lì. Yakup infila la mano col coltello nella tasca e tira fuori un mazzo. Don Ricrea prende la chiave, si abbassa, scosta gli ultimi due ciocchi di legna che Augusto ha lasciato davanti alla porticina con un movimento largo della mano. Poi la stessa mano torna indietro completando il movimento a pendolo. Le chiavi sono a terra. Yakup non vede quando il prete afferra il ciocco. Non vede neanche il ciocco risalire da terra: don Ricrea lo tiene dietro l’avambraccio. Sente solo il colpo in piena fronte. La testa gli rimbomba: poi arriva il dolore al polso. La mano si apre, il coltello cade. Cerca di raccoglierlo: il piede di don Ricrea è sulla lama, il ciocco è sopra la sua testa: fregato. Il rumore che Yakup sente è quello della testa del Cisposo che sbatte con violenza contro la porta: Augusto è ridiventato Togliatti, e il Togliatti ai suoi tempi non sarebbe stato un cattivo peso medio. Avendo potuto scegliere il mestiere, forse a sfidare Tiberio Mitri ci arrivava. Ha portato un diretto con tutta la spinta della spalla, quella buona che gli è rimasta. Un colpo basta: il Cisposo, paralizzato dalla legnata subita da Yakup, non si è neanche accorto del Togliatti che arrivava. Il Cisposo inciampa nel niente, cade, si rialza terrorizzato dal gigante con le mani grandi come magli che lo sta inseguendo, arriva alla porta, la apre di forza e se la sbatte sul naso, a completamento della serata. Yakup ha capito l’antifona, si muove all’indietro cercando di mantenere le distanze dai due maledetti vecchi ed esce per la porta lasciata aperta dal Cisposo. Non lo inseguono. – Ecco fatto, – dice il Togliatti richiudendo la porta, – vedrai che non ci provano più. Va’ là, va’ là, ti dò una mano a rimettere a posto, che se la Rachele ti trova questo casino in casa… – Ohi, Ruggero: muto con la Rachele, eh? – Che sennò smette di crederti quando le dici che ti basta la protezione del Signore? – Perché, ti sembro uno che ha bisogno di protezione? L’ho detto a lei, lo ripeto a te, miscredente d’un comunista: il Signore fa la notte, il Signore fa anche il giorno. «L’anima mia è verso il Signore più che la sentinella verso l’aurora», recita il salmista, che ti farebbe bene leggerlo. – Il Cioccolata l’aveva letta tutta, la tua Bibbia: e non gli è servita a molto. E comunque aspetta pure il tuo Signore: ma se non c’ero io ad aiutarti, stasera? – Perché, Ruggero, te chi ti ha portato fin qui, se non la mano del Signore? Niente da fare: proprio non ci si riesce a ragionare, con i preti. Il Togliatti riaccatasta la legna. – A proposito: non erano mica qui dentro i soldi, vero? – No che non erano lì. I soldi servono per essere usati, come faccio a tenerli là dietro? Sono nell’armadio, tra i vestiti. – E qui cosa c’è? – chiede il Togliatti con un improvviso lampo di curiosità. – Ma cosa vuoi che ci sia, benedetto Ruggero? Ma le armi del ’45, no? Dài mò, prendi su quella grappa di pere dalla scansia, che un bicchierino il Signore ce lo vorrà pur concedere, stasera. Yakup si è acceso la sigaretta: tanto non dànno l’allarme. E se invece lo dànno non serve scappare, a quest’ora in strada ci sono solo lui e il Cisposo. Deve pensare, Yakup: non può finire in merda così. Niente capitale iniziale, niente business con la polvere bianca. Il Cisposo corre verso la motoretta: sfigato d’un italiano, c’è persino un cane che gli sta pisciando sulla ruota. Yakup riflette. Cazzo, ma chi sono quei due? No, non funziona così, troppo rischio per pochi soldi. Bisogna pensare qualcosa di meglio, altrimenti Yakup finisce come quello sfigato del Cisposo, a fare il coatto di quartiere. Quello sfigato del Cisposo. Quello che ha cercato di scacciare il cane che gli pisciava sulla ruota posteriore e adesso ha il cane attaccato con le zanne al polpaccio, quello che urla scuotendo la gamba per far mollare la presa al cane: inutile. Il cane continua a tenere le mascelle serrate. Ringhia. Il Cisposo chiama aiuto: sfigato d’un italiano. Yakup osserva il Cisposo. Poi guarda il cane. Le mandibole serrate. La gamba del Cisposo. Il cane. Com’è nei fumetti? La lampadina accesa? Yakup ha un’idea. No, non un’idea: l’idea. Yakup ha trovato il sistema. Il capitale iniziale. 7. Frammenti di un discorso politico 13 settembre, Bologna. Bar Prezioso, piazza Galileo Galilei, ore 13.30. – Posso sedermi, Sandro? – Certo che puoi, Chiara. Come stai? – Com’è che avevi detto tu, al telefono? Sto… Forse comincio a farmene una ragione. E tu? – Mah… lavoro tanto, faccio poco altro. Vado al cinema da solo, mi piace, mi aiuta a pensare. Prendi niente? – Qualcosa per tappare, una piada qualunque, fai tu. Non ho neanche fame, però se salto il pranzo poi nel pomeriggio mi sento poco bene. Sandro si alza, va al banco, ordina due piade e due succhi di frutta. Poi torna a sedersi. – Ti dispiace se sto seduta qui, Sandro? Se non ti va mi sposto, basta che me lo dica. Non ho neanche bisogno di chiederti il perché. Sandro scuote la testa: no, puoi restare… cioè, non devo darti io il permesso, comunque non mi dispiace che tu sia qui, almeno facciamo due chiacchiere. Poi non me la sento neanche di incolparti, è solo che è successo così, che ci vuoi fare… Parole, parole, parole: che non dicono niente. Che si dicono perché qualcosa bisognerà pur dire, per far vedere che almeno… e invece è proprio il contrario, è l’inutilità delle stronzate che Sandro scambia con Chiara a far vedere che qualcosa brucia ancora. Come la mano di vernice bianca passata sopra la scritta: sotto il bianco, le lettere sono ancora più evidenti. E Chiara è lì, a leggerle, quelle parole nere sotto la patina bianca. Chiara. Con le sue frasi fatte, la sua voglia di sforzarsi di star bene, di far finta di essere sana, bella e bionda, perché se sei bella e bionda devi anche essere sorridente e serena, no? Non è così che sono le bionde, in televisione? E se il mondo si aspetta che le bionde siano come quelle della televisione perché dovrei deluderlo? Passo la vita a deludere gli altri, Sandro, magari se comincio a recitare la parte dell’oca giuliva la smetto di deludere: nessuno si aspetta niente da un’oca giuliva, quindi nessuno resta deluso, no? È proprio giù Chiara, Sandro non riesce a reggerla in questo stato: non regge quello che dice, non regge quello che vorrebbe dire e non riesce a dire, non regge di non riuscire a dirle niente che possa cambiare i fatti. Perché poi cos’è che potrebbe cambiare questa situazione? È per questo che Sandro s’inventa il ritorno in servizio con mezz’ora di anticipo. Tanto Chiara lo capisce che è una scusa. Tanto Chiara forse non ci bada neanche. Tanto Chiara si asciuga una lacrima fingendo di togliersi una ciglia dall’occhio, poi dice solo un grazie e gli stringe la mano, per un attimo. Scusami, Chiara, dice Sandro. Scusa di che?, dice Chiara. Ci vediamo, dice Sandro. Sì… ci vediamo, dice Chiara. Prendi l’aperitivo con gli altri?, chiede Sandro. Sì, credo di sì, dice Chiara. Allora ci vediamo, dice Sandro. Sì, ci vediamo, grazie, dice Chiara. Roma, Hotel de Russie, via del Babuino, ore 19. L’inviato di nome Michael stringe con delicatezza il nodo della cravatta sulla camicia bianca. La dolce indolenza del bagno turco scorre ancora per i muscoli della schiena, mentre termina di rivestirsi per il meeting serale. Il vapore, i pori aperti, l’acqua che porta via le impurità: i piccoli piaceri della vita. Programma della serata: after hour al bar Stravinskij, poi un più discreto ritiro in una delle salette per riunioni con vista sulla terrazza. Una leggera cena di lavoro, per mettere a punto alcuni contatti. Per la notte provvede il dottor Pola: ha piacere di presentarsi bene, promette il meglio di una delle agenzie di punta della capitale. Il che vuol dire: ben altro che Monica Levinsky. Bar Stravinskij: il giusto tocco di lusso. Il dottor Pola è già arrivato, accompagnato dal generale Corvino. C’è anche il futuro, o prossimo, ministro della Difesa. L’uomo noto come Beta è, come suo costume, arrivato per primo: resta discretamente in disparte, aspetta che i convitati siano seduti per presentarsi. De Russie Martini per tutti: con caviale del Volga. – Vede, Mister Michael, la situazione italiana ai suoi occhi apparirà probabilmente paradossale: queste norme restrittive sull’esportazione dei nostri manufatti bellici costituiscono una vera e propria tagliola, che non ha corrispettivi nel resto del mondo libero. In altri termini, per i nostri concorrenti europei queste norme sono un inaspettato vantaggio, perché ci impediscono di essere competitivi soprattutto nei Paesi in via di espansione. Il dottor Pola si accalora nel propugnare gli interessi del gruppo di pressione che rappresenta. Il ministro in pectore annuisce soddisfatto, l’inviato americano si mostra incuriosito da queste norme antiliberiste che gli italiani, così bravi nel moltiplicare i laccioli alle proprie caviglie, sono tanto solerti a creare e tanto lenti a rimuovere, mentre il mondo va avanti senza di loro. – Lei, generale Corvino, concorderà col nostro amico, immagino, – chiede l’inviato americano. – In senso generale sì, – afferma prudente Corvino senza scomporsi, – anche se la divisa che indosso mi impone non tanto una acritica obbedienza alle leggi vigenti, quanto uno sforzo di comprensione delle ragioni del legislatore. Ed è pur vero che queste norme limitative del commercio delle armi risentono di un clima eccessivamente ideologizzato: nondimeno, esse pongono all’attenzione il non semplice problema dei rapporti con Paesi che violano i diritti umani, o che sono governati da dittatori. – Mi consenta: questi sono luoghi comuni che purtroppo hanno la forza di raggiungere anche uomini del suo calibro, – ribatte il ministro in pectore. – La verità è che se un Paese si trova sotto embargo delle Nazioni Unite nessuno può vendergli niente, mentre nel caso italiano ci sono Paesi proibiti solo perché lo decide il ministero degli Esteri. Il che pone un più ampio problema: quello della riforma del ministero stesso, che dovrebbe essere più attento alle esigenze del nostro sistema produttivo e meno voglioso di un protagonismo che mal si concilia con la nostra adesione a più ampie linee di governance mondiale, in un contesto di garanzia atlantica della stabilità internazionale. L’inviato di nome Michael si serve generosamente dalla ciotola del caviale. Il mancato assenso all’intervento del ministro in pectore è stato notato. – Stabilità internazionale, lei dice: sapesse, caro senatore, quanto detesto questa parola che ha usato! Essa rappresenta l’antitesi di quella rivoluzione culturale che noi riteniamo debba caratterizzare il nuovo secolo che ci sta davanti. È proprio il mito della stabilità, usato dai nemici del nostro modello di vita, a mantenere sotto il tallone della tirannia milioni di uomini che guardano a noi come agli alfieri della libertà. L’essenza del nostro modello non è la stabilità, ma la distruzione creativa: la distruzione creativa è l’essenza stessa del capitalismo democratico. Io, così come gli amici del gruppo di studio e pressione politica sul Medio Oriente delle cui idee oggi sono informale latore, credo che solo attraverso un’opera di distruzione del vecchio ordine mondiale possano sorgere le condizioni perché milioni di uomini godano del proprio diritto a ricercare la felicità. Ma è l’idea stessa di guerra come mezzo che, in quest’ottica, va ripensata. L’uomo noto come Beta sorride, spalmando distrattamente del foi gras su una tartina imburrata. Distruzione creativa: lo sviluppo su scala globale del concetto di destabilizzazione. Destabilizzare per stabilizzare, distruggere per creare: una vecchia passione per l’ossimoro pratico che l’inviato di nome Michael non sembra aver smarrito. Beta, gli ossimori, non lo scaldano più di tanto: gli sono sempre sembrati un modo elegante per tenere i pedi in più scarpe. In genere Beta non ha scrupoli nel moltiplicare le calzature, e non sente il bisogno di mascherare i propri piedi dentro parole forbite: ma se l’amico americano ha voglia di giocare alla puttana vergine, perché impedirglielo? Magari, col passare del tempo, ha cominciato a crederci persino lui alle sue parole. Taranto, ore 19.45. – Fatto! Tutto compresso qui dentro, adesso lo stampiamo. L’hacker tarantino è soddisfatto del lavoro. Intanto perché lavorare con Ferodo è un piacere: c’è sempre qualcosa da imparare, qualche nuova scorciatoia che d’ora in poi potrà essere presa. Poi perché il trucco della password nella hot line lo ha sgamato lui: immessa per la quarta volta la password dichiarata non valida, il sistema la riconosce come valida e chiede la seconda password. Il resto è accademia. – Come funziona con queste briselle? – Friselle, non briselle. Ti faccio vedere: le tieni a bagno un paio di minuti, ci spremi sopra il pomodoro con tutta la semenza, olio, sale e origano. Una favola. Apri due birre, intanto che taglio ’sta sasizza asquànde. Le birre diventano rapidamente quattro, la salsiccia piccante si accorcia sino a ridursi al solo scarto della pelle, i pomodori aperti con un morso e spremuti sulle friselle finiscono altrettanto rapidamente. La discussione interrotta nel primo pomeriggio riprende. – Non puoi fermarti al livello dell’individualismo, Ferodo. Non è così che si cambia il sistema. Dobbiamo unire le nostre forze, montare i nostri pezzi, agire in simultanea: attaccare la catena in più punti, disarticolare il sistema. Noi abbiamo un’arma in più, oggi: la nostra pratica è interna allo scontro sociale che sta ricominciando, che ci piaccia o no. Parole, parole, parole. Slogan. – A me non piace, e se non mi piace non ci sto dentro. Non mi interessa cambiare il sistema: mi basta starne fuori. Io sto bene così. – Stai bene oggi, forse: e domani? Le cose stanno cambiando, tra un po’ potrebbe non esserci spazio per star bene neanche a casa propria. E allora cosa farai? Ti venderai anche tu ai grandi network, diventerai un salariato di lusso? Un cane da guardia col collare d’oro? Discorsi vecchi, pensa Ferodo: discorsi di altri tempi, di quando c’era Lester. Ferodo non ci crede alla rete ribelle di cui parlano i giovani hacker che hanno il Duemila sulla punta delle dita e gli anni Settanta nelle parole. Ferodo le odia, le frasi fatte, gli slogan. Odia la politicizzazione: la politica è merda. – Fai una cosa, Ferodo, fai solo una cosa. Non ti dico di entrare nella rete ribelle: vieni solo con noi a dare un’occhiata. Tra un mese, a Napoli. Come fosse una delle solite convention. – Cosa c’entro io con voi ribelli del Sud? Io sono nordico, non sudicio, – dice Ferodo ridendo. – Siamo tutti sudici, Ferodo. Siamo tutti a sud di qualche nord. Già. Lo diceva anche Lester, questo. A sud di nessun nord, diceva: è lì che voglio arrivare. A sud di nessun nord. Roma, Hotel de Russie, via del Babuino, ore 20. L’inviato di nome Michael si accalora nell’esporre il tema che più gli sta a cuore: il passaggio dalla limited war alla total war, tra un calice di cabernet argentino e la tagliata di bisonte. – La guerra come mezzo è solo uno strumento di pressione per la realizzazione di limitate finalità politiche: ha per scopo intimidire il nemico, ricondurlo alla ragione, distruggere le sue forze militari. Ma non va oltre: come ha dimostrato la Guerra del Golfo. La guerra come fine è invece un concetto intrinsecamente politico: essa ha lo scopo di costringere il nemico ad accettare il rovesciamento dei propri presupposti culturali. Non è uno scontro tra combattenti, ma uno scontro tra nazioni, una contrapposizione tra popoli. Un conflitto tra culture, anche. Lei non concorda, caro Beta? Beta lascia la domanda aleggiare nell’aria, giusto il tempo di finire l’ultimo boccone di filetto di struzzo. – Non del tutto, Mister Michael. Lei parla di popoli: io dico che i popoli non esistono in natura. Esistono gli individui, in natura: individui indifferenziati. Un popolo va creato: forgiato, in certi frangenti storici. E per crearlo è necessario unirlo attorno all’idea di un nemico comune. La paura e l’odio sono un ottimo mastice politico. Lei, Mister Michael, va in cerca di willing friends da associare alla sua visione globale. Io ho una visione ben più, come dire, locale: per me il problema è di crearla, questa volontà. Distinguere l’élite degli uomini differenziati dalla maggioranza indifferenziata, e dare forma appropriata alla moderna informità sociale. Ma forse mi sono spinto troppo oltre, annoiandovi con le mie debolezze filosofiche? Il dottor Pola annuisce, dissimulando la perdita del filo del discorso. Il ministro in pectore si serve di un’altra porzione di petto d’anatra all’arancia e interviene nella discussione. Il generale Corvino, come suo costume, preferisce ascoltare e registrare. Senza perdere una parola. 8. Comportamenti a rischio 14 settembre, Taranto, città vecchia, ore 11.30. È Ferodo, per una volta, a fare il punto. Attorno al tavolo: Andrea e Tore. – Sono un gruppo piccolo, ma ben strutturato. E sanno molte cose. Guarda questa directory, Andrea. In basso si sono questo Clerico e un certo Aldo Petrone. Ho qui la strisciata telefonica delle chiamate da casa di Petrone, l’ho incrociata con gli altri numeri: una frequenza molto alta. Ti dice niente? – Nessuna novità. È un altro del giro del Prezioso. – Questo spiega perché il numero più chiamato da casa sua è quello della questura. Andiamo avanti. Al di sopra di questa coppia c’è l’unico altro nome che abbiamo in mano: Alfonso Righi Aldrovanti. È una specie di capo-cellula. Di certo i due sono ai suoi ordini. C’è una chat line, alla quale i due colleghi tuoi non hanno accesso: Righi Aldrovanti invece c’è, e in un ruolo di rilievo. Usa un nome in codice: Alfa. Poi ci sono gli altri. Che non usano la connessione domestica. Internet point, sembra. C’è Lambda, che è sicuramente al di sopra dei due poliziotti: sembrerebbe una specie di battitore libero, Alfa si fida molto di lui. Questo è il gruppo bolognese. Poi c’è Zeta, il romano. Incrociando le informazioni, dev’essere quello dei fax dal bar Trieste. Deve gestire una specie di struttura informativa. Poi c’è un altro gruppo, che fa capo a un certo Ti. Ecco la stampata dell’ultima chat: si parla di un marinaio, potrebbe avere a che fare con quella nave. Non è chiaro che rapporti ci siano tra questo Ti e gli altri. Poi c’è Beta. Ferodo si ferma, apre una cartellina, fa ordine sul tavolo e dispone nuovi fogli. Tutto quanto è riuscito a trovare su Beta. – Pare essere il capo. Si sposta da città a città. Deve aver appaltato un grosso lavoro ad Alfa. Sembra. Tutto quello che abbiamo sono le sue parole nella chat: e come vedi, è roba buona per «La settimana enigmistica». Andrea Vannini studia le stampate. Anche Tore ne legge alcune, cerca un senso tra quelle frasi generiche al limite dell’aloghia. Poi Ferodo estrae un altro foglio. Lo mette davanti ad Andrea. Andrea lo legge. Ferodo ha appuntato a penna la data: 9 settembre. Argomento: profilassi veterinaria. Parassiti sotto osservazione: due. Parassita n. 1: individuato da tempo, pericolosità accertata. Avviata adeguata profilassi: il parassita è stato rimosso dall’animale. Il veterinario consiglia di non interrompere la profilassi sino alla comprovata guarigione dell’animale. Parassita n. 2: individuato di recente, pericolosità probabile. Si consiglia la rimozione cautelativa. Individuato l’ambiente di provenienza: avviata procedura di bonifica. Esito della disinfestazione atteso entro le ventiquattro ore. Possibile presenza di Parassita n. 3 nello stesso ambiente, dall’incerta definizione. Il veterinario sospetta alto livello di nocività. Si consiglia di bonificare l’ambiente con attenzione, e procedere a un esame ulteriore dei parassiti dopo la disinfestazione. Tore sbuffa: non capisce. Andrea sì. – Il 9 settembre, Andrea: il giorno in cui ti hanno fatto il contropacchetto in questura. Il parassita numero uno sei tu. E se il numero uno sei tu, i numeri due e tre… Andrea continua a leggere il foglio: così almeno sembra a Ferodo. – Individuato l’ambiente di provenienza: avevano appena scoperto quale computer usavamo. E ci sono entrati dentro: avviata procedura di bonifica. Sanno tutto di noi, Andrea: quanti siamo, chi siamo, dove siamo. – No. – Cosa, no? – Sanno che siamo in tre. E noi siamo in quattro, più Sandro e Diego: quindi in qualche modo le loro informazioni sono parziali. E non hanno modo di sapere dove siamo adesso. In questa chat possiamo entrarci? – Per noi è una porta aperta. In qualche modo questa gente si dà degli appuntamenti, mai attraverso la chat. Però i testi delle loro conversazioni te li posso ripescare giorno per giorno. Ah, a proposito: i vecchi telefonini? – Hai detto di lasciarli a Bologna: qui abbiamo solo quelli che ci hai dato tu. – Sì, certo. Scusa: è che a questo punto sarebbe interessante sapere se dentro i vostri telefonini c’è qualcosa. Nella fretta ho dimenticato di guardarci dentro. – Nel tuo? – Niente. Non ero intercettato. Quindi devo essere il parassita numero tre, quello incerto: di me sanno solo quello che possono dedurre da voi due. Andrea annuisce, per riflesso condizionato. Perché non è del tutto d’accordo. Ma c’è qualcosa che ancora non vuol dire. – Ti aggiorno su quello che abbiamo scoperto, Ferodo. Qualcuno ha sbarcato qualcosa da quella famosa nave, in una qualche insenatura del litorale tarantino. Qualcuno in grado di accordarsi con la sacra corona per non avere intralci. – Il carico? – Da qualche parte, sulla litoranea. Ci sono uomini armati che girano senza dare nell’occhio, col permesso dei clan locali. Tra San Vito e Gandoli. Un ginepraio di villette: aghi nel pagliaio. Se ci mettiamo a girare finiamo col dare nell’occhio prima di trovare qualcosa. – Come sappiamo i nomi delle zone? – Perché è stato chiesto di non fare casino in queste due zone. Niente furti in villa, niente auto rubate, niente stronzate che attirano la polizia. Quindi ci sono due elementi da tenere nascosti: uno viene dal mare, l’altro non so cosa possa essere. Ferodo sospira. Tore sorride: è evidente che questo lavoro di informazione è opera sua, lui il suo contributo lo ha dato. Ma non serve a molto. Però… – Aspetta, – dice Ferodo cercando un foglio, – forse lo sappiamo cosa c’è nell’altra casa. Un uomo. Guardate qui: c’è una persona chiamata «Il belga». Forse stanno nascondendo uno straniero. – Già. Se davvero viene dal Belgio, – dice Andrea. – Perché? Se è belga da dove vuoi che venga? Tore sorride. Qua a Taranto, dice, ci stava il vecchio capo della malavita, uno che partecipava tutti gli anni alla processione dell’Addolorata. Agostino Pastore, detto ’u Cinese: ’u mèggie maschàle c’u curtìedde. Poi è venuto il Messicano: veniva dalle case costruite verso l’Italsider, il quartiere Paolo Sesto. Tore ha ragione: potrebbe essere un soprannome. – Sa fagna? – chiede Ferodo. – Aspettiamo che i due innamorati tornino dai loro forcing di tintarella integrale e andiamo a cena fuori, – dice Andrea. – A cena fuori? Dove? – In una trattoria di campagna, praticamente nel cortile di casa della cuoca, a mangiare le orecchiette fatte a mano. E già che ci siamo, facciamo un salto a prendere un paio di bottiglie di vino buono. Lo conosci il primitivo di Rocca Messapica? Ferodo guarda perplesso la strana coppia che ha davanti. Orecchiette e primitivo? Non c’è niente di meglio da fare? No, risponde Andrea. Fidati: le orecchiette meritano, e a quel primitivo proprio non si può rinunciare. Bologna, rione Santa Rita, ore 17.30. I due agenti si guardano intorno. Dalla finestra si affaccia la comare del terzo piano, qui, qui agenti, vi ho chiamati io, cioè, veramente mio marito. Va bene, signora, ci faccia parlare con suo marito. Il marito scende giù tirato a lucido: retina sui capelli, sigaretta con bocchino, reggicalze da uomo, giacca da camera: poi bisognerà che qualcuno gli spieghi che Mastroianni era ironico, e comunque è morto da un pezzo. Però si sente distinto, soprattutto nell’attribuirsi il merito della segnalazione. Che per la verità è dell’assicuratore in pensione del piano ammezzato, è lui che si è accorto del televisore acceso ininterrottamente e ne ha fatto parola al bar. Poi ci si è messa di mezzo la stiratrice del primo piano, quella che non si fa mai i fatti suoi e che quindi si è sentita in dovere di bussare a intervalli di mezz’ora alla porta della cantina trasformata in camera ammobiliata: senza risultato. Allora ne ha dovuto parlare con la sarta del secondo piano, quella paranoica che sente tutti i rumori, in particolare quelli che non ci sono e che quindi può più liberamente inventarsi per lagnarsi del frastuono che le impedisce di portare a termine i suoi lavori di alta sartoria, e nella cabala dei condomini con i quali parla, sempre in minoranza rispetto a quelli con i quali ha litigato per il rumore che fanno giorno e notte, è arrivata a farne pubblica lagnanza con il pensionato del terzo piano, che finalmente ha telefonato in questura. L’intero condominio si raduna attorno ai due agenti con la velocità di un branco di topi davanti a una forma di grana caduta da un camion, formulando le ipotesi più drammatiche: una fuga di gas che sta per raggiungere il punto di saturazione, con imminente esplosione dell’intera palazzina: l’allagamento dell’appartamento in seguito a rottura delle tubature o altro incidente, con conseguente annegamento dell’inquilino ed erosione delle fondamenta della palazzina, perché lo sanno tutti che l’acqua scava la roccia; folgorazione dell’inquilino dovuta all’impianto elettrico volante ed estemporaneo, con dispersione dell’energia elettrica lungo tutto il condominio, e lo sanno tutti che l’energia dispersa viene attirata dai tubi dell’acqua, che a mia cognata è capitato di sentire che uno nel suo palazzo è morto folgorato nella vasca da bagno perché quel disgraziato al piano di sotto aveva manomesso il contatore. I due agenti si guardano negli occhi: andiamo a vedere, fa uno all’altro, prima che qui si cominci a parlare di virus Ebola o del morbo del legionario. Inutile tentare di bussare, visto che è da stamattina che il condominio lo fa. Ci vorrebbe un fabbro, e naturalmente c’è: il cugino del pensionato del terzo piano è già allertato, è arrivato subito dopo pranzo sfidando il caldo e la controra, e con l’efficientissimo trapano a pile forza senza problemi la serratura della porta, non voglio mica niente, io per le forze dell’ordine sono sempre a disposizione, magari se poi fate in modo che esca sui giornali il nome della mia ditta. Basta scostare la porta per sentire l’odore. Uno dei due agenti fa arretrare l’assembramento per ragioni di ordine pubblico, mentre il collega col fazzoletto in mano si addentra nel tugurio. Guido Giani, detto Lercio, non sta dormendo: non con quell’angolo tra testa e spalla, non con il televisore acceso a quel volume. Non con quella siringa appesa all’ago infilato nella vena. Bologna, redazione del «Mattino di Bologna», ore 18.30. Diego Dall’Olmo ringrazia e mette giù. Ci pensa un attimo, poi dà la notizia alla redazione. Nessuno piange, anzi: nessuno rimpiangerà la presenza del Lercio in redazione, le sue maleodoranti notizie dalle fonti oscure e ambigue, la sua aria sporca, il suo sorrisetto irritante. Certo che… Certo che la morte del topo, al Lercio, gliela auguravano in molti, ma non ci credeva nessuno che potesse succedere. Eppure… Diego Dall’Olmo mette un po’ di ordine nei fatti degli ultimi giorni. Lercio Giani viene informato, probabilmente da una fonte romana, della morte del Tassone: curioso, no? Lercio Giani incastra Andrea Vannini: non era proprio un fulmine di guerra, il Lercio, eppure si è mosso con la rapidità di un serpente. Anche questo suona curioso. E adesso, dopo quasi due decenni di pere, va in overdose. Una cosa è certa: il Lercio non può più essere interrogato. Diego Dall’Olmo compone un numero di telefono. All’altro capo: Sandro Valle. – Saputo, Sandro? – No, sono in volante. Cos’è successo? – Hanno trovato Guido Giani morto. Overdose. (Silenzio). – Sandro? – Sì? – Cos’è, cominci a fare come Andrea? Ti metti a pensare per i fatti tuoi senza badare al telefono? – Sì, scusa. Tu che ne pensi? – Che se è un caso, è un caso veramente opportuno. – Già… non piace neanche a me. Vuoi che ci si veda? – No. Fatti un giro a sentire che aria tira, e avverti Andrea. Faccio un giro anch’io a sentire qualche conoscenza nel giro dei tossici. Ci vediamo domani da Sauro. Sandro Valle compone un numero di cellulare. Risponde la segreteria telefonica. Sandro lascia una sola parola: novità. Il cellulare è sempre acceso, collegato a un ricaricatore. Rocca Messapica (Taranto), ore 18.40. La strada statale è poco trafficata. Tore e il suo amico Totò sforzano, con i loro centottanta chili in due, le sospensioni di Vespa e sidecar, noi li seguiamo sulla Due cavalli. Andrea ci riassume quello che hanno scoperto. Tutto qui, conclude, e non è molto. Come, tutto qui?, dice Lara. Tutto qui, Lara. Non sappiamo niente, se non quale canale di comunicazione usano. Non abbiamo in mano nulla per anticipare le loro mosse. – Sì che abbiamo qualcosa in mano. Abbiamo il belga! Guardo Lara stupito: pessima idea, la distrazione mi costa un sobbalzo su una buca. – Il belga: lo abbiamo visto. Ecco perché il suo francese era così pulito! C’è uno straniero che si spaccia per un marinaio marsigliese, accompagnato da un italiano che dice di essere marinaio anche lui. E non è affatto marsigliese. E secondo me è un belga, ti dico di più, secondo me è un fiammingo, il francese è la sua seconda lingua. E va a mangiare in quel posto a San Vito dove siamo stati ieri. Non è molto, ma è pur sempre un altro passo avanti. Il paesino è gradevole. Macchina e Vespa le abbiamo lasciate all’ingresso, tanto in cinque minuti siamo nel centro. Totò ci fa da guida: sa lui dove trovare il vino buono. Intanto ci prendiamo un assaggio in un’osteria: Primitivo e negramaro locali, un confronto alla pari. Totò parla di queste uve, della lenta scoperta dell’industria vinicola in una zona che sino a pochi anni fa produceva uve da vendere all’ingrosso per rafforzare i vinelli lombardi e piemontesi, e che adesso comincia a valorizzare quest’oro rosso che scorre nelle vene della Puglia. Nel Salento sono più avanti, dietro il traino dei loro rosati c’è una schiera di uve pregiate imbottigliate ed etichettate con cura. Qui invece le uve sono più robuste, più calde, e si comincia a bere non solo di sostanza, ma anche di qualità. È un problema di mentalità, sospira Totò: per fare un buon vino ci vuole pazienza, capacità di aspettare qualche anno, un piccolo capitale da investire nella terra e nel vitigno. Nel Salento questa mentalità c’è, lo vedi anche dalla valorizzazione del turismo, qui da noi fa ancora fatica. Ma viene fuori, conclude Totò, viene fuori... Intanto, tra una chiacchiera e un bicchiere, siamo entrati in un’enoteca che per Lara è una piccola miniera: e infatti in men che non si dica sequestra il gestore, lo tempesta di domande precise e competenti, e alla fine si fa comporre un cartone da sei con le bottiglie selezionate dalla fittissima discussione. La settima bottiglia, un negramaro con inserti di cabernet, la riceve in regalo, con i complimenti della ditta. Più avanti, un negozio di cioccolata locale, dalla qualità insospettata. Carichi di pacchetti come i re magi, dobbiamo sembrare proprio dei turisti agli indigeni che ogni tanto si voltano a guardarci. Più che altro, a guardare la mini di Lara che gareggia col top per la quantità di pelle che riesce a coprire. Ci fermiamo nella piazza, a goderci l’aria del tardo pomeriggio. Andrea e i due tarantini continuano a parlottare del più e del meno, sempre in movimento, saettanto occhiate discrete qua e là: è evidente che non è per il vino che siamo qui. Lara scarta un cioccolatino e me lo offre. I cani randagi scorrazzano liberamente, spelacchiati e smagriti, nell’indifferenza degli astanti che soggiornano nella piazza. Poi, alla fine, capisco. Arrivano in quattro, su due grosse moto giapponesi. Capelli rasati, muscoli sotto le magliette, occhiali a specchio. Si dispongono a quadrato, con discrezione: ma è evidente che studiano il posto. Uno di loro estrae un cellulare e batte sui tasti. Dopo un paio di minuti arriva, seduto dietro la grossa moto guidata da una specie di gorilla dall’aria inequivocabile. Ha uno spolverino chiaro, il foulard al collo, i capelli bianchi scompigliati dal vento. Una foto d’epoca che mi si materializza davanti. Quando scende dalla moto comincia a stringere mani, abbraccia un paio di ragazzi. Attorno a lui c’è un capannello, saranno una decina. Rispettosamente a distanza: il capo è lui, e vuole che si veda. Non sorride: non sorride nessuno. Tore e Totò si sono voltati. Senza parere, dànno le spalle alla congrega. Andrea sussurra una sola parola: tombola. – È per lui che siamo qui? – chiedo sottovoce. Andrea annuisce, guardando in apparenza oltre il capannello. È per lui, sussurra: per guardarlo in faccia. Anche Lara ha capito che c’è qualcosa: chi è quel tipo con i capelli bianchi?, chiede piano. Non guardarlo in faccia, dice Andrea: meglio se andiamo. Tore fa segno di sì: ci voltiamo e andiamo via. – Cosa dici, Tore? – chiede Andrea non appena siamo fuori della piazza. – Sta accavallato. Stanno tutti accavallati. – Tu, Lara? – Io cosa? Io sono l’unica che non sa chi è quel tale! – Appunto: quindi il tuo giudizio non è influenzato. Che impressione ti ha fatto? – Non mi piace. È teso, concentrato. Controlla tutto e tutti. Come dice Tore: accavallato? Vuol dire nervoso? Sì, direi proprio di sì. Ferodo guarda Andrea: sono loro? Sì, dice Andrea: secondo me sì. Il gruppo locale. Hanno qualcosa in ballo, lo si vede. – Chi è questo misterioso uomo dai capelli bianchi? – chiede Lara quando ripartiamo. – Alfredo Franchi. L’uomo che gettò la prima bomba, il responsabile della perdita dell’innocenza di un’intera generazione. L’organizzatore della prima strage. Non sapevo che vivesse qui, – aggiungo. – Tu lo sapevi, Andrea? – Sì. Ecco perché volevo guardarlo in faccia. Lara non fa più domande: sta collegando quello che ha visto con quello che ha letto a casa mia. Le indagini, i processi, le assoluzioni. Trent’anni di storia italiana in una faccia. Quella marmaglia attorno a lui non era nata, all’epoca: ora circonda il maestro con la venerazione degli adepti. Lui insegna loro la dottrina dei cicli cosmici, loro si incaricheranno di realizzarli: i cicli storici, la disintegrazione del sistema, la rivoluzione nazionale. I più alti destini cui sono chiamati gli allevatori di anime. Tore rallenta, mette la freccia, ci fa segno di sorpassarlo. Totò si è voltato indietro, dallo specchietto retrovisore vedo che fa segno di no. Tore agita la mano per segnalarci di andare avanti. Dallo specchietto vedo che fa inversione, torna indietro di poco, poi rifà inversione e ci raggiunge. Ci sorpassa. Riprende a fare strada. Totò guarda fisso nello specchietto. La trattoria è una casa di campagna. Tore e Totò si sono fatti di nuovo sorpassare, lasciano che entriamo noi per primi nello spiazzo antistante e ci raggiungono dopo un paio di minuti. Parcheggiamo sull’aia e bussiamo: zi’ Mimina ci viene ad aprire, con le mani dentro il grembiule. Attraversiamo la cucina passando accanto a due grandi spianatoie piene di orecchiette. I tavoli sono nel cortile, rinfrescato da un pergolato. Tore prende sottobraccio la signora e le dice qualcosa, indicando Lara. Zi’ Mimina annuisce. – Perché quella svolta, Totò? – Mi sembrava di aver visto un fanale a distanza dietro di noi. – Eh? – Forse mi sono sbagliato. Forse ci stava, ma ha svoltato ed è andato da un’altra parte. Zi’ Mimina non viene a chiederci le ordinazioni: ha già sistemato tutto Tore. In attesa delle orecchiette, arrivano gli antipasti: salume piccante e formaggio locale, còzze a puppitègne, ovetti di mozzarella, scamorzine scaldate nel coccio, insalatina di polipo, lambasciune. Il pane ha la crosta nera e una consistenza particolarissima. Zi’ Mimina avverte che tra due minuti le orecchiette sono pronte e mette in tavola la rècotta asquànde: una ricotta fatta fermentare, dal sapore fortissimo, buona da aggiungere alle minestre o ai sughi. Tore se ne spalma una coltellata sulla fetta di pane. Quando la miseria era di casa, asquare la ricotta era uno stratagemma per non gettare via gli avanzi del formaggio più economico, spiega Totò: la ricotta avanzata veniva rimescolata, la si faceva fermentare, e così era ancora buona per i giorni a venire. Poi, riprendendo Ferodo, gli spiega pazientemente che no, le orecchiette non sono le strascinate, la strascinata barese si trascina sulla spianatoia col pollice, l’orecchietta invece viene rivoltata come un cappello. Lupa in fabula, arriva Zi’ Mimina con una fumante zuppiera e una fondina in equilibrio. Nella zuppiera, orecchiette al ragù d’agnello e involtini, per cinque. Nella fondina, orecchiette al sugo fresco fatto coi pomodorini per Lara. Lara misura la quantità e chiede: ma quante porzioni sono? Zi’ Mimina scuote la testa: ’na vóta, spiega, le porzioni erano due etti e mezzo per i maschi e due per le femmine; adesso a malapena un maschio ne mangia due etti, e la femmina già si lamenta per un etto e mezzo. Capita l’antifona, Lara imita Tore e spezzetta il basilico fresco sulle orecchiette, poi aggiunge una punta di asquànda. Lo stesso fa Tore nella zuppiera, e col grande cucchiaio di coccio riempie i piatti: per fortuna i piatti sono tarati per le tradizionali porzioni di Zi’ Mimina, e il gallo dipinto a mano sul fondo della ceramica di Grottaglie cede rapidamente il posto alla piramide di orecchiette. Il cortile comincia ad affollarsi. Una famiglia accanto a noi, un paio di coppie alle nostre spalle. L’ultimo tavolo libero viene occupato da quattro ragazzi. Lara nota qualcosa, parla all’orecchio di Tore, Tore guarda Totò, Totò è perplesso. Cosa c’è?, chiedo. C’è che uno di quelli io sono sicura di averlo visto a Rocca Messapica, nella piazza. Quello grosso, col tatuaggio del bracciale sull’avambraccio. Due di loro sembra che ci guardino, ma da dove sono gli occhi devono pur puntarli da qualche parte. Più che altro sembra che guardino verso Tore. Lara gli dice qualcos’altro, si alza, si guarda intorno, chiede alla Zi’ Mimina dov’è il bagno e si avvia sculettando. Il ragazzo della coppia a destra si volta a guardarla e si prende una sberla dalla sua ragazza. L’altro se la cava con un’occhiataccia. I quattro del tavolo opposto al nostro si comportano con educazione: anche troppo. Non si distraggono: lasciano che Lara attraversi il campo visuale, e continuano a guardare in avanti. Verso di noi. Tore si alza: mi chiede le chiavi della macchina. Esce. Ritorna presto. Ha in mano il catenone della Vespa e il cric della Due cavalli. Passa la catena a Totò, che con disinvoltura se la appende al collo. Appoggia il cric sul bordo del tavolo. Sorride verso i nostri osservatori, mentre Lara ritorna a sedere. Li saluta sventolando il cric. I due che lo guardavano rispondono al saluto. Finiscono di bere, si alzano e vanno via: senza parlare. Taranto, città vecchia, ore 23.30. Andrea Vannini apre il cellulare e compone il codice per ascoltare la segreteria del telefonino lasciato a Bologna. C’è un solo messaggio: Sandro Valle. Una sola parola: novità. Compone il numero di Sandro. Il display dell’agente Valle dice: numero non inviato. Sandro chiude la porta della cucina e risponde. – Sei tu? – Sì. – Hanno trovato il Lercio. Morto. – Come? – Una pera nel braccio. Diego sta cercando di saperne qualcosa, lo vedo domani. – Altro? – Continuo a frequentare il Prezioso. Non si scopre nessuno, finora, ma sembra che si fidino di me. Il giocattolo funziona bene, ma per il momento niente di utile. Tu? – Ne parliamo quando torno. – D’accordo. Presto? – Forse. Dipende. Ti chiamo domani. Sandro Valle richiude il telefonino. Ne parliamo quando torno, ripete. Si versa un dito di calvados su due cubetti di ghiaccio e torna a letto. – Cos’hai lì? – chiede Chiara abbracciandolo. – Calvados. Vuoi? – Bevi troppo, Sandro. Ti fa male bere tanto. – Hai ragione, – dice Sandro buttando giù il calvà, – mi fa male. 9. Nessun dorma 15 settembre, località non determinabili, ore 3.40. Dita veloci sulla tastiera: il rapporto viene battuto in pochi minuti. Autore dell’analisi: Lambda Situazione: segnalato livello di pericolosità in nuovo aumento. Fonte dell’analisi: informazione affidabile. Diagnosi della situazione: forte probabilità che il gruppo di disturbo si sia ricongiunto in nuova località. Ipotesi sulla nuova località: prossima alla base di massima sicurezza. Fonte dell’ipotesi: deduzione logica. Analisi dell’obiettivo primario: situazione tranquilla. Si suggerisce: spostare i pesi sull’obiettivo primario come da ipotesi iniziale. Allestimento di base prossima a obiettivo primario: possibile in tempi rapidi. Materiale umano richiesto: necessario coordinare tutti i fili. Si suggerisce: allertare Zeta. Metodologia suggerita: consultare Zeta. Il rapporto viene inviato a un server protetto. Rimbalza su un Internet Point in funzione alle quattro di notte. Dal primo Internet Point viene inviato a un secondo Internet Point. All’interno del secondo Internet Point: l’uomo noto come Beta. Prima osservazione dell’uomo noto come Beta: la freddezza di Lambda sta diventando la chiave della rete locale. Seconda osservazione dell’uomo noto come Beta: Alfa non si sta dimostrando all’altezza del compito. Consultare Zeta. Conclusione: necessario mobilitare tutta la vecchia guardia. Nessuno escluso. A due settimane dal momento topico è necessaria la massima franchezza: è il momento di unire sul rovescio del tappeto tutti i fili dell’ordito. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda estera. All’altro capo: Zeta. La telefonata non richiede molte spiegazioni: Zeta concorda con Beta. L’uomo grassottello compone un numero telefonico. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda sudamericana. All’altro capo: Yves. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda sudamericana a telefono cellulare clonato. All’altro capo: Ti. Taranto, città vecchia, ore 4.30. Andrea Vannini esamina gli appunti. Uno schema. All’interno delle caselle tracciate a penna, dei nomi. Alcuni punti interrogativi, qualche alternativa: nel complesso la struttura è dotata di senso. Provvedimenti da prendere: 1. avvertire il Togliatti; 2. verificare l’ipotesi belga; 3. valutare l’eventualità di una partenza immediata; 4. valutare l’eventualità di dividere le forze. Nel silenzio della notte: una moto passa nella strada sottostante. Un suono familiare: Andrea lo ha già sentito mezz’ora prima. Andrea fissa ancora gli appunti: Andrea ragiona con la penna in mano. I fogli sono pieni di appunti: i fogli. Gli appunti. Andrea stringe il pugno senza avvertire il crac della matita spezzata. I fogli. Gli appunti. Tore si alza dalla branda. Senza dire nulla gli si siede accanto. Lo fissa con i suoi grandi occhi azzurri. Andrea lo guarda: è pallido. Capo San Vito (Taranto), ore 4.50. L’uomo dai capelli bianchi scende dall’automobile rinchiuso nello spolverino chiaro. Non è accompagnato: un’imprudenza resa necessaria dalla nuova situazione. Ad attenderlo: l’uomo col pizzetto, in piedi accanto alla sua automobile, le mani nelle tasche del giubbotto da marinaio. Parlano fitto. Parlano a lungo. Si guardano negli occhi: decidono di fidarsi l’uno dell’altro. Si stringono la mano. Rientrano nelle automobili e ripartono. 10. Impressioni di settembre Taranto, città vecchia, ore 15.30. Viaggio a vuoto: da Ci t’è muerte il belga dell’altro giorno non c’è. I tubetti con le cozze sì, però. Andrea è una tomba, neanche provarci a cavargli una parola di bocca: ne parliamo a casa. Telefona a Sandro, si fa aggiornare: confermata l’overdose, secondo Diego non c’è roba strana in giro, e il Lercio era piuttosto abitudinario nelle sue forniture. Si fidava del giro del rione. Nessuna reazione di Andrea: si limita a riferirmi. Notizia particolare: Petrone e Clerico hanno preso due giorni di permesso. Leggero movimento dei muscoli facciali di Andrea. Torniamo in città. Sotto casa di Tore c’è Totò, con un paio di amici. Facce da contrabbando, ma rassicuranti: la casa di Tore è sotto sorveglianza. Su per le scale c’è uno strano odore, qualcosa di spiazzante: un odore che sa di Bologna, non di acqua marina. Brodo di carni miste. Apro la porta e sento Lara dire allegra: bravo, Tore, proprio così, vai con quei mignoli! La scena che ci si apparecchia davanti ha dell’incredibile. Sul tavolaccio in cucina c’è una spianatoia piena per metà di quadretti di pasta fresca. Al centro un capiente piatto coperto da uno strofinaccio. Sotto lo strofinaccio, il ripieno fresco. Sull’altra metà della tavola: tortellini. Lara all’opera è una rivelazione: il punto di fusione tra postpunk e tradizione felsinea nelle veloci mani che pescano il ripieno dal piatto, chiudono a triangolo il quadratino di pasta e con un veloce colpo di mignoli concludono il tortellino. È evidente che Lara si schiera con la scuola del ripieno fresco, contro il partito del ripieno cotto. E va bene: ma la visione del vecchio figlio di pescatori che con le sue enormi braccia segue le istruzioni di Lara e chiude un tortellino dietro l’altro, certo non alla velocità di Lara, be’, è una delle cose più strampalate che potessi immaginare. Probabilmente il tortellino della nonna è l’unica eccezione che Lara fa al suo rigoroso rifiuto delle carni rosse: e comunque le pentole di brodo sono due, una grande di manzo e una piccola di ossi e gallina. – Oh, eccovi: venite a dare una mano anche voi? – fa Lara sempre più allegra. – Allora, cosa c’è? Non avevo mica voglia di fare l’ospite senza ricambiare! Poi guardate com’è bravo Tore, sembra non abbia fatto altro in vita sua! La catena di montaggio si completa, anche se i tortellini miei e di Andrea sembrano firmati: tortellini Quasimodo, più o meno. Dopo mezz’ora arriva su anche Ferodo, accompagnato da Totò che esclama: ma allora è vero che i tortellini sono di sinistra! – Fottiti, stronzetto! – ribatte Lara. – Queste scemenze le lasci dire a Vissani e ai suoi amici politici. I tortellini non sono né di destra né di sinistra: i tortellini sono in brodo o alla panna. Piuttosto: schiuma mò quel brodo! Nel pomeriggio inoltrato ci addentriamo nella Tàrde vècchie, per riordinare le idee. Andrea è sicuro: ci siamo fatti notare, ieri sera. Tore è d’accordo, ma non crede che possano essersi spinti a girare per la città vecchia con le moto nel corso della notte: si saranno insospettiti e ci avranno seguiti per controllare, ipotizza Ferodo. Questo conferma che sono nervosi. Andrea è più pessimista: in qualche modo devono aver capito. Secondo lui non è casuale che il belga non fosse a pranzo. E a Bologna qualcosa si sta muovendo: la morte del Lercio lo dimostra. Ferodo ha controllato la chat line: niente comunicazioni negli ultimi due giorni. Torniamo verso casa facendo un giro largo. Alla discesa del Vasto il contrabbandiere fa segno a Totò di avvicinarsi e gli dice che il coprifuoco su Gandoli è finito, stanotte verrà svuotata una villetta nel mirino da giorni. Quindi?, chiede Ferodo. Quindi a Gandoli non c’è più niente da nascondere, conferma Totò. E a questo punto neanche a San Vito. Autostrada A14. Tra Rimini e Cattolica, stazione di servizio, ore 20. La station wagon decelera, segnala con la freccia la svolta a destra e si immette nella stazione di servizio. L’autista parcheggia sul retro del punto di ristoro. Resta in attesa. Al suo fianco, l’uomo col pizzetto invia un Sms. La seconda macchina ha seguito le mosse della station e parcheggia poco distante. Il conducente scende dalla vettura ed entra nel bar, senza guardarsi intorno. Dieci minuti dopo un’automobile entra nella stazione di servizio. Parcheggia davanti al bar. I due occupanti hanno occhiali da sole, scarpe pesanti, telefoni cellulari con scheda estera: Ivano Clerico e Aldo Petrone si dirigono sul retro. Breve scambio di credenziali con l’uomo col pizzetto: l’agente Clerico siede al posto di guida. Il conducente della station si allontana con l’autista della seconda vettura: entrano in macchina, mettono in moto e scompaiono sull’A14. Dieci minuti dopo la station si mette in moto, seguita dalla vettura guidata dall’agente Petrone. L’agente Petrone sorpassa la station wagon e le fa da guida. Le due macchine escono dall’autostrada e si inoltrano verso i lidi. L’uomo col pizzetto invia un nuovo Sms: «tt ok». Taranto, città vecchia, ore 21. Tra la minestra bolognese e il negramaro di Puglia, uno scirocco appiccicoso s’insinua dalle finestre aperte, portando un odore di mare che contrasta con gli umori padani del brodo. Anche l’aria tra noi è mista: la festa della cena e la tristezza dei prossimi saluti, la chiacchiera allegra di Lara e il persistente silenzio di Andrea. Di tanto in tanto, Totò getta un occhio giù dalla finestra, scambiando cenni d’intesa con gli amici che soggiornano da basso, seduti sul bordo delle barche o a cavalcioni sulle sedie davanti alla pescheria, discreti e attenti. Ferodo ci avverte dell’avvenuto cambio della targa della Saab, e di alcuni enigmatici nuovi giocattoli che si è fatto costruire dai suoi amici hacker: sembrano pastiglie di liquirizia, all’interno della scatolina. Qualunque cosa siano, ha intenzione di usarli non appena tornati a Bologna. – Allora partiamo domattina? – chiede Lara. – Sì, e la parte finale del viaggio la facciamo sulle strade statali. – Be’, allora stasera non abbiamo niente da fare, no? Ferodo la guarda. Sorride: di’ mò, sorellina, stai pensando quello che penso io? Certo che sì. Giusto, dice Ferodo: tanto vale godersela fino in fondo. Cosa state architettando, voi due?, chiedo. Bagno di notte al chiaro di luna, tesoro: che ne dici? Non ho detto niente, tanto non serviva. Poi avevano ragione: è l’ultima sera, piuttosto che macerarsi nei saluti agli amici, tanto vale gettarsi in acqua e godersi l’ultimo bagno. Con la Due cavalli e il Vespone di Tore, discretamente scortati da un paio di facce da paranza che ci seguono in moto, troviamo una spiaggetta solitaria. Il mare è quasi tiepido e le birre sono ghiacciate: tutto come è giusto che sia. A guardarci, dal bordo del muretto, dobbiamo sembrare il solito gruppo di chiassosi turisti in vacanza. Nessuna traccia, qui e ora, del massacro del Cioccolata, dell’esecuzione del vecchio repubblichino. Niente contadini lombardi saltati in aria durante la fila per depositare l’incasso del mercato, niente ghigni di ghiaccio ad aspettare il comunicato del capo del governo. All’orizzonte non ci sono navi che sfidano l’oscurità della notte col loro cuore di tenebra: solo qualche boa di segnalazione, un paio di sub devono essere in immersione, alla ricerca di qualche pesce di pregio da rivendere domattina ai ristoranti del litorale. Tore solleva enormi ondate scagliando la sua mole nell’acqua notturna, Totò assiste Ferodo nella preparazione di un cylum d’addio, Lara lancia bottigliette di birra al volo. Tutto come dev’essere. Cosa pensi?, chiedo ad Andrea. Penso che dovrebbe esserci anche Cristiano, dice… E tu? Penso che è settembre, rispondo: che tra quattro giorni è l’anniversario della morte di Barbara, e che per la prima volta da quel giorno sono felice di settembre. No, cosa sono adesso non lo so sono solo, solo il suono del mio passo. E intanto il sole tra la nebbia filtra già il giorno come sempre sarà... Lidi ravennati, ore 21.30. La station wagon è all’interno del garage. Nel giardino della villetta balneare quattro uomini sorvegliano il vialetto d’ingresso e la stradina che passa sul retro. Altri due procedono con calma a spostare i contenitori dal doppio fondo della station allo scaffale ricavato da un vano del muro interno del garage. Terminato il trasbordo, il vano viene nascosto da un armadio che ne occlude la vista. Nel vano ci sono nove contenitori: il decimo rimane nel sottofondo della station. La basculante del garage viene alzata. L’agente Petrone siede al posto di guida. Mette in moto. Fa manovra per uscire dal garage. L’agente Clerico entra e siede sul sedile accanto. Accensione dei fari: la station wagon riparte. 16 settembre, Baricella, trattoria Venturoli, ore 22.30. Giusto il tempo di scendere dalla Saab di Ferodo e siamo saltati nell’auto di Andrea, senza neanche scaricare i bagagli. Ferodo accompagna Lara e si libera della macchina rubata, Andrea e io andiamo a rapporto dal vecchio comandante di brigata, giù nella bassa che comincia già a sapere di nebbia. Adesso che so cos’è stato il Togliatti per quasi mezzo secolo, mi sembra di averlo saputo da sempre: cos’altro avrebbe potuto fare il Togliatti, se non montare la guardia a difesa delle sue verità? A parte lo spuntino Dop in autostrada, il viaggio di ritorno è stato veloce e senza pause, quindi l’appetito di certo non manca. Queste rane contribuiscono a rendere meno brusco il cambio di sapori, col loro intingolo e la loro croccantezza. Il Togliatti ascolta con attenzione, valuta le ipotesi, poi senza alzare la testa chiede se quello che è entrato lo conosciamo, perché ha guardato verso di noi. Ha occhi anche sulla nuca, il Togliatti: una parte della sua anima è ancora di guardia sui monti. Comunque sì, lo conosciamo: è Diego Dall’Olmo. E dunque: ricominciamo a ragionare. Ragionare un bel niente: da qualunque parte la si rigiri, c’è qualcosa che impedisce di includere tutti i particolari dentro una regola generale. Tanto vale ricorrere all’analogia, allora. E l’analogia funziona, ma non fa che aumentare l’aria tetra che sembra sovrastare questa storia. Sta per succedere qualcosa di grosso, il Togliatti non ha dubbi: qualcosa come una banca o una stazione. Una banca o una stazione? Perché non è la stessa cosa: piazza Fontana lo abbiamo sempre saputo perché, e a cosa doveva servire e chi, la stazione di Bologna no. Qualcosa come una stazione, allora: qualcosa di cui non sappiamo né la causa, né lo scopo. – Lo scopo non è necessario, – dice Diego sorprendendoci. – Lo scopo può essere creato dopo l’effetto. Un evento può avere diversi fini, finché resta un’ipotesi non ancora realizzata: il suo scopo emerge via via che si passa dall’ipotesi alla realizzazione. Ma chi mette in atto un evento può non selezionare gli scopi prima, e decidere quale utilità trarne dopo, una volta osservato lo svolgersi dei fatti. Per il Togliatti è troppo complicato: non che non ci arrivi, ma quello che dice Diego toglie sostanza ai suoi nemici, li fa degradare a spettri impalpabili. Il Togliatti ha bisogno di nemici in carne e ossa: mica può mettersi a fare della metafisica a ottant’anni. No, commenta Andrea una volta usciti dalla trattoria e salutato il Togliatti: lui non può. Noi sì, però. – Perché lui no e noi sì? – chiedo. – Perché lui il realismo lo ha avuto a vent’anni, e su quello ha costruito il suo mondo. Noi a vent’anni abbiamo cominciato a combattere contro gli spettri e i mulini a vento: è tutta la vita che facciamo della metafisica. – Quali mulini a vento, Andrea? Erano assassini in carne e ossa, erano bombe piene di tritolo americano, che smembravano i corpi e distribuivano le membra sull’asfalto. Non è realismo questo? Ti sembrano mulini a vento? – I mulini a vento sono reali tanto quanto i giganti. È come per don Chisciotte, ma al contrario: noi vediamo mulini a vento là dove ci sono giganti feroci. E non riusciamo a vedere questi dietro quelli. – E qual è la differenza tra noi e don Chisciotte, allora? – Per me nessuna. Cos’hai contro don Chisciotte, amico mio? Mi riaccompagna a casa Diego. Non a casa mia: da Lara. È meglio stare lì stanotte, ha detto Ferodo dopo essersi fatto dare le mie chiavi di casa. Andrea rientra da solo. Arriva sotto casa, prosegue, fa il giro dell’isolato controllando le strade deserte. Poi parcheggia al solito posto, scende ed entra. Avverte Ferodo con un Sms. Dieci minuti dopo Ferodo arriva. Nella traversa di fronte, il motociclista, a metà della strada, osserva. Ha tuta e casco neri, come la moto: al buio non lo si vede. Dalla sua posizione non può essere visto, né dovrebbe poter vedere il portone. Ma osserva attraverso un binocolo a infrarossi. 17 settembre, Bologna, quartiere Colli, ore 10.30. La governante di villa Righi Aldrovanti esce con le chiavi dell’auto di servizio in mano: ora di fare la spesa. In casa rimane una sola persona, probabilmente per le pulizie: Righi Aldrovanti è uscito di buon’ora: non tanto presto da non essere visto da Ferodo. L’autista non è rientrato. Una sola persona in casa: adesso o mai più. Ferodo forza la serratura con le nuove chiavi passepartout che gli ha dato Andrea: decisamente migliori delle mie, pensa mentre attutisce lo scrocco della serratura con la carta plastificata. Muoversi in silenzio, adesso: monitorare senza farsi sentire. Per fortuna la cameriera ha gli zoccoli ai piedi e sta sbrigando le faccende al piano di sopra: ritmato dallo zoccolare in avanti e indietro della donna, Ferodo esplora la sala. Un computer, una bottiglia in cristallo sul tavolino d’epoca, una libreria di pregio. Decisione rapida: una cimice sotto il cassetto del tavolino, una dietro il tower sotto il tavolo del computer. Una terza dietro i libri? No, vai a sapere se poi prende proprio quel libro. Due bastano, questa stanza dovrebbe essere quella buona. Ferodo esce, con le orecchie tese al cioc cioc cioc del piano di sopra: una fortuna, il pavimento in cotto senza moquette. A centocinquanta metri dalla villa c’è la cabina del telefono. Ferodo la guarda con interesse: metti mai che… Dopotutto è avanzata una cimice. Soluzione classica: sotto il coperchio del ricevitore. Recuperata la moto, Ferodo ridiscende verso la città incrociando l’inconsapevole governante. Breve calcolo mentale delle liquirizie distribuite tra la notte e la mattina: cinque in tre case. Ne rimangono altre quattro, buone all’occorrenza. Al semaforo rosso Ferodo sbadiglia: è ora di riposarsi per davvero. Toscana, località imprecisata, ore 17. La villa è sempre là: dietro il convento, in fondo al bel sentiero ghiaioso. Anche il giardino non è cambiato: esagerato e pacchiano, con le fontane e le statue a forma di animali feroci, una versione kitsch dell’Overlook Hotel. In effetti Overlook sarebbe più appropriato di questo nome da battona, per la villa. Il cameriere in livrea apre, e senza pronunciare parola introduce l’inviato di nome Michael all’interno di una specie di volgare imitazione del Vittoriano, tra velluti blu e rasi color rosa, basse controsoffittature in legno e fodere in seta, pupi siciliani, madonne italiane, icone russe e statue d’ogni genere, divani e tavoli. Il tutto nella penombra creata dagli scuri semichiusi, sino all’anticamera che immette, oltre la pesante porta in legno, nello studio. Sul tavolino accanto al divano a sette posti, un incredibile animale in porcellana sorregge un telefono rosso e l’immancabile vassoio fornito di caramelle al limone. L’anziano padrone di casa ha la mania delle caramelle al limone. – Prende una caramella per la gola, caro Michael? – No, la ringrazio: ho appena mandato ai Caraibi il mio dentista con l’ultima rata dei miei denti. Nel suo classico principe di Galles con cravatta in seta e catena d’oro, invita il vecchio collaboratore a sedersi. – Mi dicono che il suo soggiorno italiano si è rivelato interessante, caro Michael. – Interessante, e per certi versi sorprendente. Ho conosciuto alcuni singolari individui, la cui autonomia di manovra mi sorprende tanto quanto il suo apparente ritiro nei suoi alloggi di campagna. – Non è un vero ritiro, caro Michael: due o tre volte alla settimana mi può trovare altrove, nella capitale persino, a sbrigare gli appuntamenti che tuttora non riesco a rifiutare. Cosa vuole che le dica, il mio telefono non ha mai smesso di suonare, e io sono troppo cortese per rifiutare un incontro o un favore, negli ovvi limiti delle mie possibilità. – Io però ho di lei memoria di ben più intense attività. – Cosa devo dirle, caro Michael? Viene il momento in cui noi anziani abbiamo il dovere di ritirarci e lasciare spazio ai nostri allievi, come un padre che lasci la direzione dell’azienda ai figli: devono pur dimostrare a se stessi, prima ancora che ai padri, di saper camminare con le proprie gambe. – Ciò non toglie che all’occorrenza i padri possano riprendere la guida dell’azienda, se i figli dovessero mancare al compito. – Ma naturalmente: cosa non farebbe un buon padre di famiglia per il bene comune, caro Michael. – Mi pare di capire che uno dei suoi allievi sia in particolare stato di osservazione, in questo momento. – So a chi si riferisce, caro Michael. E credo sia per questo che, se mi hanno riferito il giusto, lei ha deciso di posticipare il suo ritorno. – Infatti. Per il gusto di vedere come va a finire. Per vedere se l’allievo può essere pari al maestro, forse. – Forse. È un giovane, paragonato a noi, di grande ingegno, che ha capito una cosa importante: che manovrare è sempre preferibile a essere manovrati. L’inviato di nome Michael accetta volentieri il Martini cocktail preparato dal silenzioso cameriere. Curioso, pensare che il maestro si sia trovato un allievo. Curioso pensarlo in disparte, nel ruolo dell’osservatore. Curioso soprattutto pensare che l’osservatore sia esterno al sistema. A meno che non abbia ragione quel suo amico professore di Fisica, quello che sostiene che nessun osservatore è fuori del sistema: che non è possibile alcuna azione che non perturbi il sistema. Bologna, bar Pierino, ore 23. – Ehi, ehi, ehi, Gustavo, cos’è quest’aria da carbonari che avete tu e gli altri? Cosa state complottando con pierino in mano? Ah, ma c’è anche Lara, la ragazza del dottor Zivago: ma allora? Me la dài tu una monetina per pagarmi da bere, bella ragazza? Ha proprio ragione, Raffaele: abbiamo tutti un’aria da complotto, nonostante la distribuzione di pierini cui si è dedicato Diego. Soprattutto Andrea e Sandro: è quasi mezz’ora che parlano fitto, sul marciapiede di fronte. Sandro è arrivato con un fascio di fogli stampati, che di tanto in tanto sfoglia per sottolineare le sue parole. Poi la faccia gli si è fatta più scura, i fogli sono ritornati nella borsa, la conversazione si è infittita. Finalmente gliela dànno su e vengono ad abbeverarsi, mentre Lara paga il secondo giro e il chinotto di Raffaele. È il turno di Ferodo, adesso: quante cimici abbiamo, dove sono, come distribuircele. Abbiamo sotto ascolto le case di due poliziotti più il bar frequentato da un giro poco raccomandabile di sbirri destrorsi, più la casa di un rispettabile uomo d’affari. Senza contare l’accesso alla loro chat line. Se sta per succedere qualcosa, è la teoria di Andrea, le loro comunicazioni devono infittirsi: una volta gettata la nostra rete, i pesciolini devono abboccare. Se non tutti, almeno uno. – Giù i pierini, dice Ferodo, perché adesso arrivano le cattive notizie. Il resoconto della bonifica delle case che Ferodo ha fatto nottetempo. È ufficiale, i parassiti 1 e 2 siamo Andrea e io: perché sia le nostre case che i nostri telefonini sono infestati. Ferodo ha individuato le microtrasmittenti, ci spiega dove sono e come evitarle. Non le ha rimosse: ha solo tarato in basso il raggio d’ascolto. Quanto ai telefonini: continuare a usare quelli schermati che ci ha fornito lui. Quindi le stazioni d’ascolto diventano le case di Lara e di Sandro. Andrea, per il momento, non rimette piede in questura, e va a stare da Diego. – Be’, allora il mio moretto è agli arresti domiciliari a casa mia, – commenta Lara cercando di essere spiritosa. Senza riuscirci: perché anche a lei tutto questo comincia a far paura. – No, Lara: non possiamo tirarci indietro. Ne abbiamo già discusso prima di partire per Taranto, no? Andare via dove, poi? – Non lo so. In Spagna. In Messico, magari. Ti porto a vedere Puerto Escondido. Andiamo via, aspettiamo che sia tutto finito. – Come la tua amica Vera? – Come Vera, certo. Andiamo via. Se gli altri non ci stanno, andiamo via tu e io. Non siamo in un fumetto, amore: mi ci vedi a salvare il mondo? E tu, ti ci vedi? Non siamo mica Devil e Elektra, siamo solo due persone comuni. E comunque anche gli eroi dei fumetti muoiono. – Non possiamo, Lara. Non posso lasciare Andrea da solo, non posso essere da un’altra parte. Non so come spiegartelo, ma è così. Per me è così. – E allora prova a spiegarmelo, almeno! – È qualcosa che ha a che fare col Togliatti. Con la sua sicurezza. Lui ha sempre saputo da che parte stare. Anche Andrea, credo. Io l’ho saputo, una volta. Poi non l’ho saputo più, per tanto tempo. E adesso lo so di nuovo, da che parte stare. Se vado via adesso… – È tanto importante per te avere una parte da cui stare? Più importante della vita stessa? – Non lo so se è più importante della vita. Non voglio morire, e non voglio perderti, Lara: questo lo so. E so anche che devo stare dalla parte giusta. – Perché per te c’è sempre una parte giusta, vero? – No: non sempre. Adesso sì, però. Adesso c’è. 18 settembre, località non determinabili, ore 7. Chat line riservata Connessione n. 1: da Internet Point. Connessione n. 2: da computer a Internet Point attraverso server protetto. Connessione n. 3: da Internet Point. beta?Chi è connesso? lambda?Lambda. zeta?Zeta. Perché usiamo questo canale riservato? beta?Perché è una riunione ristretta. È urgente una fase operativa emergenziale. Propongo di affidarla a Lambda, senza ulteriori passaggi gerarchici. zeta?Hai esautorato Alfa? beta?No. Ho solo saltato un passaggio. Condivido la vostra analisi e la vostra metodologia. Ritengo che Lambda sia in grado di rispondere alle aspettative. Ti chiedo di lasciare in sospeso ulteriori comunicazioni, Zeta. zeta?Lambda? lambda?Affermativo. Ritengo di poter eseguire. Esprimo perplessità rispetto al fall out. beta?Ritengo che Zeta sia in grado di gestire gli eventi sulla base della sua pregressa esperienza. zeta?Cosa intendi per «lasciare in sospeso ulteriori comunicazioni»? beta?Sai bene cosa intendo. Ti chiedo di sospendere ulteriori comunicazioni per non più di ventiquattro ore. lambda?Concordo. Zeta? zeta?Affermativo. Ventiquattro ore. Presso Bologna, località non determinabile, ore 14. Un tocco d’autore: quattro rotelline girevoli fissate alla base della scatola metallica. Tecnica Mossad, usata in Libano. Lo stridio del trapano: la punta da due millimetri penetra nella base della scatola: quattro fori per ogni rotella. Lo stridio dell’avvitatore portatile: le viti autofilettanti entrano nei fori e bloccano le rotelle alla base. Una scatolina a rotelle, un giocattolino stile Ikea grande quanto una scatola di caramelle. Una scatola di caramelle in metallo: abbastanza resistente da sviluppare un’adeguata forza di compressione all’interno. Sul tavolo di lavoro: un blocco di plastilina. Così sembra, alla vista. Le mani esperte dell’uomo ne separano una porzione. Plasmano la porzione in un piccolo panetto. Avvolgono il panetto nella pellicola per alimenti. Il panetto entra perfettamente nella scatola. Un oggetto viene inserito nel panetto. Qualcos’altro viene collegato all’oggetto insertato con due fili colorati. La scatola viene chiusa. Il telecomando sul tavolo è attivato. La scatola viene riaperta: qualcosa si è acceso all’interno. Tasto del telecomando: qualcosa si spegne nella scatola. La scatola viene chiusa, la serratura saldata con una punta di stagno fuso. Il telecomando ha il nome di una marca di televisori. Istruzioni per l’uso. Tasto power: accensione del telecomando. La lucina rossa a destra si illumina. Tasto 1: accensione all’interno della scatola. Tasto 3: invio del segnale. Tasto 5: conferma dell’invio. L’oggetto all’interno esegue. Power-1-3-5: non c’è altro. L’uomo dal forte accento straniero consegna la scatola. I due uomini che la ricevono hanno scarpe pesanti, occhiali scuri, giubbotti eleganti e costosi. Bologna, bar Prezioso, piazza Galileo Galilei, ore 21.30. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda estera. All’altro capo: Ivano Clerico. – Hai visto Valle? – No, ha il pomeriggio libero. – Tu cosa ne pensi? – Non lo so. Continuiamo a tenerlo d’occhio. – Che impressione hai? – Perché? – Non mi sento sicuro. C’è qualcosa che non mi piace. – Non ti fidi? – No, figurati. È solo che all’improvviso sembra calato il silenzio. Forse qualcosa sfugge anche a loro. – Ti fai troppe domande. Abbiamo tutto sotto controllo, la spesa è nel frigo, il cuoco è arrivato… – Sicuro che non ci siano altre interferenze? – Tu fidati. – Quell’altro lo teniamo sotto controllo, secondo te? – Ha due cimici addosso: una in casa e una infilata nel letto. Sai cosa voglio dire… Vedrai che ci porta il biglietto vincente della lotteria. – Va bene. La posta? – Per qualche giorno sciopero delle Poste. Misura precauzionale. L’agente Petrone chiude il telefonino e ordina la piada. Sarà, pensa: ma qualcosa continua a non tornargli. Il barista gli allunga il tagliere e la spina media. L’agente Petrone appoggia tutto sul solito tavolino. L’agente Clerico termina di abbottonarsi il chiodo nero. Aggancia i guanti al borsello, tasta il giubbotto sotto l’ascella per sicurezza, prende il casco integrale e si avvia. L’agente Sandro Valle si sfila l’auricolare dall’orecchio. Ha riconosciuto le voci. Guarda il registratore. Tocca il tasto: rew. Tocca il tasto: stop. Tocca il tasto: play. …la spesa è nel frigo, il cuoco è arrivato… Sicuro che non ci siano altre interferenze? Tu fidati. Quell’altro lo teniamo sotto controllo, secondo te? Ha due cimici addosso: una in casa e una infilata nel letto. Sai cosa voglio dire… Vedrai che ci porta il biglietto vincente della lotteria. Va bene. La posta?… Due cimici addosso. Il biglietto della lotteria. Andrea. Sandro Valle afferra al volo le chiavi della macchina e si precipita fuori. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 22.30 Lara è da Ferodo con la mia Vespa: il suo motorino è rimasto parcheggiato dietro casa mia. Dovrebbe tornare a momenti. Riavvolgo il nastro della registrazione e lo verifico. È rientrato a casa alle otto. Niente telefonate fino alle otto e mezzo. Telefonata di servizio: verifica i turni di domani. Nessuna telefonata fino alle nove. Un amico gli propone una quota alle scommesse: neanche clandestine, legali. Punta su un pareggio a 2.5, una vittoria in casa a 1.5, una vittoria in trasferta a 3.5. Telefonata alle nove e mezzo. Rumore. Parlano di Sandro: sono loro. Continuiamo a tenerlo d’occhio: non sanno di Sandro. L’altro è incerto. Devo chiamare Sandro per confrontare le due registrazioni. …Sicuro che non ci siano altre interferenze? Tu fidati. Quell’altro lo teniamo sotto controllo, secondo te? Ha due cimici addosso: una in casa e una infilata nel letto. Sai cosa voglio dire… Vedrai che ci porta il biglietto vincente della lotteria. Va bene… Non ascolto la fine della telefonata. Il nastro vuoto gira per alcuni minuti. Rew. Play. …Quell’altro lo teniamo sotto controllo, secondo te? Ha due cimici addosso: una in casa e una infilata nel letto. Sai cosa voglio dire… Vedrai che ci porta il biglietto vincente della lotteria. Va bene… Due cimici addosso. Quell’altro. Due cimici. Il biglietto della lotteria. Una nel letto. Due cimici. Nel letto. Quell’altro. Quell’altro ha la cimice nel letto. Lara. Era tutto così perfetto. Troppo perfetto. Sandro: il suo telefonino suona senza risposta. Sandro non è vicino al telefonino. Continuo a provare. Lara. La cimice nel letto. Nel mio telefonino c’era una cimice: quella addosso. Quella nel letto è Lara. Sono due settimane che mi controlla. Dovevo fidarmi della prima reazione, quel pomeriggio sotto il Baglioni. Una puttana. Una puttana pagata per scoparmi e tenermi sotto controllo. Ecco come facevano a sapere le nostre mosse. L’appartamento in Santo Stefano. Taranto: sapevano tutto. Mi guardo intorno. Il biglietto della lotteria: Andrea. Mi hanno usato per controllare Andrea, adesso mi usano per arrivare ad Andrea. Devo andare via. Scendo in strada. Risalgo via Canale. Vedo una luce: è Lara sulla mia Vespa. Mi nascondo dietro una macchina: non mi ha visto. Punta verso casa. Il mio telefonino lampeggia: batteria in esaurimento. Lo spengo. Lo riaccendo. Cerco ancora Sandro: niente. Chiamo un taxi: arriva in cinque minuti. Cerco Andrea: occupato. Gli lascio un messaggio: Andrea sono io chiamami subito. Il telefonino lampeggia di nuovo: batteria quasi esaurita. Squilla. – Andrea? – No, sono Lara. Ma dove sei? Che succede? (Silenzio). – Ci sei? Che succede? Dove sei? (Silenzio). La musichetta stonata avverte: batteria esaurita. Chiudo il telefono. Arriva il taxi. Piazza dell’Unità, grazie. Scendo dal taxi: meglio arrivarci a piedi, a casa. Meglio vedere bene la strada. Tutto tranquillo, sembra. Ci sono due motociclisti appoggiati alla moto. Uno dei due ha una mano dentro il chiodo. Anfibi ai piedi. L’altro ha il casco integrale con la visiera abbassata. Scarpe sportive. Piccole: piede femminile. Il primo estrae un oggetto scuro dall’interno del giubbotto e lo infila nel borsello. L’altro ha piedi da donna: è lei. Aspettano me. Anche lei ha qualcosa in mano. Infila la mano nella tasca del giubbotto, estrae qualcosa, poi rimette dentro l’oggetto: ha controllato che si estraesse con facilità. Aspettano me. Uno si volta. Scappo via verso piazza dell’Unità. No: se scappo a piedi sono finito. La moto di Lara: non è sotto il portone, posso arrivarci. Continuo a correre, aggiro l’isolato. Non sono abituato a correre: ho un dolore al fianco. Bologna, abitazione di Diego Dall’Olmo, ore 22.30. Sandro sale le scale in fretta: talmente in fretta da scivolare e sbucciarsi il ginocchio. Andrea lo aspetta. Diego è al giornale. Parla concitato, Sandro. Riferisce dell’intercettazione. La cimice del Prezioso. Erano Clerico e Petrone: è sicuro. Andrea gli porge la fiaschetta di whisky. Andrea telefona a Diego. Parla un paio di minuti, si accorda. Un Sms lo avverte della presenza di un messaggio in segreteria. Andrea ascolta: Andrea sono io chiamami subito. Andrea richiama: è occupato. Riprova: Attenzione, messaggio gratuito. Il telefono da lei chiamato potrebbe essere spento o non raggiungibile: la invitiamo a riprovare più tardi. Sandro non si è accorto del motociclista che lo ha seguito a fari spenti. Il motociclista spegne il motore e scende. Non si toglie il casco. Riconosce la macchina di Andrea Vannini. Usa il telefonino per avere la conferma. L’Sms dice: «è lei». Fa scivolare la scatola a rotelle sotto la macchina fino all’altezza del serbatoio della. Preme il tasto power: la lucina rossa sul telecomando di accende. Aspetta. La luce delle scale si accende. Il portone si apre. Tasto 1. Lo vede uscire con le chiavi in mano. Apre lo sportello. Entra in macchina. Tasto 3. Lo vede mettere in moto. Tasto 5. Il boato sordo parzialmente attutito dall’auto che si solleva e ricade. Il secondo boato: il serbatoio esploso. Rogo di lamiere. Fumo nero, fiamme. Inquilini risvegliati si affacciano alle finestre. Un’altra auto prende fuoco. Il motociclista risale in moto e si allontana senza accendere i fari. Heaven There was a guy an underwater guy who controlled the sea got killed by ten million pound of sludge from New York and New Jersey this monkey’s going to heaven... Sono vivo. Cosa fai qui, Pantera? Ci vivo, qui. È dove ci siamo visti la prima volta, il cortile di vicolo Bolognetti: io ci dormo, qui, non è che hai un apriscatole? Perché vuoi un apriscatole? Perché ho una scatola di fagioli per cena e non ho come aprirla. Anche quando ci siamo conosciuti avevi una scatola di fagioli, Pantera. Pantera sorride. Non c’è il vecchio canale qui, dice Pantera. No, non c’è: è importante? Sì, dice Pantera: una volta c’era il fiume, adesso c’è il mare, ricordi? Cosa dovrei ricordare? La canzone. Quale canzone? Non importa, dice Pantera. Mi ripeti quella cosa, Pantera? Quella della guardia giurata? Quella. Forse non tutti sanno che il pancreas ha due attività principali: agente patogeno di giorno e guardia giurata di notte. Pantera sorride mentre me lo ripete. Ecco cos’è che non avevo capito: che il pancreas ha due attività principali. È per questo che non può essere stata Lara. Sento qualcosa di caldo che mi sale dalla schiena. Sorrido. Lo dovevo sapere che non poteva essere Lara. Lara. È passata la mezzanotte, mi dice Pantera. È importante? Sì, dice Pantera mentre lo abbraccio, scusami, Pantera, mi sento tanto stanco. È passata la mezzanotte, è il 19 settembre. Buffa la vita, vero? Sì, Pantera, buffa la vita, tanto buffa. Dieci anni fa Barbara è volata giù dalla balconata di una discoteca, penso mentre sorrido e mi aggrappo a Pantera. Buffa la vita: è l’ultima cosa che ho pensato. If man is 5 if man is 5 if man is 5 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 and if the devil is 6 then god is 7 then god is 7 then god is 7 this monkey’s going to heaven this monkey’s going to heaven this monkey’s going to heaven... 6. Noi siamo come il vento Faccio del bene e faccio del male, rispose lo straniero strabico. Noi siamo come il vento. Soffiamo in tutte le direzioni. NEIL GAIMAN 1. E adesso eccomi qui 22 settembre, Bologna. Chiesa di San Giovanni in Monte, ore 15. Aveva ragione Lara: non sono Devil, e lei non è Elektra. O forse è vero il contrario, perché alla fine Elektra muore: Frank Miller è uno che non fa sconti. Però la morte di Elektra è lirica, commovente. Quasi epica. Una morte degna del personaggio. Anche la mia morte è degna del personaggio: una morte da pirla. Proprio così: esco di casa posseduto dalle Furie e vado a regalarmi ai miei assassini. Come se le Erinni mi ci avessero trascinato per i capelli, come se il dio Dioniso m’avesse ubriacato e reso folle. Stronzate. Poco metterla in tragedia, poco cercare un tono altisonante: me la sono cercata, bestia che sono. E adesso eccomi qui, in una cassa di legno. Ora che ci penso, non lo so mica che legno si usa per le bare: ma tanto, ormai… In una cassa di legno all’uscita dalla chiesa appoggiata sulla vecchia galera bolognese, quella che dopo l’evasione dell’Ottantacinque, quando bucarono col trapano la parete e sbucarono nel tempio, ha chiuso i battenti. Come se il problema fosse la friabilità della parete: come se il frastuono del trapano fosse stato sovrastato dai gospel intonati dagli altri detenuti… E comunque: che ci faccio qui, sul sagrato di una chiesa? Bello il sagrato, bella la piazzetta con le sue scale: ma chi mi ci ha portato dal prete? Mah… Comunque ci resto per poco, il furgoncino delle pompe funebri ha già aperto gli sportelli posteriori. Mi sarebbe piaciuto andarmene in modo più pomposo, inutile negarlo: con l’organo che intona un pezzo rock, come nel Grande freddo. Mi sarei accontentato anche della banda di Radio Freccia, purché il pezzo fosse di mio gradimento. Quale pezzo, poi? Non lo so, non ci ho mai pensato quando ero in tempo. In the Court of the Crimson King, forse: con la ripresa nel finale che sembra tanto la colonna sonora di un western alla Sam Peckinpah o alla Walter Hill, col coro alla Morricone e i ralenti e il duello che non finisce più. E tanta gente ad applaudire una vita degna di essere vissuta. Invece… Invece ci sono quattro sfigati a salutarmi. Mi sembra di riconoscerli, ma non li focalizzo tutti. Hanno letto il mio nome sul giornale, si sono ricordati più o meno vagamente di una vecchia conoscenza, e già che erano liberi alle tre hanno deciso di fare un salto in San Giovanni in Monte, così, per non avere lo scrupolo di non esserci stati. Da come vestono, capisco che di quello che abbiamo vissuto gli resta qualche storiella buona da raccontare ai figli, per essere alla pari con i loro rampolli marilynmansoniani: due generazioni a farsi il viaggio dell’alternativo a termine. Poi c’è Diego, che stringe mani e regala pacche sulle spalle a due o tre conoscenze comuni, e intanto si segna qualche parola sul taccuino. C’è Ferodo, immobile e distante, con lo sguardo fisso sul feretro. E c’è Lara appoggiata al braccio di Raffaele. Sono tutti qui: qualche passante secondario sul mio marciapiede, l’hacker che mi conosceva a malapena per nome, il mio amico barbone e la ragazza della quale non ho saputo fidarmi. Una ragazza che senza saperlo esaudisce il mio desiderio recondito: un concerto alle mie esequie. Con un carillon giocattolo, girando la manovella. Suona una musichetta che non conosco, una musichetta dei Pixies. Non so come faccio a saperlo: dev’essere perché anche la ragazza che non mi ha salvato la vita è una pixie. This monkey’s going to heaven… C’è un passante che si ferma a osservare la scena, una signora che aspetta la fine per entrare in chiesa per affari suoi, e un barbone stravaccato per terra nell’angolo. Non è la sua zona, e la cosa a Raffaele non può sfuggire: funerale o no, la mappa dell’accattonaggio ha una precisa gerarchia topografica, e un nuovo arrivato non può permettersi di lavorare sulla ghiotta e redditizia postazione prospiciente la chiesa di San Giovanni. Così Raffaele si scusa con Lara e va a scacciare l’intruso. Parlano. L’intruso scuote la testa. C’è qualche gesto che non comprendo, poi Raffaele torna indietro. Una lite tra barboni: il degno complemento alla mia uscita di scena. 2. Cocci di bottiglia 19 settembre, Milano, San Vittore, ore 12.30. Va bene, si dice ad alta voce Osvaldo Strano: tanto vale che vada. Ha fatto i controlli, ha inviato e ricevuto fax ufficiali, telefonate informali, e-mail: corrisponde tutto alla prima impressione. Il poliziotto saltato in aria è quello che veniva a trovare Cristiano Malavasi. Nessun rischio di errore: è l’unica visita che Malavasi ha ricevuto nei suoi anni milanesi. Poi, da un certo momento, neanche quella. L’investigatore privato ucciso con due revolverate alla schiena è il mittente di alcune delle rare lettere ricevute da Cristiano Malavasi. Anche di quelle che Malavasi si è rifiutato di ricevere. Tutto segnato sui registri delle visite e della corrispondenza. Tutto in una notte: cos’è diventata, Bologna? Perché diventata?, si chiede all’improvviso il direttore Strano: perché, una volta era diversa, Bologna? Un treno ad agosto, uno a dicembre. La stazione ferroviaria di nuovo ad agosto. Quelli della Uno bianca. L’aereo da guerra dentro la scuola a Casalecchio. Com’è che ti distrai un attimo e di colpo Bologna sembra la città più tranquilla del mondo? Com’è che ce le dimentichiamo, queste cose? Già: e come si fa a dire a Cristiano Malavasi che gli hanno ammazzato due amici in una notte? Due morti sono pochi rispetto a un treno carico di turisti e pendolari, a una sala d’aspetto con i passeggeri in attesa in maglietta e bermuda, con le ciabatte di plastica ai piedi: ma se due morti sono tutto ciò che ti resta al mondo, due morti significa tutto il tuo mondo, no? E allora come si fa a dire al camoscio Malavasi che il suo mondo è morto in una notte? Che lì fuori non c’è più nessuno ad aspettarlo per il giorno in cui uscirà? Che uscirà di galera per andare a ubriacarsi da solo dopo trent’anni di gabbio? Si fa, dice il direttore Strano parlando ad alta voce, si fa, dice passando davanti al brigadiere Scungio, che lo vede parlare e gesticolare come un nevrotico diretto verso il braccio dei politici. O, se non ce la si fa, ci si nasconde vigliaccamente dietro i notiziari televisivi. – Ciao, direttore. – Cosa fai, Malavasi? – Leggo, direttore. – Non vai a sentire il notiziario nella sala della televisione? Cristiano Malavasi scosta gli occhi dalla pagina della Storia della colonna infame per guardare meglio il direttore: cosa c’è, direttore? Niente, Malavasi, cosa dovrebbe esserci? Direttore, io i notiziari non li ho mai sentiti da quando sono qui. Sì, Malavasi, di solito non li senti. No, direttore, non di solito: mai. Sì, Malavasi: mai. Però forse oggi è meglio che vai a sentirlo: fidati, Malavasi, comincia tra cinque minuti, è meglio che ci vai. Cristiano Malavasi prende una striscia di carta e la infila tra le pagine. Chiude il libro. Guarda Vittorio Guerra: il suo compagno di cella alza le spalle e scuote la testa. Cristiano Malavasi si alza, attraversa la cancellata aperta dal direttore e gli passa davanti cercando di guardarlo negli occhi. Il direttore Strano abbassa lo sguardo. Cristiano Malavasi si avvia. – Guerra? – Sì? – Fammi un favore, Guerra: vai anche tu con Malavasi. – Perché? Neanche a me interessa il notiziario. – Fammi questo favore, Guerra: vai con Malavasi, non farlo andare da solo. Vittorio Guerra si alza dalla branda e si avvia verso la sala comune. Il pettinato lettore di notizie riepiloga con voce professionale e tono sufficientemente accorato le brevi note biografiche di Andrea Vannini, giovane ispettore bolognese caduto vittima questa notte di un attentato terroristico sul quale al momento le forze dell’ordine non si esprimono per non pregiudicare le indagini. Le immagini dell’auto carbonizzata. La zoomata sul catorcio dell’auto contigua che ha preso fuoco. L’intervista al proprietario dell’auto contigua. Il commissario Valente promette indagini a trecentosessanta gradi. Le parole del prefetto sono coperte da una voce esultante. – Minchia! Sbirro abbruciarono! Basta questo: sbirro abbruciarono. Cristiano Malavasi scatta in avanti verso il picciotto dalla lingua veloce. Due soli passi, il terzo scalcia l’aria: le braccia robuste di Vittorio Guerra lo afferrano e lo tengono bloccato. Lascia stare, Cristiano, non è il momento, dice Vittorio. Il picciotto dalla lingua veloce si volta con aria sfottente. Gli agenti di sorveglianza si scuotono dallo stordimento dovuto alla notizia. Poi tutto si acquieta. Tano Virzì si alza dalla sedia: don Tano Virzì. Non toglie neanche le mani dalle tasche della giacca da camera, non dice una sola parola, non minaccia con lo sguardo: solo, si alza in piedi. Olio sull’acqua. Il picciotto dalla lingua veloce si morde il labbro inferiore: perdonasse, don Tano. Tano Virzì non risponde. Non si siede. Il picciotto capisce: lascia la sala e torna in cella. Tano Virzì si volta verso Cristiano e inclina la testa in segno di cortese saluto. Cristiano non risponde. Gli occhi sono inchiodati allo schermo. Nel corso della notte un altro efferato evento sanguinoso al momento inspiegabile ha turbato la città felsinea. Un investigatore privato è stato assassinato poco dopo mezzanotte con due colpi di pistola alla schiena, pare dopo un lungo inseguimento, da uno o più killer fuggiti forse su una moto. Testimone dell’omicidio, il noto attore bolognese… Cristiano smette senza accorgersene di resistere alla morsa delle braccia di Vittorio Guerra. Per un istante si appoggia al compagno di cella. Una sedia vuota gli è provvidenzialmente portata accanto. Accasciato sulla sedia, nel silenzio governato dalla figura all’impiedi di Tano Virzì, Cristiano piange. Erano quasi vent’anni che non accadeva. …Al momento si ignora se i due eventi siano in qualche relazione tra loro. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 14.30. L’hanno svegliata all’alba. L’unico numero di telefono memorizzato sul cellulare è il suo telefono fisso, signora. Signorina, prego. Signorina. Quale cellulare, mi scusi, ho dormito pochissimo, di cosa sta parlando? Le hanno spiegato di cosa stavano parlando. Lara si è vestita in fretta. Ha chiamato un taxi. Si è fatta accompagnare all’ospedale Maggiore: è qui che hanno portato un uomo ferito da due colpi di arma da fuoco?, ha chiesto. Un uomo in borghese le si è avvicinato con gentilezza. Venga con noi, per cortesia. Sono entrati in un corridoio. Gli infermieri non girano per questo corridoio: svoltano prima. Dal corridoio a una stanza. Non è un medico quello che le parla adesso. È così che Lara ha capito. Ha riconosciuto il corpo. Ha risposto a qualche domanda. Poi ha sentito parlare di un’esplosione. Di un ispettore di polizia. Ha saputo anche di Andrea. Ha chiesto di andare via. Non ha voluto essere accompagnata. Ha rifiutato il calmante offertole dal medico legale. Ha girato per ore. È passata davanti a tutti i bar di settembre. Ha ripercorso le strade del centro. Ha chiamato Ferodo. Torna a casa, le ha detto. Aspettami là. Non parlare con nessuno. È tornata a casa a piedi. È ancora buio a casa di Lara. È tutto abbassato, come fosse notte. Era notte quando l’anno svegliata. Non accende la luce: basta quella che filtra dalle tapparelle. Il frigorifero. La bottiglia di bianco: chardonnay 1995 Yeden: non lo abbiamo più bevuto. Lara prende il cavatappi semiprofessionale cromato. Toglie la copertura dal tappo. Lo cava via: senza sentire l’odore dal fondo del sughero. Prende il bicchiere adatto. Versa un goccio, lo fa roteare nel fondo del bicchiere, lo getta via. Riempie il bicchiere. Lo alza a mezz’aria: brinda. Beve il primo sorso, lo fa girare nella bocca, lo mastica: buono. Butta giù l’intero bicchiere in un colpo solo. Rovescia la testa all’indietro. Non sente il leggero fruscio alle sue spalle. La luce si accende. Lara si volta. Ha ancora la bottiglia in mano. La mano le si apre. La bottiglia si frantuma per terra. Località non determinabili, ore 16.30. Invio: da cellulare clonato con scheda estera a telefono fisso. Tavolo in mogano anticato. Telefono nero a disco. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Dieci minuti dopo. Invio: da cabina telefonica pubblica a cellulare clonato con scheda estera. [La cabina dista centocinquanta metri dall’abitazione dotata di telefono nero a disco]. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Il ricevitore viene sollevato. Nessuna risposta vocale. alfa?Allora? Che succede? beta?Lo chiedo a te. Cos’è tutto questo baccano per farti chiamare? Non potevi rispettare la normale procedura e la sua tempistica? Il trambusto di stamattina ha rischiato di bruciare delle postazioni telefoniche sicure. alfa?Vogliamo parlare del trambusto di questa notte? beta?No. Non vogliamo parlarne. Non c’è da sapere nulla di più di quel che ti è noto. alfa?Perché non sono stato consultato? beta?Perché era necessaria la massima ristrettezza. Il tuo ruolo resta immutato. Sempre che non deluda ulteriormente le aspettative con promesse che non sei in grado di mantenere. Fine delle comunicazioni. L’uomo noto come Beta chiude la comunicazione. Estrae la Sim card dal telefono cellulare e la sostituisce con un’altra. Compone un numero di telefono. Alfa accartoccia la scheda e la mette in tasca. Torna in villa. Nella sua testa c’è un elenco di collaboratori: Beta ha utilizzato una parte della sua squadra, senza dubbio. Ferodo ripone l’auricolare. C’è nervosismo nell’aria, sui colli bolognesi. Ferodo riprende in mano il diagramma delle comunicazioni in chat e telefoniche. Ricontrolla alcuni circoletti rossi. Non è finita finché non lo dico io, si dice. Non è più un gioco: è una vera guerra, adesso. Per Ferodo è appena cominciata. 19 settembre, Milano, San Vittore, ore 18.30. La cella di Tano Virzì è sobria. Solo l’abbigliamento di don Tano tradisce il suo ruolo. Tano Virzì, autoparcheggiatore: ha detto così al magistrato. Parcheggio macchine, ha ribadito. In un parcheggio abusivo, gli ha contestato il magistrato. Ha alzato le spalle, don Tano: devo campare, ha risposto. Pieno di auto rubate, gli ha contestato il magistrato. Io le parcheggio e basta, ha risposto. Il parcheggio-rottamazione fuori Milano: il cuore dello spaccio di coca dell’intera Lombardia. Hanno filmato tutto, hanno prove, testimoni, agenti infiltrati: il processo durerà anni, la conclusione è certa. Tano Virzì non controlla più il movimento dall’ufficio prefabbricato dentro il parcheggio abusivo: lo controlla dalla sua cella, attraverso una rete di avvocati giovani dai costosi vestiti firmati. Cristiano Malavasi ha il privilegio di non doversi inchinare per chiedere il permesso di entrare. Cristiano Malavasi ha il rispetto del don. E sa che don Tano gli deve un favore. – Questo favore io non te lo posso rifiutare, Cristiano. Solo, hai pensato bene a quello che fai? – Se ci avessi pensato non sarei qui, don Tano. Posso contare su di te? Tano Virzì agita la mano con un gesto poco chiaro. I detenuti politici sono bravi ragazzi, ma parlano troppo. Hanno la testa piena di idee confuse: questo gli hanno insegnato quelli che in cella c’erano negli anni Ottanta. È per questo che Cristiano gli piace: parla poco e ha le idee chiare. Vittorio Guerra fuma sulla branda. Cerca di ricordare qualche particolare insignificante, di quelli che ti si fissano in testa senza motivo. Dove l’hanno giocata quella finale contro l’Ajax? Ricorda le foto sui giornali, le immagini dei gol alla televisione il giorno dopo. I capelli lunghi degli olandesi. La faccia strafottente di Cruijff. Le basette del giovane terzino italiano buttato lì nella mischia a marcare quell’olandese. Non c’è stata storia, gli hanno detto. Prima o poi dovevano passare, errore o non errore: erano troppo forti, gli olandesi. Era troppo forte, quel Cruijff. Gli hanno detto: Vittorio, quella sera di maggio, non era davanti alla televisione. Era su un ponte: guardava il paesaggio. La linea scura delle vette dei monti sullo sfondo della notte. Le macchie dei boschi. La stradina di paese. La macchina ferma in posizione sospetta. I carabinieri che arrivano allertati da una telefonata anonima. L’esplosione. Fuma ininterrottamente, il soldato politico Vittorio Guerra. Sta ricominciando. Altri convinti soldati politici, altri burattini, altri burattinai. O forse gli stessi: non ha importanza. Ha fiutato l’aria, Vittorio. E ha chiesto il trasferimento. Niente soldati senza sonno, qui a San Vittore: meglio stare da soli, per un po’. Meglio non essere coinvolti. L’auto saltata in aria a Bologna: non può essere un caso. Non può essere quello che è in preparazione: è una roba grossa, lo ha percepito. Ma non può essere un caso: Vittorio Guerra non crede al caso e alle coincidenze. Cristiano ritorna in cella. – Come va? – Devo parlarti, Vittorio. C’è una cosa che devo chiederti. Vittorio accende un’altra sigaretta con la cicca della precedente. – Anch’io devo parlarti. E dirti perché sono arrivato qui. Cosa c’è là fuori. Ti può interessare, credo. Se ho capito cosa vuoi fare. 20 settembre. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 16. Il telefono squilla. Sul tavolo, accanto al telefono: un’agenda aperta. Un blocco di post-it gialli. Lara legge il numero sul display. Segna il numero e l’ora sull’agenda. Risponde. – No, grazie. No, per qualche giorno non lavoro. Non sto bene. Sì, è un peccato. Pazienza. Mi faccio viva io quando riprendo. Lara completa la nota sull’agenda segnando anche il nome. Il telefono squilla. Lara controlla il numero sul display: Chiara. Segna sull’agenda. – Pronto? – Lara? Sono Chiara. Ti disturbo? – No. Non mi disturbi. Dimmi. – Non so cosa dirti, Lara. Ho aspettato fino a ora perché non so proprio cosa dire. Vuoi che venga a trovarti? – No, non ora, Chiara. Voglio stare per qualche giorno da sola. Poi, magari… – Vuoi che metta giù? – Tu come stai? – Non riesco a crederci, Lara. Quand’è stato che eravamo a cena tutti insieme? Mi sembra di essere appena uscita da quel ristorante… Mi dico che è un brutto sogno e che prima o poi mi sveglierò… – Non è un sogno, Chiara. – Hai ragione, Lara. È che mi sembra tutto sbagliato. Perché succedono cose così? – Perché è così che è fatto il mondo, Chiara. Si salutano. Forse Chiara sta piangendo. Lara appoggia il ricevitore. Completa la nota sull’agenda. Scrive «Chiara 20/9 16.10» sul post-it. Stacca il bigliettino giallo e lo attacca sul frigo: si vede meglio, lì. 3. Ritagli «l’Unità» Emilia Romagna cronaca regionale, 20 settembre 1998 tentativo di furto in un noto studio odontoiatrico bolognese? di Tommaso De Lorenzis Nella notte tra il 18 e il 19 settembre un tentativo di furto sarebbe stato perpetrato ai danni dello Studio dentistico Alessandrini, uno dei più noti laboratori odontoiatrici della città. La mattina del 19, infatti, il direttore dello studio, dottor Rovinetti, si è accorto del mancato funzionamento del sistema di allarme che collega lo studio alla questura. Un successivo controllo ha permesso di appurare che il sistema era stato disconnesso con una certa perizia tecnica. Tuttavia non sono state trovate tracce della presenza di estranei all’interno dello studio, e all’inventario effettuato non sono emersi beni o oggetti mancanti. Si ritiene che l’obiettivo dei ladri fossero le sofisticate apparecchiature odontoiatriche, e che il progettato furto sia stato sventato da un qualche evento casuale che deve aver messo in allarme i ladri quando già l’impianto di sicurezza era stato neutralizzato. Gli inquirenti sono orientati verso la pista del furto su commissione, data la non facile commercializzazione delle attrezzature, il cui valore è comunque elevato. L’attività dello studio dentistico non ha comunque subito interruzioni. «Il Mattino di Bologna», 21 settembre 1998 gli anarchici respingono la provocazione «non siamo stati noi» di Diego Dall’Olmo In una conferenza stampa congiunta, i portavoce del circolo anarchico Camillo Berneri e della Federazione anarchica italiana (Fai) hanno denunciato con forza il carattere provocatorio del documento con cui un sinora sconosciuto Fronte anarchico insurrezionale ha rivendicato ieri l’assassinio dell’ispettore di polizia Andrea Vannini. Attribuire questo tipo di evento a una sigla che allude comunque a quella della Fai – Federazione anarchica italiana «è un fatto grave e infamante», dicono i due portavoce. «Chi addita un gruppo di compagni/e alla repressione è un poliziotto o un suo collaboratore». Gli anarchici bolognesi hanno poi ribadito la loro storica avversione alla pratica della lotta armata: «La Storia ci ha insegnato come il delirio rivoluzionario partorisca i tiranni e i gulag». Davanti a un atto terroristico di questo tipo, è stato affermato, «sembra di vedere all’opera i soliti arnesi di questura, buoni per tutte le stagioni». Noi, ha affermato il portavoce del circolo Berneri, «non abbiamo sufficienti elementi per riconoscere con chiarezza questi soggetti. Ci rimane il dubbio che dietro l’operazione vi possa essere tanto la mano dell’ipersoggettivista come quella di zelanti funzionari statali. Anche perché alla nostra analisi non sfugge l’analogia, anzi l’oggettiva complicità tra simili testi e le più ignobili veline della questura». Il comunicato del Fronte anarchico insurrezionale, fatto ritrovare ieri in due cabine telefoniche a Bologna e Roma, metteva in relazione l’attentato con presunte responsabilità dell’ispettore Vannini in recenti aggressioni subite da realtà antagoniste a Bologna, e segnatamente ai fatti del 6 settembre scorso al Livello 57, per i quali l’inchiesta è ancora in corso. Tuttavia dalla questura si fa notare che l’ispettore Vannini non era in alcun modo coinvolto nell’inchiesta. La rivendicazione ha comunque suscitato forti perplessità tra gli inquirenti, anche se l’indicazione del tipo di esplosivo usato viene ritenuta, in attesa degli esiti delle perizie sull’automobile della vittima, «degna di interesse». Comunicato Ansa, 21 settembre 1998 evaso da san vittore esponente delle cosche catanesi Nino Santorre, un noto esponente delle cosche catanesi, è evaso ieri a Milano dal carcere di San Vittore. L’evasione è stata scoperta quando, nel ripostiglio dell’infermeria del carcere milanese, è stato ritrovato legato e imbavagliato un obiettore che presta il suo servizio come ausiliario medico nell’infermeria carceraria. Il Santorre si sarebbe sostituito all’ausiliario al termine del turno di lavoro del personale, e grazie al suo tesserino di riconoscimento sarebbe riuscito a superare i controlli e ad allontanarsi con la stessa automobile dell’ostaggio. L’auto è stata ritrovata a pochi chilometri di distanza dal carcere, nei pressi di un bar. Un avventore del suddetto bar ha dichiarato di aver visto un uomo arrivare su una moto di grossa cilindrata, che ha parcheggiato davanti al locale con le chiavi inserite e il casco appoggiato sul sedile. Quasi subito, un uomo che gli inquirenti ritengono essere il Santorre è sceso dall’auto rubata e si è allontanato sulla moto dopo aver indossato il casco. Nino Santorre è in attesa di giudizio per duplice omicidio, e ha già riportato una condanna in primo grado per associazione di stampo mafioso e porto d’armi abusivo. «la Repubblica», cronaca di Bologna, 22 settembre 1998 proseguono le indagini sulla morte dell’ispettore di Roberto Colasanti Ancora senza elementi di rilievo le indagini sull’attentato terroristico che ha causato la morte dell’ispettore Vannini. Gli inquirenti, che continuano a essere dubbiosi sul comunicato di rivendicazione, faticano a trovare un possibile movente per il feroce atto che ha fatto ripiombare Bologna nell’incubo del terrorismo. Ieri la perizia medico-legale sulla dentatura dell’ispettore Vannini ha confermato la coincidenza del calco dentario preso sul corpo della vittima con una precedente radiografia odontoiatrica. Nel frattempo, continua a suscitare inquietudine la scomparsa dell’agente di polizia Sandro Valle, del quale non si hanno più notizie dalla sera del 18 settembre, e che sembra aver fatto perdere le sue tracce senza un apparente motivo. Fonti della questura affermano che per il momento non si ipotizza un legame tra la scomparsa dell’agente e l’omicidio dell’ispettore Vannini, ma che non può essere sottovalutato lo stretto rapporto di collaborazione esistente tra i due poliziotti. «Il Mattino di Bologna», 23 settembre 1998 non un mafioso ma un terrorista l’evaso di milano di Diego Dall’Olmo Clamorosa svolta nelle indagini sull’evasione di San Vittore, per la quale sono indagati un agente di custodia e il socio di una cooperativa che effettua lavori nel carcere, per comportamenti che avrebbero agevolato la fuga del detenuto. Si è appreso infatti che Nino Santorre, risultato mancante all’appello e assente dalla sua cella il giorno dell’evasione, era in realtà nella cella di un altro detenuto, Cristiano Malavasi, che a questo punto risulta essere il vero evaso. Ad agevolare lo scambio di persona è stata anche la richiesta del compagno di cella di Malavasi, Vittorio Guerra, la sera del 19 settembre, di essere subito trasferito in altra cella, e provvisoriamente in quella di sicurezza, in ragione delle forti divergenze politiche emerse tra i due terroristi. Guerra è infatti un esponente di spicco del terrorismo neofascista, e sta scontando l’ergastolo per l’assassinio di tre carabinieri, mentre Malavasi fu responsabile nel 1980 dell’omicidio di un industriale bolognese a opera di un commando di Prima linea. Sostituitosi per ragioni tuttora ignote al Malavasi, il Santorre è riuscito, asserendo di accusare forti dolori al capo, a rimanere da solo e a letto per quasi due giornate, contribuendo in modo forse determinante all’evasione. Le ricerche si erano infattisubito orientate in direzione delle cosche siciliane presenti nel milanese, mentre si ritiene che il Malavasi abbia potuto allontanarsi indisturbato da Milano, probabilmente in direzione della Francia. 4. Sventura a voi, bastardi! 22 settembre, Bologna. Chiesa di San Giovanni in Monte, ore 15. Incredibile: quando la bara esce dalla chiesa Lara non trova altra parola. Incredibile. Fare l’amore in macchina di notte sulla musica dei Massive Attack. Il Sud, lo Jonio, il sole. L’amicizia di quei vecchi figli di pescatori verso l’ultima venuta come se ci si conoscesse da sempre. La scoperta della vera storia d’Italia e le risate sugli «Alan Ford», poi ancora l’amore, poi ancora Superciuk. E Point Break, che non gli ho mai fatto vedere, e il Messico nel quale l’avrei portato. E Lester. Come ci si sente in questi casi? Come una banshee. Come una strega del Nord, di quelle che portano sventura ai malcapitati che incrociano la loro strada. Come una banshee: sventura a te, amore mio. Sventura. Gira il carillon, Lara. Il silenzio è rotto dalla musica. Sventura, ripete Lara a denti stretti. Sventura a chi ti ha portato via, sventura a chi ha portato via Lester. Sventura a voi, bastardi! Sventura: non è una promessa. È un giuramento. Guarda quelle facce lì, si dice Raffaele. Erano tutti più magri, avevano tutti più capelli. Guarda quello, si dice Raffaele: eccolo lì, con lo stalin in pugno, a urlare guai-guai-guai-a-chi-ci-tocca! all’altezza delle due torri, guardando l’imponente corteo armato srotolarsi per via Rizzoli. Lo so cosa fa oggi, il signor-guai-guai-guai-a-chi-lo-tocca: guai a chi gli tocca il conto in nero, guai a chi gli tocca l’investimento in Centramerica, guai a chi lo tocca mentre si scopa le aspiranti bariste del suo locale. Guai anche a chi tocca quell’altro, quello delle conferenze sugli scrittori minimalisti, quello della poetica dell’oggettino, quello assessore alla Cultura del comune di Fangala, guai a chi tocca anche lui. Cattivo oggi, Raffaele. È in giorni come questi che è difficile mantenere l’impegno preso con se stesso. Con se stesso e il gruppo di autoaiuto: l’impegno che ciascuno del gruppo ha preso con gli altri. È stata dura ammettere di non essere capace di gestire l’ultimo bicchiere. No, non l’ultimo: il penultimo. È sempre il penultimo bicchiere, dopo ne verrà sempre un altro: finché resta il penultimo posso sempre smettere, posso gestire il bicchiere come voglio, se voglio smetto. Finché è il penultimo. È stato nel gruppo di autoaiuto che ha imparato che non è il penultimo, ma l’ultimo bicchiere. Che non lo gestisci, l’ultimo bicchiere. Che non hai la forza di uscirne. È su questa ammissione del fallimento che Raffaele ha costruito la risalita, passo dopo passo. Fino al disgusto delle bevande dolciastre: al bicchiere in mano non ha rinunciato, cambia solo quello che c’è dentro. E adesso si chiede: ne vale la pena? Perché chi annega la vita nel bicchiere sta peggio? Perché vomitare per l’alcol è peggio che vomitare davanti alla vita? Intanto però difendiamola, la vita. A partire dall’intruso lì per terra, col vecchio impermeabile, che occupa quella mattonella. Questa città ha milioni di mattonelle che non sono tutte uguali. Alcune forse sì: certune sono più uguali delle altre. Hanno un nome e un segno di riconoscimento, quelle più uguali delle altre. Sono state conquistate giorno dopo giorno, strappate con ferocia alla deriva dello sbandamento, dell’inazione, del lasciarsi andare. C’è stata una guerra feroce, c’è tuttora una guerra feroce: non tra di noi, ma tra noi e la vita. C’è chi è caduto vittima del freddo, della fame, della malattia. L’eroina, l’epatite, l’Aids. Alcuni sono scomparsi: dall’oggi al domani non ci sono più, forse migrati altrove, forse… I più duri resistono, conquistano la posizione lasciata libera, si organizzano per dividersi gli angoli, i portici, le piazze migliori. I ristoranti che lasciano il cibo avanzato tra i rifiuti, le mense, i preti caritatevoli, i singoli: ogni informazione viene messa nella rete, condivisa da pochi e tenuta segreta agli altri. Dietro la città placida e lucente c’è un’arena nella quale ogni giorno i leoni vengono sguinzagliati contro i barboni, gli alcolizzati, i tossici, i terminali. I senza-fissa-dimora della vita. Il darwinismo sociale della Bologna grassa e rossa, la guerra per la vita non vista dal sindaco comunista grasso e baffuto che sembra Balanzone, ma neanche dal cardinale che scaglia le sue omelie dai suoi pulpiti troppo alti per vedere chi cade e viene calpestato. Un piccolo, quotidiano Heysel tra portici e tortellini, qui come dappertutto. Ecco perché Raffaele trova una buona ragione per non ricominciare a bere. Il nuovo arrivato lì non deve stare: e non c’è funerale che tenga. I morti non si levano dal sepolcro per ridarti il quasi niente che ti viene strappato. Il nuovo arrivato seduto per terra. – Ehi, ehi, ehi: cosa fai qui, tu? Non puoi stare qua. Vai via, via da questa piazza, via da questo quartiere. Mi ascolti? Via, ho detto! Il nuovo arrivato sorride. – Mi ricordo di te, Raffaele. Giochi ancora a scacchi? Raffaele lo guarda bene: chi è questo? – Io non ti conosco. Tu comunque non puoi chiedere l’elemosina qua. Tu ti alzi e te ne vai, chiaro? – Vedi cappelli in terra? Ho allungato la mano verso i passanti? No: in effetti no, non lo ha fatto. E allora? – Guardo. Osservo la scena. Non ho bisogno di chiedere l’elemosina, – dice il nuovo arrivato scostando appena l’impermeabile, giusto per fare intravedere il calcio della pistola. Raffaele si allontana: capisce che è meglio fidarsi. In effetti, non tende la mano verso i passanti. Si ricorda di me, dice: ma quando? La memoria di Raffaele è quella che è: il funerale di Guglielmo, e Raffaele lo sa che non si chiama Guglielmo. Ma quale sia il suo vero nome, Raffaele non lo ricorda. Forse non lo ha mai saputo. Il nuovo arrivato osserva la scena. Registra i gesti, i visi. Non si sofferma sul paio di volti del passato che riemergono. C’è uno strano dark silenzioso e immobile. E c’è quella ragazza pallida e magra. Quella ragazza bellissima con le gambe lunghe. Che suona una melodia al carillon. Non può essere qui per caso, dice il nuovo arrivato toccando le chiavi della moto nella tasca. Lo dice a bassa voce, a se stesso. Il nuovo arrivato è abituato a parlare a bassa voce a se stesso: lo fa da quasi vent’anni. La funzione è finita. L’omelia distratta dell’officiante è passata inosservata: di certo Diego non vi ha prestato attenzione. È alla ricerca di qualcosa che valga la pena di un articolo a fondo pagina, Diego: l’omaggio all’amico che non merita di essere dimenticato. Gli manca l’ispirazione, l’attacco, il titolo: gli manca l’idea. E di certo il paesaggio umano della piazzetta di San Giovanni in Monte non aiuta. Una pacca sulla spalla di qua, una stretta di mano: convenzioni sociali, riti ipocriti che si perpetuano fra distratti conoscenti d’altri tempi. Lara e Ferodo meglio far finta di non conoscerli: ci si è accordati così. Il feretro è dentro il furgoncino che parte. Diego lo segue con lo sguardo, saluta distratto quello lì che va via, alza la mano d’istinto a salutare un’altra faccia che… la mano resta a mezza strada, poi si riabbassa: no, credevo di aver visto… poi… chi è che ho visto? Diego rivolta la testa nell’esatto momento in cui quel tale appena rialzatosi da terra incrocia il suo sguardo. Un mezzo sorriso. Anche Diego accenna a un sorriso. Una strizzata d’occhio: si gira e se ne va. Diego resta sul posto: tutto torna. Specialmente i conti in sospeso. Raffaele si è incamminato verso l’Archiginnasio: il suo luogo di lavoro, Scusi, signore, non avrebbe un soldino? Lara scende su Strada Maggiore assieme a Ferodo. Si salutano: Ferodo verso l’enoteca di Sauro, dove lo aspetta Diego, Lara verso il centro, dove prenderà un taxi. Ora che non ha più il Vespino. Cammina pensosa: talmente pensosa da non curarsi dei clacson che inseguono insultanti la moto che ha tagliato Strada Maggiore per infilarsi nella traversa sul lato sinistro. La stessa moto che ricompare più avanti, più o meno all’altezza del Caffè dei commercianti. Lara rallenta il passo via via che si avvicina ai Commercianti: ha bisogno di qualcosa di buono. Di buono e di forte. Proprio quello che pensa lo sconosciuto che le si accosta e le chiede se può offrirle da bere. Riflesso condizionato: perché dovrei accettare da bere da uno sconosciuto, chiede Lara guardandolo sfrontata negli occhi. Per tre buone ragioni, risponde lo sconosciuto sorridendo con cortesia. Perché ho in tasca poco più che i soldi per offrirti da bere, e se sono gli ultimi vanno spesi bene, dice. Perché ho una pistola nella tasca, aggiunge. Perché abbiamo qualcosa in comune, dice ancora indicando con la testa la direzione di piazza San Giovanni. Qualcosa in comune?, dice Lara abbassando la voce: solo la voce, non lo sguardo. Qualcuno in comune, rimarca la voce ancora più bassa dello sconosciuto: qualcuno di importante, credo. – Cosa prendi? – chiede Lara al suo improvvisato ospite. – Ti offendi se prendo un Cuba libre? – E magari molto-Cuba-e-poco-libre? Sì che mi offendo: un’offesa al rhum e al buon gusto. Tosta, la ragazza: e allora cosa prendo? Anzi, facciamo che prendo quello che prendi tu. – No, – dice Lara, – io prendo un Bellini per me, e non lo condivido con nessuno. Tu prendi… tu prendi un Negroni corretto: ne hai proprio la faccia. – Corretto con cosa? – Col succo di mezza arancia rossa. Fidati, è quello che fa per te, – conclude Lara ordinando i drink senza chiedere conferma. D’istinto ha ripreso a comportarsi secondo i rassicuranti rituali del corteggiamento simulato. Esonero dal rapporto diretto, presa di distanza mediata dall’ironia che accomuna, tempo e spazio sufficienti per studiare le mosse dell’animale che fronteggia: l’etologia riconquista i suoi diritti. – Dimmi una cosa: l’avresti usata quella pistola, se avessi fatto resistenza? – L’ho usata, quella pistola. Sei qui seduta a bere con me, no? – Magari perché avevo paura che mi facessi bum bum col tuo arnese… – Non potevo spararti. Ho detto di avere una pistola, non di avere anche i proiettili. Lara alza a mezz’aria il suo Bellini per me, brinda con lei sa chi e beve il primo sorso. Il suo ospite fa altrettanto. Il Negroni corretto scende giù più forte di quanto ricordasse, a dispetto del succo d’arancia. Brucia sul fondo dello stomaco diseducato dalle mense, colpisce l’organismo costrettosi all’astinenza per scelta e per avversione verso il vinaccio da battaglia, risale in una mescolanza di sapori che il palato non riesce a separare. – Passiamo alle presentazioni? Io sono Lara. – Eri la sua ragazza? – No. Non ero la sua ragazza. – No? – No. Sono la sua ragazza. (Silenzio). – E tu? Lo conoscevi? – Lo conoscevo. Tanti anni fa. Permetti? – dice alzandosi goffo per rispondere a un istintivo residuo di buona educazione.– Cristiano Malavasi. Lieto di conoscerti. Meglio se non ripeti il mio nome ad alta voce. Lara lo guarda con attenzione. Pensa: è la prima volta che conosco un assassino. Gli abiti sono stropicciati. Le scarpe impolverate. Si è sbarbato di fresco senza usare dopobarba. Odora vagamente di sapone liquido da bagno pubblico. – Ho sentito parlare di te, – risponde Lara toccando il bicchiere largo di Cristiano col suo calice. – Lieta di saperti libero. – Sicura? – Sicura. Cosa fai qui? Ti staranno cercando, no? – Faccio la lettera rubata: mi nascondo sulla scrivania. – Cosa ti serve? – Un bagno caldo. – Poi? – Un posto tranquillo. E una bella ragazza che mi spieghi cosa sta succedendo. Per il resto mi arrangio. – Non è facile spiegarti cosa sta succedendo. Ci vorrà del tempo. Dài, alzati che andiamo. Hai un casco di riserva sulla tua moto? No, mi sa di no. Tranquillo, faccio io. Cristiano non chiede dove andranno. Si limita a passare davanti a Lara per pagare con i suoi ultimi soldi. Lara prende il casco che gli allunga il barman. Dammi le chiavi, gli fa: guido io. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 18.45. I post-it colorati sul frigorifero di Lara: «Chiara 20/9 16.10» (giallo). «Aveva il telefonino quasi scarico!» (rosso). «Non sanno di Ferodo» (rosso). «Chiara 22/9 9.30» (giallo). «Baricella trattoria Venturoli» (giallo). «Bar Prezioso ore 19. Tutte le sere!!!» (rosso). «Diego da Sauro (Ferodo)» (giallo). «Raffaele 22/9 ore 23 Pierino» (giallo). I ritagli di giornale con le due notizie. La morte di Andrea a piena pagina. Un angolo in basso l’altro omicidio: come Peppino Impastato e Aldo Moro, ricorda Cristiano. Il comunicato di rivendicazione: Bologna e Roma, contemporaneamente. Fa pensare, questa coincidenza. Le abili insinuazioni di Diego: bella penna, sin dai tempi di «Lotta Continua». Bella penna e bella testa, Diego: infatti è ancora a fare il cronista. Fosse stato meno bravo a scrivere e a leggere libri, avrebbe fatto carriera in politica. Lara ha parlato, parlato, parlato: ne aveva bisogno. Cristiano ha ascoltato con pazienza. Mai un’interruzione: Cristiano registra mentalmente ogni smorfia, ogni emozione, ogni apparente ripetizione. Ferodo arriva avvertito da Lara: «novità vieni appena puoi» dice l’Sms. Arriva dopo aver fatto il punto con Diego. Situazione di attesa: aspettiamo la prossima mossa. Raffaele lavora in proprio: stasera porterà informazioni. Anche Ferodo porta novità: quello che Lara ancora non ha detto. L’appuntamento di stasera: il Togliatti ci aspetta alle otto e mezzo. A te piacciono le rane, Cristiano? Dopo quello che ho mangiato per diciott’anni, qualunque cosa va bene, rane o non rane. Abbiamo un’ora prima di muoverci, vero? Sì, un’ora. Vi dispiace? Cristiano prende i ritagli, gli appunti, le schede di Ferodo, i post-it di Lara. Si sistema per terra, come davanti a un puzzle. Sposta i fogli seguendo i propri, imperscrutabli disegni. Sovrappone questa carta a quel ritaglio, modifica l’ordine dei bigliettini, fa spazio e riempie di nuovo. Lara apre tre birre svedesi e un pacchetto di patatine al cumino: è affascinata dai calcolati movimenti di Cristiano. Ogni tanto si appunta qualcosa. Quello scatolone di ritagli dov’è finito? È ancora lì, risponde Lara. Me lo puoi recuperare, Ferodo? (Non lo chiede a Lara: lo chiede a Ferodo). Hai bisogno? Mi servono alcune cose che sono là dentro. Non hai l’aria di aver bisogno di ritagli per ricordarti le cose, fa il punk. No, non ne ho bisogno, in genere. Ma la memoria è ingannevole, Ferodo. A proposito, buona questa birra. A proposito di che? Non me lo ricordavo più, il sapore di una buona birra. Dopo un’ora Cristiano si alza da terra senza guardare l’orologio. Ho capito, dice. Possiamo andare. Prendi qui, gli fa Ferodo. Cos’è? Una carta di credito clonata: la sai usare? No: comprendimi, a San Vittore facevamo senza. Nema problema, dice Ferodo: ti insegno io. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 20.30. – Ma sei sicuro di quella targa? – chiede Ferodo sospettoso. – Mi hanno assicurato che è pulita, – risponde Cristiano. – Finora è andata bene. – Già. Però non era nei patti che saresti andato in giro per l’Italia. Te ne procuro una io, di targa. Tanto per stare tranquilli. Sempre sospettoso, Ferodo. Andare in giro con la sua migliore amica seguiti da un omicida latitante non gli migliora l’umore. Anche Lara non contribuisce a farlo star bene: non era così neppure i giorni della morte di Lester. Taglio di capelli sempre uguale, stesso trucco, stesso abbigliamento. Solo, non sorride più. E non lavora. Il tempo le serve tutto per la guerra dichiarata agli assassini del suo uomo, dice: e Cristiano è un’arma in più, dice stasera. Perché in guerra servono armi, dice. Mai sentita Lara parlare così, pensa Lester entrando nella trattoria. Tavolo prenotato: parete alle spalle, vista sulla porta d’ingresso, commenta Cristiano.Chiaro che non siete stati voi a sceglierlo. No, infatti, è stato… ma tu come lo sai? Lo so, dice Cristiano sulla porta d’ingresso. Non entri?, gli chiede Lara. C’è vento, qui fuori. Sì, certo, c’è vento: meglio entrare, no? In galera non lo senti il vento sulla faccia, dice sottovoce Cristiano. Resta lì, sulla soglia, con i capelli lunghi scompigliati dal vento di settembre. – Me lo ricordo questo posto, – dice Lara. – Ci venivo a ballare da ragazzina. Com’è che non ci siamo mai incontrati qui? – Perché da ragazzino non stavo a Bologna, – risponde Ferodo. – Scusi, – chiede Lara al gestore che porta la caraffa di lambrusco, – c’è ancora la discoteca Kryptonite in fondo al paese? – La discoteca? No, no, non c’è più. C’è un cubo di cemento vuoto. Non l’hanno ridata a quei ragazzi perché dovevano venderla, poi non l’hanno più venduta. Ma il sindaco che c’era allora, vai a fargli capire: dovevano lasciarlo in officina ad avvitare bulloni, altro che fargli far carriera, a quell’imbezel d’un asen imbezel. Sulla porta Cristiano si scuote. Lontano rumore di moto in avvicinamento: il Guzzi del Togliatti. Il vecchio ladro d’appartamenti stringe il manubrio con le sue poderose mani, senza incertezze. Cristiano comincia a sorridere quando vede uno svolazzo d’impermeabile dietro la massa del Togliatti. Il Togliatti spegne il motore. Dietro di lui il passeggero salta giù dalla moto guardando negli occhi Cristiano. Si sfila il casco. Appoggia il casco sulla moto. Cristiano allarga il sorriso e le braccia. Andrea Vannini gli si getta dentro. – L’ho letto sul giornale, poi me lo ha rispiegato Diego. Sapevo che era solo questione di tempo: ma non credevo che saresti arrivato subito. Pensavo che… – Per cosa credi che sia uscito? Andrea abbassa la testa. Ovvio: si è giocato tutta una vita in una decisione, chiaro che il motivo non poteva essere che questo. – Tu, piuttosto? Come hai fatto a morire? Non è più allegro, Andrea, adesso. Sandro gli pesa sulla coscienza. Vado a mettere in moto, dice uscendo. Arrivo, risponde Andrea. Quella mezza rampa di scale sufficienti a far richiudere il portone. A schermarlo dall’esplosione. A vedere Sandro saltare in aria con la macchina, ricadere al suolo immobile, prendere fuoco e bruciare come un cerino. – Avevamo lo stesso dentista. Glielo avevo consigliato io, quello studio odontoiatrico sul vecchio canale. La stessa notte sono andato con Ferodo a sostituire le cartelle. La foto dei miei denti è nella cartellina di Sandro: è per questo che hanno identificato il mio cadavere carbonizzato. Ancora non sapevo che in quella stessa notte… Andrea si ferma. Lo sguardo di Lara non ammette repliche. – Basta piangersi addosso, – dice Lara, – passiamo ai fatti. – Siamo messi così, – dice Andrea. – Abbiamo alcuni telefoni sotto controllo. Se Raffaele stasera vi porta un regalo, probabilmente ne agganciamo un altro. Sappiamo come comunicano tra loro in Rete, e quando riaccendono la chat noi ci siamo. Questo Righi Aldrovanti che abbiamo riempito di cimici non è il capo, ma un anello di snodo tra il livello esterno e quello bolognese, quindi le decisioni dovranno passare da lui. Anche se i due omicidi li hanno gestiti senza interpellarlo. E se hanno agito così vuol dire che non hanno molto tempo: quindi sta per succedere qualcosa. E con tutta probabilità, il carico della nave è qui vicino. – Quanto vicino? – chiede Cristiano. – Abbastanza da averne spostato una porzione sotto la macchina di Sandro, – risponde Andrea. – Qualcuno ha dubbi su quello che sta per succedere? Nessuno risponde. Nessun dubbio, attorno al fresco lambrusco di Baricella. – Cos’altro? – insiste Cristiano. – Ho chiesto in giro, – dice il Togliatti versando da bere. – Sui viali non ci sono croate: non sono ancora tornate. E su quel Righi Aldrovanti ho qualche informazione in più. È uno della vecchia leva, di quelli che credono nell’idea. E non si limita a metterci i soldi, nell’idea. La sua villa è un posto sicuro per chi passa da Bologna. – Anche i gestori delle agenzie di viaggio non sono a Bologna, – aggiunge Ferodo. – Ecco la stampata della prenotazione di due posti aerei per i fratelli Varisi. Ai Caraibi. Una vacanza premio, tanto per non essere a Bologna in questi giorni. – Diego? – Diego dice che la morte del Lercio puzza. Nella zona del grattacielo la polvere è tagliata bene, non ci sono nuovi arrivi, non c’è alcun caso di overdose. L’ero che si è sparato in vena non è quella che gira. E comunque i ragazzi del rione Santa Rita sono spaventati. Muti e spaventati. E non c’è concorrenza: quindi a spaventarli non è la concorrenza. Le rane sono finite presto. Cristiano ne ordina un’altra porzione, e del nuovo lambrusco. – Che facciamo dopo? – chiede Lara. – Andiamo da Pierino a sentire cosa ci racconta Raffaele. – Perché? – chiede Cristiano stupito. – Come fa Raffaele a sapere cose? – Se sei uno dei barboni storici di Bologna, ne sai di cose. Soprattutto se sguinzagli alla ricerca di notizie tutti i tuoi amici barboni. – E dopo? – chiede ancora Lara. – Dopo quando? – risponde incerto Andrea. – Dopo. Raccogliamo informazioni. Aspettiamo le loro mosse. Al momento buono li anticipiamo. Gli togliamo di mano quello che hanno fatto arrivare dalla Croazia, giusto? Giochiamo sulla sorpresa, li prendiamo in contropiede. Li acciuffiamo e magari li leghiamo come salami, no? Quei salami hanno ucciso due di noi. Tre, con Lester. Cosa facciamo, una volta che li avremo presi? – Se li avremo presi, – mormora Cristiano quasi tra sé e sé. – Se li avremo presi, d’accordo: cosa facciamo? Ferodo guarda Andrea. Andrea non risponde. Cristiano continua a guardare un punto indefinito, dentro un mondo tutto suo. Lara aspetta una risposta. – Facciamo quello che si deve fare, – risponde il Togliatti. Come sempre. Andrea guarda Ferodo, poi Lara. Lara ha la faccia dura. Cristiano continua a guardare il niente. Già, sussurra: come sempre. Bologna, bar Pierino, ore 23.20. Anche i pierini sembrano più tristi, adesso. Pare che sul banco ci siano dei bicchieri che aspettano bevitori non ancora arrivati, che saranno attesi invano: non si torna indietro da certi viaggi. Da altri sì. Cristiano è lì che lascia risalire i suoi vent’anni assieme al fuoco dell’intruglio. La festa di diploma, per dire: con tanta di quella gente che dovemmo portarci i bicchieri di carta da casa per poter bere tutti, racconta a Lara. Esce fuori, si affaccia sulla via e indica la libreria dei ciellini.La vedi quella? Si chiamava Terra promessa, l’abbiamo trasformata in Terra bruciata in dieci minuti. Perché bruciare una libreria? Credevo che a voi i libri piacessero, dice Lara. Sono stati i ciellini a dare il pretesto alla polizia, quel giorno che Francesco fu ammazzato. Un’aula occupata militarmente, due compagni buttati giù a sprangate per le scale, e il resto venne da sé: la polizia era stata autorizzata a sparare ad altezza d’uomo, il giorno dopo ci sarebbe stata una grande manifestazione a Roma ed era necessario farla deragliare sul sentiero della guerriglia urbana: serviva un morto in piazza. Le abbiamo anche pubblicate, le foto dei ciellini con le spranghe alla finestra, sospira Cristiano. Rientra e afferra un altro pierino, incrociando per caso la mano con quella di Raffaele che prende il suo chinotto. Si incrociano anche gli sguardi: è giornata, dice Cristiano. Adesso sì che mi ricordo di te, dice Raffaele: tu eri uno dei Quattro gatti. Dov’eri finito? Sono stato altrove, dice Cristiano. Dove?, insiste Raffaele. Altrove, ripete Cristiano. E com’è, questo altrove? Come ogni altro posto, dice Cristiano: o quasi. Perché quasi? Perché in ogni posto c’è sempre qualcosa che manca. Ad esempio? Ad esempio, in quell’altrove lì mancano i pierini, conclude Cristiano. – Che mi dici, Raffaele? – chiede Lara prendendolo sottobraccio per portarlo in un angolo meno affollato. – Dico che si può fare. Non con quel Clerico, ma col suo compare sì. Porta il cellulare nella tasca esterna. Ho sistemato per domattina. Lara fa cenno a Ferodo. Ferodo annuisce. 5. Maestri e allievi 23 settembre, Roma, Hotel dei 4 Mori. Residenza romana del senatore Cappas, ore 6.20. Il generale Corvino bussa discreto alla porta della suite del senatore. Bastano due lievi colpi con le nocche: il suo arrivo è atteso. Il senatore è avvolto in una elegante vestaglia di seta, sprofondato nella poltrona accanto al tavolino da caffè. Il fumante bricco in porcellana di Capodimonte è sul vassoio, accanto a due straordinarie tazzine del primo periodo borbonico. Allargando il braccio, il senatore indica al generale Corvino la poltroncina vuota. Il generale inclina il capo in segno di ringraziamento, scioglie la ferma posizione informalmente sull’attenti e si accomoda, senza interrompere la rigida linea della schiena. Il servitore in guanti bianchi serve il caffè. – Le avevo detto, generale, che il caffè mi viene recapitato dai magazzini di Trieste, da un caro conoscente che lo miscela seguendo mie precise indicazioni? Due diverse miscele di arabica dei Caraibi con una piccola aggiunta di robusta brasiliana, per dare quel nervo che amo trovare tra gli aromi del caffè, quando la tostatura è lenta e tende al brunito. Quel vago sentore di bruciato così tipico tra i sapori della mia terra, generale. Mi sembra, come dire, appropriato alla circostanza. – Spero non vorrà alludere alla mia presenza, senatore. Il generale Corvino allunga le antenne, cercando di percepire ogni singolo umore del senatore Cappas. A che pro la sua richiesta presenza? Necessità di un testimone? Ridicolo: come se il senatore Cappas non avesse imparato a registrare certi incontri. All’esterno, nella macchina dai vetri fumé affittata per l’occasione, l’inviato di nome Michael attende la chiamata convenuta per l’incontro col senatore Cappas: la perfetta chiusura della triangolazione, l’inserzione del piccolo gioco italiano nel grande gioco globale richiede questo snodo. Il vasto progetto di Creative Destruction è appena agli inizi: un’arte della quale, nel suo piccolo, il senatore Cappas è diventato un maestro: un allievo all’altezza del maestro. Forse. – Posso essere franco, senatore? – È da tempo che lo auspico, generale. Ma prima di espormi il suo punto di vista, gradisca questa sottile sfoglia di cioccolato fondente: la prossima tazza di caffè le sarà, se possibile, ancora più gradita della prima. Il generale Corvino obbedisce. L’amaro del cioccolato, l’aroma del caffè, la dolcezza della miscela che si stempera gradualmente in una più accentuata venatura di bruciato. – Io ho al momento la funzione di latore di messaggi. L’ho messa a parte di alcune cose che sono in preparazione, come era desiderio dei miei referenti, e in questo modo ho affiancato i progetti dei quali sono partecipe con i suoi personali progetti, che mi appaiono convergenti. Tutto questo non spiega la mia presenza qui, oggi, al colloquio con l’inviato di nome Michael. Non è certo di un testimone che lei ha bisogno, senatore. E dunque? Il senatore Cappas sorride. Un sorriso non del tutto benevolo, non del tutto rassicurante. – Io e l’inviato americano siamo vecchie conoscenze, generale: sono vent’anni che questo allora giovane studioso di sistemi politici mi venne presentato da un conoscente che in qualche modo potrei quasi definire comune. E fu su parere di questo e altri miei consulenti che l’allora giovane studioso di sistemi politici entrò a far parte di un ristrettissimo gruppo di miei collaboratori, in un frangente storico la cui drammaticità non potrebbe in alcun modo sfuggirle, generale. 29 marzo 1978, Roma, Unità di crisi, ore 10. Il giovane ministro Cappas riceve una busta dal direttore generale del suo gabinetto. Con irritazione nota che è aperta. Osserva in silenzio i membri dell’Unità di crisi da lui stesso costituita, con uomini di sua fiducia o come tali indicatigli da alcuni suoi interlocutori. La presenza di molti estranei all’apparato burocratico del ministero ha suscitato qualche malumore. – Cosa vuol dire questa busta aperta? – Una lettera di questo tipo non può essere considerata personale: è parso naturale che i Servizi dovessero prenderla in esame in attesa del suo arrivo. È il dottor Francesco Costante a rispondere: elegante, sfacciato, è l’anello di collegamento con i Servizi, per il giovane ministro Cappas. Per altri, è più che un consulente dei Servizi. Il giovane ministro Cappas legge la prima parte della lettera, a voce chiara ma non alta: è giovane, ma non certo privo di esperienza. Sa bene che nessuno dei presenti ha bisogno di ascoltare il contenuto. Carissimo *** mentre t’indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione – mi è stato detto con tutta chiarezza – che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come presidente della Dc, a un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il residente del Consiglio (informato ovviamente il presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare quindi fino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale… – Onorevole… Il giovane ministro Cappas alza lo sguardo: è il consulente americano che affianca il dottor Costante a chiedere la parola. – Dica, Michael. – Ho come l’impressione che queste prime righe stiano prefigurando uno scenario inedito, e per certi versi sdrucciolevole. – Cosa intende dire, Michael? – Che nel ventaglio di ipotesi che avevamo formulato nelle prime riunioni dell’Unità di crisi, questo scenario non era previsto, e che avventurarci su uno scenario imprevisto senza averne tutte le possibili implicazioni potrebbe essere rischioso. – Lei, Michael, non sta pensando rischioso: lei sta pensando sgradito! Abbia almeno la franchezza di ammetterlo, dal momento che non è la delicatezza la qualità che più emerge dalla sua persona. Il giovane ministro Cappas non nasconde la sua crescente irritazione. Il giudizio del consulente Michael è saggio, ma così formulato serve a mettere in dubbio la saldezza di giudizio del ministro, a sottolineare il suo coinvolgimento emotivo nella vicenda. – Se gli esiti della vicenda si avviassero su una strada sgradita ai nostri saldi referenti occidentali, storicamente schierati a difesa della vostra libertà, allora il gradimento politico diverrebbe un fattore di rischio politico, ministro: volevo solo sottolineare questo. Il giovane ministro Cappas continua a leggere la lettera. Capisco che un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici… – Cosa consigliano lor signori? È ancora il dottor Costante a chiedere la parola: questa missiva e le due che sono già giunte ad altri destinatari potrebbero lasciar supporre l’inizio di una strategia di destabilizzazione incentrata su un invio libero e indiscriminato di lettere. Dovremmo riflettere con attenzione su questi rischi, magari allargando l’Unità di crisi a qualche soggetto esperto di psicologia. La cosiddetta Sindrome di Stoccolma, ministro. E forse… – Dica, dottor Costante: credo di immaginare la sua prossima proposta. – Io credo che sarà utile un più stringente ricorso, ovviamente per via informale, al nostro amico e, se mi consente il personale riferimento, maestro che dalle sue stanze dell’Hotel Excellence ha già messo la sua persona e i suoi contatti al servizio dell’interesse supremo dello Stato. Il giovane ministro Cappas studia con attenzione gli occhi del dottor Costante. Costante è l’uomo dell’inquilino dell’Hotel Excellence all’interno dei Servizi, come si dice? E dunque anche all’interno dell’Unità di crisi? Se così fosse, la presenza diretta del soggetto non aggiungerebbe alcuna sostanziale novità al peso del personaggio: ma permetterebbe a lui, Cappas, di studiarne le mosse. L’assenso del consulente americano Micheal alla proposta di Costante è evidente: in questa vicenda le notizie arrivano su altri tavoli con evidente anticipo rispetto al tavolo del giovane ministro Cappas. Il giovane ministro termina la lettura della missiva a lui inviata. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose. 23 settembre 1998, Roma, Hotel dei 4 Mori. Residenza romana del senatore Cappas, ore 7.30. – Vede, generale, – continua il senatore Cappas sorbendo un’altra tazza di caffè, – io ho alcuni amici e antichi collaboratori che, non immemori dei nostri antichi rapporti professionali… lei certo non ignora la vicinanza alla sua Arma benemerita che mi è sempre stata attribuita, voce che da sempre mi onora… non mancano di tenermi aggiornato su alcune vicende locali. È una delle mie debolezze, la consideri alla stregua delle trame di quella soap opera che mi faccio mandare dagli Stati Uniti. Io so, generale, che a capo di uno dei fili che la spingono da me c’è un uomo che non ricordo di aver mai incontrato, ma che proviene da quella stessa scuola politica alla quale mi sono rivolto in passato per consulenze e consigli, e che oggi preferisco, ammaestrato e reso diffidente dall’esperienza, mantenere a una certa distanza, pur sapendo che questo comportamento mi attira ingiuste accuse di scarsa riconoscenza e poca memoria. Ora, generale, credo che il già avvenuto incontro tra questa persona e l’inviato di nome Michael, senza contare la prossima conferenza politica riservata in programma, mi lasci indovinare, in quel riservato appartamento non distante da piazza di Spagna?, suggeriscano l’utilità di una presa di distanza dagli eventi. Una posizione più defilata, più discreta. Ecco tutto, generale: sono convinto che lei abbia le qualità per questo particolare compito. Sta a lei decidere se è sempre necessario, all’interno della parte entro la quale per libera scelta noi siamo, stare da una parte oppure no. Il senatore si alza. La mano che tende al generale Corvino è amichevole, ma perentoria: l’incontro è finito, il senatore gradisce rimanere da solo. Il generale Corvino batte i tacchi, stringe la mano, mette il cappello d’ordinanza sotto il braccio ed esce. Il senatore Cappas compone un numero di telefono. Non ha bisogno di parlare: il segnale è convenuto. L’inviato di nome Michael nel suo veicolo dai vetri fumé continua ad attendere: la pazienza comincia a degradare. La mania del senatore Cappas di far spazientire i suoi interlocutori gli appare una barocca inutilità: tipicamente italiano. L’inviato di nome Michael non ha mai tempo da perdere. I due uomini che bussano ai vetri hanno tesserini di riconoscimento. La presenza di questa macchina è segnalata da oltre un’ora. Lei qui non può stare, intralcia il traffico e costituisce un elemento diversivo per la sicurezza degli ospiti dell’albergo. No, lei non deve discutere né telefonare, o si allontana subito o la allontaniamo noi. No, non la metto in contatto con nessun superiore, lei si toglie di torno adesso, ci siamo capiti, Mister? Uscendo dall’Hotel dei 4 Mori, il generale Corvino assiste alla curiosa scenetta che ha luogo sull’altro lato della strada. L’automobile dai vetri fumé si allontana. Il senatore Cappas non gradisce visite. Il senatore Cappas sta programmando il lettore multiplo del suo home theatre per l’intera giornata, selezionando tra centinaia di Cd di musica lirica e sinfonica: un’operazione delicata, per la quale è necessaria la massima attenzione. È per questo che il senatore Cappas non desidera essere disturbato. Da nessuno. 6. Convocazioni Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 7.40. Un porto di mare! La canonica di don Ricrea è diventata un porto di mare, altro che storie, borbotta la Rachele col suo passo svelto e la sporta della spesa sotto il braccio. Prima il signor Augusto, che pare tanto un brav’uomo, di quelli che se lo avesse incontrato dieci anni fa la Rachele forse forse un pensierino ce lo poteva anche fare, sul signor Augusto, che si vede dalle mani che è un lavoratore onesto, perché le mani callose sono sempre delle persone oneste che lavorano tutto il giorno, sono gli sfaccendati che stanno tutto il giorno al bar ad avere le mani lisce, gli sfaccendati e i signorini, che poi sono degli sfaccendati anche loro. Però anche misterioso, il signor Augusto, con quel chiavistello tirato, che certe volte se ne sta dentro lo stanzino a leggere, dice lui, che va anche bene leggere, però non è creanza chiudersi in stanza quando in casa c’è una signora, che diamine, un po’ di cortesia ci vuole, no? Cosa c’avrà da fare dentro quello stanzino il signor Augusto, dico io, cosa c’avrà da fare, dice la Rachele, curiosa come una biscia: mah, non si sa. E adesso ci arriva anche quell’altro lì, quello giovane con l’impermeabile che vorrei anche sapere dov’è che dorme la sera, che se don Ricrea dorme nel suo letto che è grande appena per uno magro come lui e nella brandina dello sgabuzzino c’è il signor Augusto, quello tanto rispettabile e dall’aria così perbene, vorrei proprio sapere quell’altro lì con la faccia da forestiero dov’è che dorme, che quando ieri gliel’ho chiesto mi ha detto: non dormo, e insomma mica si prende in giro una povera vecchia che lavora come me, cosa vuol dire che non dorme, cosa fa tutta la notte, che non fuma neanche, uno la notte se non dorme e non fuma di certo non fa niente di giusto, le persone perbene la notte se non lavorano dormono, dice la Rachele. Ecco, quell’altro lì con la faccia da forestiero l’aria perbene proprio non ce l’ha. Poi alla Rachele le sa proprio che quello lì dev’essere uno che beve, perché la grappa di pere nella scansia è diminuita, che don Ricrea si pensa che la Rachele non ci bada, ma lei ci ha fatto un segno quasi invisibile per controllare il livello della grappa, e ieri si è accorta che la grappa è sotto quel segno, e certo non può averla bevuta il signor Augusto, quindi dev’essere quello lì con l’aria da forestiero ad averla bevuta, che secondo la Rachele è uno che apre gli sportelli per curiosarci dentro, poi finisce che trova la grappa e la beve, conclude la Rachele davanti alla porta della canonica. Come volevasi dimostrare, quello lì con la faccia da forestiero è già in piedi, in piedi per dire, perché è seduto sulla sedia, ma guarda che maleducato che ha i piedi sull’altra sedia e non saluta neanche. Fa uno strano rumore con la bocca, il forestiero. Sembra che russi, pensa la Rachele poggiando la borsa sul tavolo. Oddio, forse è proprio vero che russava, perché al rumore della bottiglia sul tavolo fa un salto e si scuote. Mi scusi se l’ho svegliata, dice la Rachele, un po’ dispiaciuta e un po’ no, non si preoccupi, risponde il forestiero. Adesso ci preparo il caffè, che poi andiamo a svegliare anche don Ricrea e il signor Augusto, dice la Rachele prendendo la scatola del caffè, grazie, Rachele, risponde il forestiero, però il signor Augusto è meglio lasciarlo dormire, che stanotte è stato poco bene e si è addormentato all’alba. Povero signor Augusto, pensa la Rachele riempiendo la caffettiera di polvere scura. E comunque questa casa è diventata proprio un porto di mare, e questo forestiero qui continua a non piacerle: uno che dorme sulle sedie in cucina, invece di cercarsi una casa per conto suo. Che ci fanno i contratti d’affitto proprio per loro, pensa la Rachele, i contratti per forestieri, no? Bologna, piazza Galileo Galilei, ore 8.10. L’agente Aldo Petrone arriva a piedi, come d’abitudine. Occhiata allo spiazzo, prima di entrare nel Prezioso per la colazione. Solito va-e-vieni di passanti, qualche collega che entra in questura, il barbone all’angolo, ma guarda te se deve chiedere l’elemosina proprio vicino alla questura: ma Valente ha detto di lasciar correre, profilo basso dice, e anche Clerico dice che è meglio far finta di niente per qualche giorno, soprattutto adesso che… E quel casino lì? Cazzo, due tossici o poco meno, lì a litigare, stronzo che sei, ti gonfio di botte se lo ripeti, lo ripeto sì che sei uno stronzo: e lui le molla davvero un ceffone, ma porca miseria, guarda se è il modo di cominciare la mattinata, un’altra sberla, meglio intervenire che sennò quello la gonfia di botte, ehi, la smetta di… no, signora, mi lasci stare, non si aggrappi, aiuto, mi mena, faccia qualcosa, se mi lascia il braccio faccio sì qualcosa, mi lasci stare, lei favorisca i documenti, le sembra un comportamento civile, mi scusi, ma è solo una lite, una storia di gelosia, ma le pare che ridotto come sono ho il tempo di pensare a… insomma, chiedo scusa perché ho esagerato, adesso andiamo via, vero che andiamo via?, prometto di non picchiarla più. Contenti loro, pensa l’agente Petrone vedendo la tossica che adesso gli fa di nuovo gli occhi dolci, va bene, andate via, che è meglio finirla così, tanto cosa vuoi fare, un verbale per una stronzata del genere, pensa l’agente Petrone guardandoli allontanarsi sottobraccio. Gente di merda, mosche sulla parete, pensa. Bisognerebbe schiacciarli tutti insieme, ripulire la città da questa feccia, pensa voltandosi ed entrando nel bar Prezioso. È perchè si è voltato: è per questo che non ha visto il tossico lanciare qualcosa al barbone che chiede l’elemosina. Ferodo, invece, non ha perso un solo particolare. Dall’interno della macchina ha seguito la scena con molta, molta attenzione. Dieci minuti dopo l’agente Petrone esce dal bar Prezioso e si avvia in questura. Il primo richiamo del barbone quasi non lo sente. Al secondo si volta. – Agente? Le è caduto questo dalla tasca, – dice il barbone raccogliendo qualcosa da terra. Il telefonino dell’agente Petrone. Località non determinabili, ore 10.30. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda sudamericana a telefono cellulare clonato con scheda estera. All’altro capo: l’uomo chiamato Yves. [L’intera conversazione si svolge in lingua francese]. Yves: – Come procede? – Ci siamo quasi. Tra un paio di giorni trasferiamo il carico in sede. Yves: – Che tempo fa laggiù? – Non bello. Calma apparente, ma qualcosa non mi convince. Arrivano anche da te i giornali italiani, no? Yves: – Sì. Arrivano. E li leggo. – Ecco. Qualcosa non sta andando come doveva. Yves: – Niente va mai come doveva. È per questo che serve gente come te. Gente pronta a tutto. – Io sono sempre pronto a tutto. Però non sono più un ragazzino che va a fare la spesa al supermercato. Sono un esperto, adesso. Yves: – Me le ricordo, le tue spese. Eri bravo anche allora. Sei sempre stato bravo a fare quello per cui ti paghiamo. – Sì, sì. Ma adesso penso a mettere da parte per la vecchiaia. E voglio arrivarci alla pensione: costi quel che costi. Yves: – Non preoccuparti dei costi: non sei tu a pagare. – No, non sono io che pago. L’uomo dal motto Vrij Vlaanderen tatuato sul braccio destro guarda la custodia della chitarra. Non sono io che pago, ripete. Non ha mai pagato di persona. Non ha mai neanche saputo suonare la chitarra. «Bruxelles Soir», 6 settembre 2004 il ritorno degli «assassini folli» del brabante Seconda parte di Michel Laconique Tutto ricomincerà una triste sera dell’autunno 1985. Il 27 settembre, diversi individui con indosso maschere di Carnevale compaiono improvvisamente nel parcheggio del supermercato Delhaize di Brain-l’Alleud armati di fucili a pompa. Presi dalla frenesia, gli assassini sparano a ripetizione. Si fanno consegnare il denaro delle casse, poi ripartono. Tre persone sono trovate morte, molte altre restano gravemente ferite. I testimoni sono sotto choc. Le forze dell’ordine e i soccorsi arrivano nel più grande disordine: nessuno, in quel frangente, pensa a dare l’allarme, a mettere posti di blocco sull’autostrada per intercettare gli assassini. Grave, fatale errore: gli assassini non hanno ancora concluso la loro serata. Essi si dirigono a rotta di collo verso un altro supermercato Delhaize, situato a Overijse, a una dozzina di chilometri da Braine-l’Alleud, dove lanciano un attacco identico al primo effettuato circa un quarto d’ora prima. Bilancio terrificante: cinque morti (tra i quali un ragazzo di tredici anni) e numerosi feriti. Tutto per un bottino finale irrisorio: più o meno una dozzina di migliaia di euro. Le inchieste balistiche dimostreranno ben presto che questo duplice massacro è stato commesso dalla stessa banda responsabile delle rapine del 1982-83 (dodici morti). Il Belgio è sotto choc. Il governo vacilla. Ogni importante supermercato del Paese (soprattutto quelli che si trovano in prossimità d’una autostrada) è messo sotto sorveglianza dalle forze dell’ordine: gendarmi e poliziotti armati di mitra, tiratori scelti sui tetti. Inutilmente. Il 9 novembre 1985 gli assassini attaccano il Delhaize d’Alost, nonostante sia strettamente sorvegliato da una pattuglia della gendarmeria. Gli assassini non hanno esitazioni, dànno prova di un’incredibile audacia e sparano su tutto ciò che si muove davanti a loro. All’interno del supermercato si fanno consegnare il contenuto delle casse. Una cassiera che non obbedisce abbastanza rapidamente è abbattuta con un colpo di mitraglietta a bruciapelo. Nel magazzino, un bambino di dieci anni sdraiato al suolo incrocia lo sguardo di uno degli assassini: l’uomo dirige lentamente la sua arma verso il bambino e spara. Il bambino sarà uno dei numerosi feriti dell’attacco. Otto persone (tra le quali un’adolescente di quattordici anni e una bambina di nove) trovano la morte nel supermercato. Gli assassini si allontanano con molta calma. L’uomo dal motto Vrij Vlaanderen tatuato sul braccio destro ricomincia a fare flessioni alternate davanti alla custodia della chitarra. Non ha mai saputo suonare la chitarra. All’uomo dal motto Vrij Vlaanderen tatuato sul braccio destro non piacciono le chitarre. Non ne ha mai posseduta una. Località non determinabili, ore 14.30. Connessione Internet con server protetto: attivata. Request: chat-line riservata. Password required. Insert password: ********. Second password required. Insert password: ******. Connected with: chat-line riservata. Welcome. lambda?Sono presente. Chi risponde all’appello? beta?Appello già fatto, aspettavamo solo te. lambda?Dunque? zeta?Espongo io. Passiamo alla fase operativa. Dopodomani portiamo la spesa in cucina, poi lo chef preparerà il menu. Ho depositato una scheda con la ricetta nel solito luogo. Gli altri commensali saranno avvertiti con inviti personalizzati, secondo la consuetudine. Tutto chiaro? alfa?Richiedo un chiarimento sulla disposizione dei posti a tavola. beta?Confermo che l’ordine resta immutato. lambda?Chiedo un chiarimento sulle mie funzioni. zeta?Dovrai coordinarti con gli altri commensali per dare una mano in cucina, sotto la sovrintendenza di Alfa. lambda?Ricevuto. Affermativo. alfa?Ricevuto. Affermativo. beta?Bene. Buon lavoro a tutti. Sito Web criptato, hot line erotica, ore 15.25. Libreria fotografica. Accesso vincolato, password required . Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wait, please. Check password ahead. Insert your second password, please. Wait, please. Check password ahead. Welcome. Galleria fotografica ordinata alfabeticamente. Donne dei Paesi dell’Est: ucraine, moldave, russe, slovacche. Nome, prestazione preferita, foto di presentazione. Scrollare la galleria. Altre donne slave: nome, prestazione preferita, foto di presentazione. Scrollare la galleria. Ancora donne slave. Eva, Miroslava, Jana, Yo Yin. Yo Yin: coreana. Clic sulla foto: full screen. Clic sull’icona della lente d’ingrandimento. La coreana scompare. Al suo posto: un dattiloscritto. Riproduzione j-peg non rintracciabile da un motore di ricerca per parole chiave: le istruzioni. Clic sull’icona della stampante: istruzioni stampate. Lambda prende il telefonino e digita un Sms. All’altro capo: l’agente Ivano Clerico. L’agente Clerico legge il messaggio, annota l’indirizzo al quale verrà inviata l’e-mail e digita un numero. All’altro capo: l’agente Aldo Petrone. – Dimmi. – Ci siamo. Ci vediamo dopo, porto le istruzioni. – Stacco al solito orario, ti aspetto al bar. L’agente Clerico riattacca. Si dirige al più vicino Internet Point. L’agente Petrone riattacca. Cose personali, confida al compagno di pattuglia. Ferodo si sfila l’auricolare. Si gira verso la tastiera e inizia a digitare. Il salvaschermo cede il posto al navigatore di Rete. Entrare nella hot line, a questo punto, è un gioco da ragazzi. Roma, ore 19. Biglietto d’invito. La s. v. è invitata alla conferenza riservata che avrà luogo venerdì 25 p. v. all’hotel Parco dei Principi, nella saletta al piano interrato, alle 20.30. Tema della conferenza: Disordine creativo e ricostruzione del capitale sociale. Seguirà rinfresco. L’uomo chiamato Beta prende nota sull’agenda, registra mentalmente la felice coincidenza e ordina un drink. L’uomo grassottello assentisce e ordina lo stesso cocktail. Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 22.30. Ferodo distribuisce la copia delle istruzioni scaricate dal sito criptato e gli appunti dell’intercettazione ambientale del bar Prezioso. Dovrebbe bastare, dice. Ce la dovremo far bastare, replica Cristiano. Facci un sunto, chiede Diego. – È per dopodomani. Trasportano il carico dalla Riviera a Bologna, e col carico arriva anche l’artificiere, in qualche modo. Faccio prima a dire quello che sappiamo. Primo, dopo le due non useranno i cellulari come telefoni: solo Sms. Secondo, il punto di riferimento è Alfa, cioè Righi Aldrovanti: a ogni passo della tabella di marcia riceverà un messaggio di conferma da inoltrare agli altri.Se un passaggio salta, seguono un piano di emergenza che non conosciamo, e che non conosce neanche Alfa, al comando di Lambda. Terzo, entro le 21 la macchina che deve portare a Bologna il carico dovrà essere alla stazione di servizio di Castel Bentivoglio, sulla Bologna-Ferrara, direzione Ferrara. La macchina la guida Clerico. Quella che porta il carico dalla Riviera è scortata da un’altra macchina, in tutto dovrebbero essere in tre. Tra loro hanno concordato un segnale con i fanali, quindi non si conoscono di persona. La macchina col carico esce ad Altedo e torna indietro. L’artificiere è quasi di sicuro il belga, e si muove per conto suo scortato da Petrone: evidentemente sa dove andare a Bologna. – Tutto qui? – chiede Cristiano. – Tutto qui. È poco? – È quel che è. Sappiamo dov’è la macchina di Clerico? – Sì. Clerico ha una casetta fuori Bologna, è probabile che la usino come deposito del materiale. Cristiano apre la carta autostradale e mette il dito sulla stazione di servizio. Andrea annuisce. Va bene, dice Cristiano: si può fare. Diego si gratta la testa, perplesso. Ma è Lara che fa la domanda: il punto non è se si può fare. Il punto è: siamo sicuri che tocchi a noi? Se queste informazioni le passiamo a… – A chi, Lara? – risponde Andrea. – Cristiano e Togliatti sono ricercati, io sono morto, e se resuscito probabilmente mi accusano della morte di Sandro. Poi che informazioni abbiamo, in realtà? Qualche intercettazione illegale, niente riscontri esterni, niente testimoni al di fuori di noi stessi: ci metterebbero giorni solo per decidere se crederci o no. E a chi rivolgerci? Come facciamo a sapere qual è il livello di infiltrazione nella polizia? E chi ci dice che anche nei carabinieri non ce ne siano dei loro? Non abbiamo mesi, Lara: abbiamo giorni. Troppo pochi per agire diversamente. Poi… – Poi cosa? – chiede con un mezzo sorriso Cristiano. – Di’ tu, gli risponde Andrea: la vecchia telepatia funziona ancora. – Poi, Lara, guardaci bene: un vecchio ladro di appartamenti, un poliziotto sospeso dal servizio o quasi, un hacker pluridelinquente, un terrorista omicida evaso, un giornalista comunista e pure frocio, una puttana d’alto bordo. Dimentico qualcuno? Un ex alcolista barbone, direi. Un campionario della spazzatura della società civile, a occhio e croce: tu ti fideresti di un’accozzaglia di brutti ceffi come noi? – Io sì, – risponde Lara, – non vedo brutti ceffi qui dentro. Per me siete bellissimi, tutti. Lo chiedevo solo per voi, se ve la sentivate. Io dubbi non ne ho. Come facciamo allora, capo? – Si fa così, – risponde Cristiano facendo finta di non sentire il capo di Lara. – Righi Aldrovanti lo prendiamo di sorpresa nel pomeriggio. Abbiamo un posto in cui tenerlo? – Ce l’ho io, – conferma il Togliatti. – Bene. Allora andiamo tu e io, – gli risponde Cristiano. – Perché voi? – chiede Lara. – Perché il Togliatti sa dove portarlo, e quindi serve lui. E Righi Aldrovanti ha l’ufficio in città, e in città Andrea è riconoscibile. Io invece, con la barba tagliata e questo colore ai capelli che mi hai messo stamattina, posso. L’importante è evitare che spenga il telefonino, perché non sappiamo se sarà possibile estorcergli il pin. Una volta neutralizzatolo, useremo il suo cellulare per ricevere e inoltrare i loro messaggi, non dovrebbero accorgersi di niente. Chiaro fin qui? Bene. Clerico lo va a prendere Andrea. Una volta neutralizzato, useremo la sua automobile. Qui credo proprio che dovrai accompagnarlo tu, Lara: te la senti? – Perché lei? – chiede Ferodo. – Perché da solo è pericoloso, e tu servi da un’altra parte, Ferodo. E anche Diego serve a Bologna, in sala di regia, collegato con i nostri walkie-talkie. – Con che cosa? Guarda che fuori dalla galera hanno inventato i cellulari, – ironizza Ferodo. – Perché, secondo te in galera i cellulari non ci sono? – risponde Cristiano. – E allora? – E allora, dopodomani sera in quella stazione di servizio i cellulari taceranno. Devi togliermi il campo da quella fetta d’autostrada, Ferodo: sei capace? – Si può fare. – Bene: allora fallo. Loro saranno tagliati fuori, noi no. Ai walkie-talkie pensa tu, cercali piccoli, che sembrino telefonini e non diano nell’occhio. Alle otto e mezzo arriviamo alla stazione di servizio: Andrea e Lara con la macchina di Clerico, io e il Togliatti con la sua moto. Se va bene, ci facciamo consegnare il carico. – E se invece va male? – chiede Ferodo. – Dobbiamo metterlo in conto. E prepararci a renderli inoffensivi. – Come li fermiamo? – chiede Lara. – Con ogni mezzo necessario, – risponde Andrea versando la grappa. – Mettiamo che tutto vada bene, – dice Ferodo, – cosa facciamo dopo? – Se tutto va bene, – interviene Diego, – se il carico è nelle nostre mani, «Il Mattino di Bologna» pubblicherà un articolo che farà capire a chi deve capire che il gioco è scoperto. A quel punto aspettiamo un paio di giorni e facciamo ritrovare carico e prigionieri. – E se invece non va come deve? – insiste Ferodo. – Non andrà come abbiamo progettato, ragazzo: comincia a fartene una ragione. Quindi l’importante è che Diego faccia uscire quel pezzo per fermarli. Al resto ci pensiamo dopo, – conclude Cristiano.– Per ora facciamo i conti di quello che ci serve. Ai trasmettitori pensa Ferodo. Servirà anche un’auto, possibilmente pulita: puoi procurarla ancora tu? – Nessun problema. Cos’altro occorre? Andrea guarda Cristiano: armi, risponde. Occorrono armi. Il Togliatti annuisce: le armi le procura lui. Andrea continua a guardare Cristiano. Cristiano scuote la testa: non per me, sussurra, con le armi ho chiuso. Andrea guarda Togliatti. Togliatti annuisce di nuovo. Non hanno bisogno di dirsi altro. Anche Lara annuisce: pure lei non ha bisogno di dire altro. Il Togliatti versa la grappa nell’ultimo bicchiere, quello rimasto vuoto finora. Poi si alza e va a bussare alla porta della stanza. Don Ricrea si unisce al brindisi: sorridente come un curato di campagna, come fosse il battesimo di un pupo. 7. Speak softly and carry a big stick 25 settembre, Bologna centro, ore 14.10. Buongiorno, signorina, agente Savoldi Giuseppe, dice Cristiano aprendo e chiudendo il portadocumenti con dentro il tesserino rovesciato di Andrea. La segretaria alla reception vede solo la scritta «Polizia» al contrario, ma non importa: intanto perché è così stupida da fidarsi, poi perché l’agente Savoldi la rassicura: stia tranquilla, dobbiamo solo consegnare una comunicazione ufficiale, venga, brigadiere Pascutti, non si preoccupi di farci strada, conosciamo bene l’ufficio. Un po’ anziano, il brigadiere Pascutti, pensa la segretaria, qual è l’ufficio in cui devono andare? La segretaria guarda la pulsantiera con le diverse etichette stampate, e quando realizza che non ha capito il nome dell’ufficio fa appena in tempo a vedere la porta dell’ascensore che si chiude alle spalle dei due agenti: pazienza, tanto sanno la strada. La sanno: il Togliatti ha guardato sulla pulsantiera il piano e il numero dell’ufficio. Tutto come previsto: il personale è ancora in pausa pranzo, i corridoi sono sgombri, Righi Aldrovanti esce giusto in questo momento dalla sua stanza e si dirige verso la toilette riservata al dirigente. Non si accorge dei due uomini in fondo al corridoio. Dalla toilette, rumore di scroscio d’acqua. Dici che è uno che si lava le mani? Certo che se le lava. Infatti si sente l’acqua del rubinetto. La ventola dell’asciugatore. È il momento: Cristiano compone il numero di telefono di Righi Aldrovanti. Righi Aldrovanti apre la porta della toilette col telefonino in mano: acceso. Cristiano glielo sfila mentre il Togliatti gli appoggia alla nuca la canna della Walther 38, figurarsi se il Togliatti non usava il suo ferro di fiducia. Adesso stai buono, gli dice Cristiano. E fai molta attenzione. Ora esci con noi, tranquillo, come se andassi a fare una passeggiata. La cosa più importante è il tuo telefonino, per il resto sei solo un peso morto, e l’amico qui dietro di te cerca solo un pretesto per farti diventare morto del tutto: ci siamo intesi? Righi Aldrovanti annuisce. Escono dall’ingresso principale con indifferenza, rispondendo agli educati saluti del personale della reception. La macchina rubata da Ferodo è dietro l’angolo, con un prudente tagliando gratta-e-sosta di un’ora intera, mai lesinare in questi casi. Il telefonino di Righi Aldrovanti, noto come Alfa, è acceso. Tacche di carica: tre su tre. Cristiano manda un Sms di conferma a Diego. – Com’è che ti è venuto in mente di chiamarci Pascutti e Savoldi, a te? – chiede il Togliatti senza staccare la canna della pistola dal fianco dell’ammanettato. – Omaggio al grande Bologna, – gli fa Cristiano dirigendosi verso Castenaso. La prima è andata. Monte Calvo (Bologna), ore 16.30. – Come fa un pulotto a farsi la seconda casa in collina? Vi pagano così bene? – chiede Lara davanti alla villetta a due piani con giardino e garage dell’agente Clerico. – No. Più di tanti altri, ma non abbastanza da farci la seconda casa. Non se sei un poliziotto onesto. – Io ne conosco che si fanno dare la busta di roba dai tossici, – dice Lara. – Già. O magari si fanno pagare per non passare da un certo bar a una certa ora. Se non hai scrupoli te la fai, la seconda casa: in polizia come in qualunque altro mestiere. – E tu perché non ti sei fatto la casa in collina? – Per farci? Lara risponde con un sorriso. Una figura attraversa la finestra al piano terra: Ivano Clerico. Sei pronta, chiede Andrea? Sono pronta. Mi dài una mano a sganciare il reggiseno? – Perché? – Perché se devo distrarlo preferisco usare il meglio che ho, – risponde Lara sbottonandosi la camicetta e annodandosi i lembi in vita. – Sei sicura che sia la parte migliore di te? – Per un maschio medio sì. Con gli occhi offuscati dal testosterone, oltre tette e culo non andate, in genere. Non è detto che sia poi un male, sai? Meno pensano che dentro un corpo da schianto ci sia un cervello, meglio è per me, – conclude Lara. Senza sorridere. Camicetta annodata che espone ampiamente le grazie, spacco della gonna aperto tirando su la zip: se non si distrae così, pensa Lara. Ti mancano le scarpe col tacco, commenta Andrea. Queste sportive vanno bene, risponde Lara. Andrea scende dalla macchina: si dirige verso un albero nel giardino e scompare alla vista di Lara. Lara conta fino a trenta ed entra in prima nel vialetto della villa. Scende dall’auto gridando un garrulo «C’è nessuno?» e si dirige verso la porta d’ingresso sotto il pergolato. Lara suona. – Chi è? – risponde una voce al videocitofono. – Mi scusi, credo di aver perso la direzione, non avrebbe una cartina stradale? – risponde Lara con un tono da valletta del telequiz. Silenzio. Lara è a distanza dal videocitofono: la minicamera la inquadra a mezzobusto. – Un momento, arrivo, – risponde la voce. La porta si apre. Lara farfuglia frasi sconnesse, come a un’audizione per la tivù. Mostra la macchina e indica la strada. Resta ferma sul posto. Clerico ci casca: fa il primo passo in avanti. Non vede Andrea che gli sguscia alle spalle: sente solo il freddo della bocca della pistola sotto l’orecchio e una voce che dall’oltretomba gli sussurra: «Zitto e fermo, Clerico». Lara li oltrepassa, va in casa e butta un occhio all’interno: tutto bene. Clerico entra lentamente, con la pistola di Andrea alla nuca e le mani incrociate dietro la testa. – Dovevi essere morto, – dice. – Sono resuscitato per venirti a prendere e portarti con me, – risponde Andrea. – Che ci fai qui? – Le chiavi del garage, Clerico. E vedi di farmi un favore: fai una mossa sbagliata. Tanto la tua macchina la metto in moto lo stesso anche senza chiavi, fidati. Clerico annuisce piano. Sono di là, dice indicando con il mento l’altra stanza. Vai avanti, dice Andrea. Lara resta dietro, come d’accordo: tutto come previsto, finora. Dov’è il tuo cellulare, Clerico?, chiede Andrea. Nella tasca destra, mormora Clerico. Andrea gli infila la mano in tasca ed estrae il bagaglio: è acceso. Batteria: tre tacche su tre. Clerico si avvia: Andrea lo segue. Superano la porta della stanza. Lara sente un colpo secco e un grido. Andrea. Clerico rientra con la pistola in pugno: vieni anche tu, puttana. Lara obbedisce. Entra nella stanza. Andrea è a terra, con la faccia stravolta e il ginocchio destro tra le mani. In piedi, con la mazza da baseball in pugno, l’agente Chiara Zanotti. Lambda. – Te l’avevo detto che per uno stronzo come te la mazza da softball non sarebbe bastata, no? Com’era quel proverbio? Parla piano e portati dietro un grosso bastone… Chiara sorride. Ivano Clerico è ancora pallidissimo. Lara fa un passo avanti. Ferma lì, puttana, le urla Clerico. Non c’è bisogno di ripetermelo, me lo ricordo bene quello che faccio, risponde Lara. Complimenti, Chiara, aggiunge: sei la prima che riesce a ingannarmi. Anche se dovevo capirlo che non sei quell’oca giuliva che sembri. Dimmi solo una cosa: sei tu che comandi qui, vero? Sì, risponde Chiara: sono io. Lara annuisce: comincia a tirare le somme. Andrea continua a lamentarsi col ginocchio tra le mani. Come hai fatto?, gli chiede Clerico. Avete fatto saltare in aria Valle, pezzi di merda: cos’è, non c’era abbastanza luce per riconoscermi? No, Vannini: non eravamo noi.Ecco perché non hanno riconosciuto Valle. Non l’avete messa voi la bomba sotto la macchina di Andrea?, chiede Lara. No, bella: noi avevamo un altro lavoro da fare, risponde Chiara sogghignando. E lo hai fatto bene, vero? (Lara non chiede: lo avete fatto bene. Chiede: lo hai fatto bene). Certo, risponde Chiara: l’ho fatto bene. Quindi sei stata tu a sparare. Sono brava a sparare, risponde Chiara. Lara valuta la distanza. Clerico è di fronte a lei. Con la pistola in pugno. Chiara è alla sua sinistra, leggermente scostata. Con la mazza a mezz’aria. Andrea è a terra, fuori dell’ipotetico triangolo. È dove deve essere, valuta Lara. Clerico non vede la gamba destra di Lara flettersi e scattare distendendosi all’altezza del suo pomo d’Adamo. Vede solo un movimento indistinto, troppo rapido perché possa reagire. Clerico sente un rumore secco, come di un ramo spezzato. Non capisce che è suo il collo fracassato di netto dal piede destro di Lara. Non capisce perché comincia a gorgogliare sangue a fiotti dalla bocca. Muore così: senza capire. Il piede di Lara non si ferma alla gola di Clerico. La gamba si piega a novanta gradi e abbatte il tallone sulla tempia destra di Chiara. Chiara si abbatte di schianto al suolo. La mazza da baseball cade di punta con un suono legnoso, rimbalza, ricade di manico con un altro suono secco, poi finisce per lungo facendo vibrare il suono nell’aria. Rotola in fondo alla stanza. Lara continua il movimento con una rotazione completa facendo perno sul piede sinistro. La gamba destra sorvola Andrea, sfiorandolo. Andrea resta accucciato. Non si lamenta più. Ha già ripreso in mano la pistola di Clerico. Quando la mazza smette di risuonare Andrea si solleva. Lara è ancora in posizione di attacco, con i pugni al petto. Andrea scavalca Clerico, si china su Chiara e le mette due dita sotto la gola: svenuta, dice. Lara annuisce: lo so. – Dove hai imparato a fare questa roba? – chiede Andrea mentre blocca Chiara col nastro adesivo a banda larga. – Te lo avevo detto che andavo in palestra. Cosa credi che mi insegni il maestro thai: danza classica? Escono in giardino. Andrea alza la basculante del garage e apre il bagagliaio dell’auto di Clerico. Va alla macchina con la quale sono venuti, apre il bagagliaio e prende un borsone. Lo sposta nell’altro bagagliaio. Lara lo guarda negli occhi: Andrea fa segno di sì. Sono questi?, chiede Lara per conferma. Sì, risponde Andrea, sono questi. Scambiano di posto le due macchine. Richiudono il garage. Andrea rientra in casa ed estrae una tronchesina: niente più linea telefonica. Clerico non si lamenta più. Chiara è ancora con gli occhi a mezz’aria, legata e imbavagliata. La pozza di sangue le sfiora i piedi. Andrea oscura tutte le finestre ed esce. Chiude la porta con due mandate. – Ci vediamo dopo, – mormora. Lara è al volante. – Come va il ginocchio? – Fa male. Lara fruga nella borsetta e prende un flaconcino azzurro. Prendine quattro e falle sciogliere sotto la lingua, dice. Cos’è? Arnica: ti fa passare il dolore. Devi prenderne quattro ogni quattro ore. Andrea guarda l’orologio. – Non lo so se tra quattro ore ci sono ancora. – Se non ci sei più il ginocchio non ti farà più male, no? Tra Castenaso e Medicina (Bologna), ore 18.30. Si sta male, in galera. Non male per finta: male sul serio. Non ci sono calmanti. Non c’è abbastanza eroina per i tossicomani. Non c’è il metadone che servirebbe. Non ci sono antidolorifici, al di fuori dell’infermeria. E non sempre puoi farti ricoverare: spesso non puoi dire perché stai male, in galera. Ecco perché Cristiano sa riconoscere il dolore. Anche se il Togliatti è bravo a nasconderlo. – Non darmela a bere, Togliatti. Cosa c’è? – Niente, – dice il Togliatti. Ma non è vero. Cominciano le goccioline di sudore tra le righe della fronte, ad esempio. Inutile prendesi in giro: è vero, mi fa male, dice il Togliatti. – Cos’è che fa male? – chiede Cristiano. – Ho un cancro, sangue d’un boja lader. – Cosa prendi per il dolore? – Morfina. – L’hai finita? – No. È nella borsa. Ma dura sempre meno. E con la morfina ci sono cose che non posso fare. Cristiano apre la borsa, trova i flaconcini e le monouso. Vuoi che faccia io?, chiede. No, faccio me, risponde il Togliatti. Prima però dobbiamo pensarci: se mi inietto questa roba sono un peso morto. C’è poco da pensarci, Togliatti: anche se non te la inietti sei un peso morto. Tu resti qui di guardia, dovremo fare a meno di te. Fare a meno di una pistola, dice il Togliatti. Faremo a meno di una pistola, risponde Cristiano. E se quelli lì tirano fuori le loro?, insiste il Togliatti. In qualche modo faremo, dice Cristiano digitando il numero di Andrea. Invio: da telefono cellulare schermato a telefono cellulare schermato. – Andrea? – Sì. – Problemi. Il Togliatti sta male. Resta a casa. (Silenzio) – Dài a Lara il tuo ruolo e tieniti con le mani libere. – Ho capito. Tu? – Vengo da solo col Guzzi. Arrivo prima e resto di copertura. Lascio la moto dove potrai vederla, così saprai che ci sono. – Cristiano? – Dimmi. – Resta vivo. – Anche tu. Il Togliatti guarda Cristiano rimpicciolirsi sulla stradina di campagna a cavallo della sua moto. La morfina comincia a fare effetto. Ricontrolla il prigioniero: ammanettato alla sedia, imbavagliato col nastro adesivo: innocuo. Soprattutto per via dell’iniezione di morfina, metti mai gli venissero delle velleità. Alle sue spalle, addossati alla parete, due contenitori coperti da un telo. Il Togliatti chiude la porta e la blocca col grosso lucchetto. Tanto vale mettersi comodi e leggere qualche pagina. Dov’è la borsa con dentro I miserabili? Ah, ecco lì il libro. La morfina sale, il Togliatti non ragiona bene con la morfina in circolo: però di aver tirato fuori il libro dalla borsa non se lo ricorda. Cos’altro non si ricorda? Il telefonino è acceso. Il suono avverte che è arrivato un messaggio. Diego: «Ferodo 2 ok». Vuol dire che due antenne su tre dei cellulari sono già saltate: Ferodo sta lasciando la cella senza campo. La borsa. Il libro fuori della borsa. Il telefonino. Cristiano è sul guzzone: chiaro, la sua moto è in canonica. È venuto a prendermi con la sua, siamo andati via con la mia e la macchina. Boja d’un Ziuda lader, dice il Togliatti digitando il numero di telefono sul cellulare. All’esterno, i primi sparuti lampi lasciano intuire l’arrivo di un temporale estivo fuori stagione. 8. La più buia e tempestosa delle notti Autostrada A13. Stazione di servizio Castel Bentivoglio est, ore 20.45. Oh, where have you been, my blue-eyed son? Oh, where have you been, my darling young one? Niente stelle, stasera. La luce delle stelle non perfora le grosse nubi che corrono trascinate dal vento di settembre. Lampi. Il vento trattiene ancora la tempesta, il buio è lacerato dai lampi estivi. La pioggia arriverà. And it’s a hard, and it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, and it’s a hard rain’s a-gonna fall, canta l’uomo alla guida della station wagon targata Illinois entrando nella stazione di servizio. Pieno di benzina alla pompa self-service: qui in Italia la benzina è un furto, figurarsi se gli pago anche il servizio, pensa l’americano. Legge la cifra finale, farfuglia una bestemmia al cielo carico di pioggia o al benzinaio, o forse a tutti e due, e va a pagare con la sua American Express Gold. Parcheggia l’auto, incerto sul da farsi. Tanto vale chiamare l’hotel a Venezia, avvertire che forse passa la mezzanotte e mangiare un boccone. L’americano prende il telefonino, cerca il numero sulla rubrica, poi si accorge che non c’è campo: Fuckin’ italian system, esclama. Altro che Meucci, figurarsi se il telefono poteva inventarlo un dago: infatti non si riesce a telefonare. L’americano decide che è ora di cena ed entra nel punto di ristoro. Andrea e Lara entrano nell’autostazione e si portano sul retro. Lara ruota la macchina per mostrare i fanali. Cos’è questa roba che stiamo ascoltando?, chiede. Bob Dylan, dice Andrea, ti disturba? No, no: solo per sapere. Sembra musica buona per un western, aggiunge. Già, dice Andrea: soprattutto con questo tempo. Andrea scende dalla macchina, fa un mezzo giro attorno all’edificio e torna indietro con una notizia: la Guzzi del Togliatti è lì, Cristiano c’è. Lo chiamiamo col walkie? No, dice Andrea, meglio usarli il meno possibile. Se avesse avuto bisogno ci avrebbe già chiamato. Suono come di sfrigolio: chiamata al walkie-talkie: Cristiano. «Ci sono, vi vedo»: fine comunicazione. Un motociclista si immette dall’autostrada nella stazione, seguito da un furgoncino. Il motociclista resta incerto sul bivio tra parcheggio posteriore e rifornimento, poi prende la via dell’autogrill. Il furgoncino passa da dietro e raggiunge la pompa del gasolio, oltrepassando Lara e Andrea. Un’altra macchina entra in stazione: rifornimento benzina. Lara e Andrea hanno due leggeri sottocasco arrotolati in testa. Aspettano. Roma, hotel Parco dei Principi, saletta delle conferenze. [La conferenza è pronunciata in lingua inglese e tradotta simultaneamente]. In un libro prossimo alla pubblicazione, e che ho avuto la fortuna di leggere in bozza, quella che l’autore chiama «La grande frattura» degli anni Sessanta-Settanta viene paragonata alla fuoriuscita dei bambini dalla città di Hamelin. Ricordiamo tutti la fiaba della nostra infanzia: al seguito del suono incantato di un piffero fatato, i bambini seguono il pifferaio abbandonando la città dei loro genitori. Si allontanano dalle regole del vivere civile, regole sedimentate dalla tradizione, dal diritto naturale, fondate sulla innata inclinazione dell’uomo all’ordine e al rispetto delle naturali gerarchie. Che cosa sperimenteranno i bambini nell’illusione che l’ordine sociale possa essere costruito ex novo, sulla base di una libera contrattazione tra pari che non si sedimenta mai in regole accettate e rafforzate dal loro tramandarsi attraverso le generazioni? In questa specie di anarchia falsamente democratica, ispirata forse da quel geniale pifferaio magico – quel genio del male, dovrei dirvi – che ha posto le premesse per il nichilismo moderno e che risponde al nome di Baruch Spinoza, i bambini sperimenteranno il collasso della misura morale e del senso della legge che hanno sperimentato le generazioni passate. Gli indici statistici stanno lì a dimostrarci, con l’oggettività di cui solo i numeri sono capaci, che i reati contro la persona e la proprietà, i divorzi, i figli nati fuori del matrimonio – cioè di quegli indici sociali riferiti alle principali patologie sociali – sono stati dagli anni Sessanta sino agli anni Novanta in costante aumento. In altri termini, il capitale sociale del diritto naturale, della morale condivisa e del giusto rispetto per la tradizione è stato dissipato. Autostrada A13. Stazione di servizio Castel Bentivoglio est. And what did you hear, my blue-eyed son? And what did you hear, my darling young one? I heard the sound of a thunder, it roared out a warnin’… Tre auto incolonnate si immettono nella stazione di servizio. Puntano tutte e tre al parcheggio sul retro. Cristiano avverte col walkie-talkie: «Potrebbero essere loro, c’è una macchina in più». Andrea mormora qualcosa e si abbassa il sottocasco, Lara fa altrettanto e rientra in auto. La prima auto lampeggia con gli abbaglianti. Lara risponde. L’auto oltrepassa la macchina di Lara e va a parcheggiare più in là. Sono in due, dentro. La seconda lampeggia. Lara risponde. Andrea apre il bagagliaio. L’autista della seconda auto gira e va ad affiancare la macchina di Lara. Ha gli occhiali da sole. La terza auto si ferma quasi all’imbocco della stradina posteriore, sfanala due volte e spegne i fari. Sono in due, restano dentro. Andrea si muove con calma. Dovevano essere in tre, ce ne sono due di troppo. Cristiano se ne sarà accorto? La pioggia comincia a venir giù con suono battente. I lampi cedono il passo a qualche fulmine. Meglio così: la pioggia giustificherà gli spolverini di Lara e Andrea, e sarà la spiegazione naturale del black-out telefonico. All’interno dell’autogrill l’americano si gratta la testa calva e ordina un’altra birra e un secondo panino. Niente male, questi affettati italiani. Le due auto sono parcheggiate in parallelo. L’autista della seconda scende, apre il bagagliaio e indica ad Andrea dei contenitori. Andrea prende il primo e lo appoggia nel vano della macchina, accanto al borsone semiaperto. Prende il secondo dalle braccia dell’uomo con gli occhiali da sole. Le due auto distanti restano immobili, i passeggeri non accennano a scendere: bene così. Il terzo contenitore. Il quarto. Lara è scesa dall’auto e con un semigiro si è portata dal lato del passeggero. Piove sempre più forte. Se conoscono Chiara, devono pensare che sia lei: Lara ha indosso il suo spolverino, buio e pioggia rendono indistinguibile il colore dei capelli che sporgono dal sottocasco. Il quinto contenitore. Il sesto. Ce ne sono altri tre, sembra. Pochi minuti ed è tutto finito. Il settimo. Nell’auto ferma all’ingresso della strada che porta al retro, il conducente si toglie gli occhiali scuri. C’è qualcosa che non va: l’auto è quella, ma quell’uomo non sembra Clerico. Le comunicazioni sono state regolari, quindi è tutto a posto: però qualcosa non gli torna. Non era detto che fosse Clerico a fare il trasbordo, d’accordo: però… Il registratore nella macchina di Andrea continua a suonare. La musica è quasi coperta dal rumore della pioggia, però qualche nota spezzata dal battere sulle lamiere delle auto arriva. Il guidatore della terza macchina apre lo sportello per sentire meglio. Continua a non capire cosa, ma qualcosa non gli piace. L’agente Aldo Petrone esce dalla macchina con la pistola in mano e la mano dietro la schiena. Cos’è che non va nel modo in cui si muove quell’uomo?, continua a chiedersi. Roma, hotel Parco dei Principi, saletta delle conferenze. [La conferenza è pronunciata in lingua inglese e tradotta simultaneamente]. Prima di tornare al destino del bambini di Hamelin dobbiamo chiederci: cosa ha provocato la Grande frattura? Il senso comune sembra suggerirci: l’attività di infiltrazione, propaganda, sobillazione dei nemici del nostro way of life. Certo, tutto questo è successo: ma il suo effetto sarebbe stato marginale senza una ben più profonda causa. Guardate nelle vostre case, nei vostri luoghi di lavoro, sulle scrivanie dei vostri uffici: non c’è forse un nuovo totem, fino a qualche anno addietro pressoché sconosciuto e oggi onnipresente? Sto parlano del personal computer, il simbolo, dice il nostro autore, della vera rivoluzione del nostro tempo: la transizione dall’economia degli scambi all’economia informatizzata. Viviamo nell’èra dell’informatica, della rivoluzione digitale: e come ogni rivoluzione, anche questa ha avuto i suoi side effects… – come traducete voi side effect? [intervento del traduttore: effetto collaterale] – …bene: i suoi effetti collaterali. La dissipazione del capitale sociale è stato uno degli inevitabili effetti collaterali della rivoluzionaria transizione alla nuova economia digitale. Perché dico inevitabile? Perché, come ci insegna Schumpeter, e perdonatemi se cito le sue stesse parole, «il processo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, ciò in cui il capitalismo consiste, il quadro in cui la vita di ogni complesso capitalistico è destinato a svolgersi». La distruzione creatrice è l’anima di quella rivoluzione continua che è il capitalismo, ed è per questo che è il modo stesso di essere dello spirito americano: il solo, autentico Paese rivoluzionario degli ultimi duecento anni della storia dell’umanità. Ed è per questa ragione che ciò che noi americani, noi veri americani, voglio dire, sappiamo fare meglio, perché ci riesce naturalmente, è la distruzione creatrice. Autostrada A13. Stazione di servizio Castel Bentivoglio est. Oh, who did you meet, my blue-eyed son? Who did you meet, my darling young one? I met a young child beside a dead pony I met a white man who walked a black dog… L’ottavo contenitore. Il nono è nelle mani dell’uomo con gli occhiali scuri. Andrea appoggia il precedente nel vano della sua macchina. Lara è immobile sotto la pioggia. Andrea allunga le mani verso il nono contenitore. Lo prende. L’agente Petrone vede il movimento. Si muove come… come… – Aspetta un attimo, tu! – grida estraendo la pistola e indicando verso Andrea. – Togliti il passamontagna! Il suo compagno di macchina è uscito dall’altra parte, ha aggirato l’auto e rimane a metà strada. Ha qualcosa in mano. Andrea allunga le mani per mostrare il contenitore e fa il gesto di posarlo nel vano dell’auto. Petrone continua ad avvicinarsi. Andrea appoggia il contenitore, prende l’accendino che gli passa Lara ed estrae dal borsone la prima bottiglia. Dà fuoco al corto stoppino e lancia la molotov in direzione di Petrone. Le fiamme divampano incuranti della pioggia. Andrea estrae la pistola dalla fondina sotto l’impermeabile e fa fuoco alle gambe dell’incredulo uomo con gli occhiali, fratturandogli le rotule e facendolo crollare al suolo, poi si gira, appoggia le mani giunte al tetto della macchina e fa fuoco verso l’altra auto: il parabrezza va in frantumi. Lara prende la seconda molotov, la accende e la scaglia in direzione della stessa auto, sperando di aver calcolato bene la distanza: la molotov cade vicino all’auto, ma non sopra: lancio ben bilanciato. Fiamme sotto la pioggia. Nonostante l’acqua battente, il doppio falò continua a bruciare. Aldo Petrone fa un passo indietro per allontanarsi dal fuoco, poi comincia a sparare verso il fumo e le fiamme, senza pensare al carico della macchina. Due colpi, tre: poi si accascia con un proiettile nella spalla e uno che gli ha attraversato le mani. A gambe larghe, leggermente piegate come in una foto d’epoca, Cristiano tiene ferma con l’altra la mano che impugna la Walther 38 fumante del Togliatti. A distanza, oltre il secondo falò, gli occupanti della prima macchina, disorientati dai colpi contro il parabrezza e dalle fiamme della molotov, mettono in moto e fuggono verso l’autostrada. Cristiano e Andrea sentono il rumore del motore su di giri che schizza via. Il belga è fermo a metà strada tra l’autogrill e il parcheggio posteriore. Ha capito tutto: adesso tocca a lui venirne fuori. Con le sue sole forze, nel modo che conosce. Come a Brain-l’Alleud, come a Overijse, come ad Alost. Carica il fucile a pompa con calcio segato alla veneta e spara in direzione di quello spuntato fuori con la pistola. Pioggia e fumo rendono incerto e tremulo lo spazio tra le due canne e il bersaglio: ma lo vede cadere. Ricarica il fucile e spara in direzione della vetrata dell’autogrill. La grande lastra di vetro si scompone in una miriade di schegge, il piombo entra nelle cene tranquille, interrompe le chiacchiere attorno al bancone. Tazzine in frantumi, vetro nelle braccia scoperte dalle magliette estive, grida: il panico. Una donna urla. È illesa. Lei. La figlia perde fiotti di sangue da un braccio. L’americano vede lo zampillo ed esclama: – Jesus fuckin’ Christ! Il belga ricarica. Un proiettile gli sibila troppo vicino per non essere diretto verso di lui. Quello con la pistola è steso a terra e spara: non è stato colpito. Andrea e Lara dietro la cortina di fumo non comprendono: non sanno come comportarsi. Il belga non risponde al fuoco: si sposta in direzione dell’autogrill e decide che è il momento di rievocare i vecchi tempi. Obiettivo: tutto quello che si muove. Punta il fucile verso il benzinaio inerme e lo abbatte. Ricarica il fucile a pompa e lo punta verso il vano lasciato scoperto dalla vetrata crollata: una cornice piena di bersagli in movimento. L’americano dice: – Jesus fuckin’ Christ! – sfilandosi la cinta dei pantaloni. Si precipita verso la madre urlante e la travolge con una spallata. La bambina continua a perder sangue, a fontanella. Il belga fa fuoco nella vetrata. Il fucile gli schizza via dalle mani nel momento in cui premendo il grilletto perde l’equilibrio e quasi cade: non ha sentito arrivare la moto alle sue spalle. La mano fa male. Il motociclista impugna il lungo lucchetto antifurto da ruota: è con quello che lo ha colpito facendogli volare via il fucile che ha scaricato in aria i colpi. L’arma è per terra. Il belga si muove per prenderla: il motociclista gli sbarra la strada con la moto e brandisce il ferro. Il motociclista ha il volto nascosto da un casco. Surplace. Il belga prova un’improvvisa sensazione di bruciore al braccio destro: Cristiano lo ha colpito. Jesus fuckin’ Christ!: è tutto quello che ha detto l’americano, prima di bloccare l’emorragia con la cintura. I’m a surgeon, fuckin’ italian dago: emergency room’s surgeon, ya know? Yes, I know, risponde il ragazzo indicando il barista che agita la valigetta del pronto soccorso. My fuckin’ holidays, dice l’americano prendendo la valigetta lanciata al volo. Il campo dei cellulari è ancora assente: per fortuna in Italia i telefoni fissi ci sono ancora. I soccorsi arrivano a minuti, l’emorragia è sotto controllo. Thank you, Mister, gli dice il ragazzo mentre estrae una scheggia con una pinzetta dalla guancia della bambina, I’m a doctor too, dice ancora il ragazzo italiano. My name is Robert… risponde l’americano continuando a lavorare sui feriti. Forget about it! Fuckin’ italian holidays!, ripete. Il belga studia la situazione: il motociclista di fronte, il panico a sinistra. A destra la strada è sgombra, se quello con la pistola non spara ancora. Non lo fa: il belga riesce a tuffarsi nella macchina dell’agente Petrone, parte in retromarcia e si infila nella corsia di immissione, scansando l’automobile che procede ignara verso l’Ok Corral. L’auto del belga scompare sulla A13. Dal cruscotto fa capolino il cellulare dell’agente Petrone. Il motociclista si toglie il casco, facendo prendere acqua alla bianca chioma di padre Ricrea. Cristiano lo vede e scoppia a ridere. Andrea e Lara attraversano la cortina di fumo e vanno ad abbracciare i due amici sotto gli scrosci d’acqua. È finita. Dalla macchina di Andrea Bob Dylan continua a sottendere con la sua voce la più buia e tempestosa delle notti di settembre. Oh, what’ll you do now, my blue-eyed son? Oh, what’ll you do now, my darling young one? I’m a-goin’ back out ’fore the rain starts a-fallin’ I’ll walk to the depths of the deepest black forest… Roma, hotel Parco dei Principi, saletta delle conferenze. [La conferenza è pronunciata in lingua inglese e tradotta simultaneamente]. Torniamo ora ai nostri bambini di Hamelin. Dopo aver esperito la disonestà, il crimine, la licenza morale, i nostri bambini torneranno spontaneamente a quelle istituzioni morali e sociali che avevano abbandonato seguendo verso una nuova terra un falso cantore della libertà senza regole. I bambini di Hamelin costruiranno norme sociali non molto diverse da quelle che si sono lasciati alle spalle. Essi ricreeranno la proprietà privata, i mercati, i sistemi di parentela e gli status gerarchici. Essi valuteranno la positività di valori naturali quali l’onestà, l’affidabilità e la reciprocità, e impiegheranno i meccanismi sociali per tenere sotto controllo le devianze sociali. In altre parole, ricostituiranno quella riserva di capitale sociale necessaria al buon governo della società. La distruzione creatrice sarà stata loro utile per capire la differenza tra la cattiva strada sulla quale si erano incamminati e la retta via sulla quale sono ritornati. Oggi, nell’epoca della Grande ricostruzione – secondo le parole del nostro autore – vediamo il ritorno di quei valori che sembravano perduti nell’epoca della Grande frattura. E non possiamo non volgere il nostro pensiero a quei popoli condannati a vivere sotto il tallone dei tiranni dall’intollerabile dottrina del mantenimento dello status quo e della stabilità. Quanto odio la parola stabilità! Non è forse l’antitesi stessa di tutto ciò per cui lottiamo? È giunto il momento di chiederci, su scala globale, se non sia nostro dovere, così come è nella nostra natura, l’esportazione della nostra capacità di distruzione creatrice in quei Paesi, affinché anche quei popoli possano godere della creazione e dell’accumulazione del capitale sociale costituito dai valori naturali. Il mondo è stanco di parole oneste e appropriate: il mondo reclama azioni giuste e coraggiose. Vi ringrazio per l’attenzione. Autostrada A13, Bologna Interporto, ore 21.15. Dall’interno del furgoncino parcheggiato vicino al casello d’ingresso, Ferodo attende la chiamata al walkie-talkie. Il walkie gracchia: è Lara. – Tutto ok, ci siamo ancora tutti. Ci vediamo al casolare. Ferodo trattiene il crollo di nervi. Dal limite attivo del campo invia un Sms a Diego: «tutti salvi vai in stampa». Mette in moto e si dirige verso Budrio. Cinque minuti dopo, una luce si accende su una scatola inserita nel cruscotto. Ferodo sorride mentre si inserisce l’auricolare nell’orecchio. Invio: da telefono cellulare a telefono cellulare clonato con scheda venezuelana. All’altro capo: nessun segnale. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso su utenza spagnola. All’altro capo: Alicante. [L’intera telefonata si svolge in lingua francese]. – Ci sei, Yves? Yves: – Che cazzo fai? Da dove stai chiamando? – È successo un casino, Yves. Tutto saltato. Carico perso. Yves: – Non devi usare il numero fisso. Mai. – Cazzo, Yves, hai il cellulare spento. (Silenzio: l’uomo chiamato Yves si rende conto di aver lasciato il cellulare in ricarica spento. L’uomo chiamato Yves sta invecchiando). – Yves? Yves: – Sì, ci sono. Cosa fai adesso? – Sparisco. Leggerai tutto sui giornali, penso. Mi rifaccio vivo io, tra due-tre mesi. Pensa tu ai dettagli. Yves: – Non preoccuparti. È tuo il cellulare che stai usando? – No, il mio non so dov’è finito. È di un coglione italiano. Yves: – Meglio così. Riattacca e distruggilo. Il belga rallenta. Accosta sulla corsia d’emergenza e mette le quattro frecce. Scende dalla macchina. Spacca il telefonino dopo averne estratto la Simcard, e getta i pezzi uno fuori dal guardrail, l’altro sull’altra corsia dell’autostrada. Riparte. Dall’interno del furgone Ferodo prende nota della telefonata. Del numero di utenza spagnola. Lo sottolinea due volte. Il rilevatore all’interno del telefono dell’agente Petrone non invia più alcun segnale. Non importa, pensa Ferodo: il suo dovere l’ha fatto. Roma, hotel Parco dei Principi. Saletta delle conferenze, ore 21.20. Il rinfresco seguito alla conferenza è, come di consueto, il momento per svolgere quelle piccole attività di lobbing tra i vari convitati. Il dottor Pola e il ministro in pectore, ad esempio, conversano appartati. Esponenti politici non più radicali discutono con l’inviato americano del loro prossimo, probabile sdoganamento politico. L’uomo noto come Beta rivolge uno sguardo preoccupato all’uomo grassottello che, dalla balaustra del terrazzino, cerca invano un contatto telefonico. L’uomo noto come Beta esce a prendere una boccata d’aria sullo stesso terrazzino. – Allora? – Niente. L’intera cellula bolognese tace. – Anche Lambda? – Anche lei. Ho azzardato la chiamata di uno dei suoi uomini: niente. L’uomo noto come Beta socchiude gli occhi. Alle sue spalle il notaio Zanni, un Martini cocktail con goccia di pernod in una mano e un crostino al salmone nell’altra, avanza sorridente per un abboccamento. 9. Luna smagrita e insanguinata Tra Castenaso e Medicina (Bologna), ore 22.30. Arrivano quasi contemporaneamente. Lara e Andrea sulle due moto, Cristiano e padre Ricrea alla guida dell’auto. Poi Ferodo, col furgone. E Diego, con la sua scassatissima automobile. Alla luce delle torce verificano il contenuto del bagagliaio: il Togliatti annuisce. Avete fatto un buon lavoro, dice, e guarda Cristiano. Ecco qui, scusa se l’ho presa, dice Cristiano restituendogli la Walther 38. L’hai anche usata, dice il Togliatti annusandola. Sì, l’ho usata. L’hai usata bene? Non lo so, dice Cristiano: uno l’ho colpito, e non so se l’ho ucciso, l’altro avrei potuto, e non so se ho fatto bene a non sparare. No, non l’hai ucciso il Petrone, interviene Andrea: l’ho visto muoversi, l’hai preso al braccio. Cristiano abbassa due volte la testa, poi dice: meglio così. Padre Ricrea si regge la spalla sinistra con la mano: e tu che hai fatto?, gli chiede il Togliatti. Mi sa che mi sono stirato un muscolo: non ho più l’età, aggiunge ridendo. Arnica anche per lui, decide Lara chiedendo cos’è che sta canticchiando Cristiano: Chi trova un amico trova un tesoro, noi siamo i ragazzi più ricchi del mondo. – La sigla di uno sceneggiato della tivù dei ragazzi, – risponde. All’interno del casolare Ferodo dà la notizia: abbiamo un altro numero di telefono, spagnolo. Un uomo di nome Yves. Yves, hai detto? Sì, Andrea. Dalla Spagna? Sì, Andrea, dalla Spagna. Andrea guarda il Togliatti, il Togliatti abbassa la testa. È quell’Yves che penso io?, chiede Cristiano. Sì, dice il Togliatti: non può che essere lui. Gli brillano gli occhi, al Togliatti: puoi trovare l’indirizzo di quel numero, con le tue macchinette?, chiede a Ferodo. Domani ti faccio sapere tutto di questo numero, anche dove manda a lavare le camicie, se gli telefona per sapere se sono pronte. Fammi sapere, dice il Togliatti: sono curioso di sapere delle sue camicie Il tang! secco della trappola per topi interrompe il convivio. Un topolino campagnolo, dice il Togliatti alzandosi e recuperando la bestiola. Lara lo guarda interrogativa: non capisce la mossa. Vieni, ragazzina, che ti faccio vedere una bella bestia, dice il Togliatti portando la trappola col topo che si agita squittendo sotto la morsa. Nello stanzone Righi Aldrovanti, legato alla sedia, dorme. Morfina, dice il Togliatti. Sul fondo della stanza le due casse coperte dal telo. Guarda mò qui, dice il Togliatti scoprendo le casse: due scatole di vetro. All’interno: due serpenti. Lara li guarda confondendo repulsione e attrazione. I rettili si muovono sinuosi, stimolati dalla luce improvvisa. È il mio secondo lavoro, dice il Togliatti: lavoro coi serpenti, faccio da custode quando arriva qualche circo. Queste sono due vipere, roba pericolosa. Ci vendo il veleno a dei laboratori, dice aprendo lo sportellino esterno e sganciando la morsa della trappola. Il topo di campagna terrorizzato cerca invano di uscire dallo sportello che il Togliatti ha richiuso. La vipera fissa la preda. Nell’altra scatola di vetro, la seconda vipera scatta per prima e batte il muso contro il vetro: la cena non è per lei. Ritornano nella prima stanza. – Allora è finita? – chiede Diego. – No. Non è finita, – dice secca Lara, – abbiamo due corpi a Monte Calvo. E una decisione da prendere. Lara guarda Cristiano: sei tu che decidi, no? No, dice Cristiano: stasera credo che sei tu quella che decide. Perché? Perché ti sto guardando in faccia, bruna. E hai la faccia di quella che sa cosa fare. – Non sono bruna, – dice Lara alzandosi, – non più di quanto tu sia biondo. Lara si avvia alla porta. Non mette in conto che qualcuno possa contraddirla: infatti si alzano. Tutti. Cristiano e Andrea svuotano il bagagliaio della macchina e portano il carico all’interno del casolare. A guardia del prigioniero resta padre Ricrea. La luna calante sembra essersi smagrita nello sforzo di farsi spazio tra le nubi che cominciano a diradare. Il rosso di cui l’ha tinta la passata tempesta sembra una strisciata di sangue: come se, ferita, si assottigliasse. Come Lara, alta e magra nello spolverino chiaro appena percepibile nella notte senza stelle: una ferita sul taglio del fondale scuro. 26 settembre 1998, Monte Calvo (Bologna), ore 1.10. La pozza di sangue sgorgato dall’agente Clerico si è allargata. Chiara è circondata dal liquido scuro. Il sangue le impregna i jeans e le scarpe tenute appaiate dal nastro che blocca le caviglie. Anche la maglietta è piena di sangue: è più volte scivolata per terra cercando di allontanarsi dalla pozzanghera. Tremiti isterici le scuotono il corpo. Andrea le strappa il nastro adesivo dalla bocca: Chiara respira a bocca aperta, affannosamente. La troppa aria inalata di colpo quasi la soffoca: tossisce. Chiara gira la testa con occhi spiritati. I brividi non cessano. Non dice una parola. Andrea le benda gli occhi e fa entrare gli altri. Sono all’impiedi, a semicerchio. La guardano. Andrea si allontana e sale al piano di sopra. Dopo pochi minuti ridiscende. È Diego a prendere la parola: che facciamo? – Tu che proponi? – risponde Lara. – Una telefonata: una telefonata anonima. Li facciamo ritrovare, poi sono cazzi della signora spiegare cosa ci fa qui. – Racconterà tutto, – dice Ferodo. – Non c’è nulla di quel che può raccontare che possa nuocerci. E non racconterà tutto: più racconta, e meno è sicura nella galera che l’aspetta. Quelli come lei le verità le distillano col contagocce, le contrattano. – Come sappiamo che ci andrà, in galera? – Da questa, – dice Andrea mostrando una pistola avvolta in un fazzoletto. – Compatibile con quella dell’omicidio. Poi c’è la pistola di Clerico. – Tu? – chiede Lara indicando Cristiano. – Rimandiamola da dove è venuta. – No, – dice Andrea, – non la riconsegniamo. – Cosa vuol dire che non la riconsegniamo? – chiede Cristiano. – Vuol dire morte. – Morte? Vuoi fare il giudice e il boia? – Sì. Se nessuno si offre, ci penso io. Chiara si agita. Apre la bocca, ma non parla: solo un suono inarticolato, come una bestia ferita. – No, – dice Cristiano, – troppo sangue in questa storia. Non serve spargerne dell’altro: quello di stasera è più che sufficiente. – Lo dici proprio tu? – gli fa a muso duro il Togliatti. – Sì, proprio io. Proprio perché sono io. Niente più sangue. – Io invece dico che merita il fatto suo, – dice il Togliatti. Ancora Lara, ad almanaccare impietosamente i membri della giuria: indica Diego. – No, non sta a noi. Niente tribunali, niente giudizi sommari. Lara indica Ferodo. Ferodo scuote la testa: non ci credo nei tribunali. In nessun tribunale. Devi decidere, incalza Lara. No, dice Ferodo, non me la sento, non lo so fare. Non voto, dice andandosi a sedere nell’angolo opposto. Restano a guardarsi in faccia. Poi Andrea spezza il silenzio: manca un voto. – Morte, – dice Lara. Non dice altro: l’ha sempre avuta sulla bocca, questa parola. Morte. – Tre contro due, – dice Andrea. – No! – grida Ferodo scattando all’impiedi. Tre contro tre! Hai votato, dice Lara. Sì, perdonami, sorellina. Sei mio fratello, dice Lara: prima e dopo questa notte. Restano ancora in silenzio a guardarsi. Chiara è scossa da tremiti sempre più convulsi, rantola: una crisi di nervi forsennata. – Non possiamo ucciderla, – dice Cristiano, – lo capite che non possiamo? – Non merita niente di meno, – dice Lara. – E allora? – È mia, – dice Lara, – ha ucciso il mio amore, mi spetta di diritto. Mi assumo la presidenza di questo tribunale e reclamo la decisione. Mi avete capita tutti? – Vuoi dire che il tuo voto vale doppio? La vuoi uccidere con un cavillo legale? – risponde Cristiano. – No. Dico che è mia, e che non merita di meno che morire. Merita di più. Lara guarda negli occhi i suoi compagni, uno per uno. Ferodo, il fratello di sempre, il compagno di Lester. Il Togliatti, il partigiano. Diego, il difensore della sua immoralità. Cristiano, il terrorista, l’assassino. Andrea. Poi emette la sentenza. La giuria approva: unanime. 10. Un giallo che ci disorienta «l’Unità», 26 settembre 1998 il ritorno della banda della uno bianca? di Tommaso De Lorenzis La drammatica sequenza dell’assalto alla stazione di servizio Castel Bentivoglio est è ancora priva di una coerente e completa ricostruzione. I fatti, innanzitutto. Un benzinaio freddato con un colpo di fucile a pompa, la stessa arma che ha provocato diversi feriti all’interno dell’autogrill: tra questi una bambina gravemente ferita, la cui vita è stata salvata dalla prontezza di riflessi di un turista americano, un chirurgo di Chicago presente al momento della sparatoria, che è riuscito a tamponare l’emorragia prima dell’intervento dei soccorsi. Altri due feriti all’esterno: uno di questi è un agente di polizia, a. p., che non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione alle forze dell’ordine. Sull’identità dell’altro ferito si indaga. E i resti di due bottiglie molotov, la cui preparazione ha lasciato perplesso il magistrato incaricato delle indagini. Il fatto che abbiano preso fuoco a dispetto della pioggia battente indica una competenza professionale da parte dei loro artefici: «Una cosa del genere», ha dichiarato il magistrato, «non la si vedeva dal Settantasette». Le modalità dell’assalto e la presenza di un poliziotto che si dice fosse molto amico dei fratelli Savi, hanno subito fatto pensare a uno spezzone rimasto finora nell’ombra della banda della Uno bianca. Ma numerosi bossoli sembrano non provenire dalla pistola dell’agente a. p. e del suo complice, e non è al momento chiaro come i due possano essere rimasti feriti. Quel che appare certo è che almeno tre auto con all’interno un numero imprecisato di killer – tra questi l’uomo del fucile a pompa – si sono allontanate dalla stazione di servizio. Secondo alcuni testimoni, ci sarebbero stati anche altri uomini a bordo di una o due moto di grossa cilindrata, il cui ruolo non è al momento decifrabile. Altro particolare inquietante: al momento dell’assalto, l’intera area era isolata per la distruzione delle antenne delle tre reti di telefonia mobile avvenute nel corso del pomeriggio. «Il Mattino di Bologna», 26 settembre 1998 un giallo che ci disorienta di Stefano Reggiani Così forse, come in un giallo grottesco e terribile, le notizie italiane s’accavallano deformandosi nella mente dei lettori e infittiscono le trame di un racconto che gira su se stesso, aggrovigliandosi a ogni colpo di scena e allontanandosi subdolamente dall’epilogo. Il tono inevitabile da feuilleton si sovrappone alla serietà dell’indagine. Personaggi nuovi vengono presentati, ogni poche pagine, con nome, cognome, attività, segni caratteristici: sembra che porteranno la luce definitiva; invece, dopo una carriera clamorosa nei titoli dei giornali, saranno destinati a sparire nel nulla. All’inquietudine politica la vicenda del terrorismo italiano aggiunge lo sconcerto dei lettori, spinti verso le apparenze di una realtà sempre più «irreale». A prima vista, il giallo appare architettato secondo la ricetta classica: una catena di delitti, una folla di testimoni sospetti, un gruppo di indiziati in modo grave, una macchinazione di controspionaggio sullo sfondo. Ma alla prima verifica, il romanzo contravviene a tutte le regole. Innanzitutto non si conosce l’autore; sono state strappate le venti pagine iniziali, non si può neppure consultare l’elenco dei personaggi sul risvolto di copertina. Poi si ha l’impressione che lo scopo del racconto non sia quello tradizionale («chi è l’assassino?»), ma consista in una specie di opera aperta, continuamente adattata agli umori del pubblico e al gusto dell’intrigo. Contro ogni norma del giallo, i personaggi intervengono per diluire e sviare il racconto, non per stringerlo alle conclusioni. Un lettore superficiale, non esperto di cose politiche, ma soltanto appassionato di gialli, può arrivare a questa singolare convinzione: o l’autore ci vuole ingannare o non conosce il suo mestiere. Il lettore meno impaziente non ha sospetti sulla capacità dell’autore, ma intuisce che la grande alluvione di personaggi finirà per portarlo alla sazietà e all’indifferenza. Le cronache dei giornali sono piene fin dall’inizio di protagonisti presunti. Fra un poco probabilmente se ne andranno in archivio e nessuno ci avrà detto chi sono in realtà. Sappiamo tutto, il nome, il cognome, le amicizie, i tratti caratteristici; ma non li conosciamo, ci sfugge il ruolo che l’autore ha loro assegnato. Di nessun personaggio indiziato si può affermare ancora che sia colpevole o no, nessun processo è stato celebrato, qualche procedimento forse non si farà. È un groviglio per confondere il pubblico. L’abbiamo detto: questa non è una nota politica, è l’appunto di un lettore di gialli, è la meditazione di uno spettatore di film a suspense: dopo tanti intrecci furbeschi vorrebbe solo sapere chi sono gli assassini, e magari vederli processati. Ma il nostro giallo è contro le regole: dunque più angoscioso e di gran lunga meno divertente delle trame letterarie. Nota della redazione. Abbiamo ritenuto utile, a commento delle drammatiche notizie di oggi e dei giorni scorsi, proporre ai nostri lettori questo vecchio articolo, scritto per la «Stampa Sera» del 26 agosto 1974 da un bravo e intelligente collega oggi scomparso. [d. d. o.] Toscana, località imprecisata, ore 8. Il telefono squilla. L’inquilino della villa col nome di una battona solleva il ricevitore: è il telefono riservato. Ascolta la comunicazione. Annuisce un paio di volte. Accende il fax senza riattaccare. Dal fax arriva una pagina di giornale: «Il Mattino di Bologna». L’inquilino della villa legge l’articolo del 1974. Riprende in mano il ricevitore, dice qualche breve parola, poi appoggia il ricevitore senza riattaccare e va nella stanza dell’archivio. Faldoni su faldoni, meticolosamente ordinati: non è un problema trovare quello dell’agosto 1974. La pagina originale della «Stampa» è lì: sul lato destro campeggia una grande foto di Eddy Merckx campione del mondo a Montreal. Le notizie del giorno sono: l’inflazione europea e la crisi di Cipro. Notizia italiana: i doganieri annunciano che non faranno più straordinari perché lo Stato non ha fondi per retribuirli: si paventa il blocco delle dogane dal primo settembre. E l’articolo di Stefano Reggiani. Argomento: la strategia della tensione. Al centro dell’articolo: una foto di Guido Giannettini. La didascalia dice: «Uno dei nomi che nelle cronache di questi giorni ricorre più spesso». L’inquilino della villa torna al telefono, scambia ancora qualche parola e saluta il suo interlocutore. Con un colpo di campanello chiama il segretario personale. Alla chiamata del dottor Beta gli si dovrà dire che l’inquilino è momentaneamente assente per altri impegni, e che richiamerà non appena avrà fatto ritorno. Il dottor Beta non ha preannunciato alcuna comunicazione, osserva il segretario personale. Non dubiti che lo farà, risponde l’inquilino richiudendo il raccoglitore. 11. Dice il Togliatti (Al rap ed Togliatti) Tra Castenaso e Medicina (Bologna), ore 12.30. Il Togliatti ascolta al telefonino quello che Ferodo ha da dirgli. Bravo ragazzo, questo Ferodo, uno che sa fare: l’indirizzo di Alicante, due ristoranti a cui ha telefonato, un autonoleggio. Persino la lavanderia, tò mò. E una prenotazione aerea per Caracas per il 28 sera. Bisogna fare presto, dice il Togliatti. Presto per cosa?, chiede Ferodo. Il Togliatti aspetta un po’ a rispondere, che ci deve pensare sopra, poi gli fa: te li vuoi guadagnare dei bei soldi, ragazzo? Quanti?, chiede Ferodo. Abbastanza, dice il Togliatti. Come?, chiede Ferodo. Tu la sai la storia della stazione di Perpignan, che me l’ha raccontata un compagno catalano? Credo di sì, dice Ferodo. Be’, ti va di andarci a vedere se è vera? Tutto qui?, chiede Ferodo. No, dice il Togliatti, devi procurarti un’auto veloce. Nessun problema, dice Ferodo: per quando ti serve? Per stasera, dice il Togliatti. Il Togliatti mette giù. Controlla la scorta di morfina: ci basta, si dice. È ora di andare a trovare il prigioniero. Senti mò, dice il Togliatti, senti mò che c’ho una storia da raccontarti, dice il Togliatti avvitando il silenziatore alla pistola, cic cic cic, con un suono sottile di avvitamento del tubo artigianale alla pistola d’epoca, Walther P 38 di quelle d’una volta, che se le tieni pulite e oliate vengon sempre buone, e farci la filettatura per uno come il Togliatti è uno scherzo, senti mò dunque, c’ho una storia da raccontarti, ti piacciono le storie? La mia è una storia vecchia, dei vecchi tempi, di quando io ero bambino, tu cosa ne sai di quei tempi? Erano tempi duri, tal dig mè, volevo vedere te se ne uscivi con quell’aria da cattivo dei film che ti porti in faccia, di’ mò, è una storia che mi ha raccontato mio padre, tu ce l’hai ancora un padre? No, no, non sforzarti di parlare, che quel nastro ti fa ancora più male, è roba buona, non lo strappi mica se non puoi usare le mani, e le mani non le puoi usare, sta’ mò buono e ascolta, ce l’hai ancora un padre? Che io il mio me lo ricordo appena, è saltato su una mina ad Asiago, non in guerra, no, su quelle che sono rimaste dopo la guerra, quando ancora alle guerre non si davano i numeri, pensa te che lavoro di merda era costretto a fare per darci da mangiare, perché per quelli come lui non c’era lavoro, lo sai questo? Quando quelli come te comandavano, per quelli come mio padre c’era la fame o l’emigrazione, o i lavori di merda che ci si crepava, allora mio padre prima di partire per Asiago mi racconta questa storia, che eravamo già alla stazione ad aspettare il treno per il Veneto insieme ad altri disgraziati con quattro stracci arrotolati dentro una coperta come lui, alla stazione di Bulaggna, tu te la ricordi bene la stazione di Bulaggna, no? Tu ci sei stato, credi che non lo sappia, ancora non hai capito perché sei qui? E non agitarti tanto, che le manette ti si stringono ancora di più. Sono americane, quelle manette, le usa la polizia, sono fatte apposta per stringersi se ti agiti, ma non li vedi i film americani? E sì che a uno come te dovrebbero piacere. Allora, dice il Togliatti, allora mio padre mi racconta questa storia, una storia d’amore, dio boja, una storia dei vecchi tempi, una storia di ciabattini che tu non puoi capire, tu non ce l’hai la faccia di uno che va dai ciabattini, tu le scarpe le compri nuove e le butti via quando non sono più nuove, te lo si vede, sono comode quelle robe lì che c’hai ai piedi? Be’, ti assicuro che quelle dei ciabattini, se c’avevi soldi per fartele fare, erano ancora più comode: pelle buona, mica vacchetta come quelle che ti hanno venduto per... di’ mò, quanto le avrai pagate, ot-zent franc, dico bene? Allora, cos’è che ti stavo dicendo, dio boja, che la testa non mi funziona più come una volta… Ah, sì, alla stazione di Bulaggna, che mio padre mi racconta di questo ciabattino, uno dei migliori, eh!, che c’aveva la sua bottega con tutti i suoi ferri, e la sua bella casetta di due stanze con la cucina economica dentro, e i suoi due figli e la moglie che gli mangiava la faccia tutte le sere, che avrebbe voluto fare la vita da signora e invece eccola qui, a cucinare per un ciabattino che smartellava e cuciva dalla mattina alla sera per quattro soldi che fatte le spese non ne restava niente, e figurarsi il caffè, non lo sapeva proprio fare il caffè questa vecchia bisbetica, ma lui niente, lui era felice lo stesso, perché c’aveva la sua fidanzatina lui, alla sua età c’aveva una fidanzatina che si chiamava Annina, ed era una poverina brutta e con la gobba, però c’aveva due occhi dolci che lo avevano stregato, e faceva un caffè buonissimo, una cioccolata che si sentiva l’odore per tutta la strada quando lei rovesciava la napoletana di prima mattina e scendeva in strada con la macchinetta in una mano e la tazzina nell’altra e andava incontro ad Alberto. Lo sai chi è Alberto, vero? Il ciabattino che ti dicevo, e gli veniva incontro davanti alla bottega, così Alberto si beveva il miglior caffè di tutta Bulaggna, mentre lei se lo guardava con gli occhi dolci, che c’avrebbe voluto essere anche lei nella tazzina, poi gli faceva una carezza sulla guancia e andava via, e così tutte le mattine, finché, vedi mò come possono cambiare le cose, l’Alberto resta vedovo e si risposa, e Annina va a stare nella sua casa e gli può portare il caffè a letto. Tu ce l’hai una donna che ti porta il caffè a letto?, dice il Togliatti, no, secondo me tu non lo prendi il caffè a letto, non sei tipo da caffè a letto, poi non ce l’hai una donna, dice il Togliatti controllando il caricatore, tac tac tac, dagli scatti si capisce che è tutto a posto, c’ha sessant’anni ma è ancora buona la Walther P 38 del Togliatti, non ce l’hai una donna, come fai che poi ci devi dire quello che fai, di’ mò, quella valigia lasciata alla stazione di Bulaggna, come fai a dirglielo che c’eri dentro pure tu, ’sgrazié, o se ce l’hai è una come te, magari la valigia l’ha preparata lei, oppure aspettava i tuoi amici in macchina là vicino ai taxi, proprio dove poi è crollato il muro che ci è rimasto sotto un tassista che lo chiamavano Togliatti proprio come me, in quella stessa stazione dove mio padre mi racconta la storia d’amore di Annina prima di partire per Asiago, che è un po’ come se partisse per la guerra, che quando è tornato era dentro una cassa piccola e a mia madre ci hanno detto che era meglio se dentro non ci guardava, e allora, dice il Togliatti, allora Annina era felice, anche se i figli di Alberto la guardavano male perché dicevano che aveva preso il posto della loro madre, ma lei che colpa c’aveva se la loro madre era morta? E comunque poi le cose non vanno mai bene fino in fondo, perché dopo un po’ muore anche Alberto, che una volta la gente moriva prima, e Annina resta sola con la bottega di Alberto, che quella ce l’ha lasciata, con tutti i ferri e i pezzi di pelle e i barattoli di colla e le scatole di chiodi, ma solo quella, perché la casa era della prima moglie e adesso è dei figli, che Annina in casa non ce la vogliono e la cacciano senza neanche aspettare il funerale, e allora Annina resta sola nella bottega di Alberto, che ormai sarebbe la bottega di Annina, ma Annina non lo sa fare il mestiere del ciabattino, non sa tagliare la pelle con lo scarnitoio. Tu l’hai mai visto uno scarnitoio da concia?, dice il Togliatti. È una roba brutta, tal dig mè, se lo usi male ti fai un taglio sulla pancia da qui a qui, e insomma Annina non sa neanche come si comincia a fare questo mestiere, è per questo che la bottega rimane la bottega di Alberto, e allora succede che gli amici di Alberto, cioè i ciabattini della Bulaggna d’na volta, si parlano alla riunione, e dicono che qualcosa bisogna fare, che non si può mica far morire di fame Annina, che ci volevano bene tutti, ma neanche farci l’elemosina, e allora cosa ti fanno? Fanno che si mettono d’accordo che si dividono il lavoro, ogni giorno uno di loro passa dalla bottega di Alberto e prende il lavoro che hanno portato ad Annina, e lo fanno a turno, oggi tu, domani lui, e non si fanno mica pagare niente, e lo riportano ad Annina che lo mette sul tavolo, così il cliente torna e trova le scarpe ricucite e paga, e così tutti i ciabattini si dividono il lavoro e Annina può vivere grazie alla bottega di Alberto, poi il treno ha fischiato e mio padre è salito, e mi ha lasciato questa storia, che è proprio una bella storia se ci pensi, che finisce bene, dice il Togliatti, no? Tu che ne dici, è proprio un bel finire, dice il Togliatti, e adesso devo chiederti una cosa, lo hai capito perché ti ho raccontato questa storia? Di’ mò, lo hai capito? Ma già, dice il Togliatti, come fai a dirmelo se hai la bocca chiusa, aspetta mò, che ti tolgo il nastro, che voglio sentirtelo dire se hai capito, e gli toglie il nastro con un gesto solo, strrrr, che si sente un rumorino come di una scartavetrata leggera e le labbra son tutte rosse, di’ mò, ti è piaciuta la storia? L’uomo chiamato Alfa lo guarda stupito, muovendo le labbra per cercare di massaggiarsele, poi gli fa, cazzo mi frega della tua ciabattina, dice proprio così, cazzo mi frega… Ch’at végna un cancher!, dice il Togliatti tirando il grilletto. Non mi ha colpito, pensa Righi Aldrovanti sentendo il proiettile sibilare lontano, non mi ha colpito, dice mentre il sudore gli cola negli occhi, non mi ha colpito. E non sente il rumore del vetro infranto dal proiettile. Il Togliatti si è voltato ed è uscito senza guardare. L’uomo chiamato Alfa continua a ripetersi: non mi ha colpito. Non la sente arrivare, la vipera. 12. What a wonderful world «Il Mattino di Bologna», 27 settembre 1998 nuove rivelazioni sui fatti di bentivoglio di Diego Dall’Olmo Le perizie balistiche effettuate sulle armi ritrovate nella stazione di servizio di Castel Bentivoglio hanno accresciuto l’aura di mistero che circonda i fatti del 25 sera. Si è appreso infatti che la pistola impugnata dall’agente a. p. è risultata essere l’arma che ha esploso i colpi mortali contro l’anziano carrozziere Attilio Bignardi, trovato morto nella sua officina il 3 settembre scorso. Si tratterebbe di una pistola fuori ordinanza, secondo voci provenienti dalla questura di Bologna. Il carrozziere fu ucciso dopo essere stato ferocemente torturato, per ragioni ancora ignote. Sempre dalla questura filtra una voce inquietante: due agenti di polizia risulterebbero scomparsi da quarantotto ore. Uno dei due sarebbe l’abituale compagno di pattuglia dell’agente a. p., l’altro un agente di sesso femminile. Il commissario Valente si è rifiutato di rilasciare dichiarazioni. Comunicato Ansa, 27 settembre 1998. Con una conferenza stampa tenuta a Roma, i due dirigenti del movimento politico di estrema destra Nuova posizione, Raffaele Florio e Maurizio Morsatti, hanno negato l’appartenenza al proprio movimento dell’uomo ferito nel corso dell’assalto alla stazione di servizio della A13. «La difesa dei valori dell’Occidente cristiano che il nostro movimento porta avanti contro il mondialismo dilagante avviene alla luce del sole», ha dichiarato Florio. I due esponenti politici, per molti anni esuli in Inghilterra e sospettati di aver partecipato a vario titolo alle imprese del terrorismo neofascista negli anni Ottanta, sono rientrati in Italia nel 1997, dopo che le accuse a loro carico sono cadute in prescrizione. Com’è noto, infatti, la Gran Bretagna non concede l’estradizione per reati politici. Perpignan (Francia), ore 19.30. Perpignan: l’ultimo paese prima della frontiera con la Spagna. Alla stazione di Perpignan, mentre la dogana verifica le sue tele, Salvator Dalì vede l’universo convergere su di lui e intuisce il ruolo di questa stazione e di questo paesino nell’universo. Un universo geocentrico: il suo punto di convergenza è questo piccolo insieme di binari, treni, edifici per la sosta e il ristoro dei ferrovieri. C’è una tela che rappresenta tutto questo: Ferodo l’ha vista da qualche parte. Poi c’è l’altra interpretazione: quella che dice che Dalì era pazzo. Davanti alla stazione di Perpignan, Ferodo ha la certezza che non vedrà convergere l’universo su di sé mentre aspetta il primo treno dalla Spagna per tornare indietro. Non è venuto fin qui per sapere se Dalì era pazzo: c’è venuto per lavoro. Ha accompagnato il Togliatti, guidando mentre il vecchio partigiano si riposava e leniva il dolore con la morfina. Non voleva essere pagato, Ferodo. Il Togliatti ha insistito: tanto i soldi li ho portati dietro, e dove vado non mi servono, ha detto. Ferodo ha accettato la valigetta. A Ferodo piace il Togliatti, gli dà sicurezza: se ce l’ha fatta lui ad arrivare alla sua età vivendo come ha vissuto, posso farcela anch’io. C’è modo e modo di vivere in fretta e lasciare un bel cadavere: non è detto che si debba per forza morire giovani. Dev’essere stata l’ultima lezione che il Togliatti ha dato a qualcuno. Dove va, non ha più niente da insegnare. Ha solo un lavoro in sospeso da finire. Il lavoro di una vita. «l’Unità» Emilia Romagna cronaca regionale, 28 settembre 1998 noto imprenditore trovato morto di Tommaso De Lorenzis Ancora un evento misterioso in questo cupo settembre bolognese. Un noto imprenditore di Bologna, Alfonso Righi Aldrovanti, è stato trovato morto nei pressi di Castenaso. Causa della morte, il morso di una vipera. Ma a insospettire gli inquirenti sono i segni sui polsi e le caviglie dell’industriale, che sembrerebbero indicare che l’uomo è stato tenuto a lungo legato. Inoltre una vipera velenosa è estremamente rara in questa zona. Nessuna ipotesi viene per ora avanzata, in attesa di verificare gli ultimi movimenti del Righi Aldrovanti, scomparso dopo essere uscito dal suo ufficio nel pomeriggio del 25 scorso. Secondo la segretaria, pochi minuti prima di allontanarsi l’imprenditore aveva ricevuto la visita di due agenti di polizia che avevano un documento da consegnargli. Non risulta tuttavia che agenti di polizia fossero stati incaricati di una notifica nei confronti del Righi Aldrovanti. Ulteriore particolare poco verosimile: alla segretaria sembra di ricordare che i due poliziotti si chiamassero Savoldi e Pascutti. Dalla questura si fa però notare che nessun agente in servizio ha gli stessi cognomi di due vecchi, e tuttora rimpianti, centravanti del Bologna. 28 settembre, Napoli, Antica pizzeria Da Michele, ore 13.30. – Scusi? – Mi dica. – Una margherita grande. – Un’altra? – Un’altra. – Ma la nostra pizza vi piace proprio, signo’? Cristiano sorride rileggendo la poesia appesa alla parete della pizzeria. «A pizza è nata a Napule | ma poche in’ do’ mestiere | ve ponne da’ ’o piacere | e farvela mangia’». – Mi mancava, la vostra pizza. Erano anni che non venivo a mangiarla. – Tanti anni, signo’? – Tanti. Troppi. Il cameriere sorride. Pochi minuti: da Michele le pizze sono veloci. Per Cristiano è la terza. «Surtanto don Michele | ch’è fino pasticciere | ve fa’ ’na pizza splendida | ca ve fa cunzula’». Proprio vero, pensa Cristiano addentando la pasta morbida e facendo filare la mozzarella fior di latte. Cristiano sorride. La libertà ha un buon odore. E un buon sapore. Comunicato Ansa, 28 settembre 1998 Una violenta esplosione si è verificata questa mattina all’interno di un villaggio turistico di Alicante (Spagna meridionale). Un’auto carica di esplosivo è saltata in aria subito dopo essersi introdotta all’interno del villaggio. L’esplosione ha distrutto un’abitazione e danneggiato molti edifici circostanti. Il bilancio dell’attentato è di due morti: il conducente dell’auto e il proprietario del villaggio, che era sulla terrazza della palazzina crollata al momento dell’esplosione. La gendarmeria spagnola sembra orientata verso l’ipotesi del racket delle estorsioni, e tende a escludere sia la pista politica che l’ipotesi di un attentatore kamikaze. Si ritiene che l’attentatore sia morto per un difetto nell’innesco che stava predisponendo. La vittima era un uomo d’affari di nazionalità francese, da tempo trasferitosi ad Alicante. Il corpo dell’attentatore è completamente carbonizzato, e di difficile identificazione. «la Repubblica», cronaca di Bologna, 29 settembre 1998 dischi volanti a paderno? di Roberto Colasanti L’avvistamento di un disco luminoso nel cielo di Paderno è stato segnalato dal Gruppo di osservazione sulle attività non umane (Goa) con una nota inviata alle agenzie di stampa. Il presunto disco volante sarebbe stato visto compiere movimenti ascendenti alle spalle della collina di Paderno, e allontanarsi quasi all’istante dopo essere rimasto sospeso nell’aria per circa un minuto. Resti di un piccolo rogo, secondo gli inquirenti provocato da campeggiatori abusivi, sono ritenuti invece dai membri del Goa le prove dell’avvenuto atterraggio e del successivo decollo del veicolo extraterrestre. Fuori del coro, rispetto allo scetticismo degli inquirenti, la dichiarazione dell’ispettore Sergio De Petris, che ha parlato di probabile violazione dello spazio aereo nazionale e di un possibile ingresso di immigrati extraterresti privi di permesso di soggiorno mediante veicolo alieno. «Il Mattino di Bologna», 30 settembre 1998 macabro ritrovamento dei due agenti scomparsi di Diego dall’Olmo I due agenti di polizia scomparsi da cinque giorni sono stati ritrovati ieri sera nel bagagliaio dell’auto di uno dei due, l’agente i. c., morto per rottura dell’osso del collo da almeno tre giorni. L’altro agente, c. z., era legata al cadavere del collega. La poliziotta è stata ricoverata in ospedale in stato confusionale, e da un primo esame clinico sembra emergere un quadro di seria compromissione delle sue facoltà mentali: la donna sarebbe rimasta legata al cadavere del collega per tutto il tempo della loro scomparsa. Nel corso della notte sembra sia stata trasferita in un centro d’igiene mentale fuori Bologna. All’interno dell’auto sono state ritrovate due pistole non in dotazione alle forze dell’ordine, la cui presenza sembra essere un messaggio lasciato dai misteriosi rapitori. Le armi potrebbero essere state usate in alcuni degli eventi delittuosi che hanno insanguinato Bologna negli ultimi giorni. 30 settembre 1998. Donegal (Irlanda settentrionale), ore 19. I see trees of green, red roses too I see them blow for me and you… – Allora? Che ne dici? Lara assapora il salmastro dell’ostrica che scivola sul velo amaro della Guinness scura: splendido, risponde. – Continua così, – dice Andrea, – spegni l’ostrica con un sorso di Guinness, e sulla Guinness lascia calare la prossima ostrica. Lara esegue. Non le piace quando le si dice cosa deve fare, ma questa volta ne vale la pena. Ostrica dopo ostrica, un sorso di scura dopo l’altro, la bocca si riempie di un gradevole sentore amaro. I due sapori restano distinti, in una piacevole alternanza. – Come stai, Andrea? – Bene. È la prima volta che mi sento bene da non so più quanto tempo. Forse mi piace più essere morto che essere vivo. – E allora perché sei triste? – Mi piace essere triste. Mi fa star bene. Lara lo accarezza. Bella la tua Irlanda, sai? Ho fatto bene a venire con te. Quanto ci restiamo? Non lo so, dice Andrea: non ho più un posto in cui andare, non ho più scadenze da rispettare… ti va di girarcela con calma, giorno per giorno? Quando ci stanchiamo torniamo a casa… no, scusa: ti riporto a casa: io non ce l’ho più una casa. Dallo schermo del televisore installato in alto due voci si alternano: il cantante dai capelli scuri seduto al piano ha una voce bassa e tenebrosa, l’altro ha la voce roca e sgraziata. – Sai chi sono? – chiede Lara. Quello al piano le mette i brividi. – Shane McGowan, l’ex cantante dei Pogues. Irlandese purosangue. E Nick Cave. Mai sentiti? – Nick Cave sì. Lara sorride. – Andrea? – Dimmi. – Non è che stai pensando a ieri sera? – No, – dice Andrea a bassa voce, – non a ieri sera. Forse a domani sera: forse è a quello che sto pensando. – Che succede domani? – Dimmelo tu, Lara: che succede domani? Lara non sorride più. Prende la mano di Andrea e lo guarda fisso.Ha gli occhi lucidi, Lara: non le succede spesso. – Sono una banshee, Andrea. Porto sventura agli uomini che incontro, porto male a chi mi vuol bene. Non me la sento di perdere anche te, non dopo quello che è successo. Preferisco non prenderti. Scusami… non te ne faccio una colpa se non riesci a capire. Non volevo ferirti: se l’ho fatto, perdonami. – Non mi hai ferito. – Dimmi, allora. – Ieri sera? – Tu sei stato male? – No. Sono stato bene. – Cambiava qualcosa se stavamo male in due, invece di star bene? – No, – dice Andrea facendo segno al cameriere di portare un’altra dozzina di ostriche e due pinte di scura, – non cambiava. E stasera? – Cambia qualcosa se invece di star bene stiamo male? Andrea guarda Lara. Dietro il bancone il barman spilla le scure nel loro bicchiere, incidendo il segno del trifoglio nella densa schiuma color crema. – Forse sono troppo vecchio per capire la tua filosofia, ragazza. La tua surf-filosofia, giusto? Ma in fondo sono morto, e posso permettermi di fare cose che non capisco. Hai ragione, non ha senso star male. Anche se ti preferivo quand’eri una pixie. – Sono una pixie, vecchietto. Confondo gli uomini che incontro, se non hanno un pizzico di sale in tasca. Non senti il vento che soffia, là fuori? Sono io. – Devo preoccuparmi? – No. Basta che ti ricordi di lasciare sempre il piattino col latte alla sera fuori della porta, e di avere sempre del sale in tasca. Il vassoio vuoto cede il posto a quello pieno, i bicchieri vengono rimpiazzati con nuove birre. Nick e Shane cantano ancora. Il mondo sembra migliore, stasera. I see babies cry, I watch them grow they’ll learn much more then I’ll ever know and I think to myself, what a wonderful world yes, I think to myself, what a wonderful world… And I say to myself, what a wonderful world… ?? ?? ?? ?? 210 Scirocco A Roberta, lettrice paziente e paziente lettrice. In memoriam: Pietro Valpreda e Luigi Veronelli: perché no? Horst Fantazzini: perché sì! …e una Raffo ghiacciata alla salute di Mustaki. Bisogna avere naso per sentire arrivare lo scirocco: si insinua dappertutto senza troppo rumore lasciando inchiodati. FIORA PIRRI E LANFRANCO CAMINITI, Scirocco. Haud dubium erat eam sententiam altius penetrare et arcana imperii temptari. TACITO, Annales, II, 36. 0. Niente conclusioni frettolose Niente conclusioni frettolose. E soprattutto, niente deduzioni! JULES MAIGRET 1. Le due attività principali del pancreas Bologna. – Dunque, cerchiamo di riepilogare, le spiace? – Ancora? Guardi che sono tre ore che sono qui a ripetere sempre le stesse cose, le avete anche messe a verbale… – Ecco, allora facciamo così. Le rileggo il verbale, e lei mi spiega. Perché, guardi, quello che mi ha detto l’ho sentito: ma continuo a non capirci niente. Allora, era in giro da solo, in bicicletta. Alle dieci di sera. – Sarà diventato un reato, girare in bicicletta di sera? – No, guardi, non la metta su questo piano. È solo per puntualizzare. Allora, lei aveva appena svoltato, e questo tale le viene incontro: esatto? – Non è che venisse incontro a me: correva nella mia direzione. – Appunto. Ma correva sempre più piano, e si è fermato proprio davanti a lei. Si ferma, cade in terra… Qui lei dice: cade giù come un sacco vuoto… – Sì, come un sacco vuoto. È caduto su se stesso, sui suoi piedi. Ma non a terra. È crollato in ginocchio. – Esatto. È scritto proprio così. Poi, leggo, quest’uomo che non aveva mai visto apre gli occhi e guarda verso di lei. – Sì. Come mi riconoscesse: mi guarda negli occhi e sorride. È questa la cosa bizzarra: stava morendo e mi sorrideva. – Già. Una delle cose bizzarre. Poi ci sono le altre... Ma lei non si era ancora accorto del sangue. Lui sorride, lei scende dalla bicicletta, cerca di abbracciarlo per sostenerlo, e quello le dice… Mi scusi, devo leggere, perché qui davvero non ci capisco niente… Le dice che il pancreas ha due attività principali: agente patogeno di giorno e guardia giurata di notte. – Sì. Ha proprio detto così. Sorrideva ancora, mentre me lo diceva. Poi ha rovesciato la testa, e mi sono accorto dei buchi sulla schiena, del sangue sulla mia mano, e insomma… – Ma è proprio certo che abbia detto questa stronzata del pancreas? Sta morendo, non la conosce ma le sorride, e tira fuori questa stronzata? – Sicurissimo. – E come fa a essere così sicuro? – Perché questa stronzata, come la chiama lei, è mia. L’ho scritta io. – Non vi conoscevate, e lui prima di morire le dice una cosa scritta da lei? – Non sarà colpa mia, adesso. L’avrà letta, mi avrà sentito… – Ma lei che cosa fa di mestiere, per scrivere questa roba? – L’attore. L’attore comico. Scrivo testi, poi li recito. – Testi così? – Sì, testi senza senso. Testi così. Stronzate così, se preferisce. – E la gente ride? – Sì, la gente ride. – E perché scrive cose così? – Perché le barzellette sui carabinieri non fanno più ridere nessuno. 2. Corvi Donegal (Irlanda settentrionale). I see trees of green, red roses too I see the bloom for me and you. Cro cro cro cro cro. Il primo corvo arriva solenne, regale, leggero come una vela. Sbuca dal rossore abbagliante del tramonto che filtra dalle fessure dei monti e cola sui tetti, scivola sull’aria immobile e si posa con precisione proprio là, sul filo della luce. Cro cro cro. Arrivano il secondo e il terzo, simultanei, perfetti nella virata, ali aperte, maestose. Sovrani. Sfuggono per un attimo dal campo visivo, curvano come per rientrarvi e sono là, quattro zampe sincrone agganciate al filo della grondaia. Cro cro cro cro cro cro cro cro cro cro. Il quarto, il quinto. Poi non si riesce più a contarli. Scendono dal cielo, sbucano dal tramonto in fiamme e oscurano l’aria, tersa nonostante le nubi che vagano. Dopo un poco le nubi non ci sono più, andate via, o forse distratte alla vista dal turbinio di penne scure che si infittiscono sui cavi elettrici, sugli orli dei tetti, sulle grondaie, sugli apici dei pennoni. Ovunque. Cro cro cro cro cro cro cro cro cro cro cro cro cro. Si fermano. Poi non ne arrivano più. Sono tutti qui, sui bordi della città che tremola: i tetti sono vivi, vibra il nerume che li ha ridipinti. L’istintiva paura lascia il posto a una strana calma. I see skies of blue and clouds of white bright sunny days, dark sacred nights. – Incredibile. È così ogni volta? – Sì. – Non ho mai visto un tramonto simile. – C’è molto che ancora non hai visto. Sei troppo giovane per aver visto tutto. – E tu, Andrea? Sei abbastanza vecchio da aver visto tutto? – No, non abbastanza. Io sono morto, ricordi? Ho visto quello che avevo da vedere. Mi basta. – Non hai voglia di vedere qualcosa di nuovo? – Non stasera. Restiamo ancora un po’ qui, vuoi? – Finché fa buio? – Più o meno. – Poi? – Poi ti porto a cena. Fidati, ti piacerà. – Sì, sì, mi fido. – Cos’hai da ridere? – È che non sono mai stata a cena con un morto. Non è che poi resusciti? – No, mi spiace. Dovrai farci l’abitudine. – Wow! Mi spiace!… Non eri tu quello che non chiedeva mai scusa? – Da vivo. Ora sono morto. And, I think to myself, what a wonderful world yes, I think to myself, what a wonderful world. 3. Visita di controllo Bologna. Il portone d’ingresso non è un problema: basta un contatto col citofono che dà il tiro ai clienti. Due fili da collegare, tanto a quest’ora non passano neanche i tossici. Il silenzio della notte bolognese. Il sommesso fruscio continuo del vecchio canale che scorre sotto i piedi: più in là lo si vede. Poi c’è la finestrella che dà sull’acqua. Romanticismo. Qui il frusciare dell’acqua si fa gorgoglio: la tromba delle scale amplifica il suono che sale dai finestroni aperti nella notte estiva. La porta è questa: mano ai ferri. Cede quasi subito: l’antifurto è stato sconnesso tagliando il filo giusto con una tronchesina. Facile: basta sapere che c’è. Interno: la luce della torcia americana. Il primo dei due avanza sicuro, il secondo resta dietro la porta d’ingresso: a questo punto tanto vale aspettarsi sempre il peggio. La poltrona. Il trapano. L’autoclave per la sterilizzazione: gli strumenti escono imbustati. I quadri alle pareti. Le stampe: la Bologna d’una volta. La macchina del caffè. Archivio. I fascicoli dei pazienti. Ogni fascicolo contiene: liberatoria del paziente, panoramiche dentali, scheda con rappresentazione grafica delle arcate inferiore e superiore e annotazione analitica di ogni seduta. Data, descrizione, posizione del dente: c’è tutto. Le anamnesi, le prognosi. Nomi, cognomi, indirizzi, numeri telefonici. La società del controllo applicata a una piccola porzione di individuo: da lì si può ricostruire il macrocosmo implicato nel microcosmo. Fascicolo numero uno: piuttosto consistente. Una lunga frequentazione. Fascicolo numero due: piuttosto smilzo. Paziente recente. La documentazione del fascicolo uno è nel fascicolo due, la documentazione del fascicolo due è nel fascicolo uno. Il limite della società del controllo: la facilità d’uso dei suoi strumenti. Vetrinetta: calchi di gesso. Calchi dentari. I nomi sono scritti sulla base. Un solo calco: forse non se ne accorgeranno mai. Una morte, una resurrezione: bilancio pari. Si può andare. 4. Ciao, come stai? Località non determinabili. Invio: da cellulare clonato con scheda estera a telefono fisso. All’altro capo: tavolo in mogano anticato. Telefono nero a disco. Drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn... drìììn… Pausa (nessuna risposta). Dieci minuti dopo. Invio: da cabina telefonica pubblica a cellulare clonato con scheda estera. (La cabina dista centocinquanta metri dall’abitazione dotata di telefono nero a disco). Drìììn... drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn... drìììn… Il ricevitore viene sollevato. Nessuna risposta vocale. alfa?Letto il giornale? beta?Letto. alfa?Cosa consigliano? beta?Di aspettare. Aspettare e cercare di capire. alfa?Ci sto già pensando io. Può essere una coincidenza. beta?Può essere, può non essere. Tutto può essere. alfa?Aspettare è più complicato. beta?Non possiamo rischiare. Si rimanda. alfa?La pesca? beta?Già partita. Sono stati puntuali. alfa?Allora? beta?Si cambia attracco. Si cambia mare e si va al sicuro, come in passato. Si resta in attesa. Stand by. alfa?Dove appoggiamo il carico? beta?Prova a immaginare. La Storia ha il vizio assurdo di ripetersi… alfa?… beta?… alfa?Sarà felice di rientrare nel giro. beta?Pazienza. Servono anche loro, per ora… alfa?Ora? beta?Ora, ieri, forse domani, chissà… Servono tutti, prima o poi: se tutti servono, nessuno è indispensabile. alfa?Quasi nessuno. beta?Quasi. Ma non è di questo che devi occuparti. alfa?Qual è il problema? beta?Il belga. Senza soldi non si muove. Senza data non si muove. Lavora così. Tu pensa al bonifico. alfa?Bonifico? beta?Sembra che qualcuno si sia spaventato. A movimentare il denaro abbiamo già provveduto, devi solo far sbloccare il conto. alfa?Nessun problema. Però… beta?… alfa?Perché il belga? Non possiamo usare uno dei nostri? beta?Non si usano i nostri. Niente di riconducibile. Pezzi sparsi. alfa?Ma adesso non è più così. beta?Quella base è la più sicura, non abbiamo alternative. Il resto procede come previsto. alfa?Dici che al belga il posto piacerà? beta?Se lo farà piacere. È lavoro, non vacanza. alfa?La nuova data? beta?San Michele. alfa?Perché? beta?L’arcangelo Michele con la sua spada fiammeggiante protegge dai demoni i cavalieri erranti che vagano su questa Terra… dice così, più o meno. alfa?Chi dice così? beta?Un monaco medioevale. Un mistico. alfa?Ancora con queste storie? beta?C’è chi ci crede. Se basta così poco, perché non accontentarli? alfa?E tu ci credi? beta?L’arcangelo Michele è il patrono della Guardia di Ferro della Romania. alfa?Quindi? beta?Cosa vuoi che mi importi della Romania? Tlac (cornetta abbassata). – Signore, ha finito? Mi regala la scheda per la collezione? – No. – Perché? – Faccio anch’io collezione. 5. Il pettinato lettore di notizie con il cuore in mano Milano. – Direttore, scusi: ha sentito la radio? – No, Scungio, sono appena arrivato. Cos’è successo? Il brigadiere Scungio respira a fatica, a bocca aperta. Ha fatto violenza ai suoi novantadue chili accumulati in trent’anni di mensa carceraria e contromensa coniugale, percorrendo di corsa il corridoio che conduce all’ufficio del direttore. Che non ha sentito il notiziario. La brutta notizia deve dargliela lui. – Allora, Scungio: ti strozzi una volta per tutte, o mi dici cosa dovevo sentire alla radio? Inspirazione: aria viziata in ingresso. Espirazione: il sottile fischio che parte dai bronchi semiocclusi e segnala il peggioramento del sistema respiratorio del brigadiere. Aria viziata-fischio in uscita. Aria viziata-fischio in uscita. Aria viziata-colpo di tosse-espettorazione: finalmente. Il fazzoletto è già nella mano braciolosa del brigadiere Scungio, pronto a raccogliere il catarro fuoriuscito dalla gola. – Che schifo, Scungio! Guarda che se non la smetti con le sigarette e tutti quei grassi, a dieta ti ci metto io, senza aspettare tua moglie. Il telegiornale del mattino! Paonazzo, il brigadiere Scungio allunga la mano verso il televisore portatile sul mobiletto dell’ufficio, lo accende e lo sintonizza sul telegiornale delle sette e trenta. Lo stacchetto pubblicitario sfuma nella sigla. – Ascolti, direttore, ascolti… ma cosa fa lì per terra, direttore? – Raccolgo il fascicolo che hai fatto cadere con una culata, ippopotamo senza tutù che non sei altro. Possibile che… No, non è possibile che il brigadiere Scungio si accorga dei disastri che combina ogni volta che si muove in spazi ristretti, ma non è questo il momento di discuterne. Non è neanche il momento di raccogliere di nuovo il fascicolo che, liberatosi dalla stretta della mano ora aperta del direttore Osvaldo Strano, obbedisce alla legge di gravitazione universale risparpagliandosi sul pavimento dell’ufficio. Non è il momento per dire qualcosa di sensato, di intelligente, di colloquiale: non davanti a queste immagini. O meglio, non davanti a queste immagini quando non provengono dai Balcani, dal Medio Oriente, da un qualsiasi luogo che non sia Bologna, Italia. – Ma cos’è diventata Bologna: Beirut? Palermo? Il brigadiere Scungio, che a Palermo ha fatto il servizio militare, Beirut non ricorda neanche dov’è, ma non ne ha bisogno per capire la gravità del momento. La foto della presunta vittima dell’attentato si sovrappone ai fotogrammi dell’auto carbonizzata. Il pettinato lettore di notizie sottolinea con il cuore in mano: non il suo, ovvio. La retorica gli impasta i denti sbiancati a bicarbonato: ma chi li scrive questi commenti?, pensa. Ha imparato alla scuola di dizione, a scollegare il cervello dalla lingua. – Accidenti, Scungio! – esclama il direttore Strano. Poi comincia a fare uno più uno. – Porca miseria… Scungio, accidenti ai nomi, come diavolo si chiama quel politico bolognese che abbiamo qui? – Malavasi, direttore? Cristiano Malavasi? – Proprio lui. Mi sa che devi andare a chiamarmelo, perché… Nel corso della notte un altro efferato evento sanguinoso al momento inspiegabile ha turbato la città felsinea, continua implacabile il pettinato lettore di notizie con anonima cadenza. Il direttore si ferma. Senza rendersi conto di aver perso le carte, ripone il fascicolo immaginario sulla scrivania. – Le porto il camoscio, direttore? – No, aspetta un po’… tanto non resuscita nessuno. Fammi verificare la cosa. Faccio due telefonate, poi ti chiamo io… Ma cosa diavolo sta succedendo, laggiù? …Al momento si ignora se i due eventi siano in qualche relazione tra loro, conclude il pettinato lettore di notizie scandendo le sillabe: come gli hanno insegnato a scuola di dizione. 1. L’importanza della sofferenza Tu dài troppa importanza alla sofferenza. RAV MORDECHAI SHOUSHANI (a Elie Wiesel). 1. L’amore è una cosa meravigliosa 20 aprile 1945, tra Molinella e Bologna. Mio amatissimo Attilio, ho il cuore in gola per le notizie belle e terribili che riporto per l’ultima volta su questo diario prima della partenza. La mano mi trema dall’emozione pensando che tra non molto potrò ritrovarti e insieme torneremo in questo rifugio a riabbracciare le buone persone che per tanti mesi ci hanno nascosti, e finalmente potrò donarti questo quaderno che ho scritto solo per te. Davvero non so come cominciare, ma devo far presto, perché già i nostri pochi beni sono stati raccolti in un’unica cassetta di legno: mi sembra incredibile, ora che li vedo insieme, che per tutto questo tempo abbiamo avuto così pochi abiti per coprirci. Ma ormai è finita: tra breve saremo in salvo. Ieri quel bravo giovane di cui ti ho già scritto (come sono sciocca, vero? Come se tu potessi aver letto le pagine di questo diario: eppure è a te che le ho indirizzate) è tornato con la sua macchina senza copertura (era come sempre ben vestito, con un grande cappello bianco e un fiore bianco all’occhiello) e ci ha recato la grande novità: gli americani hanno attraversato la stretta di Argenta, l’ultimo ostacolo tra la Romagna e Bologna, in breve saranno qui. I tedeschi sono in rotta, ma proprio per questo bisogna temere la loro rabbia e la loro cieca vendetta. Questo casolare che il giovane parroco di Villanova ci aveva trovato non è più sicuro: i tedeschi sbandati potrebbero rifugiarvisi, e non farebbero fatica a scoprirci. Ma non ci troveranno: il nostro salvatore è già qui, giunto di prima mattina con un furgoncino guidato da un suo fido amico per portarci in un luogo sicuro per i pochi giorni che ci separano dalla fine di questa terribile guerra. Il babbo dice che non può che essere la ricompensa del Signore per non aver dubitato un solo giorno della sua protezione. E davvero in tutti questi mesi non è passato giorno che non leggessimo la Torah, e il nostro nonno, improvvisatosi rabbino, non si preoccupasse del nostro studio. Quante volte abbiamo commentato Geremia e Giobbe, e quante volte il nonno ci ha ripetuto che le loro sofferenze anticipano le sofferenze del nostro popolo! Ma ieri abbiamo letto col cuore ricolmo di gioia le ultime pagine di Giobbe, quando il Signore restituisce al più devoto dei suoi figli tutto quanto aveva perduto. Ti confesso che a volte la sera, dopo la preghiera comune, ho recitato in silenzio il Cantico, come quando lo recitavo a te, e nel recitarlo sentivo il calore delle tue mani sui miei piccoli seni, e ricordavo l’odore delle tue labbra e dei tuoi capelli, e quasi sentivo il tuo corpo accanto al mio. Non credo che questi pensieri siano stati impuri: come può il nostro Dio adirarsi verso chi ama, se è Lui stesso ad averci dato la capacità di amare? Ma vedi che ancora una volta mi perdo in chiacchiere da ragazzina, mentre i miei fratelli già caricano l’unica cassa nel furgone che ha acceso il motore. Addio, anzi, arrivederci, amore mio. Conterò i minuti che mi separano da te. Quanto tempo passeremo a raccontarci di questa guerra, e quanto ne passeremo stretti l’uno nelle braccia dell’altra. Vedrai, ti insegnerò a leggere, come ti avevo promesso l’ultima volta che ci siamo visti, e potremo leggere il Cantico insieme. Che l’ala dell’angelo sia sempre stesa a proteggerti. La tua Ester 2. Souvenirs d’Italie «Il Mattino di Bologna» cronaca della provincia, 20 agosto 1998 un inatteso ritrovamento riapre un antico mistero di Diego Dall’Olmo. Tra i molti misteri insoluti del dopoguerra si annoverano due eventi sino a ieri apparentemente distinti: l’ignota sorte della famiglia Roma di Villanova, e la scomparsa dei coniugi Ravaglioli nelle campagne molinellesi. La famiglia Roma, composta dai coniugi Daniele e Rachele, dai quattro figli Ester, Giuditta, Davide e Simone e dal padre di Rachele, Isacco, scomparve nell’estate del 1944 da Villanova, e di essa non si è più avuta notizia. L’allora giovane parroco villanoviano, don Ricrea, li aveva indirizzati presso un casolare abitato dalla famiglia Forni, che aveva raccolto altri profughi ebrei: ma da questa famiglia i Roma non giunsero mai. Non distante dalla fattoria dei Forni era il casolare dei coniugi Alvise e Antavleva Ravaglioli, che scomparvero alla vigilia del 25 aprile 1945. Il loro figlio, tornato dalla prigionia nel 1946, ha invano cercato una qualche notizia dei suoi genitori, dei quali non si è mai saputo nulla. Sino alla scorsa settimana, almeno, quando il nipote Cesare ha iniziato i lavori per la trasformazione del Casale Ravaglioli in un agriturismo. Dietro un pesante armadio, che in tutti questi anni nessuno aveva mai spostato, è stato rinvenuto un quaderno, quasi certamente il diario tenuto da Ester Roma dall’estate del 1944 sino alla vigilia della Liberazione. Si ignora il motivo per cui la famiglia Roma si rifugiò nel Casale Ravaglioli piuttosto che nella fattoria Forni: quel che è certo è che il 20 aprile 1945 la famiglia Roma intraprese un nuovo, misterioso spostamento, su sollecitazione di un giovane che offriva loro un rifugio, a suo dire, meno incerto delle campagne molinellesi, prossime a diventare terreno di scontro tra partigiani e nazifascisti. Non è dato sapere se anche i coniugi Ravaglioli partirono con la famiglia israelita, né quale sorte sia loro toccata. «la Repubblica» cronaca di Bologna, 22 agosto 1998 la piccola anna frank di villanova di Roberto Colasanti. Il diario di Ester Roma, la giovane ebrea scomparsa assieme alla sua famiglia e ai coniugi Ravaglioli il 20 aprile 1945, è stato visionato dal rabbino della comunità israelitica di Bologna. Era presente anche l’anziano parroco di Villanova, don Ricrea, che ha ricordato con lucidità quei tragici momenti. Il parere del parroco è che la famiglia Roma sia giunta per errore al Casale Ravaglioli credendolo la fattoria che lo stesso parroco aveva loro indicato e dove i Roma erano attesi, e che i coniugi Ravaglioli abbiano deciso di dare rifugio all’inattesa famiglia ebraica. Il rabbino della comunità di Bologna ha confermato che nessun membro della comunità ebbe notizia dei Roma all’indomani della guerra, e ciò lascia supporre che la famiglia possa essere incappata in un tragico incontro, forse degli sbandati. «l’Unità» Emilia Romagna cronaca regionale, 23 agosto 1998 unico indizio: un uomo dal cappello bianco di Tommaso De Lorenzis. La famiglia Roma abbandonò il Casale Ravaglioli di propria volontà, in un furgone guidato da un giovane elegante, con un cappello bianco: è quanto emerge dall’ultima pagina del diario di Ester Roma, quella che ormai per tutti è diventata l’Anna Frank bolognese. Chi era quell’uomo? A che titolo intervenne? E come aveva saputo dell’esistenza di una famiglia ebraica nascosta nella casa dei Ravaglioli? Tra i soliti gialli estivi, montati ad arte per scaldare i pruriti di un’informazione in disimpegno, d’improvviso emerge un vero mistero. Nove persone scomparse nel nulla, la tragedia degli ebrei durante la Repubblica sociale, i drammatici ultimi giorni di guerra… Purtroppo la maggior parte dei testimoni non ci sono più, e i pochi indizi a disposizione non appaiono sufficienti, come conferma il sostituto procuratore Tomaselli, che ha aperto un fascicolo sulla scomparsa delle due famiglie: «L’apertura del fascicolo è un atto dovuto, ma anche un espediente tecnico che ci consente di svolgere qualche indagine. Purtroppo al momento non siamo neanche in grado di formulare un’imputazione precisa contro ignoti, anche se siamo convinti che le due famiglie siano andate incontro a un tragico destino». «Corriere Padano» Nuova edizione, settembre 1998 le famiglie roma e ravaglioli trucidate dai partigiani comunisti? Secondo lo storico avv. Elio Caputti, che da tempo si adopera per sollevare il velo di complice silenzio che da cinquant’anni copre i misfatti dei cosiddetti partigiani (meglio: delle bande di briganti che saccheggiarono il Nord Italia dopo la caduta del legittimo governo della Rsi), le ossa di recente ritrovate nelle campagne argentane potrebbero essere quelle della famiglia Roma e dei coniugi Ravaglioli, con tutta probabilità trucidati dai partigiani per derubarli degli ori di famiglia. Sulla vicenda è stata preannunciata un’interrogazione consiliare, alla prossima riapertura del consiglio comunale di Ferrara, dall’avvocato Furio Balbetti, capogruppo dei consiglieri di opposizione. 3. I ferri del mestiere 25 agosto 1998, presso Bentivoglio (Bologna). L’insegna dice: «Officina Bignardi. Cicli e moto». Accanto, l’insegna Piaggio. «Chiuso», dice il cartellino appeso alla maniglia. – Io, a leggere, ho imparato in parrocchia. E allora? Volevo leggere la Bibbia, sono andato dal prete e ci ho detto: adesso mi impari a leggere. Non vuol dire mica niente, solo perché ho letto la Bibbia prima dei libri del Partito. Non gli è mai passata al Cioccolata questa storia della parrocchia. In sezione ci scherzavano sopra, ogni volta che apriva bocca c’era sempre qualcuno che diceva: «Occhio, che il Cioccolata l’è un baciapile». E non parliamo poi di quando arrivava il commissario politico con la linea, e il Cioccolata, testa dura che non è altro, non era convinto. E non gli andava mai bene niente, al Cioccolata: non gli piacevano gli americani, e va bene, ma neanche i russi, e questo già andava un po’ meno bene. E i democristiani, e i socialisti, che si era tutti contro, ma in realtà bisognava sempre dialogare, e anche questo il Cioccolata non lo capiva. In fondo lui voleva una sola cosa: andare a prendere i fascisti da casa uno per uno, e finire il lavoro interrotto nel ’45. E non capiva perché non si poteva… Dài mò, Cioccolata, basta romper i marôn! – …e ogni volta quella storia della parrocchia, fino al giorno in cui il commissario politico venne da Bologna apposta per lui, che il Cioccolata se lo ricorda ancora. – Così tu, compagno, hai imparato a leggere in parrocchia. – Sì. C’avevo vent’anni, la guerra era finita, mi avevate detto di nascondere le armi e io l’ho fatto, e volevo imparare a leggere. Era importante saper leggere, no? – Certo, compagno. Ma sarebbe stato meglio imparare a leggere ai corsi serali qui in sezione. Perché mai un comunista deve andare a imparare a leggere in parrocchia? – Perché volevo leggere la Bibbia. – In sezione ti avremmo insegnato a leggere sul Manifesto, poi c’era il corso sul primo libro del Capitale. Secondo te non è importante che un comunista conosca questi libri? – Oh, compagno commissario, mettiamola lì giusta: io quei libri poi li ho letti, perché lo so anch’io che è importante sapere certe cose. Ma non avevo mica bisogno di leggere il Capitale per diventare comunista. Mi bastava la faccia di mia madre che faceva i conti con l’acqua e l’erba di campo per preparare la minestra, per diventare comunista. Bastava la fame, servivano mica i libri per capirla. Non gli è mai passata, al Cioccolata, quella storia del processo politico, perché mica è stupido, il Cioccolata: beve troppo e dimentica le cose, e a volte le sue riparazioni non sono fatte bene (e sì che è bravo, il mestiere lo ha insegnato lui al Togliatti), ed è per questo che lo chiamano Cioccolata, ma stupido no! Altro che discussione democratica, lo buttavano fuori del Partito se le cose andavano male. Non gli è mai andata giù che gli avessero mandato quel signorino con l’aria da bravo ragazzo, uno che per diventare comunista aveva letto i libri di famiglia e la fame l’aveva conosciuta nei romanzi. Non gli è mai andato giù niente, al Cioccolata. Sono passati quasi cinquant’anni e ancora ci pensa. Quando beve poco. Quando il vino scende pesante, ci sono cose ancora più vecchie che non gli vanno giù. Brutta cosa, la memoria. Ti prende la vita e te la ributta indietro, ti mangia i giorni e te li rivomita nel rancore. Il Cioccolata ha smesso di vivere nel 1945. O meglio, ha perso il presente, e di conseguenza anche il futuro. Lui non voleva costruire la società dell’avvenire: voleva solo tornare indietro ad ammazzare quelli di ieri, tò mò! – Smettila con queste storie, Attilio. Cosa te ne importa ancora del Partito, che tanto non c’è più, – gli fa il Togliatti, pacato, armeggiando con i ferri. – Ma sì, va’ là che c’hai ragione, – e si versa un altro bicchiere di rosso. Al Togliatti il vino non fa niente, al Cioccolata dà subito alla testa. Oggi, poi, proprio non si riesce a trattenerlo. Il Togliatti neanche ci prova: se fosse al suo posto, oggi si ubriacherebbe anche lui. – Allora hai parlato col parroco? – Si, ci ho parlato. È come dice il giornale. (non dice mica «l’Unità», il Togliatti: dice il giornale). «l’Unità» è lì, sul bancone dell’officina in mezzo ai ferri, aperto alla pagina regionale. Il Cioccolata l’ha letto e riletto, quell’articolo. Un uomo dal cappello bianco. – T’ha detto altro? – Sì. Una cosa che i giornali non hanno detto. Oltre al cappello bianco, aveva un fiore all’occhiello. Un fiore bianco. Si guardano in silenzio. Il Cioccolata comincia a piangere. Erano più di cinquant’anni che non piangeva. Un fiore bianco all’occhiello, e un cappello bianco in testa. Come fa quel magistrato a non sapere cosa vuol dire? – È una storia vecchia, Attilio, non la sa quasi più nessuno. Già cinque anni dopo, quando è tornato a Bologna, se ne erano dimenticati quasi tutti. – Noi no, Ruggero. – Infatti, – dice il Togliatti. – Noi no. Questa storia la finiamo noi. A modo nostro, – dice versando una goccia di olio su uno degli attrezzi del mestiere sparsi lì sul bancone: chiavi inglesi, la piccola pressa da banco, cacciavite e martelli, lo svitacandela da Vespa, brugole, il barattolo di grasso, la polvere sgrassante per lavarsi le mani, il mitra Stern. Tutto quel che serve per un lavoro fatto bene. 4. Fottiti, stronzetto 1 settembre 1998, Bologna, cinema Apollo, ore 20.30. – Oh, ma quanto è vecchio questo film? Eccoli qui. Chissà cosa credevano di vedere: Jean-Claude Van Damme e Chuck Norris nel Far West? – Oh, ma quali ombre rosse, se è in bianco e nero! Va bene, mi sposto. Non ho voglia di litigare, voglio vedermi Ombre rosse sul grande schermo a mille lire, più mille lire per la pizza e mille lire per la birra, domani ho un caso facile facile da risolvere, perché mi devo rovinare la serata? Mi sposto dall’altra parte, scusi, mi fa passare, grazie, mi siedo e bevo un sorso dal bicchiere di plastica. Continuano a far casino, possibile? No, dev’essere arrivata la maschera, strano che ci sia qualcuno a far servizio in sala. E invece… Eccoli che si alzano ed escono fuori tutti e cinque… meglio così. Non è una maschera, si è riseduto. Strano, come avrà fatto a convincerli, quello lì con l’impermeabile? Poi la poesia di John Ford prende il sopravvento, la carovana, il parto, la prostituta, gli indiani che non uccidono il vetturino che sennò il film finiva subito, i nostri che arrivano sempre, Ringo che toglie le ingiustizie dal mondo. Però resta un piccolo tarlo da qualche parte, qualcosa che mi dà un leggero fastidio. Le chiavi di casa non le ho dimenticate, il telefonino l’avevo spento (tanto non mi chiama nessuno, mi serve solo per il lavoro), non avevo impegni… eppure… eppure continua a ronzarmi qualcosa nella testa per tutto il film. Mah… Il portafogli ce l’ho, sennò come pagavo… vabbe’, andiamo, che entrano per l’altra proiezione. Il cartellone con i prossimi film… Tanto, per mille lire a film vale la pena qualunque cosa… Certo che Il grande freddo dopodomani… Bella quella ragazza sul marciapiede di fronte, con quella coda di cavallo… mi sono sempre piaciute le ragazze con la coda di cavallo, anche se… (Anche se Barbara la coda di cavallo se l’era tagliata, a un certo punto?) (Idiota che sono). Certo che sono un idiota, e non solo perché non riesco a togliermi Barbara dalla testa. Sono un idiota perché quante possibilità ci sono che qualcuno vada in giro in impermeabile il primo di settembre, venga a vedere Ombre rosse e abbia la capacità di buttare fuori del cinema cinque ragazzi senza alzar la voce? Quante, oltre quella che mi pugnala alla schiena con un leggero, quasi sussurrato Ti fermi a bere un bicchiere? Non un Ciao, come stai? Non un Fai finta di non vedermi, o non mi hai riconosciuto? Non un Da quanto tempo, vero? (Da cinque anni: tra un po’ è l’anniversario). No: Ti fermi a bere un bicchiere? E niente parole tipo scusa, casomai gli si crepassero i denti nel passaggio delle parole. Andrea Vannini, cinque anni dopo. Dopo… – Cosa vuoi, Andrea? – Bere un bicchiere in memoria dei vecchi film. – E magari anche dei vecchi amici? – Magari. – Sei qui per caso? – Secondo te? … – Sapevo di trovarti qui. Ombre rosse in videocassetta perde molto. – Non ce l’ho il videoregistratore. Neanche il televisore. Continuo a vedere i film al cinema, come si usava un tempo. È l’unico modo in cui riesco a stare in mezzo alla gente. – Immaginavo. – Ascolta, Andrea, non ho voglia di vederti. In cinque anni ti avrei chiamato, se mi fosse passata. Prima o poi può darsi, ma stasera ancora no. Ti spiace se vado? – Sì. Ma puoi andare, se vuoi. … Cinque anni. E non mi è ancora passata. Ci sono dei limiti massimi fissati per legge, per il rancore? Ogni tot mesi di mancato perdono ne scatta uno, si mette un bollino sulla tessera e alla fine si azzera il conto? Be’, non per me. È il mio migliore amico. (Dovrebbe significare qualcosa che non riesco mai a dire: era il mio migliore amico?) Forse il solo amico: l’altro è in galera, e la mia ragazza… (La mia ex ragazza: anche questo dovrebbe significare qualcosa?) …è morta. Com’è che faceva quella canzone? «Bella la vita che se ne va…» Ecco, la mia vita sembra essersene andata. Meglio: ha cominciato ad andarsene, e ci ha messo anni per tagliare l’angolo. E io lì, fermo, a guardarla allontanarsi senza far niente per fermarla. – Scusa, hai un minuto? Poi, quando credo di essermi abituato all’assenza, giro l’angolo e ne vedo un pezzo in fondo alla via, che mi aspetta all’uscita del cinema (e se andavo al secondo spettacolo? Già, perché per Andrea è un problema vedersi Ombre rosse due volte di seguito. Magari la seconda volta gli indiani si fanno furbi, e le Giacche blu trovano un mucchio di legna arsa al posto della diligenza), per chiedermi… – Scusa, hai un minuto? Ma ci senti? …per chiedermi… – Certo che ci sento, è solo che… ma con chi sto parlando? – Scusa, non volevo disturbarti, ma stavi qui a gesticolare e mi sono detta che forse puoi aiutarmi a tornare a casa. La ragazza con la coda di cavallo. Quella del marciapiede di fronte, quella con la minigonna e le gambe lunghe. No, ero stato capace di non vederle le gambe, ma ora che la osservo seduta sui tacchi degli stivali mi accorgo che ha delle gambe lunghissime, a cosa pensavo per non accorgermene? (A cosa pensavo? Stasera, o da quando…) – No, scusa tu, ho incontrato un amico che mi ha fatto agitare e… – Un amico? Se questo è l’effetto che ti fanno gli amici, cosa succede quando incontri un nemico? Vi prendete a revolverate? La coda l’ho vista, le gambe e gli stivali anche, ora pure gli occhi verdi. Ma la sfera di cristallo com’è che mi è sfuggita? – Piacere, Lara. Scusa se non mi sono ancora presentata. – Lara? – Lara. Non è un soprannome, mi chiamo proprio così: prova a indovinare il film preferito di mia madre? Dove, non so, ma un giorno ti rivedrò… – Piacere. Di cosa hai bisogno? – Ne sai di motori? Il mio Vespino non vuole saperne di ripartire. – Be’, il motore di questo affare è piuttosto semplice. Forse è la candela, o forse l’hai ingolfato. Hai provato a scartavetrare la candela? – Guarda, non so neanche cos’è una candela. Di solito non ho problemi, e quando ne ho ci pensa il mio benzinaio. Me lo vedo, il benzinaio, felice come una Pasqua di poterle lumare le gambe con la scusa del Vespino che ha qualche problema… – Va bene, aspetta un attimo. Ho la Vespa laggiù, prendo la chiave per svitare la candela e te la scartavetro. Se non va, proviamo a spinta… Infatti la candela è pulita, quasi nuova. Anche a spinta però non ne vuole sapere. Bello, una sudatina per cercar di avviare un motorino giusto per concludere la serata. A meno che… – Benzina, com’eri messa? – Ero un po’ scarsa, però la riserva dovrebbe esserci. La chiavetta è girata sulla riserva, però… Provo ad agitare il mezzo, e mi sembra di sentire qualcosa sbattere contro le pareti del serbatoio. – Io un’idea ce l’ho. Mi sa che si è otturato il passaggio della riserva, quindi sei senza benzina e la riserva non ti entra nel motore. – Ci mancava solo questa. – Vai lontano? – Torno a casa. A Casalecchio. Ho smesso adesso di lavorare. Vabbe’, grazie per l’aiuto, chiamerò un taxi. Dalla borsetta tira fuori un telefonino e comincia a smanettare sulla tastiera. Certo che è proprio bella. Non ci giurerei con la scarsa luce di quest’angolo, ma dai riflessi direi che ha i capelli nero corvino. Magari sono tinti. Così, a mo’ di saluto, tanto per rinfrescare la bocca biascico un… – Se vuoi ti ci posso accompagnare io, a Casalecchio. In Vespa, – solo per salutarla mentre mi dice un no guardando con disprezzo le mie due ruote. Sono talmente avanti nella costruzione di un’altra serata fallimentare della mia vita, che mi sembra si rivolga a qualcun altro mentre dice… – Che carino che sei. Va bene. Oh, ho detto che va bene. Ma ti sei incantato di nuovo? – Eh? No, scusa, è che… ma ti ho detto che è in Vespa… – Sì, certo, la vedo la tua Vespa. Mica piove, è ancora estate, il casco ce l’ho, – dice mentre si piega per sganciarlo dalla ruota anteriore, ribadendo con quel movimento che le sue gambe sono proprio lunghe. Metto in moto, si siede dietro con leggerezza, mi cinge con un braccio e mi dà un amabile «Ok, vai pure» a mo’ di comando. Dove vuoi tu, tesoro, direbbe John Wayne. Clint no. Clint partirebbe in silenzio. Come me: io sono della Colonna Clint Eastwood, i patiti del western crepuscolare. È Andrea il vero patito di John Wayne. Andrea, immobile in via Turati, sotto la Banca Agricola Mantovana (tutta la storia del socialismo italiano in una via: si comincia con Turati e si finisce con una banca). Andrea, che mi guarda andar via, per una volta accompagnato. Si accende una sigaretta, tira due boccate, la spegne sotto la scarpa e si allontana. Pensoso, nemmeno a dirlo. – Eri pure tu al cinema? – No, ti ho detto che lavoravo. Avevo finito. Tu? – Ero al cinema. – No, volevo dire: lavori anche tu? – Sì. – Cosa fai? – Investigatore privato. – Ma dài! Sembra una roba da film. Una cosa pericolosa… – No, tranquilla. Non io, almeno. Dove vado, adesso? Passo la Croce? – Sì, sì, vai dritto. Hai presente le case giù dal Reno, dove prima c’era il canale? – Capito. E tu cosa fai? – Per la verità studio. Un po’ Scienze politiche, un po’ Lettere. Ma non sono iscritta. Vado a lezione, ascolto, poi magari leggo i libri. – Ah… E il lavoro? – Con quello ci pago il mutuo, i vestiti, il mangiare… Impegna poco e rende bene, così ho tanto tempo libero. Devo ancora decidere che farne: mi guardo intorno. Insomma, non mi lamento. Vorrei vedere. Io alla sua età ero in affitto con altri cinque. È così che ho conosciuto gli altri del gruppo, i Quattro gatti. Poi prendemmo casa insieme, poi… – Gira a destra. Ecco, ci siamo. Oh, ma sei sempre lì a pensare fra te e te? – Scusa di nuovo, te l’ho detto, un amico mi ha messo in agitazione, non riesco a smettere di pensare a certe vecchie storie. – Certo che sei proprio strano. ’Scolta, ti va di salire? Ti offro un drink, per ricambiare. Ci so fare. – Un drink? Sei sicura? – Certo. Cosa ti piace? Vodka, rhum, whisky? – Tequila. Ce l’hai una tequila? – Una buona, di agave blu. Tequila Sunshine? Anche la granatina. Deve avere un bar in casa. – Mettiamo in chiaro una cosa, bel moretto, – mi dice voltandosi mentre fa strada su per le scale. – Ho detto tequila, non scopare. Intesi? – Non ci avevo ancora pensato. Non prenderla come un’offesa. – Pollegg’, baby. Così non rischiamo di rovinare l’inizio di una possibile amicizia. L’amicizia è una cosa importante, non credi? Insisto: da qualche parte ha una sfera di cristallo. Ce l’ha davvero! Il bar, non la sfera di cristallo. Un unico ambiente, con in fondo un piccolo bancone da bar, e dietro due mensole fornitissime. Un frigo da sogno, un Whirlpool blu con lo sportello esterno per il ghiaccio, e in giro molta plastica a colori elettrici. – Quel poster? – Point Break. Hai presente? Cercare l’onda… Il mio film preferito, – mi dice mentre fa colare la granatina sul fondo del bicchiere. – Non ti ho chiesto se la vuoi ghiacciata. Col caldo che fa… metto? – Il ghiaccio? Sì, non molto. Cosa dicevi di quel film? – Cercare l’onda. Surf philosophy, quella roba lì. La mia filosofia di vita. Prendi. Se ne vuoi un altro, non fare complimenti. Dal fondo del bicchiere un rosso tramonto comincia a colare verso l’alto, la tequila si tinge d’arancio, a regola d’arte. A me non riesce mai bene, la Sunshine. – Grazie, alla tua. Dicevi? Ah, sì, la filosofia… Quale filosofia? – Ma non hai visto Point Break? – No, a dire il vero no. Merita? – Ma dài, come fai a non averlo mai visto? Magari la prossima volta ti invito a vederlo, così recuperi il gap. C’è tutta una filosofia, in quel film. A te non piace la filosofia? – Mi ci sono laureato, in Filosofia. Me lo ricordo ancora, il 38: c’era il collettivo all’ammezzato, il dipartimento di Teoretica con le bottiglie negli scaffali, tra Aristotele e gli stoici, almeno agli inizi. Poi gli mandarono a dire che la cosa non era gradita, e le fecero sparire. – Se le portarono a casa? – Vorrai scherzare! Se le bevvero tutte in una mattinata. C’era tanto di quel fosforo nel dipartimento che tracimava nei corridoi. Ai piani inferiori probabilmente se lo facevano colare sulla testa, per averne un po’. Poi c’era il mitico bidello Mario, a far capannello con le sue avventure in riviera («Io, alla vostra età, quattro in un pomeriggio, voi dopo una siete già spompati…») E la volta che montarono una cancellata per toglierci l’ammezzato, e gliela riducemmo in un pomeriggio in bacchette uguali coi seghetti, tutte lunghe trenta centimetri, poi le portammo al preside, belle in ordine, sul suo tavolo. Ne ho viste di cose strane, là dentro. Però corsi di surf non me ne ricordo, mi sa che mi sono perso qualcosa. – Fottiti, stronzetto. Non si impara sui libri a cavalcare l’onda. Neanche la filosofia si impara sui libri, se è per questo. Non si impara, come non si impara a vivere. Spegnendo l’alogena centrale accende altre luci. La stanza diventa blu, come un acquario. – Bello, vero? Fatto io, con dei vecchi tubi della stufa forati col trapano. Dovrei venderle, lampade come queste. Ci si mette mezz’ora a farle, e magari me le pagano bene. – Invece? – Mah, in fondo non ne ho bisogno. Ne ho fatte un tot per un mio amico, uno a cui piacciono cose così. Pensa che ha la casa piena di vecchi frigoriferi, li svuota e li trasforma in armadi. Le mutande nel freezer, le camicie piegate nel reparto carne… Spero che si ricordi di non attaccare la spina, il suo amico. – Allora, ti piace? Piccola, ma c’è tutto, no? Sì, sembra di sì. Però c’è qualcosa che… Cos’è che manca? La camera da letto è lì, senza porta (tanto, se vive da sola)… – La cucina è dietro quella porta? – No, quello è il ripostiglio. Detesto i grandi armadi. Non c’è la cucina. Ho buttato giù la parete e ho creato un’unica stanza. – Scusa, magari non sono fatti miei, ma come fai senza cucina? – Non cucino. No, cioè, non è che proprio non cucino: non uso grassi, non friggo, quindi non ho bisogno di una cucina vera e propria. Basta il microonde, quello lì sulla mensola. Mangio sano. Niente carne rossa, che rende aggressivi. Non trovi che tutto quel sangue faccia male? Poi, non mi piace molto cucinare. Per lo più mangio fuori, o mi faccio portare la cena a casa. Hanno aperto un ristorante giapponese che fa take away, a te non piace il sushi? Magari una volta ti invito, tu cosa preferisci? Perché c’è a chi piace più il sashimi, magari facciamo un misto, che ne dici? Sushi? Sashimi? Non seppioline ripiene e due spaghettini col nero? – E il caffè? Quello il microonde non lo fa, vero? – Il caffè fa male. Comunque, se devo offrirlo, ho la macchina espresso bar, lì in camera da letto. Lo vuoi? – No, grazie, non a quest’ora. Un’altra tequila, magari. Se vuoi faccio io. Hai un limone? Certo che ha un limone. Anzi, un lime (secondo me col lime è meglio, non trovi?), tanto per insegnarmi come si sta al mondo. E un macinino in vetro per il sale (macinato fresco è più buono, con la tequila ci vuole). E dei bicchierini deliziosi («Li ho comprati alla Ciudad», del Messico, suppongo, «l’anno scorso, assieme al mezcal»). Sale, tequila, limone, pardon, lime. Due, tre volte, tra una chiacchiera e l’altra. – Allora, questo amico che ti agita tanto? – È che mi ricorda delle cose che preferirei dimenticare. Vecchi tempi, vecchi amici. Era bello stare insieme, ora come ora non saprei neanche dirti a far cosa. Progettavamo, credevamo, ci agitavamo. Soprattutto, parlavamo. Si parlava tanto, una volta. E musica, tanta musica. L’ascoltavamo di continuo. Poi le cose hanno cominciato ad andar male, come un fiocco di neve che inizia a scendere giù e cresce, rotola, rotola e cresce. Alla fine i bei tempi sono diventati brutti tempi. Non è parlando che cambiano le cose, sai… E comunque, pure le parole le avevamo finite. – Che fine hanno fatto gli altri? – Una è morta, non si è mai capito come. Un altro è entrato nella lotta armata… – Vuoi dire un terrorista? Hai un amico terrorista? – No, voglio dire… non un terrorista ma… (Ma cosa? Fa differenza? Sì. Fa differenza. Anche se non so qual è, la differenza). – …lascia perdere, tanto fa lo stesso. Comunque è in galera, non risponde alle lettere e dovrebbe uscire… non lo so, non mi ricordo neanche quando uscirà. – Le volevi molto bene, vero? – A chi? – Alla tua amica. Si sente, sai? – Cosa si sente? – Il vuoto. Quando ne hai parlato, ho sentito che ti ha lasciato un vuoto. – Davvero? – Davvero. È successo anche a me, due anni fa. Un mio amico si è suicidato, e nessuno sa perché… E questo amico che hai incontrato? – Non lo so… Cosa vuoi che ti dica, è sempre stato un tipo incomprensibile. È in polizia, figurati, e il bello è che non so neanche perché fa il pulotto. Credo che ne abbia approfittato per far sparire qualche carta su di me… Dopo l’arresto di Cristiano ci siamo un po’ persi di vista… Poi, cinque anni fa, è successo qualcosa. Una brutta storia, credo. Qualcosa di cui non ho voglia di parlare, non con lui. Così abbiamo smesso di vederci. Sale, tequila, lime. – Tu ti maceri troppo nei ricordi. Non ti fa bene, – mi fa dividendo in due l’ultima fettina di lime per il bicchiere della staffa. – Faccio male? – Certo che fai male. Il tempo va avanti. Non costruisci niente, se hai la testa voltata indietro. Ti perdi la vita. – Per perderla, dovrei averne una degna di essere vissuta, di vita. – Non ce l’hai perché non vuoi perdere quella che ti è rimasta. Mi accompagna alla porta, mi dà un bacetto sulla guancia e fa ciao ciao con la mano. Scendo due scalini, mi giro: è ancora lì a guardarmi. Sguardo strano, appena sfuggente, anche adesso che mi guarda negli occhi. – Posso farti una domanda? – Dimmi. – Perché sei stata così sincera con me? Che ti ho fatto di male? – Fottiti, stronzetto. E fatti vivo, quando ti è passata. Senz’altro. Magari senza aspettare che mi sia passata. 5. L’aperitivo in centro 2 settembre, Bologna centro, via Galliera, ore 11.30. I cadaveri sono sempre brutti da vedere. Anche quando non puzzano. Se c’è una cosa che Andrea Vannini ha imparato in tanti anni di polizia è che da morti sono tutti uguali, e nessuno è bello da vedere. Non esiste la bella morte: è questa la differenza tra i vivi e i morti. Alcune vite sono belle, altre no. La morte le eguaglia, dopo. Le rende uguali proprio perché prima erano diverse. Vai a spiegarlo a certa gente, pensa Andrea. L’imbrattatura di sangue scuro sulla parete color crema. I grumi di materia in rilievo sulla spatolata di sangue. La piccola macchia nera lucida sul pavimento. Le righe lasciate dalla sedia sul parquet. La scena del delitto. I due poliziotti si coprono la bocca col fazzoletto. Il tanfo è insopportabile, si fatica a reprimere il conato in gola. Non così Andrea: niente fazzoletto, nessuna reazione gastroesofagea, nessuna apparente reazione nervosa. Nessuna emozione: Andrea pensa alla morte senza sentirne l’odore. Pensa anche un’altra cosa, Andrea, perché l’ispettore Vannini non pensa mai una cosa per volta. Pensa: questa qui è una brutta storia. Non una brutta morte. Una brutta storia. – Allora, ispettore? – C’è poco da immaginare, Sandro. Lo hanno legato alla sedia, hanno trascinato la sedia da lì a qui, guarda i segni sul pavimento, e lo hanno ammazzato. Gli hanno messo in bocca la canna del mitra e hanno sparato una raffica. Lunga, direi. Fagli prendere le impronte per l’identificazione. – Ha dei dubbi? – Neanche uno. Ho un cadavere di un uomo anziano in pigiama e vestaglia lussuosi, quindi con tutta evidenza a casa sua, nella camera da letto di un più che facoltoso uomo anziano. È che della faccia non è rimasto molto: le impronte mi servono per ufficializzare l’identificazione. A giudicare dall’odore, dev’essere successo da giorni. Andrea ragiona. Mette i fatti certi in fila e li enumera. Perché legarlo? Per farlo stare fermo: nel mentre? La combinazione della cassaforte? No, non hanno portato via nulla: niente furto come movente. Una brutta storia. Perché quando ammazzano così il più importante assicuratore di Bologna, e non lo fanno per rapina, è di sicuro una brutta storia. Poi ci sono i proiettili: roba da museo. Una veloce telefonata conferma la prodigiosa memoria del perito balistico, che fatica a credere ai numeri letti sul fondo dei bossoli: un lotto del ’45. Hanno usato un mitra della guerra. Brutta, bruttissima storia. Il morto ha più di settant’anni, l’arma del delitto ne avrà almeno una cinquantina, se i conti tornano anche l’assassino deve aver visto molte primavere passare. Gli assassini. Uno lo teneva sotto tiro, l’altro lo legava: è più probabile così. Magari era uno solo, lo ha tramortito e lo ha legato da svenuto. Di certo il segno del colpo in testa non c’è più, non c’è più neanche la nuca. Ma è più probabile che fossero almeno in due. Insomma, sarebbe brutta già a raccontarla così. Poi c’è quell’altra cosa. Il volantino. Sulla porta d’ingresso. Una stella. Garibaldi dentro la stella. Fronte democratico popolare. I volantini della campagna elettorale del 1948. C’è una sola persona capace di conservarsi i volantini del 18 aprile. Un vecchio ex ladro d’appartamenti, che si diverte ad affiggerne uno sulla porta di casa a ogni elezione. Un partigiano comunista. Ruggero Passarini, detto Togliatti. Che di sicuro da qualche parte ha ancora le armi d’un tempo. Che sarebbe capace di averle tenute oliate e pronte per decenni. Che non è mai stato un assassino. Ladro, addomesticatore di serpenti, meccanico, ricettatore, ma assassino proprio no. E che invece ha firmato e controfirmato il suo passaggio. (C’è qualcosa che Andrea Vannini ancora non sa: hanno usato i guanti, non hanno lasciato impronte. Salvo che sul volantino. Lì le impronte del Togliatti ci sono. E anche questo non torna. Del resto, quando mai i conti tornano senza resti?) Insomma, sarebbe brutta anche senza il ritratto di Garibaldi sulla porta di Egisto Tassone, da quarantacinque anni al timone di una società assicurativa di rilevanza nazionale. È ancora più brutta col volantino. Ma c’è dell’altro: c’è che Andrea Vannini non dovrebbe sapere tante cose sul Togliatti senza consultare l’archivio in questura. Invece le sa tutte. Lo conosce bene, il Togliatti. O credeva di conoscerlo bene. – Questa storia deve rimanere coperta, Sandro. Non deve finire sui giornali. E soprattutto, non devono trapelare i dettagli. Restiamo in attesa. Mettiamo sotto controllo la casa, gli uffici, i telefoni. Vediamo se qualcuno fa un falso movimento. I familiari sono ancora in vacanza: chiediamogli di aiutarci. Mandiamo qualcuno a sentirli, non facciamoli tornare. Intanto informiamoci dei loro movimenti nelle ultime quarantotto ore. – Crede che serva? – Non lo so. Non funziona niente, in questa scena. L’unica, per ora, è sperare che qualcuno ci dia un elemento in più. – E quel volantino? – Quel volantino è una firma. La firma di uno abituato a vivere nascosto. Non sarà facile trovarlo. – Ipotesi sul movente? – Nessuna. Al momento, proprio nessuna. Te l’ho detto: questa scena non ha senso. Ah, Sandro: fai controllare quella roba unta lì per terra, le due macchie nere. Fatti dire cos’è, e fai controllare anche ingresso, stuoino, scale e soglia del portone. – Faccio portar via il poveraccio? – Chi? – Tassone, ispettore: chi, se no? – Non era un poveraccio. Tutto, ma non un poveraccio. Si direbbe che Andrea ha qualcos’altro da aggiungere, ma si ferma qui. Mai una parola di troppo, per l’ispettore Vannini. Un cicchetto, piuttosto. Ne ha proprio bisogno. Via Santo Stefano, ore 12.30. – Dottor Albergani? – Sono io. Piacere di conoscerla. Lei gira sempre in Vespa? – Nel centro di Bologna sì. L’auto dell’agenzia la uso solo per rappresentanza. Rappresentanza un bel niente, non ho neanche la patente. Ma se ti capita tra le mani Orio Albergani, imprenditore e dirigente politico di primo piano, che fai? Gli dici che sei uno scalcagnato free lance del sottobosco investigativo? – Venga pure. Come mi ha chiesto, andiamo nell’appartamento di mio figlio, così darà un’occhiata. Faccio strada. Appartamento mica da ridere, per il giovane rampollo alternativo. Bello essere alternativi, col papà che ti compra la casa in centro. – Sa, a un certo punto gli abbiamo detto che era giusto che facesse le sue scelte: ti piace cantare, va bene, canta. È la tua vita. Ma non puoi passare da una casa occupata all’altra, da uno sgombero all’altro. Così gli abbiamo comprato queste due stanzette (ottanta metri quadri in Santo Stefano). Qui vive, usa quelle macchine lì per registrare i suoi pezzi, usa quel computer, ormai con i programmi che girano possono fare tutto in casa. Insomma, noi stavamo tranquilli. Aveva anche pubblicato un Cd, sa, a me quella musica non piace molto, sa, il rap, però vedere il nome di mio figlio sulla copertina del disco mi fa un certo effetto, non crede? Speacker dd, How Many Bastards on Saturday Night. C’è a chi piace. – E allora? Cos’è successo? – Mah, guardi, probabilmente niente. Infatti non ci siamo rivolti alla polizia. La settimana scorsa Davide ci telefona e ci dice che parte per un periodo di vacanza. Niente di strano, eh! Solo che è partito un po’ in fretta. Aveva detto che andava a Londra, poi invece lo abbiamo cercato sul telefonino e la segreteria telefonica ha risposto in spagnolo… Insomma, a noi basterebbe sapere perché è partito così, in quattro e quattr’otto, perché ha il cellulare spento. Ci manda un messaggio al giorno, ma non ci chiama… Poi c’è quell’altra storia che le avevo detto. Ha trovato il giornale? – Sì, sono passato ieri in biblioteca a leggere l’articolo, – dico sfogliando il taccuino (d’accordo, è davvero sporca tirare fuori il taccuino per riassumere un trafiletto in cronaca locale, ma se è questo che si aspettano, diamoglielo. Al momento di saldare la fattura gli resterà qualcosa da raccontare). – Un piccolo attentato incendiario contro un’etichetta musicale indipendente, la Digger’s Voice, tre ragazzi che entrano dentro, tirano una molotov fatta male… (Lo dico con un minimo di fierezza professionale: quella volta che pioveva a dirotto, e le nostre molotov fatte a Chimica occupata non si spegnevano… dovevano essere fatte proprio bene, se a distanza di vent’anni ce le rinfacciano ancora… Del ragazzo uscito da casa e fucilato sotto il portico di Mascarella, invece, non parlano più: quel che resta è una rosa di buchi sul muro, cerchiati col gesso e ricoperti dal plexiglas, un carabiniere imboscato da qualche parte all’estero che dichiara di aver sparato in alto mentre qualcun altro sparava alle sue spalle, e una strana foto di celerini in piazza Verdi che ritrae tra loro una faccia molto, ma proprio molto somigliante a quella di un (altro?) poliziotto assassino che scendeva da una Uno bianca, rapinava le banche, ammazzava a destra e a manca e tornava in questura a timbrare il cartellino). – …e scappano. Una scrivania bruciacchiata, carte danneggiate più che altro dalla schiuma dell’estintore e una segretaria interinale spaventata. Solo che… – sfoglio ancora il taccuino, – …solo che si tratta della casa discografica che ha prodotto il Cd di suo figlio. È per questo che siete preoccupati, vero? – Infatti. La partenza improvvisa, e l’attentato contro la casa discografica di nostro figlio, nel giro di due giorni… Insomma, non le chiediamo certo di trovarlo e riportarlo a casa, ci mancherebbe altro. Ci dia solo qualche elemento di rassicurazione, ci faccia contattare, tutto qui. – Quello, naturalmente, è il computer di suo figlio. Avrei bisogno di darci un’occhiata: file, contatti via e-mail, la lista dei cookies… cose così. (In pratica, tutto quello che so: ma facciamogli credere di avere a che fare con un hacker appena uscito da Strange Days). – Ma certo. Le serve del tempo, immagino. (Per quello no, ma per la perquisizione della casa, possibilmente senza genitori tra le scatole…) – Già. Un paio di pomeriggi, direi. – Va bene. Le faccio avere… anzi, guardi, le dò queste… ecco, una copia delle chiavi. Perfetto. Giusto un momento per concordare un anticipo che mi limito signorilmente a definire accettabile (congruo, mi corregge l’Albergani. L’esperto è lui, io annuisco con aria saputa), e la mattinata assume un altro aspetto. Oggi pomeriggio, in massimo due ore, dovrei rintracciare il pupo. Magari faccio un giro in centro, alla ricerca di qualche faccia conosciuta per farmi spiegare qualcosa di questa etichetta, tanto per lumeggiare i contorni della storia. – Prenda anche il Cd, lo ascolti. Sono interessanti queste libere forme di espressione della creatività giovanile, sa? Noi siamo orientati a favorirle, è un altro piccolo passo verso la ricucitura di una ferita tra due culture che ormai non ha più ragione di essere, non crede? – Due culture? – Certo, – dice, come leggesse un comunicato ufficiale. – La cultura dell’amministrazione, con i suoi necessari obblighi, e la creatività giovanile, con la sua prorompente carica innovativa. E bravo, l’Orio. Non fatico a figurarmelo ai tempi dell’indispensabile controllo democratico sulla spontaneità giovanile… Ora che la lunga marcia dentro le istituzioni si è conclusa, si voltano indietro e scoprono che le masse avevano altro da fare che seguirli. In fondo, perché guastarmi la giornata con una polemica politica? Magari la ricucitura gliela ricarico sul conto sotto la voce spese varie, così, tanto per suturare qualcuna delle mie, di ferite. Saluto e vado via. L’aperitivo della mezza mi aspetta. Piazza San Francesco, ore 12.45. Troppo presto, per il lounge bar giapponese. Del resto, o arrivavo in tempo per lasciare il Vespino al meccanico, o trovavo aperto il Tokyo Café ma rimanevo a piedi tutto il giorno, rimugina Lara ripassando la lista degli stuzzichini che non potrà assaporare. Restare in giro per tre quarti d’ora vale la curiosità di scoprire la novità del Sapporo Blues, aperitivo analcolico a sorpresa, tè giapponese e vassoio con salsine variabili (oggi sono allo zenzero)? Ancora una breve esitazione, poi decide che no, tanto non chiude mica oggi il lounge giapponese (poi, ripensandoci, la musica a pranzo è tendenzialmente ambient, mentre la sera è più intrigante). Variazione di programma: aperitivo al Caffè dei commercianti, e pasto macrobiotico al centro salutista. Deciso. Esitazione: sauna e pranzo al centro? No, meglio l’aperitivo fuori. A quel punto la sauna è inappropriata. Alcolico o analcolico?, pensa Lara mentre si dirige verso via Bassi. Certo che chiedere alle sapienti mani di Franco e Claudio un analcolico è un po’ una bestemmia. D’altronde, prima del tramonto… magari una cosa leggermente alcolica. Fruttata, con le bollicine. È di buon umore oggi, Lara. C’è qualcosa che le mette voglia di leggera euforia, ecco il perché dell’aperitivo. Nessun interesse per lo shopping, niente voglia di spendere, solo voglia di continuare a sorridere. Non le capita spesso, soprattutto dalla morte di Lester… Lester. Come si chiamava quella ragazza di cui mi diceva ieri… mi sa che non me lo ha detto… Lester… A volte fatica a ricordarsi il vero nome di Lester, Lara. – Certo che è strano, – si dice (be’, cosa faccio? Mi metto a parlare anch’io da sola? Vuoi vedere che è contagioso?) Certo che è strano, si ripete. Sembrava la stessa storia… solo che non è la stessa storia. Che Lester si sia suicidato è una verità buona per la polizia, non certo per noi. Impiccato a un metro e mezzo da terra, con le gambe ripiegate… balle. Ferodo non ci ha mai creduto. Anche Lara non ci ha mai creduto, non crede neppure oggi. Però oggi è di buon umore, nonostante tutto. Sosta alla Feltrinelli? Ma no, non ha voglia di leggere, Lara, e i libri li compra per leggerli subito. O magari dopo pranzo, che tanto fa orario continuato. Vedremo. Qualcosa per ingannare il tempo fino alle quattro bisognerà trovarlo. Sarà affidabile, quel meccanico? Boh, ha detto che era una sciocchezza, un granellino di sporco che otturava non so cosa… Mal che vada c’è sempre il solito porco, quello che mi cerca le mutandine sotto la mini ogni volta che gli porto il Vespino. Benzinaio-ginecologo. Guardare e non toccare, maiale. E neanche pagare, così alla fine ci rimetti tu. Quasi tutti uguali, gli uomini. Quasi: il morettino di ieri sera non ci ha neanche provato… Non starò perdendo il mio magic touch?, si chiede dubbiosa, compiacendosi della perfezione del sorriso ironico che di sfuggita ammira nella vetrina a specchio su strada Maggiore, senza fermarsi. Lara è troppo sicura dei suoi mezzi per indugiare in una verifica. Pochi metri per le bollicine fruttate. Ancor prima di arrivarci, Lara si ferma di colpo: la vita è piena di sorprese. Il leggero sorriso cede il passo. Lara comincia a ridere. Strada Maggiore, Caffè dei commercianti, ore 13. Esiste (o è esistito. Fa differenza?) in quel di Bologna il Triangolo alcolico della filosofia. Un triangolo isoscele, decisamente schiacciato sull’asse Roxy Bar-Caffè dei commercianti; da quest’ultimo prende l’avvio il lato corto, che termina all’enoteca Calzolari. Triangolo instabile, variabile, i cui punti sono determinati dagli approdi della Volante alcolica, entità mobile che flottava ora su uno ora sull’altro dei tre vertici (e anche, o altrimenti, o un tempo, sul Bar dei fiori, da Floriano e altrove), dispensando idee complesse, concetti arditi e affilati, parole difficili, pensieri ellittici. Partiva dall’università, al termine di una lezione o un seminario, o semplicemente perché era ora di pranzo o cena, perdeva pezzi per strada e altri ne acquistava, come un vortice che aggiunge a sé gli atomi circostanti attratti dal turbinare delle menti. Tra un calice e un cocktail, intere scuole venivano confutate in poche battute, idee appena sbozzate crescevano vorticosamente, nozioni sinora accennate d’improvviso si appalesavano evidentissime, oppure entravano con passo sicuro per uscirne di soppiatto e non più ripresentarsi. Sauro e Stefano, Franco e Claudio, Oriano e Paolo esibivano la loro gentile competenza, pareggiando il proprio sapere con quello dei filosofi. Il banco del bar non era più un divisorio: congiungeva. L’ultimo libro di un grande filosofo è stato ruminato in questo triangolo. Ora che non c’è più, pare quasi di udire alle spalle la sua voce interrogarti, viene voglia di voltarsi a cercarlo mentre sorseggi un merlot o un cabernet. Sembra di sentirlo ancora discutere, trattenere Sauro dal calare la saracinesca o chiedere un ultimo bianco a Claudio. È bene, è giusto che tutto ciò venga ricordato. Che la fatica di descrivere non sia stata vana. Non è piccola, Bologna. Non ha pochi abitanti. Non ha poche strade. E le sue strade sono piene di bar, caffè, locali di ristoro. Dentro e fuori questi luoghi, una moltitudine di individui, per lo più impegnati ad aggiungere la propria solitudine a quella altrui, si sposta sempre più frenetica, troppo impegnata a portare a spasso le proprie griffe e il proprio ego. «Ci giochiamo una chilata in Portanuova», afferma sicuro un fighetto parlando contemporaneamente al suo omologo a sinistra e al suo cellulare a destra. Fuori da un bar, con un Martini con goccia di Pernod e ciliegina, quattro rampolli della Bologna bene fanno e disfano l’organigramma della Lega, «che rientra nel Polo, e torna a vincere», afferma con certezza il primo dei quattro, «con Miglio», chiosa il secondo, «certo, via Bossi ci vuole Miglio», chiude il terzo. Il quarto annuisce compiaciuto, sputando il nocciolo della ciliegia. La buona educazione della gioventù dorata. Non discutono: parlano, ripetono. Si parlano addosso. Sono soli. Tra una solitudine e l’altra, alcuni esseri umani hanno il problema opposto. Nella loro mente c’è sin troppa gente, ci sono storie che non vanno via: come riuscire a pensare a se stessi, con tutta questa confusione? Infatti non lo fanno. Non è a se stesso che pensa Andrea, nel suo dubbio impermeabile, mentre attraversa il centro di Bologna senza neanche chiedersi perché. Se non sapesse che certe solitudini sono affollate quanto solitarie sono certe folle, non avrebbe tanto rispetto per la solitudine del suo unico amico. Che già una volta ha infranto. Sarebbe bello avere qualcuno con cui confidarsi. Qualcuno cui raccontare cose che una volta dovevano rimanere nascoste, cose che oggi sembrano talmente ridicole che viene voglia di chiedersi come tutto è cominciato, e come è finito senza che ce ne rendessimo conto. Come la sua amicizia col Togliatti, l’unico con cui potrebbe parlarne. Se Andrea non fosse quello che il Togliatti deve arrestarlo. Non c’è scelta. E ieri, c’era forse da scegliere? C’è mai stato da scegliere? Tra ciò che va avanti da sé, e il poco, pochissimo del mondo che possiamo cambiare, c’è stata scelta? Sarebbe bello avere delle scelte. In genere, Andrea non ne ha. Non ne ha più, quantomeno. Ne ha fatte alcune, forse tutte quelle di cui disponeva. Il resto segue a ruota. E in ogni caso, non è oggi il giorno delle scelte. Perché deve trovare il Togliatti prima che si sappia quel che ha combinato. E c’è forse una sola persona che può sapere dov’è il Togliatti. Poi bisognerà spiegargli come fa lui, Andrea Vannini, a conoscere il Togliatti. Altri problemi, nessuna possibilità di scelta. Perché l’unica persona che ieri sera gli ha voltato le spalle senza salutarlo è lì davanti, che entra nel Caffè dei commercianti. Lara ride. Con garbo, senza rumore. Cos’è il riso? La vita che ti esce dalla gola in modo imprevedibile, subitaneo. L’effetto di qualcosa che spiazza le tue certezze, l’inatteso che ti saluta affabile, ciao, sono qui, non lo sapevi? Come un pupazzo a molla, come una battuta senza senso, come uno schema che salta, come una rima malandrina, come un film di Terry Gilliam. Come vedere entrare nel Caffè dei commercianti quel morettino che credevi fosse un pensiero dentro di te. Chi ha detto che il ricordo è solo l’eco sbiadita di ciò che è stato? Quando la memoria ti preannuncia l’avvenire, come la mettiamo? Quando un ricordo involontario ti dice ciò che non sai, come la mettiamo? La mettiamo così: con una risata. Ridendo, Lara di colpo sa perché oggi è di buon umore. – Di buon umore? – Sì. Una giornata che comincia bene. Vediamo di mantenerle il tono giusto. – Aperitivo? – Aperitivo. Poi anche piadina. Hai delle proposte? – Hai una faccia da Negroni: troppo carico? – Magari un Negroni sbagliato. Poi piadina con prosciutto, fontina e salsa ai funghi, e un caffè doppio per chiudere. – Bene. Serviti pure per gli stuzzichini. Sì. Una giornata positiva. Almeno fino a quando non sento chiedere Cos’è un Negroni sbagliato? Un Negroni con lo spumante al posto del gin, rispondo soprapensiero. – Guarda che lo so come si fa. Volevo sapere com’è che bevi questa roba. Andrea Vannini è lì, appoggiato al banco. La buona giornata è già finita. – Scusa, ci siamo dati appuntamento? – No, è un caso. Perché ti cercavo, ti avrei chiamato. Devo parlarti. La faccia dei giorni brutti. Già capito. Niente discussioni, con quella faccia. – Che c’è, Andrea? Cristiano? Gli è capitato qualcosa? – No. Non Cristiano. Il Togliatti. … – Devo sapere dov’è. Non è che lo sai? – Cos’è successo? – È nei guai. Grossi. Ho bisogno di trovarlo subito, poi ti spiego. Lo sai dov’è? Apro la mia agendina davanti ad Andrea. – Prova questo numero di telefono. È di un’officina a Bentivoglio, dove ogni tanto dà una mano. La vera casa non la so neanch’io. Prende nota mentalmente, senza scrivere. Brutto segno. – Andrea, cosa c’è? Perché la polizia cerca Ruggero? – Non la polizia. Io. – Perché, scusa, tu cosa sei? – Non sono la polizia. E in questo momento non sono neanche della polizia. … … – Senti, ci sentiamo domani. Fatti trovare, o passa in questura. – Non vuoi fermarti a bere quel bicchiere di ieri sera? – No, meglio di no. Io ho fretta, e tu hai compagnia. – Quale compagnia? – Continua a girare con la testa altrove, amico mio. Poi non lamentarti se la vita ti passa accanto. Per fortuna, ogni tanto si ferma... – si accende una sigaretta. – Cosa ci troverà in uno come te, – mi dice con una pacca sulla spalla. Esce. Spegnerà la sigaretta appena fuori, lo so. E nell’uscire scopre una figura coperta dalla sua presenza. Una figura alta e magra. Sorridente. Con gli occhi verdi. Leggera spruzzata di efelidi, per di più. Lara. 6. Cuori di ghiaccio Bentivoglio (Bologna), ore 15.30. – Sicuro di aver bussato forte, ispettore? No, perché il Cioccolata è uno che… non dovrei dirlo, ma… poi lo sanno tutti, qui… insomma, è uno che beve, anche di giorno… magari è solo che è andato a dormire… Può essere che è in officina, sul retro, dove c’ha la brandina, ma dorme e non vi ha sentiti. Comunque è in giro, perché era qui a mangiare, saranno state un paio d’ore. – Mangiare cosa? – Cosa… Erminia, ti ricordi cos’ha mangiato il Cioccolata? Campari, lasagne monoporzione surgelate, mezzo litro di rosso, grappa, caffè, altra grappa. Tutto segnato. – Ecco, vede, noi segniamo sempre tutto, anche se qualche cliente dimentica di ritirare lo scontrino… Oh, noi facciamo le cose per bene, mica avere problemi con la Finanza, dice sempre l’Erminia, che poi è mia sorella. Mangiato poco e pesante, il Cioccolata. E bevuto molto. Si torna all’officina, mormora all’agente Sandro Valle l’ispettore Vannini, accendendosi una sigaretta. – Ci riproviamo? – Ci riproviamo. – Andrea? – Di’… – Lo so che non sono fatti miei, ma… perché non smetti con le sigarette? – Hai ragione. – Che non sono fatti miei? – Anche. – Andrea? … – Mi spieghi cosa siamo venuti a fare qui? – La cintura. – Che?… – La cintura, Sandro: non sei Montalbano. – Ah, allora li guardi anche tu? – Talvolta. Presso Bentivoglio (Bologna), officina Bignardi, ore 16. Tre tazze di caffè. È gentile, il Cioccolata, anche se lo hanno svegliato. Poi c’è quel lavoro da finire, tanto vale… Il caffè preparato sul fornelletto a gas fa schifo, sa di gomma bruciata. Il bancone dell’officina è ingombro di attrezzi, come dev’essere, più o meno. Tutta l’officina è come dev’essere, più o meno. Ci sono foto e calendari appesi alle pareti. Fausto Coppi. Agostini. Saarinen… (Saarinen?) (È giovane, Sandro. Saarinen non lo ricorda. Veniva dalla Finlandia, prendeva le curve all’esterno come scivolasse sulle piste di ghiaccio cosparse di cenere del suo paese. Morto in gara a Monza assieme a Pasolini: brutta morte). …Qualche manifesto politico. Manca qualcosa. Niente donne nude sul calendario. Niente donne nude qui dentro, dice il Cioccolata. – Dica, Bignardi, perché questo soprannome? – Una storia di guerra, – dice buttando giù anche il caffè del poliziotto giovane. – Quando sono tornato a casa dai monti, volevo fare un regalo alla mia morosa, perché allora la morosa il Cioccolata ce l’aveva, così rubammo una cassa da un camion americano, di quelli dei viveri, carne in scatola, latte in polvere, caffè, cose del genere. C’era dentro solo della cioccolata: tornai a casa con tante di quelle stecche di cioccolata da distribuire che mi ci hanno appiccicato questo nome. Poi la morosa non c’era, e la voglia di festeggiare m’è passata. Faccia triste, quella del Cioccolata. Fissa il fondo della tazzina, quasi lo sapesse divinare. Aspetta. Non ha ancora chiesto cosa vogliono da lui, non ha iniziato la solita litania delle scuse non richieste. Neanche tirar fuori il libro delle fatture. Aspetta. Pure Andrea aspetta. Si siede di fronte. Si guardano in faccia. Non proprio negli occhi: in faccia. Bologna, bar paninoteca Prezioso. Piazza Galileo Galilei, ore 18.40. Invio: da telefono pubblico a telefono cellulare clonato con scheda estera. All’altro capo: località non determinabile. Drìììn drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn drìììn drìììn… Pausa (nessuna risposta). Telefonata inattesa. Non è un buon segnale. Breve tocco sul mouse interrompe il rilassante scenario dell’acquario tropicale. Niente più pesci lenti e colorati: desktop. Connessione Internet: attivata. Connected with: chat-line riservata. Argomento del forum: mitologie celtiche. Nickname: Gandalf. «Sono qui. Chi c’è nel forum?» Prima risposta: «Cosa vuoi da noi? Tolkien è mitologia feniana, non celtica. Non vogliamo antimodernisti perditempo del cazzo nel nostro forum!» Seconda risposta: Aragorn. «Dimmi, Aragorn». La risposta è una serie incoerente di parole. (Le parole vengono trascritte a matita, su carta). Exit. Pesce persico. Pesce palla. Pesci colorati non identificati. Acquario tropicale. Coralli. Sfondo blu. Dalle parole trascritte vengono estratte le sole iniziali. La loro successione rovesciata viene annotata. Pausa di riflessione. Alla sequenza di lettere viene anteposta una triplice w. Sito Web. Bottiglia in cristallo boemo. Sherry brandy invecchiato: piccola, innocua debolezza nostalgica. Un bicchiere di sherry per riflettere. Esaminare le possibili eventualità, prima di procedere. Tra Bentivoglio e Bologna, ore 16.40. – Cosa te n’è parso? – Sincero, direi. Dici di no? – No, no… non lo so, a dire il vero, ma non è che mi aspettassi… mica è stupido, il Togliatti. – Chi? – Il suo socio occasionale, quello che non si fa vivo da un po’, dice lui. Ruggero Passarini. Lo chiamano Togliatti. L’uomo del volantino di Garibaldi. – E tu come fai a saperlo? – Secondo te perché siamo venuti fin qui? Per fare quattro chiacchiere con un vecchio ubriaco? Non siamo l’Anonima alcolisti. – Veramente, Andrea, non me l’hai detto cosa ci venivamo a fare. Hai detto solo: metti in moto e parti. Tu Tarzan io Jane, tu dice io fa, d’accordo, però non pretendere che ti legga nel pensiero. – Va bene, va bene, non c’è bisogno che ti scaldi. Stiamo cercando l’uomo che ha affisso il volantino sulla porta, e ho un’idea molto precisa su chi potrebbe essere. Purtroppo, se è lui non lo troveremo facilmente. Questa officina è l’ultimo suo recapito conosciuto. Quel Bignardi non ne sa niente, così siamo a zero. – Sembra che tu lo conosca bene. – Lunga storia. Se tutto finisce bene, te la racconto. – Se finisce bene? – Se. – Posso chiederti un’ultima cosa? – Solo se è davvero l’ultima. – Perché hai detto: l’uomo che ha affisso il volantino? Non dovremmo dire: l’uomo che ha ucciso Egisto Tassone? – Di’ mò come ti pare. Fine delle trasmissioni. Sito web criptato, hot line erotica, ore 19.15. Libreria fotografica. Accesso vincolato, password required. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wait, please. Check password ahead. Insert your second password, please. Wait, please. Check password ahead. Welcome. Scrollare la schermata alla ricerca di qualcosa. Qualcosa come una normale foto di paesaggi collinari. Niente donne, bambini, animali. Alberi, campi, stradicciola. Nuvole vaghe. Un errore, di sicuro. Clic sull’icona della lente d’ingrandimento. Il paesaggio non si ingrandisce: scompare. Al suo posto, un dattiloscritto. Non il testo in word: riproduzione Jpeg. Non rintracciabile da un motore di ricerca per parole chiave. Brutale omicidio nel cuore di Bologna. L’assicuratore Egisto Tassone, di settantaquattro anni, è stato rinvenuto senza vita nella sua abitazione dalla polizia, avvertita dai familiari che da giorni non ricevevano sue notizie. Pare che il facoltoso cittadino sia stato prima legato, poi finito a colpi di arma da fuoco. Si ignora il movente dell’efferato delitto, anche se si può escludere la rapina, dal momento che nulla manca dall’abitazione. Clic sull’icona della stampante. Wait, please. Print page ahead. Exit. La foto è scomparsa dalla libreria fotografica. Solo donne, uomini bambini. Animali, anche. (Sospiro). Un possibile bruscolo nell’ingranaggio. Tavolo in mogano anticato. Telefono nero a disco. Accanto, telefono cellulare clonato con scheda estera. Lampada. Rubrica telefonica. Vuota. Il primo passo: ricezione dell’informazione. Fatto. Il sistema funziona. Passo successivo: trasmissione dell’informazione. Uso del telefono: non ammesso. Uso della chat: non consigliato. Pensare linearmente. Niente mosse oblique. La via più facile. Trovato. Invio: da cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare. Numero composto a memoria. Presi accordi. Verrà inviato un fax. Passo ulteriore: attendere sviluppi. Caffè dei commercianti, strada Maggiore, ore 13. – Cos’è che stai bevendo? Fai sentire… Mmm, troppo forte. Mi fai un Bellini? – Bellini classico? – No, amore: un Bellini per me. Le hai le pesche biologiche? – Certo che le ho. Solo per te, bellezza. – Allora? Non sei contento di vedermi? Cosa dovrei risponderle? Per uno come me, abituato a brindare con se stesso o al massimo col barista, due brindisi in dodici ore con una quasi sconosciuta non è un fatto corrente. – Ecco il Bellini per te. Le presentazioni vedo che non servono, vi conoscete già. – A cosa brindiamo? – A noi, bimbo. Dài, vieni a sederti. Oh, non ti mangio mica: solo due chiacchiere, no? – Tanto per sapere: cos’è quel Bellini per te? – Niente di speciale: un Bellini con lo champagne al posto dello spumante. In tuo onore. Così mi faccio perdonare. – Perdonare? Cosa? – Di essere arrivata senza preavviso proprio ora che avevi bisogno di stare da solo. Anche ieri sera, se è per questo. Sono anni che ho bisogno di star solo. Nessuno, però, è mai arrivato così, inaspettatamente, con un sorriso in una mano e la sfera di cristallo nell’altra. – Dài, si vede che volevi star solo. Stavate parlando di cose serie, tu e il tuo amico. È per questo che mi sono fermata sulla porta. Ma i tuoi amici, tutti musoni? Fai la raccolta, o è solo una coincidenza? – Nessuna raccolta: è un pezzo unico. – Quello lì? Quello che va in giro con l’impermeabile di questa stagione? Lo credo, che è un pezzo unico. – Volevo dire: è lo stesso di ieri sera. E comunque sì, non ne trovi un altro come lui. Butto giù il primo sorso di Negroni, e aspetto che il retrogusto amaro risalga. Lara fa lo stesso, inclinando il bordo del flûte e sorseggiando il suo champagne alla pesca. Mi guarda: stesso sguardo sfuggente di ieri. – Dài, che voleva il tuo amico? Cose serie? Roba da investigatori? – Cercava notizie di una mia vecchia conoscenza che vuole rintracciare, non mi ha detto il motivo. – Sembravate così preoccupati… – Lui lo era senz’altro. E quindi un po’ anch’io, perché vorrei sapere cosa è successo. Voglio dire, è troppo preoccupato per uno che non dovrebbe neanche conoscere. Più che altro sono stupito: questo Ruggero era un vecchio amico di mio padre, una specie di zio acquisito che conosco da sempre, anche se non è che lo veda spesso, e Andrea non mi aveva mai detto di conoscerlo. E invece pare di sì… Poi… …Poi… …Poi… Poi c’è quella storia di cinque anni fa. Io, Andrea, Cristiano… e Ruggero, appunto. Ero stato proprio io ad andare a cercarlo. E quelle pistole che Andrea fece sparire dal rapporto perché io potessi restituirle… le pistole del Togliatti. Che idiota che sono… (Me lo dico così, senza enfasi, quasi con rassegnazione). Come potevano non conoscersi, Andrea e il Togliatti? Come poteva non sapere… Ma allora perché non mi ha mai detto di conoscerlo? Perché… Perché continui a startene per i fatti tuoi? Perché Andrea… Dico a te, di nuovo… guarda che se vuoi che vada basta dirlo, eh? – Sì, certo… cosa? – Davvero: se vuoi star solo me lo dici, se non ci stai dentro non serve che fai il numero dell’introverso. Altrimenti dài segni di vita su questa Terra, invia un messaggio. Comunica, baby: la lingua è fatta per comunicare, no? No. Ma lasciamo perdere. Milano, carcere di San Vittore, ore 14.30. – Dimmi, direttore. – Niente di particolare. Ti spiace se facciamo due chiacchiere? – Tu fammi portare un caffè decente, e io ti accolgo nei miei appartamenti. Ci accomodiamo in biblioteca, vuoi? Il salone di rappresentanza è un po’ sporco, la colf è in permesso. – Arriva, il caffè. Beato te che hai il senso dell’umorismo, Cristiano. Io al tuo posto sarei già sclerato. – Tu non sei al mio posto, direttore. Io sono un libero cittadino, all’interno delle mie mura. Sei tu che non sei padrone del tuo tempo. Sei un misero salariato, ti avrei detto in una precedente vita. – In questa non me lo dici più? – No, in questa no. Non perché abbia cambiato idea, Cristiano. Ha solo smesso di dire frasi inutili. Quando passi la vita a pesare le parole, poi ti passa la voglia di sprecarle. – Cosa leggi? – Fai dello spirito? – No, figurati. Volevo dire: quale capitolo. – Trentuno. L’inizio della peste. Da qualche tempo, il mio preferito. – Posso chiederti perché? – Prima fai entrare il secondino con i caffè. In carcere i piccoli piaceri sono ancora più preziosi. Il caffè, ad esempio. Non è poi vero che quello del direttore sia migliore della moka da una tazza che Cristiano ha il permesso di tenere in cella. Il vero piacere è poterlo bere in compagnia, sorseggiarlo facendo due chiacchiere con uno come te. Due reclusi, due prigionieri del Sistema. – Allora, questa peste? – Eh, la peste… la peste è il male, direttore. Il male sulla faccia della Terra, il marcio che corrompe la Storia. Ecco cos’è. Il sogno segreto degli storici: raccontare la peste perché gli uomini possano riconoscerla ed evitarla. L’amore al tempo del colera: una volta debellato il morbo, hai il resto della vita per far innamorare di te la tua donna. Descrivere la peste bubbone per bubbone per sconfiggerla. Sconfiggere la peste illuminandola, accendendo le luci perché nulla di essa sfugga all’occhio dell’osservatore. Sconfiggere il male. Sorriso ironico. L’ironia della ragione nel narratore onnisciente. L’inutilità del sapere: ironia. La Storia in piena luce non smette di essere oscura. Il male non si lascia abbagliare, non resta fermo al centro del mirino della ragione. Non è un target, non sta di fronte. Sta dentro l’occhio della ragione. Raccontare l’orrore non aiuta a sconfiggerlo. Serve ad altro. – La corruzione, il marcio, l’orrore: nulla di questo ci è ignoto. Ci hanno raccontato tutto, sin nei minimi dettagli. Ti pare che il mondo sia migliorato, per il solo fatto di conoscere le molteplici incarnazioni del male in Terra? Che grondi meno sangue dal tavolo della macelleria? – Sei cupo, Cristiano. Dovresti leggere qualcos’altro. Vuoi provare? – No, grazie. Non sono cupo. Non ho detto che la Storia non serva. Ho solo detto che non è con la Storia che il male verrà estirpato dal mondo. – E allora? – Non piangere né ridere, direttore. Non piangere né ridere, ma comprendere, diceva un tale. E non farsi illusioni: tutto qui. Caffè dei commercianti, strada Maggiore, ore 14. Fettina di arancia. La dolcezza dell’agrume sull’amaro del Negroni. L’arancia spegne il Campari, l’amaro è esaltato dall’arancia. – Così ci siamo ritrovati in questo bar malfamatissimo, roba che non ci potevi credere… non ci stavamo dentro, figurati… non che mi scandalizzasse la coca sul tavolo, o quel lenzuolo annodato nel quale si capiva cosa poteva esserci dentro… ma in due, senza sapere una parola di spagnolo, con la Rover bloccata, l’olio che bolliva nel motore… Adesso ci violentano, poi ci scannano, poi riparano la Rover e se la portano via, faccio io. E Gina: forse prima ci scannano, poi ci violentano, poi rubano la Rover. E in quel momento ti arriva questo rocker col chiodo e la bandana nera in moto, come in un film, si ferma, guarda la Rover, entra, si guarda intorno, poi guarda verso di noi, scambia due occhiate col barista, prende una bottiglia e ci fa, in perfetto italiano: «Tequila, signore?» Così, al volo. Poi prende uno straccio da dietro il bancone, va alla quattroruote, lo avvolge attorno al tappo dell’olio, svita e lascia uscire uno schizzo di vapore da ustione. Insomma, controlla, poi rientra e dice come fosse il nostro meccanico che bisogna aspettare che il motore si raffreddi, quindi tanto vale fermarsi a mangiare qui. Fa portare qualche tacos, del guacamole, e versa un altro bicchiere di tequila. Dopo un’oretta si rialza, prende due ferri da dietro il bancone, va a smanettare alla Rover, torna e fa: «Se siete fortunate è solo questa valvolina, l’ho tolta, la fate rimontare quando arrivate in città. Se siete sfortunate vi è partita la ventola. L’unica è mettere in moto e vedere se va. Buena suerte», le uniche parole in spagnolo che abbiamo sentito. Be’, aveva ragione lui, era quella stupida valvolina, siamo arrivate in albergo in due ore. Poi ci hanno detto che quel tale era un italiano, che la taverna era mezza sua, che era un posto da cui la polizia si teneva alla larga, e che si diceva che quell’italiano non potesse tornare nel suo Paese. Roba da film, no? Ma qui parlo solo io, bellezza… – No. – Come no? Non hai detto una parola! – No, non è roba da film. In un film per svitare il tappo dell’olio avrebbe usato la sua bandana, oppure avrebbe infilato la mano sotto la gonna a una di voi guardandola negli occhi senza parlare sino a quando gli occhi si fossero socchiusi, poi avrebbe strappato via un pezzo di gonna e lo avrebbe usato come straccio. – Wow! L’hai pensata tu, questa cosa della mano sotto la gonna? – No. L’ho vista in un film. – E con lo straccio della gonna cosa ci facevano, nel tuo film? – La miccia di una molotov. – Ehi! Com’è che ti vengono in mente queste cose, bello? Redazione del «Mattino di Bologna», ore 21.20. Non è ben visto Guido Giani, e non si dica che hanno torto. Non è uno che si sbatte nel lavoro redazionale, tanto meno per le strade. Ha le sue fonti, Giani. Quali siano poi, vai a sapere. A giudicare dalla roba che porta, si direbbe che abbia un link col sito www.vocedellafogna.merda: i suoi articoli puzzano, a volte neanche tanto metaforicamente, ma qui le scuole ermeneutiche entrano in conflitto. Il partito dell’informazione pulita afferma che sono le sue notizie a emanare tanfo, più o meno come i cadaveri dei martiri cristiani emanavano aroma di rose dopo secoli e secoli. Al contrario, il partito della coscienza pulita sostiene che è la coscienza stessa di Giani a puzzare. Come fa a puzzargli la coscienza, ridacchia il cronista di nera, se non l’ha mai avuta? E come puoi chiamare notizie la robaccia che prende dal rusco?, dice l’archivista. Alla fine concordano che Guido Giani e il sapone sono due universi che non comunicano, e tutti a riderci su. Ma quello che ride di più è Diego Dall’Olmo, il redattore capo. Perché Giani, detto Lercio, arriva di rado, ma sempre con qualcosa che vale la pena di pubblicare. Anche se spesso la roba che ha in mano puzza. – Lancio d’agenzia, capo. Poche righe, ma fai in tempo a pubblicarle in cronaca locale. Agenzia… Quel manipolo di farabutti dell’informazione, buttati fuori a calci in culo dalle redazioni di mezza Italia… agenzia! – Ohi, capo, poche palle! Affiliata all’Abc-Time. Piccola, ma si farà. Probabilmente senza aspettare l’inverarsi del futuro. Si fanno già, da soli. Quanto all’Abc-Time… – Insomma, lo prendi tu il lancio o vado dalla concorrenza? Guarda che la fonte è sicura. Se non ti fidi mettici un paio di condizionali, poi domani la verifichiamo. C’è da farci su una bella inchiesta. – No che non ce li metto, i condizionali. Faccio un paio di telefonate io per verificarla, e la pubblico così. Ti pago il solito, però non farti dei viaggi sul servizio. Domani lo passo a uno serio, a un ragazzo che ha bisogno di lavorare. Lercio Giani sorride. Più che altro ghigna. Mezz’oretta scarsa per ricevere il fax dalla Abc-Time, uscire dall’agenzia senza dimenticare di aspirare il tirello di bianca sullo specchietto e arrivare alla redazione del «Mattino». Niente male, come giornata di lavoro. Soldi trovati per terra. – Come vuoi, capo. Però così il prezzo sale. – Non ci provare, che qui non sale proprio niente, Lercio. Né il prezzo, né il tuo uccello da sfigato. E ringrazia che ti dò da lavorare. Sì, sì, come vuoi. Tanto il denaro non puzza. Neanche quando finisce nelle tasche di Lercio Giani. Caffè dei commercianti, strada Maggiore, ore 14.15. – Com’è che ti vengono in mente queste cose, bello? Sono io a farti questo effetto? (Non esageriamo). – No, non è colpa tua. È il caso a cui sto lavorando. – Peccato. Speravo di scaldare un po’ il tuo cuore di ghiaccio. Mi ripeto: non esageriamo. Me lo ripeto mentre ho come l’impressione che la sedia stia diventando gelatinosa, e che io stia pian piano affondando in questa specie di budino. – Allora? – Allora cosa? – Tell me, baby. Raccontami di questo caso. Fammi assaggiare la tua bocca nel mio orecchio. (Questa poi… Ma quanti anni ha?) – Conosci Allen Ginsberg? – Faccio male? – No, no, anzi, mi stupivo di sentirlo recitare da qualcuno al di sotto dei quarant’anni, tutto qui. Comunque, non c’è molto da raccontare: un ragazzino partito per una vacanza senza salutare mamma e papà, e una bottiglia incendiaria malfatta contro una casa discografica. Devo trovare l’indirizzo del pupo, e capire se le due cose sono in relazione. – Stai mica parlando di Speacker dd? – Proprio lui. Lo conosci? – No, ma frequento l’ambiente. Si sa nel giro che dopodomani al concerto darà buca, anche se nel manifesto figura tra gli uomini di parola. – Dopodomani sera? – Sì, caro. Dopodomani sera c’è una serata spaghetti-rap con tutta la ballotta della Digger’s Voice, in quel posto nuovo appena fuori città, che poi non è proprio nuovo, più che altro cambio di gestione, non è che a me piaccia granché, si vede che il nuovo gestore ha in mente la pilla, ma anche quelli della Digger’s in fondo non hanno altro scopo che farsi il loro business. Però magari ci si diverte, no? Dài, andiamoci: ti ci porto io, ti faccio vedere la mossa, magari ti può aiutare. D’accordo, allora? Oh, dài, non farla lunga, guarda che devo scappare, è già tardi, mi chiude il centro: dove ti passo a prendere? O ti raggiungo e mi porti in Vespa? Mi servirebbe dare un’occhiata, in effetti. Vedi mai che la cosa non riesca utile. Sì, va bene, sto cercando un pretesto, e come pretesto non è il massimo quattro scalzacani probabilmente stonati vestiti lacero-fighetto… Ma detto tra me e me (che fa già un casino di gente): che bisogno ho di un pretesto? Piuttosto… – …piuttosto, posso chiamarti da qualche parte verso sera? Tra un po’ vado a cercare delle cose, e se mi manca la traduzione di qualche, diciamo così, neologismo giovanile potrei aver bisogno di un dizionario. – Tu sì che sai come complimentare una signora, bellezza. Ti scrivo il numero del portatile, ma dammi il tuo numero che ti chiamo io. – Sì, certo. Oh, scusa per quel dizionario: non ti sarai mica offesa, vero? Sorride con gentilezza, si alza agile dalla sedia facendo un cenno al barista che mette in conto, ritocca con rapidità la linea delle labbra con la matita, appoggia un bacio leggero sulla punta delle dita, lo soffia verso di me, si avvia sculettando con impercettibile ostentazione (come quando saliva le scale ieri sera?), tanto per sottolineare cosa potrei essermi già irrimediabilmente perso, poi si volta e con sguardo amorevole sbatte le ciglia e mi sussurra un: «Fottiti, stronzetto». 7. Meglio via da qui Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 18.10. – Come, non ne sa niente? Ma se ci ha telefonato lui! – No, Vannini: non è stato né il figlio, né un altro familiare. La vedova è quasi svenuta, quando l’abbiamo chiamata. Qualcuno si è spacciato per il figlio di Egisto Tassone. Tutto torna: era quattro giorni che non lo si vedeva in giro, il medico legale pensa che in effetti la morte risalga ad almeno settantadue ore prima del ritrovamento… Anche il questore è scuro in volto. Se questa storia della telefonata trapela, la stampa ci si butterà a pesce… – Non è il caso di drammatizzare, Vannini. Magari a chiamare è stato un semplice impiegato dell’agenzia che per qualche motivo non lo aveva sentito, e che aveva paura di esporsi. Comunque alla stampa non siamo tenuti a dire chi ci ha messo in allarme, e nel caso possiamo tirare sempre fuori la vecchia palla della telefonata anonima. Sì, certo, la telefonata anonima. Magari la attribuiamo a una spogliarellista rumena, tanto per rievocare i vecchi tempi…. Va alla scrivania, Andrea. Butta giù i soliti appunti frettolosi, a mano, senza neanche guardare la tastiera del computer. Quattro stronzate, scritte più che altro per pensare con la mano destra. Un miliardario ammazzato con una raffica di mitra in bocca. Della testa è rimasto poco più che l’enorme buco. Arma, proiettili, volantino: praticamente una firma. Il Togliatti? Tipo da ammazzare uno come Egisto Tassone? Dipende. Brutta persona, il Tassone. La sua faccia sorridente sui quotidiani nazionali non inganna: sorrideva anche quando cavava gli occhi ai partigiani, nei sotterranei della questura, durante la guerra. Però quando è ricomparso lo hanno lasciato in pace: la guerra era finita. (Promemoria: vedere se ha subito un processo). Perché ucciderlo ora? Il Togliatti è un passionale, ma quando serve tiene a bada le mani. Non a caso doma serpenti. Non è uno che fa mosse azzardate. Denuncie per furto, molte. Ma mai una volta che si sia fatto prendere a una manifestazione: e sì che negli anni Cinquanta se ne davano e se ne prendevano. Soprattutto: tipo da uccidere, sì. Tipo da lasciare la firma, no. E allora? Attilio Bignardi. Sa dov’è il Togliatti? Con ogni probabilità no. Però aspettava la polizia. Qualcosa sa. Meglio, si aspetta qualcosa. Cosa? Da chi? Stava zitto, aspettava. Che voleva dire, col suo silenzio? (Disagio). È un po’ che la fiaschetta di Bushmill non è nella tasca dell’impermeabile. Se è per questo, è un po’ che Andrea ha dismesso il Bushmill. Meglio, molto meglio il Lagavulin. Che è troppo caro per portarlo in giro in una fiaschetta tascabile: era un buon motivo per bere meno. Era. Com’era quella battuta? Ho scelto un brutto momento per smettere… Andrea si guarda intorno. Carte sulla scrivania. Qualche libro sul mobile. Due-tre ritagli alle pareti. La foto del presidente Pertini (non Scalfaro, e soprattutto non Cossiga. Pertini). Due sedie. Un appendiabiti, vuoto: Andrea non si toglie mai l’impermeabile, se è soprapensiero. Il cestino della carta straccia, vuoto: Andrea raccoglie la carta in uno scatolone, quando è pieno andrà a buttarlo nell’apposita campana per il riciclaggio, dalla quale la carta uscirà per finire non riciclata, ma gettata nel mucchio della spazzatura indifferenziata, ma l’importante è avere la coscienza a posto. Troppa roba inutile. Oggetti che occupano spazio. Non significano nulla. Dovrebbero scomparire. Se potesse, in questo momento Andrea trasformerebbe il suo ufficio in un loft stile zen-californiano, pieno di spazi vuoti. Lo zen. Zen fascists will control you 100% natural. You will jog for the master race and always wear the happy face. Cantava così, il buon vecchio Jello Biafra? I fascisti zen. Inutile cercare di raccogliere le idee, quando le orecchie rimbombano di punk Seventies. Meglio uscire. Il post-it giallo è sullo stipite interno della porta. Non lo aveva notato. «Ti fai sentire?» No. Non stasera. Domani. Via Santo Stefano, ore 16.30. Visto l’appartamento, mi concedo un caffè offerto dalla cucina dello Speacker. Che è anche buono: il signorino si tratta bene. Dovrei fare una perquisizione più accurata della sommaria occhiata che ho dato qua e là in attesa che il caffè venisse su dalla moka, ma non servirà. Il computer è bello, quantomeno sul piano estetico. Per quel che ne capisco, è anche una macchina discretamente potente. Sulla mensola molti programmi, in buona parte originali. C’è qualcosa che mi dà sui nervi, qui dentro. Arredamento stile spogliatoio americano, scarpe pump da trecento sacchi, magliette col numero appese alle grucce, felponi e cappellini con ancora attaccato il cartellino del prezzo, manifesti falso underground, persino un canestro vero, e ovviamente la palla arancio a spicchi. Virgole Nike ovunque, neanche a dirlo (poi magari sono capaci di parlarti della naic-di-Samotracia, la famosa divinità in scarpe da basket). Niente armadi: scaffalature cromate a giorno. Vestiti stirati e ripiegati con cura: chiaro che passa una donna a fare pulizie. Magari anche a cucinare gli spaghetti, non sia mai che troppi hamburger facciano tanto Alberto Sordi uotzamerican-okkei! Vedrai che finisce così: er latte ’o damo ar micio… maccarone, m’hai provocato e me te magno. La mia paranoia galoppa, sospinta dalla profusione di gadget e oggettini. Dovrei scriverci un trattato, sulla mia paranoia. Quella di oggi pomeriggio, ad esempio, è del tipo presenza in assenza: ciò che mi irrita non sono le cose che vedo, ma che nessuno di questi baciaccoli è un vero, valido pretesto per essere irritato. Detto come va detto: mi irrita il banale fatto di non avere un motivo valido per essere irritato. Perché un fondo di ragione nella paranoia c’è sempre. Se non trovi un motivo non vuol dire che non ci sia: è solo che non l’hai ancora trovato, però c’è. Prima o poi lo trovo, mi dò ragione e mi calmo. Perché un motivo per avercela con questa gente c’è di sicuro. Va bene, finito lo sfogo vediamo di guadagnarci il pomeriggio: ars longa, vita brevis, mi hanno insegnato all’università: e dunque, al lavoro! La sedia ergonomica è comoda, l’impianto stereo di buona qualità, bevo anche la seconda tazzina e accendo. Password required. C’era da aspettarselo. Vediamo se avevo ragione a non fare una ricerca accurata tra le sue carte. Tanto per scaldarmi, proviamo con speacker. Invalid password. speackerdd. Welcome. Fantasia inversamente proporzionale al portafoglio. Vediamo la posta. Lettere ricevute: nessuna. Ha cancellato l’archivio. Idem per le lettere inviate. Doveva sentirsi molto furbo. Proviamo a mettere in moto Explorer. Password required. Al terzo tentativo digito le iniziali del suo brano musicale, e Explorer si avvia. Ha cancellato l’elenco dei siti visitati di recente. Vediamo se gli hanno spiegato cos’è un cookie. No: ai fighetti come questo non gli insegnano niente, né a scuola né altrove. E, come mi aspettavo, ecco un bell’Alitalia tra i biscottini. È andato sul sito, probabilmente avrà acquistato un biglietto on line. Furbo come doveva sentirsi, sarà partito da un aeroporto diverso da quello di Bologna, avrà usato la carta di credito di un amico, ma ha lasciato una traccia. Ci metto un paio di giorni a trovare un hacker in grado di ricostruirmi la prenotazione. Peccato non abbia prenotato anche un albergo, ma non si può avere tutto dalla vita. Magari non serve neppure un hacker: se riesco a rintracciare una vecchia conoscenza, lo ritrovo negli elenchi dell’Alitalia. Potrei chiedere ad Andrea. In ogni caso, non mi sembra proprio il tipo che viaggia con documenti falsi. E non credo che il padre sia così stupido da non saperlo. Se si rivolgeva alla polizia, risparmiava la mia parcella. Dev’essere quella storia della boccia contro la Digger’s ad averlo spaventato. In realtà non ha assunto un investigatore, ha solo comprato un filtro per garantire la fedina penale del figliolo, metti caso avesse preso parte al lancio. Me ne ricorderò, al momento di presentargli il conto. Prendo qualche Cd dalla torre, tanto per farmi un’idea di cos’è questa musica, stasera a casa. Chiudo, scendo le scale, esco in strada. Il bigliettino a forma di cuore col numero di telefono. Adesso la chiamo. No, ha detto che mi chiama lei. O no? Era scena, o ha davvero preso su? Cosa mi sarà saltato in mente di chiamarla dizionario? Peggio per me. Se ha detto che chiama, lei lo farà. E se poi non chiama? Se aspetta che lo faccia io? Basta così, o tra un po’ mi ritroverò a casa a girare attorno al telefono. Catena, casco, chiavi. Accensione, freccia a sinistra. Su per Santo Stefano. Sì, però forse dovrei prendere io l’iniziativa per… Da dove sbuca, questo? Cazzo vai, somaro! Vado per la mia strada, idiota! Vai a prendertela in culo col tuo trabiccolo del cazzo! Leggera sbandata a destra, frenata, piede destro fuori, piattone sul copriruota posteriore, freno rilasciato, via… Mi volto appena, il tempo di vederlo perdere l’equilibrio e finire contro una macchina parcheggiata in divieto. Sovrapposizione di antifurto, clacson, urla. Cazzo fai, stronzo! Ti insegno a vivere, piccolo insignificante decerebrato. Tiro il fiato. La bolgia del rientro è già cominciata sui viali. Una volta sui viali attraversavo a piedi, me lo ricordo bene. Quando è successo che il traffico ha cominciato a impazzire? Quando sono cominciati i colpi di clacson a ripetizione, le auto a settanta all’ora, i semafori bucati, gli slalom fra le tre corsie? Dovrei prendere una casa fuori, magari in campagna. Sì, domani rapino una banca e me la compro… La banca! No, ormai è chiusa. Già, ma ho il bancomat. Dov’è uno sportello? Eccolo lì. Mi fermo, metto in folle e scendo. Cerco il bancomat con la mano nella tasca. L’uomo allo sportello volta la testa, sbianca, si gira e scappa via finendo contro un passante. Che diavolo succede? Mi fermo perplesso, sento il rumore della mia moto ancora accesa… Poi il marciapiede mi piomba sulla faccia. Fermo lì, cos’hai in mano, fermo! Sento delle voci, qualcuno parla del bancomat che ho in mano, la mano che comincia a far male, qualcosa mi schiaccia a terra. Il peso sulla schiena cessa di colpo. Vengo tirato su come uno straccio. Qualcuno si scusa. Parlano di me. No, parlano con me. Scusi, ma sa, lei scende di corsa senza togliersi il casco, lo sportello, la moto accesa, la banda delle Coop, la Uno bianca, aggressione agli sportelli, paura, sa che ormai Bologna… Un bisonte in divisa nera, giubbotto antiproiettile, guanti di cuoio, pistola in pugno. La scritta sul giubbotto dice «Sicurpool». Ha un tono quasi indifferente, da rappresentante di commercio. È il mio mestiere, ero qui all’agenzia di viaggi, quando l’ho vista ho pensato a una di quelle rapine al volo col cutter… – La pistola. – È la mia, non si preoccupi. – Certo che è la tua, – dico con la bocca piena di polvere. – Proprio per questo mi preoccupo. Rimettila nella fondina, – dico sputando. – Tranquillo, non si è mica fatto male nessuno, – mi fa sorridendo. No, non si è fatto male nessuno. Non oggi, non qui. Da quando è diventata così, Bologna? Stazione di Bologna, ore 19.15. Cos’avrò per la testa, pensa Lara mentre parcheggia il motorino, stavo dimenticando la salsa cajun per la cena di Vera. Per fortuna il negozietto interno è ancora aperto. Già che c’è, potrebbe anche prendere una bottiglia di vino, Lara. Qui è piuttosto caro, pazienza. Eccoci qui. Salsa cajun, un buon brunello, e magari anche uno di questi pacchi di pasta spiritosi, questi cazzetti che su quell’ingenuona di Vera fanno sempre effetto. Già ce la vede, Lara, mentre arrossisce davanti ai maccheroni allusivamente fallici. No, dài, povera Vera: meglio dei fusilli colorati. Povera Vera, con la vita che fa riesce ancora ad arrossire, pensa Lara. Strano sentimento, il pudore. Lara esce. Un’occhiata all’edicola? Intanto compone il numero di Vera, vagando distratta tra le copertine patinate. Attenzione. Il numero da lei chiamato non è al momento disponibile. Si prega di richiamare più tardi. Strano: doveva essere a casa a cucinare. Speriamo che si sia ricordata di preparare anche del pollo, perché l’altra volta… Differenza tra vedere e guardare. Lara, immersa nelle riflessioni sugli allevamenti di carne rossa che stanno devastando l’ecosistema e sulle tossine contenute nel sangue dei bovini macellati, guarda senza pensare la folla che esce in massa dall’atrio centrale verso i binari, senza vedere alcun essere umano in particolare. Senza vedere una ragazza pallidissima, quasi tremante, che si è fermata, sballottata e spintonata da quelli che dietro di lei non cercano neanche di scansarla. Vera. – Lara! Lara! – Vera! Ma allora? Che fai qui? – Vengo via, Lara. Vengo in vacanza in mia Zagabria, per poco. Una, due settimane forse. Poi torna. – Vacanza? Zagabria? Torni a casa? Ma stasera? – Vengo via, Lara. Meglio così. Vieni via anche tu, Lara. Meglio se vieni via, senti, Vera. – Via dove? Che stai dicendo, Vera? Vera! Mi fai male, Vera! Fa male, Vera, fanno male le sue mani che stringono le braccia di Lara. Le dita sotto le unghie sono bianche per la stretta, bianche come la sua faccia. Vera sta piangendo. – Io ti prega, Lara, io e te amiche, no? Vieni via da Bologna, una settimana, due, poi torna. Vieni via. Via. Via. Apre le mani quasi di scatto. Libera Lara. Si asciuga gli occhi col dorso della mano. Si guarda intorno, a scatti. Afferra il crocifisso al collo, lo bacia. Fissa Lara negli occhi e sussurra: – Vieni via, Lara. Ascolta me. Meglio via da qui. Mette la mano dietro la nuca di Lara, la tira a sé, la bacia forte sulle labbra. Si volta, afferra la borsa caduta per terra e scappa verso il sottopassaggio. Lara resta lì, con rossetto sbavato, uno stupido pacco di pasta colorata, una salsa preparata a New Orleans e una bottiglia di rosso toscano. Sente strane voci. Voci femminili. Ragazze giovani. Tutte belle, molto belle. Tutte bionde, quasi tutte naturali. Qualcuna ossigenata. Voci straniere. Parlano piano, non parlano italiano. Con lo stesso accento di Vera. Una decina di ragazze croate in partenza. Nessun sorriso. Passano davanti alla lastra di vetro dalla strana forma che chiude la sala d’attesa senza chiedersene la ragione, oltrepassano la preghiera del Papa scolpita nel marmo senza accorgersene, vengono ingoiate dal sottopassaggio del binario 1. 8. Puttan Tour ad angolo B Bologna, quartiere Bolognina, ore 19.30. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso. – Ciao, bello, ci sei? – Dipende… Con chi parlo? – Sono Lara! Sei solo? – Lara? Sì, certo… sono solo… – Ascolta, posso passare a trovarti? Ho bisogno di parlarti, devo dirti una cosa. Ti disturbo? Non è che hai da fare? – Cosa c’è, Lara? Cos’hai? – Arrivo tra un quarto d’ora. Non preoccuparti per la cena, la porto io. Quarto d’ora per modo di dire. È già qui dopo poco più di cinque minuti, il rossetto sbavato, il giacchino sbottonato, l’aria stravolta e un curioso insieme di generi alimentari che dovrebbero essere una cena. – Insomma, capisci che dovevamo vederci stasera, siamo tutte e due libere e ne approfittiamo per fare un po’ di chiacchiere tra amiche, cose così, e invece è in stazione che fugge via sconvolta, dice cose senza senso, e… – Va bene, adesso ti calmi, ti siedi sul… no, il divano è pieno di carte, ti siedi lì, su quella sedia, apro il brunello e ce ne beviamo un bicchiere, poi provi a cominciare da capo. – Guarda che non sono la solita donnetta isterica! Ti dico che era terrorizzata, e Vera non è una che si spaventa per poco, ha visto la guerra da bambina. Ma già, per voi uomini noi donne siamo sempre delle femminucce da poco, non è vero? E no! La tirata femminista proprio no! La sua amica avrà visto la guerra, ma non è che le filippiche di Barbara fossero meno sgradevoli. Vado in bagno, prendo lo specchietto da barba sulla mensola, glielo metto davanti alla faccia e aspetto. – Cosa dovrei farci, con questo stupido specchietto? – Guardartici. Tutto qui. Ha gli occhi furenti. Però almeno mi dà retta. Si guarda nello specchio. Capisce. Si siede lentamente, si vede che ha voglia di piangere. Mi fissa. – Scusami. Scusami, davvero. Verso il brunello in due bicchieri poco adatti all’occasione. Non sono tipo da vini di pregio, preferisco i superalcolici, ma non si dica che non so distinguere un Montalcino da un Pagadebit. Lara si terge gli occhi con la punta di un fazzolettino, senza spandere il rimmel. Non piangerà: non sembra tipo da farsi vedere con le lacrime agli occhi dal primo che incontra. Prende il bicchiere sussurrando un impercettibile «grazie», tradisce un attimo di esitazione davanti al duralex a base ottagonale, allunga la mano a sfiorare il mio bicchiere col suo e beve un piccolo sorso. Mastica appena il vino, lo fa girare nella bocca, lo manda giù con calma. Aspetta. Poi beve un secondo sorso, con decisione. – Te ne intendi, di vino? – Sì, perché? – Da come lo bevi… sei abituata a trattarlo bene… – Il vino è una cosa bella. C’è dentro la vita, gli odori della terra, i suoi sapori. Merita rispetto. C’è amore, nel vino. Lo sai che fare l’amore in un vigneto migliora la vendemmia? – Sicura? – Fidati. Se lo dice Veronelli dev’essere vero, no? Sì, se lo dice Veronelli non può essere falso. Massimo rispetto al vecchio Veronelli, amico e amante del vino e della libertà. Oltretutto da qualche parte devo avere un suo libro. Finiamo il brunello. – Verso ancora? – No, non a stomaco vuoto, – dice tirando su col naso. Mi guarda. Le sue difese stanno pian piano risalendo la china, ma dieci minuti fa, quando è arrivata, erano davvero crollate. Cosa l’avrà spaventata così? – Ascolta, tu non mi conosci, ma io capisco la gente al primo sguardo. È la mia arma segreta, è questo che mi permette di vivere come voglio. Ecco perché ti ho fatto salire su da me ieri sera: sapevo che non ci avresti provato. Mi sono fidata. Ho avuto ragione, no? Allora, – continua senza aspettare la mia risposta (la storia della mia vita: se parlo con una donna non sta ad ascoltare quel che ho da dirle, se sto zitto mi chiede perché non parlo), – se ti dico che aveva paura, devi credermi. Paura non per sé: per me. Resta lì a guardarmi, come dovessi risponderle. – Ti spiacerebbe cominciare dall’inizio? Chi aveva paura? – Vera: chi altri? Vera: chi altri? Ha per amica un’acqua minerale, e io sto qui a chiedermi stupide pignolerie tipo chi è Vera… sono proprio un tipo strano. – È una mia amica, Vera (sì, a questo ci arrivavo da solo). L’ho incontrata in stazione. Fuggiva, scappava via. È tornata al suo paese. In Croazia. – In Croazia? – Sì, in Croazia. Hai presente Trieste? Sempre dritto verso Zagabria. Quando ci sei, tutto intorno c’è la Croazia. – E aveva paura. – Sì. Mi ha implorata di andare via per una, due settimane. Non mi ha detto perché, ma era terrorizzata. Ma c’è un’altra cosa, che non ho ancora capito… Ascolta, ti va se mangiamo insieme, poi mi accompagni a fare un giro per i viali? – Per i viali? – Sì, per i viali, quelle cose che fate voi uomini per passare la serata. Un giro in Vespa a guardare le prostitute sui viali, ti sembra difficile da capire? No, no, che vuoi che sia. Mi piomba in casa una ragazza che conosco da ieri, mi racconta una storia strana dopo avermi offerto un vino di lusso che aveva con sé per caso e mi propone un Puttan-Tour. Che c’è da capire? – Mettiamo subito in chiaro: io il giro per i viali a guardare le puttane non l’ho mai fatto, sono mica un maraglio. Dopo di che, se ci tieni lo facciamo, però mi spieghi perché. Intanto vedo che c’è da mangiare. – D’accordo. Però te lo spiego dopo, non prima. – Posso usare quei fusilli? – Certo che puoi. – Sei vegetariana? – No, solo carne rossa. Cosa mi offri? – dice facendo ricomparire il sorriso sulle labbra. Fusilli al gorgonzola. Non sarà alta cucina, ma il tocco di vodka dà quel certo aroma che non guasta. Per fortuna ho giusto pulito i piatti perché avevo bisogno di pensare… – Mmm, buona la tua pasta, – dice mangiando con appetito. – Un po’ squilibrata come apporto nutrizionale, ma buona. – Apporto nutrizionale? Fai la dietologa? – No, quale dietologa! Sto attenta a quel che mangio: tu no? Guarda che quella pancetta tra un po’ non va più via, alla tua età dovresti stare più attento. Mmm, a proposito di età, cos’è che stiamo ascoltando? I am the passenger I stay under glass I look through my window so bright I see the stars come out tonight. – Iggy Pop. Troppo vecchio per i tuoi gusti? – No, no, volevo solo dire che si sente che è musica di ieri. Bella, però. Bella carica. Una cosa tipo Pixies. Ti piacciono i Pixies? – Non li conosco. Magari puoi registrarmeli. – Registrarteli? Dài, te li regalo. Ti piombo in casa, ti sconvolgo la serata, ti scrocco una cena: te lo meriterai un regalino. And everything looks good tonight singing la la la la la… lala la la, la la la la… Redazione del «Mattino di Bologna», ore 21.40. Invio: da telefono redazionale a telefono cellulare. All’altro capo: ufficio della questura di Bologna. – Ciao, sono io. – Ciao, direttore. – Sì, magari direttore. Ascolta, devo chiederti il solito favore. – Devo verificarti una soffiata? – Sì e no. Devi solo dirmi se ti risulta. – Cosa? – Che in un appartamento in centro è stato trovato il cadavere di un facoltoso concittadino. Morto ammazzato. Ti risulta? – Non vuoi aspettare domani, Diego? – No, sono in chiusura della pagina, devo decidere adesso. Tu dimmi solo se può essere vero. – Credo di sì. – Credi? – Credo. Di sicuro è successo qualcosa in centro, ma non posso giurare che sia quello che dici tu. È una notizia riservata, e tu non ne dovresti sapere niente. Francamente, Diego, sarebbe meglio per tutti se aspettassi un paio di giorni. – No, non posso. Se non esce domani sul «Mattino» arriva sul tavolo di qualcun altro, ci puoi scommettere. Grazie lo stesso, comunque. Momento di riflessione. Diego Dall’Olmo fa appello alle sensazioni rodate da vent’anni di giornalismo. Se Lercio domani non la trova, poco ma sicuro che la mette in Rete, tanto i soldi li ha già presi. E se non lo fa lui, lo fa chi gliel’ha passata. Tanto vale uscire per primi, magari senza risalto. Mi sa che non la metto in mano a un ragazzo qualunque, pensa Diego. Non ha l’aria di una storia qualunque. Circonvallazione interna dei viali, ore 22. Sarà vero che le stagioni non sono più quelle di una volta, ma l’inizio di settembre è sempre un bel momento per girare in Vespa di sera. Frescolino il giusto. Il brunello poi comincia a farsi sentire, l’incontro-scontro tra il sangue scaldato e la pelle rinfrescata dalla sera è piacevole. Ti accorgi di averlo davvero, un corpo, là in mezzo, tra lo stomaco e il mondo, tra il cuore e lo smog. E il vino in circolo ti illude piacevolmente che il freddo che senti sia causato dallo sbalzo termico. Che la pelle d’oca sia un effetto provvisorio. Che non sia il mondo, qua fuori, a essere freddo. Cosa ci stia a fare io, qui, in questa situazione, è un altro paio di maniche. In giro con una sbarbina da schianto sulla parte posteriore del sellino, col braccio stretto alla vita proprio lì dove lo stomaco si chiude e stringe, morbidamente appoggiata alla mia schiena con i capezzoli impudicamente protesi a darmi i brividi e la sua voce che mi parla sussurrandomi di cose che in buona parte non capisco: cibi olistici, il senso della vita, l’ultimo editoriale di «Cosmopolitan», «Marie Claire» che non è più quella di una volta (sarà un’altra amica croata?), Keanu Reeves che l’ha delusa con Speed, l’orientamento Feng Shui dei mobili e delle case per un miglior rapporto col tutto (e io dovrei dirle cosa ne penso?), la movida di Barcellona, la smaterializzazione del mondo (no, non ho letto Neuromagma, non so neanche cosa sia), poi ecco, accosta lì, senza fermarti, guarda, lì ci sono le nigeriane, tutto occhei, come, cosa tutto occhei? Va bene che stiano lì a battere? No, volevo dire che sono al loro posto, tu guida e non preoccuparti, come non preoccuparti? Guarda, bello, che è vero che le nigeriane lo prendono dietro senza preserva, ma siete voi a chiederlo, va bene, va bene, lo so che i veri animali siamo noi, no che non siete animali, gli animali hanno più rispetto, e cosa siamo scusa? Uomini, ecco cosa siete, fermati un momento, anzi no, che c’è la pula, cosa c’è? Una retata? Retata cosa, bello, lì ci sono le ragazzine, minorenni? Sì, bello, minorenni, tossiche, comunque ragazzine, e c’è sempre qualche pulotto a parlarci, ti scandalizzi? Ecco, ferma lì che devo parlare con quella bionda. Scende, punta verso una stangona in top e tanga, capelli lunghi biondo abbagliante, tacchi altissimi. Si scambiano qualche parola, in tedesco mi pare, si salutano con un reciproco sciùss, va bene, bello, andiamo, la conosci appena, è abbastanza nuova, tedesca? Austriaca, una vera (come vera?), voglio dire che è davvero austriaca, perché, le altre? Le altre dicono di essere austriache perché fa trendy e sparano cinquanta sacchi in più, ma in genere sono slovene o croate. Come la sua amica Vera? – Come la mia amica Vera, certo, – mi dice sorseggiando il cocktail che ci fermiamo a bere dopo aver completato l’anello dei viali. – Come le sue amiche. Che non ci sono. Guarda davanti a sé, con un’espressione che mi piace poco. Non sopporto quelli che guardano avanti oltrepassandoti con lo sguardo per inseguire il punto alle tue spalle. Quelli che parlano solo per accompagnare i propri pensieri. Quelli come Andrea. – Erano tutte in stazione. E infatti non ci sono. Non ci sono più prostitute croate sui viali di Bologna. E scommetto che non c’è più neanche Maric. – Fammi indovinare: il loro protettore? – Già, – sottolinea senza scomporsi. – Un vero pezzo di merda, uno che picchia le ragazze, amico di gente ancora più brutta di lui, giri di armi, polvere, vai a sapere. Quelli che portano le ragazze qui in Italia. Giovani, piene di speranze, la bella vita, il paese di Bengodi, guardano l’Italia in televisione dalla parabola e pensano che se regaliamo milioni con quei quiz deficienti di denaro dobbiamo averne tanto. Poi si ritrovano qui marchiate come bestie, col tatuaggio che a voi piace tanto. Dovrebbero trasmettere i programmi in bianco e nero alla televisione, far vedere i film di cinquant’anni fa in cui eravamo poveri, andavamo al lavoro in bicicletta o facevamo le mondine per un sacco di riso. Allora sì che le cose cambierebbero. – I film del neorealismo? Vuoi dire quelli? – Sì, quelli. Così albanesi, croati, polacchi, russi penserebbero che siamo poveri e tristi come loro, e non verrebbero qui a cercare le casette di marzapane. – Invece… – faccio io per cercare di inserirmi. – Invece gli facciamo vedere le casette di zucchero e cioccolato, ma non gli diciamo che dentro ci abita la strega cattiva. Tosta quando le gira, Lara. Faccio fatica a inquadrarla, ma mi piace sentirla parlare. – E questa storia del tatuaggio? – Ci marchiano le ragazze, bellezza. Ogni capo ha un suo simbolo da tatuare, le ragazze di Maric ad esempio hanno una farfalla fatta in un certo modo sull’inizio del solco delle natiche, così se mai scappano le riconoscono anche in un’altra città. Del resto, dove vuoi che scappino, senza passaporto? Vera, a modo suo, è fortunata, ha già finito di riscattarlo, il passaporto. Le altre ancora no… – E allora perché continua a battere sotto protettore? – Perché prima di tornare a casa vuole avere i soldi per comprarsela, una casa. Così i suoi nonni avranno un posto decente in cui morire. Ordino altri due bicchieri, per mandar giù lo schifo di me stesso che mi è venuto. Non c’entro niente, a gente come questo Maric ai miei tempi avrei spaccato il naso a colpi di spranga, ma mi faccio schifo lo stesso. Mi sembra di essere sporco dentro. – Ehilà, morettino, cos’è quella faccia triste? Guarda che non volevo prendermela con te, scusami. Magari meritavi una serata migliore, ma davvero non so cosa farci. Secondo te, tu che fai l’investigatore, che significa che tutte le croate siano rientrate a casa in fretta e furia? – Non lo so, Lara. Nell’arco di due Caipirinha ho imparato sulla prostituzione più di quanto credevo di sapere. Se vuoi, domani chiedo al mio amico… – Quel poliziotto dall’aria tenebrosa? – Sì, giusto lui. Devo passare a trovarlo, sai… – Sì, sì, ricordo. A proposito, come va la tua indagine? Trovato niente? – Trovato qualcosa. So che ha preso l’aereo, devo solo scoprire per dove, ma mi ci vuol poco. Devo trovare qualcuno in grado di dare un’occhiata più a fondo nel suo computer, e ho fatto. Roba di un paio di giorni. – Un hacker, vuoi dire? Hai bisogno di un hacker? – Sì, certo. Ne conosci uno bravo? – Ne conosco uno bravissimo, uno dei primi. Ma non si muove per una cosa come questa. Se però te ne basta uno meno bravo, ma molto più bello, sorridente, amichevole… – Be’, sì… dov’è questo hacker? – Fottiti, stronzetto: ce l’hai di fronte! 9. Mezzanotte Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 24. Struccata, Lara non è più brutta né più bella. È un’altra. Più pallida, più incerta. Truccarsi serve a coprire, aggiunge poco a poco uno strato sull’altro, anticipa l’uscita e aiuta a prepararla. Fortifica. Struccarsi fa pensare, toglie via le incrostazioni inutili della giornata per conservare quelle che vale la pena di serbare. Lara si trucca e si strucca sempre da sola. Sempre. Imparare a stare da sola, si ripete ogni volta. Imparare a pensare a te stessa. Imparare. Non si sopravvive là fuori, se non sei capace di pensare a te stessa. Lara lo ha imparato presto, le sembra di averlo sempre saputo. Una capacità che respirava nell’aria sin da piccola. Come gli altri, meglio degli altri. Questione di sfumature. Che sono poi quelle che contano per davvero. Devo dirglielo?, chiede Lara al suo volto nello specchio. Quella lì, nello specchio, le fa invidia. Tutte le imperfezioni, le incertezze, i dubbi che Lara sente dentro di sé non traspaiono nel volto dentro lo specchio. Vorrei essere come te, si dice Lara rivolta allo specchio. Se solo quel volto parlasse, almeno per una volta. Se solo le dicesse cosa fare. Dirglielo. Devo. O no? Perché devo? A chi, devo? Non devo niente a nessuno, dice Lara parlando con lo specchio. Lara deve tutto a se stessa. A nessun altro che a se stessa. Casalecchio sul Reno (Bologna), ponte sul Reno, ore 24. Visto da qui, il Reno non sembra neanche tagliare la periferia della città. D’improvviso il cemento si ritrae, spuntano alberi, c’è l’acqua che scorre sui sassi di fiume, sentila che mormora suoni dolci. Sembra una piccola gola di montagna. Doveva essere davvero bella Bologna quando l’acqua la attraversava, prima che il cemento ricoprisse i piccoli corsi. Magari poi non è vero. Viene sempre voglia di credere che prima le cose erano migliori. Che direbbe Lara? Vai a sapere se partirebbe in quarta con le ginocchia delle lavandaie macerate dalla pietra e dall’acqua, o con l’equilibrio con l’ambiente e il ritorno a un rapporto più autentico con la natura. È questo che mi lascia perplesso. Non riesco a capire come funziona la sua mente. Rimbalza da un estremo all’altro, dal consumismo all’ecologia, per dire, con una sconcertante semplicità. Chissà cosa direbbero i Quattro gatti… Che ne dici, Cristiano? Entusiasmo per il cinema (come si chiama quel suo film sul surf?), ma probabilmente per lei i western sono solo cavalli e testosterone. Dici che la prendiamo con noi? Dici che impariamo a capirla, col tempo? Dico di sì, dice Cristiano, dico che non è lei a essere strana, sono i tuoi parametri a essere troppo rigidi. Sono passati vent’anni, amico mio, il mondo è cambiato, c’è gente nuova. Anche per te, Cristiano, sono passati vent’anni. Già… ma io non giudico nessuno. Se è per questo, non frequenti nessuno, a parte quelli che ti circondano e che tieni fuori della tua cella. E che qualcuno ha già giudicato, tanto per toglierti il problema. Fatti miei, dice Cristiano. Scelte mie. E tu, Andrea? Tu non parli, vero? Cos’è che mi hai detto al bar? Che ci troverà in uno come te… Già, che ci troverà? Eppure… Eppure hai visto una strada sotto un portico, l’ingresso di un bar, io che entravo e Lara che arrivava: tutto qui. Però hai subito tracciato linee di collegamento, hai già fatto due più due, vero? Due più due fa sempre quattro, dice Andrea. Importa solo questo, il resto sono solo sciocchezze. E Andrea i conti non li ha mai sbagliati. Non lui. Io sì, vero, dice Cristiano? Io sì che li ho sbagliati… i tuoi conti, i tuoi stupidi conti, dice Cristiano con l’aria arrabbiata delle vecchie assemblee: e allora? Quando pure li avessi sbagliati? Cosa vuoi che mi importi dei tuoi conti, Andrea? Dovrebbero andarmi a genio solo perché sono esatti? Al diavolo l’esattezza! Se non mi va, due più due può non fare quattro, e in ogni caso non fa quattro di niente. Al diavolo l’esattezza! E adesso? Adesso che il mondo si ripopola di una folla di amici, cosa dovrebbe succedere? Dovrebbe arrivare Barbara a dividere Andrea da Cristiano, Barbara con uno dei suoi il problema è un altro, compagni! Un altro… il problema per Barbara era sempre un altro. Certo che è un altro. Lo era anche tra noi, ma tu non lo hai capito, perché non lo hai voluto capire. E anche stasera, mi fa Barbara seduta sul parapetto del ponte, anche stasera il problema è un altro. Un altro? Sì, un altro. Non io, non Andrea, non Cristiano: il problema sei tu. Tu e Lara. Fa sempre male, Barbara. Fai male, lo sai? Lo so. Ma ne hai bisogno. Bisogno di cosa? Di trovare la tua matematica. Quella adatta a te. Perché tre meno uno non fa soltanto due, tesoro mio, piccino mio: tre meno uno fa molto più di due, mi dice salendo in piedi sulla balaustra… (No Barbara non farlo Barbara non farlo non ancora non di nuovo non farlo più non stasera non farlo ti prego non farlo). …E due più uno non fa tre di niente, amore mio, mi dice allargando le braccia, non fa tre di niente, dice flettendosi in avanti, non fa niente di niente, dice tuffandosi in acqua. Proprio niente. Niente di niente. Bologna, via Alessandrini, ore 24. – Scuusi, signoore, non avreebbe qualche soldiino? … – Scuusi, signoore, non avreebbe qualche soldiino? – Cosa c’è, Raffaele? Non mi riconosci più? – Ciao, Andrea. Non ti avevo riconosciuto. Cosa fai qui? – Penso. Guardo il vecchio canale delle Moline. – Sei diventato romantico, Andrea? Eccolo qui, un altro pezzo di una Bologna parallela, quella che la Bologna curata e benvestita sfiora senza vedere, come fosse un fantasma. Un barbone, dicono al più affrettando il passo. Brutto, grasso, sporco, con la mano tremante e quella frase monotona e cantilenante – «Scuusi, signoore, non avreebbe qualche soldiino?» – che sfiora appena le delicate orecchie di una Bologna da bere che cerca di assomigliare a una Milano ormai bevuta e decotta. Stasera non lavora, Raffaele: non è la sua zona. La sua postazione è d’abitudine su via dell’Archiginnasio, lentissimo, spesso immobile come uno spartitraffico tra fiumane di individui che riescono a vedere in questa via solo l’imitazione di via Montenapoleone. Riescono a non vedere gli archi interni, l’Archiginnasio, il lato mutilo di San Petronio: tra una scarpa e una borsa à la page, tra una camicia firmata e una vetrina di inutile oggettistica, riescono a non vedere la Storia e la bellezza: vuoi che vedano un vecchio fantasma, incomprensibilmente fermo a ostentare la sua stracca povertà? Forse non si accorgono neanche di allungargli qualcosa, metti mai che poi debbano domandarsi perché c’è chi chiede l’elemosina in via Montenapoleone, pardon, via dell’Archiginnasio. Vive così, Raffaele. Ci si guadagna da vivere, con quel lavoro. Ci si paga l’affitto – perché Raffaele non dorme nei cartoni, come altri fantasmi ancor più invisibili che alloggiano sotto i portici di via Zamboni. Ci si pagano i libri – perché Raffaele legge, e di tanto in tanto lo si rivede all’Università. Ci si paga la vita – perché otto ore sono una giornata di lavoro, che differenza c’è tra avvitare bulloni e ripetere con gentilezza «Scuusi, signoore, non avreebbe qualche soldiino?» C’è stato un tempo in cui Raffaele era un giovane studente arrabbiato, iscritto ad Astronomia. Una mente a suo modo geniale, in questura se lo ricordano ancora quando, seduto per terra in attesa dell’interrogatorio, fermato tra gli altri fermati, si mise a studiare sul libro di Geometria per l’esame. Un genio della scacchiera, soprattutto. Memorabili le sue partite in simultanea all’Onagro, tra vecchi anarchici e giovani ribelli. Anche dopo, quando è arrivato l’alcol, quando era la bottiglia a bersi Raffaele, quando ha cominciato ad accattonare. Ubriaco dall’alba a notte fonda, ma sempre in affitto pagato con l’elemosina, e sempre all’Onagro davanti alla scacchiera. Era ubriaco, ma continuava a chiederti: «Dài, giochiamo, metti sulla scacchiera i pezzi, quelli che vuoi, dove vuoi». E non c’era verso: alla fine vinceva lui. Durante il Mondiale di scacchi, ti chiedeva in regalo la pagina del giornale per leggersi la partita. Poi l’alcol è andato via, ma il mestiere è rimasto. Ormai è uno degli storici, ha diritto alle zone migliori all’interno dei patti non scritti tra i barboni. – Una volta qui ci passava il canale, c’erano le Moline e le pietre per lavare i panni. Poi hanno coperto tutto, è rimasto solo questo scorcio. E la finestrella, che veniva buona per impressionare le ragazze appena arrivate a Bologna col suono di un canale quasi invisibile. Tu ce le portavi le ragazze qui, Raffaele? – No, io no. … – Sei triste, Andrea? Cosa c’è, sei in crisi? – No, stai tranquillo. Non sono in crisi. Ho solo bisogno di non pensare a certe cose. E magari di riflettere su altre. – Ti disturbo? – No, no, anzi… Tanto non è stasera che… Sai cosa, Raffaele? Ci vorrebbe una di quelle vecchie serate, quelle con una bottiglia vicino e una scacchiera davanti. Ti va una partita? All’Onagro? – Non c’è più l’Onagro, Andrea. Si chiama in un altro modo. Però la scacchiera c’è sempre. Ma non so se ti conviene: lo sai che con me perdi. – Non ho detto che ho voglia di vincere. Ho voglia di giocare. – Va bene. Però guarda che io non bevo più. Sorriso accennato. Pacca sulla spalla. Due vecchie conoscenze si avviano verso piazzetta della Pioggia. 10. Bisogna capirlo, Stephen King 3 settembre, Bologna. Questura, piazza Galileo Galilei, ore 9.10. – Cascato dal letto? Sempre caro, Andrea. Probabile che gli dispiaccia di non avermi svegliato lui. Lui e Cristiano, i patiti del mattino ha l’oro in bocca. Io no, mai. Non quando il mattino ha in bocca il bicchiere della sera prima. – No, ho dormito poco, tardi e male. Anche tu però non scherzi, quanto a occhiaie. Lavorato fino a notte? – Non proprio. Ho incontrato una vecchia conoscenza, Raffaele, e abbiamo fatto le tre a scacchi. E tu? – Vecchie conoscenze anch’io. Fino a tardi. Il caffè passa dalla macchina alle tazzine. Andrea mi porge la prima, sorridendo. Novità in ufficio, in questi cinque anni, dice indicando il bagaglio espresso. Il resto sembra uguale all’ultima volta che sono stato qui. – Come ti va? – Al solito. Eravamo tre abitudinari, forse lo siamo ancora, Andrea. Non è facile cambiare, alla nostra età. Silenzio. Andrea mi guarda: strana espressione. – Cosa c’è? Cos’ho detto? – Te lo sento dire per la prima volta. – Cosa? – Che eravamo in tre. … Finiamo il caffè senza parlare. Non è il luogo adatto per rivangare il passato, e Andrea lo sa. Magari è per questo che fa il lavoro che fa. – Dimmi del Togliatti. Che diavolo sta succedendo? E soprattutto… – Di noi? (non dice: di me e lui. Dice: di noi) Sarebbe una storia lunga. – Fino a oggi pomeriggio sono libero. – Hai ragione, ma temo che dovrai aspettare. Devo prima trovarlo, e parlarci. Dev’essere lui a dirmi se posso raccontarti. E in questo momento non è il problema principale. In questo momento… – Andrea, hai… Oh, scusi, ispettore, credevo fosse solo. Buongiorno. C’è il rapporto della Scientifica, aveva detto che era urgente, – dice la poliziotta allungando una cartellina ad Andrea. – Il referto dell’autopsia sarà pronto nel pomeriggio, – aggiunge con voce neutra. Andrea prende la cartellina. Ringrazia. Saluta. La poliziotta saluta. Saluta anche me. Leggero imbarazzo. Chiude la porta. Andrea apre la cartellina. Annuisce. Drìììn… drìììn… drìììn… – Pronto, – sbuffa Andrea. – No che non l’ho letto, lo sai che non lo leggo. Va bene, mandamelo, anzi no, dimmelo tu, così… va bene, va bene, mandamelo, cos’è, hanno rubato il tridente al Nettuno? No, eh? Niente da ridere? Dài mo’, porta qui. Mette giù, perplesso. – Mica leggi «Il Mattino»? – mi fa. – Chi, io? No, perché? – Ispettore, il giornale. – Dài qui, Sandro. Cos’è che devo vedere? Giornale ripiegato sulla pagina locale. Articoletto in fondo a sinistra. Brutale omicidio nel cuore di Bologna. L’assicuratore e. t., di settantaquattro anni, è stato rinvenuto senza vita nella sua abitazione dalla polizia, avvertita dai familiari che da giorni non ricevevano sue notizie. Pare che il facoltoso cittadino sia stato prima legato, poi finito a colpi di arma da fuoco. Si ignora il movente dell’efferato delitto, anche se si può escludere la rapina, dal momento che nulla manca dall’abitazione. – Sandro! Porco d’un dio bastardo, torna subito indietro! Cos’è questa storia? Il giovane agente rientra nell’ufficio che aveva cercato di lasciare subito dopo aver dato il giornale ad Andrea. Resta in piedi, quasi sull’attenti. – Cosa avevo detto, boia d’un Giuda ladro, cosa cazzo avevo detto? Allora? Ti ha mangiato la lingua il gatto? Cosa diavolo avevo detto, Sandro? – Di non far trapelare la notizia? – Esatto. E questo cos’è? Uno scherzo, o un giornale? – Andrea, guarda che tu hai sempre detto che «Il Mattino» non lo leggi perché non è un giornale, ma… – Ah, perché abbiamo voglia di scherzare, anche! Ma non finisce qui, boja d’un Ziuda làder. Lo so io chi fa la talpa qui dentro! Gli faccio passare la voglia, a lui e a quel… quel… Afferra il telefono e compone nervoso un numero, picchiando con le dita sui tasti. Nel frattempo faccio le presentazioni col giovane fuscello piegato sotto la tempesta. Piacere, scusi la presenza. Piacere, si figuri, agente Valle Sandro, lo conosce da molto? Chi, Andrea? Da una vita. Ah, bene, allora non deve preoccuparsi. – Pronto, Diego, guarda che ti sei giocato il culo questa volta. Come? Come, scusi? No, mi scusi, signora Moroni, no, devo aver sbagliato numero, faccia finta di non aver sentito… Che diavolo di numero ha quel figlio di… di… Pronto, Diego? Sei tu? Guarda che ti… cosa hai detto? – Che ti aspettavo. Sono arrivato qui presto proprio per la tua telefonata. – Diego, questa volta hai pisciato fuori del vaso, ma di brutto. Te la faccio pagare cara, a te e a quell’asino che crede che io non sappia chi ti fa le soffiate da qua dentro. Lo mando a fare il vigile urbano sull’Adriatico, a respingere i barconi con la paletta verde! – Certo, Andrea. Però adesso ti calmi, va bene? Intanto non ho avuto una soffiata dalla questura, quindi lascia in pace quel ragazzo, che non c’entra. Ho deciso io di pubblicare. Se vuoi ci vediamo, ti passo a trovare e ti spiego. E ricorda che ti sto facendo un favore. – Sì, va bene. Anzi, no, vediamoci per strada. Al bar. – Quello sotto la questura? – No, il bar Prezioso mi fa schifo, a cominciare dal nome. Da Sauro, tra un’ora, va bene? Evidentemente va bene. La tempesta cessa, il bicchier d’acqua ridiventa piatto. L’agente Valle fa un cenno, Andrea annuisce e lo lascia libero. Sigaretta. Neanche accesa: la mette in bocca, la sfila dalle labbra, la guarda e la spezza tra le dita. – Ho smesso. Da ieri, – dice estraendo la fiaschetta piatta dal cassetto della scrivania. – Vuoi un sorso? Bevo. Tabacco, torba, qualcosa di vellutato e affumicato mi scivola in gola. Buono, molto buono. Oban? – Lagavulin. Ho ricominciato. Da ieri. – Mi fai capire? Mi fa capire. Brutta storia, ha ragione lui. Il Togliatti non ha l’animo del giustiziere, era contrario anche alle Volanti rosse… Ohi, mica che abbia del pelo sullo stomaco, che a quelli lì tirargli fuori l’anima a fucilate per vedere se puzza più lei di loro ci starei anche, loro e quei preti lì che ieri ci facevano i soldi con la borsa nera e oggi li nascondono, ma se il Partito dice no dev’essere no, dio boia, che sennò come va a finire, poi se cominciamo ad ammazzare tutti quelli che se lo meritano non la si finisce più! Ha le idee chiare, il Togliatti: niente colpi di testa, se non serve non serve, e quindi non lo si fa. E allora? – E allora non lo so. Però il rapporto dice un’altra cosa: che sul pavimento della casa del Tassone c’era una goccia di grasso da officina. E anche sotto le scarpe dei suoi assassini, perché ne abbiamo trovato tra i peli dello stuoino, e per le scale. Assassini dalle scarpe sporche… ti pare lo stile del Togliatti? Lo stile del Togliatti? Mai trovata un’impronta nelle case che svaligiava, ai tempi in cui era conosciuto come «l’Acrobata». – Vieni con me, – mi fa Andrea. – Facciamo un salto da Sauro, sentiamo cosa ha da dirci Diego e vediamo di capirci un po’ di più. Anche questa storia della fuga di notizie non mi piace… – Cosa c’è di strano in una fuga di notizie? – È roba da due soldi, tempo ventiquattr’ore e la davamo noi, bastava venircelo a chiedere. Non è il ritrovamento dell’alieno mancante di Rosewell o del cervello del segretario del Pds di Bologna. Come notizia vale meno dell’invenzione della setta satanica o del mostro pedofilo. Chi è che si sbatte per una cosa come questa? Non lo so. A dire il vero non so un sacco di cose. Non so come facevano quei signori di Ordine nuovo a sapere del discorso del capo del governo in televisione la sera di piazza Fontana prima di mettere la bomba, non so perché i generali si sbattono per depistare l’indagine su una strage, non so perché due anni fa hanno trovato quei fascicoli degli anni Sessanta che dovevano essere stati distrutti vent’anni prima, e non so neanche perché c’è chi si preoccupa di disegnare una falsa prova d’accusa contro un paio di ragazzi vestiti di scuro che si divertono a fare messe nere. So una cosa che dice Stephen King, però. – Cos’è che dice Stephen King? Dice che in un mondo in cui esistono Michael Jackson e uno come Axel Roses, tutto è possibile. Dice proprio così. Bisogna capirlo, Stephen King: perché lui lo non conosce Vittorio Feltri. Alto Adriatico, acque internazionali. Peschereccio San Michele, ore 12. Invio: da Ravenna, cellulare satellitare con scheda internazionale a peschereccio San Michele, cellulare satellitare con scheda croata. – Sono io. Beta: – Certo che sei tu. Ci sono novità. – Dimmi. Beta: – Problemi. Bisogna aspettare. Rimandare, forse. – Non è semplice. Il pesce è già nella rete. Alla lunga puzza. Beta: – Fallo mettere nel congelatore. Si cambia attracco. – Dove? Beta: – Resta nel mezzo e punta a sud. Ti arriveranno le indicazioni col fax. – Ricevuto. Chiudo. L’uomo a bordo inspira l’aria salsa. Si gratta il pizzetto. Take me here your captain, seaman, ordina a un marinaio. Bravi ragazzi, qui a bordo. Sani, motivati. Cristiani. Il capitano è di Medjugorje: c’è la statuetta della Madonna in cabina. Tutti col crocifisso al collo: valori autentici, valori veri. La Mara aspetterà invano al porto: sarà per un’altra volta, poco male. Non c’è solo Ravenna. Ci saranno altre puttane in altri porti. Bologna, enoteca Calzolari, via Petroni, ore 10.30. – Due bianchi, Sauro. Fai tu. – Una malvasia giovane dei colli piacentini? Leggermente zuccherina, fresca, adatta all’ora. – Ottima. Lascia pure sul banco, aspetto un amico. – No, Andrea, non con questo caldo. La ritiro fuori, non preoccuparti. – Salute. – Salute. Buona. Fresca. – Tutti ladri e spie, qui dentro? Diego, sorridente come fosse a una festa. A Diego piace sorridere. Gli piace il suo lavoro, e lo fa bene. Per questo Andrea gli ha creduto sulla parola. – Capisci che non potevo non pubblicarla: te la saresti trovata comunque in giro stamattina, e io ci facevo una figura di merda. Sono pur sempre il caporedattore, Andrea. – Chi te l’ha portata? – Sai che non posso dirtelo. Vorrei tanto, ma il segreto professionale vale anche in questi casi. – Azzardo un’ipotesi? La voce della fogna? – L’hai detto tu, Andrea. – E tu che farai? – Prendo in carico l’inchiesta. C’è puzza di marcio lontano un miglio, a cominciare dai postini che hanno mandato. Dammi qualche elemento, e io ti tengo al corrente. – Ti chiamo domani, lasciami ancora una giornata. Devo verificare qualche movimento. Altro giro? – Altro giro. Dopo la seconda malvasia salutiamo Diego. – Cos’è questa voce della fogna? – Un modo di dire. La Abc-Time, una specie di agenzia, più che altro un posto in cui imbucano veline pronte per la stampa. C’è dentro della gentaglia, persino qualche vecchia conoscenza politica. Non vale la pena di metterci le mani dentro, rischi solo di trovarti contro qualche noto avvocato locale con ambizioni politiche. E comunque non ne cavi fuori niente. Basta sapere che dietro la soffiata ci sono loro. – Perché? Non sei mai stato uno che si accontenta, no? – Perché non dovrebbe essere roba di loro competenza. Ma se ne sono occupati, quindi un qualche motivo ci sarà. Si perde per un paio di minuti in se stesso. Aveva ragione, ieri: non è la polizia, e non sta agendo come uno della polizia. Sta agendo da solo, usa la polizia come userà Diego: sta costruendo una specie di gruppo privato. Usciamo dall’enoteca e ci avviamo. Non sembrano passati cinque anni. Non sono passati. Non abbiamo mai smesso di incontrarci, solo di vederci. – E tu cos’hai per le mani? – Robetta. Un figlio di papà da rintracciare. Oggi pomeriggio un’amica mi aiuta a dare un’occhiata nel suo computer, dovrebbe finire lì. – Amica? Gambe lunghe, stivali a tacco alto, occhi verdi, minigonna da urlo? – L’hai solo incrociata ieri, o l’hai fotografata? – Allora è lei. – Sì. È lei. – Storia seria? Saperlo. Non è ancora una storia. O lo è già? – A proposito, devo raccontarti una storia. Una strana, ma magari tu ne sai qualcosa. Ieri sera sui viali non c’era una puttana croata che fosse una. Tutte le altre sì, le croate no. Sembra che siano partite nel pomeriggio, assieme a un certo Maric. Andrea mi guarda, un po’ stupito. – So chi è Maric. Tu che ne sai? Già, che ne so? Gli racconto della serata passata ieri? – Diciamo che l’ho saputo da un uccellino. Un uccellino dalle gambe lunghe, per capirci. Ne conosceva una, l’ha incontrata che partiva e ha notato le altre. E ieri sera ha voluto fare un giro in Vespa sui viali, e non c’erano croate. A te tutto questo dice niente? – No, se devo essere sincero. Non so nulla di guerre tra bande, modifiche della mappa delle zone o quant’altro. E quel Maric non è tipo da farsi pestare i piedi, se c’era della concorrenza tirava fuori il coltello. E comunque in genere nessuno, se sa quel che fa, viene a dar fastidio a Maric: lui è brutto, i suoi amici sono anche peggio. – L’amica di Lara pareva piuttosto spaventata. – Ci penso su. Faccio fare un paio di controlli. Nel caso, domani mi ci fai parlare, con la tua amica, se le va. Grazie per la segnalazione. Andrea si ferma. Riflette. Qualcosa di quel che gli ho detto lo disturba. Andrea non ama le cose fuori posto. – Ascolta, io devo tornare in questura. Aspetto l’autopsia, poi magari ti faccio sapere. Salutami la tua amica. Si è già voltato. Si avvia. – Anche tu. Si volta. Ogni tanto ci prendo anch’io. – Quale amica? – Quella che ti entra in ufficio senza bussare dandoti del tu. Quella bionda. Sorride. Fa sì con la testa. Fa per andare. – Andrea? – Sì? – Fatti vivo. Anche solo per un bicchiere. Siamo stati troppo tempo in trincea, non trovi? – Anche le trincee servono. Ti chiamo presto, promesso. Bologna, piazza Galileo Galilei, ore 12.10. Macchiolina di grasso. Segni della sedia trascinata sul parquet. Sangue sulla parete. Stanze in ordine. Tende tirate. Volantino sulla porta. Impronte digitali solo sul volantino. Tracce di grasso sullo stuoino. Andrea passa e ripassa la scena del delitto. C’è qualcosa che disturba, che stride. Meglio: stride qualcosa che dovrebbe aver notato. Un oggetto balzano, un McGuffin che non riesce a saltar fuori perché Andrea non lo focalizza. Sto perdendo la mano, pensa Andrea. Comincia a sfuggirmi qualcosa. Saluti dalla porta del bar. Il bar Prezioso: colleghi. Andrea sforza un mezzo sorriso di cortesia, senza entrare. Quel bar proprio non gli piace. Comincia da capo, prova a cambiare l’ordine dell’elenco. Niente. È tutto a posto, eppure… – Come siamo tenebrosi, ispettore Vannini! Chiara. – Scusa, non ti avevo vista. Stavo pensando. – Si vede. Lo so come sei quando pensi. Posso offrirti un caffè? – Lì dentro? – Dài, Andrea, non essere paranoico. Guarda che ci passano centinaia di colleghi ogni giorno, non c’è mica scritto «Fratelli Savi» sull’ingresso. – «Fratelli Savi e affini», dovrebbe esserci scritto. Non erano solo in tre, e qui dentro qualcuno fa finta di non essersene accorto. Non mi va di berci un caffè insieme, neanche per sbaglio. Poi, scusa, non ho voglia di un caffè. Chiara sbuffa, rassegnata. Scuote la testa. È una gara persa, far cambiare idea ad Andrea. Come piantare un chiodo alla parete con la fronte. – Ti passo a prendere stasera? Ceniamo insieme? – Faccio un salto fuori nel pomeriggio, a verificare una cosa. Va bene per la cena, non garantisco sull’orario. Non preparare niente di complicato, così non rischi di mangiarlo freddo per colpa mia. – Scherzerai. Mai correre rischi con te. Mi chiami, prendiamo due pizze e ce le mangiamo sul divano davanti a un film. Finale a sorpresa. Finale a sorpresa, certo. Chiara saluta, entra nel bar e ordina una piadina. Andrea la guarda tirare una sedia da sotto il tavolino per accomodarsi. Un poliziotto si scosta per farle spazio. Andrea capisce. La sedia tirata, certo. Non è stata sollevata, è stata tirata. Infatti ha lasciato strisce sul legno. Perché era pesante. Tassone era già legato sulla sedia. Rewind. Tassone portato nella camera della morte legato. Tassone trascinato sulla sedia verso la camera della morte. Tassone legato alla sedia in un’altra stanza. Perché in un’altra stanza? Perché trascinato? Tassone apre la porta. Entrano. Lo colpiscono alla testa, lo legano alla sedia, lo trascinano in sala. Ecco perché non lo hanno portato prima in sala: perché era svenuto. Lo colpiscono alla testa. Perché? Perché non tenerlo sotto tiro, uno lega mentre l’altro punta il mitra? L’uno e l’altro. Perché l’uno e l’altro? Chi dice che fossero in due? Era uno solo. Suona, entra, colpisce, lega, trascina, porta in sala. Probabilmente fa un discorsetto. Poi gli mette la canna in bocca e spara. Tutta la raffica. Ne basta uno. Il Togliatti? E se non lui, chi altri? Se non lui. Proprio così. L’altro. Quale altro? No. Non funziona. Il volantino. Se c’è il volantino c’è il Togliatti. Se ci sono impronte non è il Togliatti. C’è e non c’è. Chiama Sandro, tanto era già deciso. L’autopsia dirà l’ora esatta della morte. Poi si va a trovare il Cioccolata. 11. Fondamentale! Presso Bentivoglio (Bologna), officina Bignardi, ore 15.30. Rumore di moto. La vecchia Guzzi fa sempre il suo dovere. Non sarà bella come l’Harley, non sarà veloce come le giapponesi, ma dà sicurezza. Con un buon pilota sopra e qualche piccola modifica è una macchina perfetta. Non è su un circuito, la Guzzi: è in mezzo ai campi. Fa un percorso da cross, per evitare l’asfalto, le auto, gli automobilisti. I poliziotti, soprattutto. Ieri sono venuti due volte, hanno detto. Forse sono in giro a sorvegliare. Comunque è probabile che tornino: bisogna fare in fretta. L’officina è lì. Il Cioccolata dev’essere dentro, a dormire. Meglio essere prudenti. Motore spento, avvicinamento a folle. Stop. Cavalletto. Qui non la si vede, dalla strada. Nessun rumore. Circospezione. Un’occhiata alla Walther P 38: tutto a posto. La porta è leggermente scostata. Il Cioccolata è sulla branda. Entra. Riaccosta la porta. Il Togliatti si toglie il fazzoletto dal volto. Alto Adriatico, acque internazionali. Peschereccio San Michele, ore 12.40. Il fax sputa un foglio. Un porto, un numero di cellulare, un nome. Ci avrei giurato, pensa l’uomo col pizzetto. Non sembra una cosa da poco. Non si resta alla fonda un paio di giorni, si cambia direzione. A questo punto ci manca solo che ricompaiano i capelli bianchi di… tanto vale saperlo subito. Compone il numero di telefono. – Pronto. – Io. – Ti aspettavo. Sai già? – Sì. L’attracco? – Ci pensiamo noi. Te lo facciamo sapere non appena siamo sicuri, tanto c’è tempo. – Certo. A chi consegno il pesce? – Cooperativa Stella Maris. Ti mandiamo la documentazione col fax, non appena è pronta. – Non voglio sapere quello. Dimmi chi devo incontrare. – Fai mente locale e ci arrivi da solo. Imprecazione silenziosa. Mano stretta al satellitare. – Non si era detto di farla finita con quello lì? Sbaglio, o gli avevano mandato una fibbia in carcere? – Non agitarti. È un’emergenza, non possiamo far scongelare il pesce. Gli facciamo solo credere di essere stato riammesso. Poi magari, una volta fatta la grigliata, la fibbia gliela mandiamo noi. Questa volta per davvero. – Come so che non giocherà sporco? – Non lo sai. Dovrai pensarci tu. Via Santo Stefano, ore 16.15. Collega una scatoletta al computer. Carica due programmi. Già che c’è, fa anche la scansione antivirus, metti mai che questa macchina è infetta (infatti lo era) e mi rovina il giocattolo, e parte. Si muove sulla tastiera come su una macchina per scrivere, le dita cominciano piano, poi acquistano velocità. Sta reimparando. – Alcune cose se me le chiedi non le ricordo più, ma le mie dita non se le sono dimenticate. È come giocare col cubo di Rubik, andare in bicicletta o scopare: basta cominciare a farlo, e non dimentichi più come si fa. Io col cubo di Rubik non ci giocavo. – Cosa stai facendo? – Comincio dalla posta. Ripesco tutte le e-mail che ha cancellato, e dò un’occhiata ai destinatari. Nel caso vedo di entrare nel sistema per tirare giù una lista dei pagamenti… ecco qui: è in Portogallo. Non è un posto da rapper, vero? Del resto neanche Speacker dd è un rapper: più che altro balbetta. Hai sentito che roba, il suo Cd? Dopo la prima Isola Posse, quella vera, non c’è più stato niente di ascoltabile ad Angolo B. Mica come la tripla S, i Sud Sound System, che… Ecco qua: ha mandato un’e-mail per prenotare. Aspetta, che prendo le coordinate… in ogni caso ci siamo… Cos’è che dicevo? A te piacciono i Sud Sound System? Come mai sentiti? Fuecu, quella roba lì… forte, davvero. Non capisco una parola, ma è forte. Più dei primi 99. Devi aggiornarti, bellezza… Ecco, vieni fuori… facile come sbagliare un Martini cocktail: ha pagato con una carta di credito diversa dalla sua, aspetta che ti stampo tutto… Guarda qui: cifra, data della prenotazione, numero di carta. Questa è l’e-mail di conferma con l’indirizzo dell’albergo di Lisbona. Se fai un salto sul sito vedi anche com’è. Anzi, fammi fare un controllino… no, dài, lasciamo perdere. – Cosa? – Se vuoi posso provare a entrare nel computer dell’albergo per vedere se si è registrato col suo vero nome, ma secondo te è tipo da documenti falsi? – No, credo proprio di no. Lo verifichiamo per telefono, da’ qui. Passami quel numero… – Lì sulla stampata, guarda… ma sei qui! Ora ti faccio sentire! Non faccio in tempo a chiederle cos’ha trovato, Radio Fujiko smette all’improvviso – «Tu l’ascolti Radio Fujiko? Io preferisco Radio Kappa, ma a volte è un po’ troppo pesante tutta quella politica, io poi non la capisco molto…» – e dalle casse viene su un accattivante accenno di tamburi, una tarantella lenta. Ehi, nun ne fermamu moi sentitine e ballati, dài nun ne fermamu moi, eniti aquai mena mena mena moi. – Ai vud laik tu nou if Mister Davide Albergani is in uan ov ior ruums, pliis… ies, ai ueit iu (merda, l’inglese è sempre stato una maledizione per me, con queste tammorre salentine a palla poi…) Fondamentale il ritmo fondamentale fondamentale ti dico fondamentale Seguilo con la mente ti dico non ti fermare. – Ies, tank iu veri gud, cioè no, non veri gud, veri mach… Quello che ti dico è liberati quello che ti dico è muoviti ritmo del Sud raggamuffin locale. Riattacco, mi volto, la vedo. Sta ballando. È bellissima nel suo completo in cuoio nero. Segue la musica, salta, sposta l’aria con le braccia. – Dài, cosa aspetti, lasciati andare, come fai a restare fermo con questo ritmo? Zumpa te quai zumpa te ddhrai e se la vita te pare tosta nun te arrendere mai Si avvicina ondeggiando come un cobra. O forse sono io che mi sento un topolino di campagna. Si sfila il lungo guanto senza dita, me lo passa dietro la testa. – Che dici, sono stata brava? Me lo merito un bacino di ringraziamento? Sì, se lo merita. Per il semplice fatto di esserci. Ed è qui che suona il cellulare. Il mio. Andrea. Ha promesso di farsi vivo. Andrea mantiene sempre le promesse. – Scusa un secondo. Cosa c’è? Sto… no… no, Cristo, no! Passami a prendere, ti aspetto in strada. Santo Stefano. Ti vengo incontro. La guardo. Non chiedo neanche scusa. Non c’è bisogno. – Cos’è successo? – dice con un soffio di voce. – Quel vecchio amico che era scomparso. Ruggero. Il Togliatti. Lo hanno trovato in un casolare. – E allora? – Gli hanno sparato… hanno ammazzato il Togliatti. Heaven There was a guy an underwater guy… Correre. Correre correre correre. Non fa male. Non fa male non fa male non fa male. La milza non fa male, è solo un segnale. Se lo ignoro posso farcela, l’ho letto da qualche parte. L’importante è farcela. Non devo smettere di correre. Devo arrivare al Vespino, non è lontano. Ho le chiavi. Dio, ho le chiavi. Le chiavi. Dove cazzo le ho messe, le chiavi? Se ce la faccio salgo sopra, metto in moto e sono salvo. La moto è più grossa, ma col Vespino posso zigzagare. Mi salvo. Mi salvo mi salvo mi salvo. Se ho le chiavi. Non dovevo fidarmi. Lo dovevo sapere che era tutto troppo perfetto per essere vero. Ci sono cascato come un fesso, cretino che sono. Dio che male. Non fa male. Non fa male non fa male non fa male. Devo farcela. Non di là, cretino. Il Vespino è dall’altra parte. Devo girare attorno all’isolato attorno all’isolato attorno all’isolato. Forse sono andati via. Non sono andati via, dio porco. Eccoli, ancora dietro. Stronza. Stronza stronza stronza. Se non la riconoscevo mi ammazzava sotto casa. Eccola lì, è lei quella col casco. Sin dall’inizio. E io ci sono cascato. Devo farcela. Devo arrivare al Vespino mettere in moto a spinta per far prima zigzagare sul marciapiede. Devo raggiungere Andrea prima che ammazzino anche lui. Anche lui un bel niente. Non è ancora morto nessuno. Ce la posso fare. Ce la faccio ce la faccio ce la faccio. Se ho le chiavi ce la faccio. Se mi ricordo dove sono mentre corro ce la faccio. Non ho tempo di fermarmi per cercare le chiavi. Devono essere nella tasca sinistra. Devono essere lì. Se non sono lì sono morto. If man is 5 if man is 5 if man is 5 then the devil is 6... 2. Un’altra nube, un altro scroscio Così fa appunto lo scirocco: una nube, uno scroscio, un’altra nube, un altro scroscio. FRUTTERO & LUCENTINI 1. Sul monte sventola bandiera nera 3 settembre, presso Bentivoglio, officina Bignardi, ore 17. L’urlo della sirena ferisce l’orecchio prima ancora che compaia la volante. Freni inchiodati. Sportello aperto. Dentro. Sgommata. Sirena spiegata. Zig zag tra auto biciclette pedoni. Alla guida: Sandro Valle. Faccia distesa, concentrato ma sereno. – Com’è successo? – Non sappiamo ancora niente. Abbiamo ricevuto una telefonata anonima. I carabinieri hanno fatto un controllo, e hanno trovato un cadavere nell’officina. Un cadavere con un volantino in bocca. – Un volantino? – Garibaldi. – Sembra una storia da fumetto, ispettore, – dice Sandro quando siamo quasi arrivati a Bentivoglio. Enki Bilal, ha presente? No, Andrea non ha presente. Io sì. Le falangi dell’ordine nero. – Così questi vecchi delle Brigate repubblicane e delle Falangi franchiste cominciano ad ammazzarsi tra loro, per ragioni che risalgono ai tempi della guerra civile. Si ammazzano per cose successe quarant’anni prima. Alla fine ne rimane uno solo. Fa riflettere, no? – Non c’è bisogno di pensare a un fumetto, – dice dopo cinque minuti Andrea mentre usciamo da Bentivoglio e ci dirigiamo verso la campagna. – Ci sono state cose in questa terra che non sono state dimenticate. Uomini scomparsi cinquant’anni fa, che non torneranno a casa neanche per finire i loro giorni, perché altri uomini li aspettano ancora. Gente che ha denunciato il vicino, magari assieme ai suoi figli, per rubargli la terra, o magari solo per le cinquemila lire che i tedeschi davano per ogni delazione. – E lei pensa che siamo dentro una storia del genere? – chiede Sandro imboccando una stradina che punta verso un capanno. – No. E comunque piantala di darmi del lei. È un’officina. Davanti all’ingresso due auto scure. I carabinieri sono sulla soglia. Il maresciallo che ci viene incontro è anziano, sbuffa e suda. Scambia qualche parola con Andrea. Cenno d’intesa. Possiamo entrare. Il cadavere è sulla branda. I mosconi ronzano. C’è odore di bruciato, misto a sangue. Mi avvicino. Togliatti mi teneva sulle ginocchia quando ero bambino. Lo fisso incredulo. Guardo Andrea. Andrea inclina piano la testa. Rimane immobile. Scuote il capo. Non è il Togliatti. È anziano, ha il fisico pesante e i capelli bianchi. Ma non è il Togliatti. – Attilio Bignardi, conferma il maresciallo. Il proprietario dell’officina. Lo chiamavamo Cioccolata. Una morte orribile, a occhio e croce. Mi avvicino ancora. Una chiazza di sangue sul ginocchio destro: sul blu della tuta non si nota da lontano. La gamba destra fa uno strano angolo: non molto evidente, ma innaturale. Spezzata al ginocchio. Anche sul ginocchio sinistro c’è del sangue. Il braccio destro pende giù dalla branda, come dormisse. La mano è rossa di sangue. Il sangue colato forma una piccola pozza per terra. L’odore di bruciato è più forte, adesso. – Gli hanno fracassato le ginocchia e i gomiti. Lo hanno torturato con la fiamma ossidrica. Devono averlo fatto prima di finirlo. Poi gli hanno infilato quel foglio in bocca. Sembra un disegno. Andrea si curva a guardare il volantino. Si intuisce, tra le pieghe, il disegno. Non c’è dubbio: uno dei volantini del Togliatti. I mosconi ronzano impazziti. L’aria è irrespirabile. Usciamo. Uno dei giovani carabinieri allunga a Sandro del rhum militare, di quello in bustine di plastica. Andrea tira fuori la sua fiaschetta. Mi appoggio con le mani al muretto, piegato in due: un groppo vorrebbe salirmi dallo stomaco. Il sapore acido mi riempie la bocca. Non riesco a vomitare. Accetto la fiaschetta da Andrea, butto giù una sorsata, respiro. Va meglio. Ci guardiamo in faccia. Tanta ferocia non l’avevo mai incontrata. Andrea è più abituato: una volta ha dovuto cercare resti umani di un doppiogiochista della camorra in una mangiatoia per verri. Ha gli occhi socchiusi: sta cercando di ricostruire il film del massacro, montando gli elementi in una personale pellicola. – Lo hanno torturato. Cercavano qualcosa. O qualcuno. Il Cioccolata deve aver tenuto duro. Loro sono andati fino in fondo. Poi lo hanno finito. Oppure lo hanno ucciso perché hanno capito che non avrebbe parlato. C’è un vento sottile. Polvere vola negli occhi. Sandro indica sul tetto. C’è uno straccio nero attaccato all’insegna che si agita, scosso dal vento. Ieri non c’era, Andrea, sono sicuro, dice Sandro. Sembra una bandiera. Una bandiera nera. Mi volto a cercare Andrea. Prima di vederlo sento la sua voce. Una voce lontana, fredda. Una voce che viene da un altro tempo. Sul monte sventola bandiera nera: è morto un partigiano per la sua terra. – Cosa dici? – sussurro. – Una vecchia canzone dei partigiani dell’Appennino. Quella bandiera sventola in segno di lutto. È l’ultimo saluto a un compagno caduto. – Ultimo saluto? Di chi? – Di qualcuno che è passato dopo di loro, e prima di noi. Probabilmente l’autore della telefonata. Ci ha avvertito perché il suo amico non diventasse cibo per cani randagi. – E perché non è rimasto ad aspettarci? – Perché non può. Perché lo stiamo cercando. E non solo noi, è chiaro. Non aggiunge altro. Non serve. Bologna, via Corticella, ore 18.15. Semaforo strategico. Due file di macchine, obbligo di svolta, matematico che una pulita a ogni rosso ci scappa. Il più è stato conquistare la posizione. Essere qui all’alba prima degli altri, litigare, alzare le mani, finché non si arriva al dunque. A quel punto io l’amico che mostra il coltello ce l’ho, quegli altri no, fine della storia. Questo semaforo batte bandiera kosovara. Oggi via Corticella, domani il Kosovo, dopodomani l’Albania o la Serbia: politica del carciofo in acqua saponata e spazzolone. L’importante è non essere troppo triste o essere pietoso. La faccia giusta, sorriso che non si sa mai, se non dice subito no tu parti con lo spazzolone, dieci secondi di sapone sul vetro ed è fatta, solo un bastardo ti nega qualche moneta. Alla fine della giornata, moneta dopo moneta, guadagno più di Enver che è rimasto in Albania e produce tomaie da scarpa per un industriale di Puglia. Roba grossa, dice lui, industria seria, il primo produttore di tomaie d’Europa! Sì, però la paga non è né grossa né europea, coglione d’un cugino coglione. E dopo dieci ore a tagliare la gomma come ti ritrovi? Qui almeno dopo una giornata di lavoro c’è il bar, il cinema, magari anche una donna. Magari. Magari anche no, ma prima o poi i soldi aumenteranno. Così almeno dice Jakup. Jakup, l’amico col coltello. Quello lì, appoggiato al palazzo. Quello che sta lì a guardarmi, invece di lavare i vetri anche lui. Perché non lava i vetri? Perché lavoro io per lui: non è mica gratis, il suo coltello. Mica siamo cugini, io e Jakup. Guardalo lì, coglione d’un albanese. Perché Klodian è così coglione da essere più albanese che kosovaro. Attraversare l’Adriatico in canotto per venire qui a lavare i vetri. Qui, con tutto il denaro che c’è! Klodian, amico mio, basta chinarsi e raccoglierlo da terra, il denaro, in Italia: niente. Lava i vetri, lui. Ha un posto di lavoro, Klodian: il posto fisso, come dicono in Italia. Qui con la polverina e le donne ti fai tanti soldi, Klodian: ma lui niente. Ci vogliono soldi per cominciare, dice lui. Li troviamo i soldi per cominciare, dico io. Per venire in Italia i soldi li hai trovati, no? Era mica tuo padre quello del canotto, no? Partito da Valona gratis, forse? Ma lui niente. Non ho un’altra casa da vendermi, dice lui. Lavo vetri, pago te per il coltello, metto da parte, a me basta, dice lui: non faccio mica la fame. Metti da parte per cosa?, dico io. Per comprare permesso di soggiorno, dice lui: c’è l’imprenditore italiano che vende, tu paghi e lui dichiara che lavori per lui. Poi lavori sei mesi gratis per lui, e tutto è a posto. E una volta a posto cosa fai? Vado in fabbrica come Enver, ma guadagno meglio di Enver. Coglione d’un mezzo kosovaro. Guardalo come si sporge per lavare bene quel vetro, Klodian, cazzo fai, mica ti dànno le referenze se lo lavi bene, mica tornano apposta per farselo lavare solo da te. Una vita a lavare vetri vendere cerotti tagliare tomaie saldare circuiti elettrici: meglio restare in Albania, allora. Meglio arruolarsi e aspettare la guerra, allora. Si fanno soldi, con la guerra. No, dice Jakup, io non voglio finire così. Non mi abbasso a pulire le scarpe degli italiani, dice Jakup sputando per terra: mi abbasso solo per raccogliere il denaro che c’è. Basta cominciare. Per cominciare ci vuole piccolo capitale, no? Come nel libro che dovevamo leggere a scuola: capitale, investimento, produzione, circolazione, riproduzione, circolazione allargata, diceva così il maestro. Jakup non studiava, ma non vuol dire che non capiva. Ci vuole un piccolo capitale iniziale. Klodian ha le palle troppo molli per cominciare: Jakup farà da solo. Una di queste sere, al paese. Una coppia di vecchietti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il piccolo capitale crescerà in fretta, dice Jakup toccando il coltello nella tasca dei calzoni con la mano. Vicino a lui la gente passa, si scansa di un passo e pensa: guardalo lì che parla in chissà quale lingua da solo. Già ubriaco a quest’ora. – Metto la sirena e passo sulla preferenziale, Andrea? – dice Sandro imbottigliato nel traffico. – No, – dice Andrea, – non è che non si passi. Tanto dopo il semaforo tiriamo dritti. – È che ci stanno gli albanesi a pulire il vetro, al semaforo. – Lasciali stare. Non è serata per perseguire l’accattonaggio, Sandro. Giallo, rosso. Sandro si ferma. Klodian arriva con lo spazzolone, Sandro fa cenno di no, Klodian fa finta di non capire e comincia a spandere schiuma bianca. Rotazione dello spazzolone: la schiuma viene spostata ai margini del parabrezza, poi Klodian la fa scivolare lungo i bordi. Una strisciata dopo l’altra ricompare la sua faccia. Si impegna sul serio, questo qui. Quell’altro, invece, ha una faccia che non mi piace, pensa Andrea. Non perde un movimento, ma non muove un muscolo. Sandro prende qualche moneta dal posacenere e la passa all’albanese. L’albanese allarga il sorriso con studiata spontaneità, ringrazia e mette via senza contare. – Parti piano, Sandro, – dice Andrea. Sandro esegue obbediente. Andrea guarda la scena nel retrovisore. Il lavavetri ritorna sul marciapiede, dice qualcosa all’altro. L’altro non gli risponde. Lo guarda con disprezzo. Andrea, mentalmente, annota. – Dove hai la Vespa? – mi fa Andrea. Quartiere Bolognina, ore 19. Invio: da telefono fisso a telefono cellulare. – Sei tu, Lara? – Ehi, che sorpresa! Non ci contavo proprio. Stai bene? Vuoi che venga a trovarti? – Magari… Non è come sembrava. Il morto è un altro. – Tutto bene allora? – Non proprio. Anche se non lo conoscevo, non è una bella scena quella che ho visto. Comunque adesso sono a casa. C’è sempre quel concerto? Dall’altro capo della comunicazione, il sorriso di Lara si allarga fino al cellulare. – Yes, baby. Passo da te tra un paio d’ore, prendiamo le tue ruote e andiamo. – Sì, va bene. Ti aspetto. – Ah, bello: mi raccomando… – Cosa? – Vestiti carino, che non ho voglia di sfigurare. – Carino come? – Carino. Adatto all’ambient, cocco. Non è un raduno di bykers, ma neanche il campionato regionale di tressette. Avrai qualcosa di meno triste di quello che avevi oggi, no? – Mah, non so… lo smoking è ancora dalla stiratrice, chissà se faccio in tempo a ritirarlo. – Fottiti, stronzetto. Com’è che si chiamava quel lavoro della Pitagora? Ci andammo tutti a vedere la bellissima, da Lucia Mondella a Mao Tse-tung nello spazio di un sorriso, sintetizzò Cristiano ricordandola dieci anni addietro mentre spezzava i cuori di mezza Italia. Ma soprattutto, perché mi viene in mente adesso? Vai a sapere come funziona la mia testa, mi ripeto mentre pigio il play del lettore senza far caso a quale Cd c’è dentro. Comincio a scartabellare tra maglie e camicie, mentre i falsetti in crescendo di Robert Plant mi accarezzano contropelo la nuca e la chitarra di Jimmy Page aggiunge piccole dosi di carta vetrata, senza esagerare. Docili e gentili, i vecchi Zeppelin: che sia una canzone, un concerto, la carriera stessa di Plant, lo schema è sempre lo stesso, un crescendo lento che parte dal blues per arrivare alla domanda fondamentale dell’esistenza: there’s anybody who remembers a laughter? Intanto continuo a ravanare nell’armadio, metti mai che ci sia una maglietta già stirata, così potrei lasciare che la scelta sia dettata da un criterio certo, figurarsi, una maglietta stirata d’estate, poi queste non andranno di sicuro bene, vediamo se la vecchia combinazione braghe-giubbotto in jeans può funzionare, no che non va, Paola Pitagora dall’anta a specchio fa capolino, scuote la testa con aria convinta e si mette a ridere, mentre la verità mi appare folgorante a lettere d’oro sullo specchio: Sta per arrivare la rivoluzione e non ho niente da mettermi, si chiamava così lo spettacolo. Sono le otto di sera, ho la testa nel pallone per l’eccesso di emozioni, e soprattutto sono sommerso da almeno due fondamentali incertezze: non ho la minima idea di come ci si veste per essere carini a un concerto di rap italiano, e non ho la minima idea di cosa abbia in testa Lara. Non resta che aggrapparsi alle poche certezze, che vado a enumerare come segue: primo, ho la certezza che Lara sappia perfettamente come andrà la serata. Tanto vale lasciar fare a lei, qualunque cosa voglia dire quello che ho appena pensato; secondo, ho ancora la vecchia maglietta dei Led Zeppelin, e dal momento che farò comunque la figura del giurassico, tanto vale affidarsi al Jurassic Rock e fare la fatica di stirarla. Il più è trovare il ferro, ma se il phon è nella dispensa in cucina, il ferro di certo non sarà lontano dal bagno. Rocca Messapica (Taranto), ore 20.30. Wallala! Wallaleialala! Lieblichster Albe! Lachst du nicht auch? Sul piatto: Das Rheingold. Scena prima. Alberico sbeffeggiato dalle figlie del Reno. Il chiacchiericcio delle donne. I flutti del Reno. L’oro: l’eredità del mondo. La poltrona al centro della sala. Punto di convergenza: i suoni emessi dalle casse dell’impianto stereo. Le mani si muovono a tempo, ora posate sui braccioli, ora leggere nell’aria. Il pullover estivo sulla camicia. Il foulard di seta al collo: ancora presto per le maglie a collo alto. Dalla spalliera sporge la testa. I capelli bianchi ondeggiano al seguito dell’ira di Alberico. Erzwäng’ ich nicht Liebe, doch listig erzwäng’ ich mir Lust? Calma dissimulata. Indizio d’inquietudine: il cellulare sul tavolino, accanto al fax. Scheda telefonica appena cambiata: non clonabile, assicurano. Nel cestello del ghiaccio, Riesling. Ne versa un bicchiere, agita il calice afferrato dallo stelo, beve. La tensione sale. Alberico sta per rubare l’oro e maledire l’amore. L’oro gli darà il potere per colmare l’assenza di amore. Maledette le figlie del Reno. Il furto dell’oro mette in moto la catena degli eventi. All’altro capo della corda, il Götterdämmerung. Gli dèi ardono nel loro castello. Inizia l’età dell’uomo. Distruzione, creazione: la catena del fato. L’eterno ritorno. Il cellulare vibra sul tavolino: sembra che balli sui flutti del Reno. Eccoli. Finalmente. Denn hör’ es die Flut: so verfluch’ ich die Liebe! 2. Hope for Happiness Strada per Budrio (Bologna), discoteca Pagoda, ore 22. – Sicura? – Fidati. Io non faccio la fila in posti come questi, – dice Lara. Non sono poi così sicuro di volere entrare là dentro: sino a un minuto fa era appoggiata a me mentre guidavo, adesso dovrei gettarmi in un carnaio di salopette slacciate, braghe larghissime, felpe e cappucci. Il conflitto che sembra dividere i piedi dei presenti in fazioni avverse mi lascia indifferente – cazzo, lo sai che la Nike sfrutta i bambini, sbraita il partito antivirgola, fiero della superiore eticità di scarpe Reebok o Adidas fabbricate negli stessi capannoni pakistani o filippini dalle stesse mani di bambini o di affamati; ma a noi servono braccia, non esseri umani, dicono gli egualitari padroni dei capannoni, intenti a chiedersi in quale nuovo Paese (Malesia? Guatemala?) spostare la produzione nei prossimi mesi. In un mondo di eguali, chiunque abbia due braccia può produrre scarpe: cosa c’entrano i diritti umani, a questo punto? – Dài, non incantarti di nuovo, – e mi afferra per la mano strattonandomi dentro questo piccolo fazzoletto di mondo nel quale mi trovo impigliato. Ciao, Cicci, dice a una specie di fratello cattivo di Schwarzenegger che da solo ostruisce l’ingresso, ciao, Lara cinguetta l’orango, lui è con te? Certo, Cicci, nuova fiamma? No, Cicci, è il mio paparino, non vedi? Mi scusi, signore, non avevo capito, cinguetta verso di me Cicci mentre mi appone un timbro sul dorso della mano. Dentro è meno peggio del previsto, spazi larghi, belle luci – sempre piaciute le luci colorate – e soprattutto interessante banco del bar. Breve sguardo alla lista ampia e variegata – magari un po’ troppo Sudamerica, ma va bene lo stesso – e la strana sensazione che abbiano per errore aggiunto uno zero a tutti i prezzi. – Tranquillo, baby, – dice Lara, – ho il conto aperto: gli faccio da pierre per gli eventi importanti. – Cos’è che gli fai? – La pierre. Pubbliche relazioni. Quando c’è una festa gli porto della gente, sono brava in questo. In cambio ho credito illimitato. Poi non è che qui ci venga spesso, perciò stasera ne approfittiamo. Da cosa vuoi cominciare? – Margarita. Quindi è questo il tuo lavoro? – Due Margarita, Billi. No, è quasi un hobby quello della pierre. Vuoi che ti spieghi la mossa? La mossa è poi questa: il clou della serata è Neffa, l’ex Jeff Pellini dei Sangue misto che rapperà assieme alla sua posse il successo della scorsa estate, hai presente? No che non ho presente, roba che vale? Scherzerai, mi ride in faccia Lara, poi comincia a cantilenarmi una sequenza di parole buttate lì a caso... Vada come vada va da sé conto solo su di me e già so che già sai che... Chico fa quel che s’ha da fare quando amore non c’è... No, starai scherzando, questa roba in classifica? Lunga storia, baby. C’era una volta l’Isola nel Kantiere, saprai, certo che lo so cos’era, mai andato? No, mai andato, ma sapevo che c’era, ecco, io invece non perdevo mai un sabato sera al Ghetto Blaster. Poi sono arrivati i primi concerti, i contratti, i manager, il gran mondo della musica, meglio: piccoli omini che hanno pensato di diventare grandi facendo credere a piccoli omini che sarebbero diventati grandi. Lo vedi quello lì sul palco, quello allampanato? – Quello col cartellino del prezzo che pende dal berretto? – Proprio lui: Mc Moo-D. Be’, lui credeva di essere il prossimo Jovanotti. Poi c’erano i passaggi televisivi, gli articoli sui giornali, erano sempre le stesse persone ad avere in pugno stampa, televisione e festival locali. Nel giro di qualche anno sono passati dalle case occupate al salotto di Red Ronnie. Fa tristezza, perché agli inizi era una bella scena, c’era vita, rabbia, gioia. Stop al panico è ancora un bel pezzo, carico, sincero, anche per chi come me di politica non ne capisce niente. – Non so nulla di questo Stop al panico. – Un pezzo inciso da tutti i rapper di Bologna contro la paura che dilagava in città dopo i carabinieri morti al Pilastro. Era bello, come messaggio: poi era appena scoppiata la guerra, era proprio il momento giusto per lanciarlo. – Non politico, dici? Cosa c’è di più politico della paura provocata dalle stragi? Per essere dei ragazzini avevano capito sin troppo, Lara. E anche tu ne capisci più di quel che credi. – Dici davvero? – Dico. A cosa credi che siano servite le stragi di Stato? A governare distillando panico. Nei momenti di incertezza il panico è l’anima del consenso. – Stragi? Quali stragi? Dove? – Come dove? In Italia, Lara. Le stragi. Le bombe sui treni, nelle banche, nelle piazze. Le stragi. – Non so niente, amore mio. Quando è successo? (Amore mio?) – Un’altra volta, quando tu non c’eri o eri bambina, e probabilmente ti mettevano l’ovatta nelle orecchie per non farti sentire del lupo cattivo al telegiornale. In un’altra vita, forse. Dobbiamo fare una giornata di aggiornamento tu e io, mi sa: tu mi spieghi questo mondo in cui vivo per errore, e io ti spiego quello che non ti hanno scritto sulla scatola delle merendine di quando eri piccola. – Troppo lungo da fare stasera? – Troppo lungo. Meglio concentrarsi sulla prossima tequila. Mentre Lara richiama l’attenzione del barman cerco di farmi un’idea di quel che succede. La musica non è sempre male (ma ci metto poco a capire che viene da dischi che i ragazzotti si sono portati dietro), se ci fosse qualcuno che ha una seppur vaga idea di cosa vuol dire cantare le cose migliorerebbero. Una volta i politici andavano a lezione di canto per avere una voce più accattivante, oggi sembra che questi qui abbiamo imparato a cantare dai nostri politici. Pensiero pericoloso, mi dico. Una volta i politici si mettevano dei sassi in bocca per imparare a parlar meglio: oggi dei sassi cosa ne facciamo? Cosa ne dovremmo fare? – Allora? – Buono. Calibrato bene. – Il concerto? – No, il Margarita. Vuol sapere del concerto, Lara. Hai ragione, le dico, fa tristezza. Non è per il genere musicale, la musica che non mi piace non mi intristisce più di tanto. Neanche per lo sfondo di denaro che luccica dai logo, dal locale, dalle consumazioni. Persino questo balbettio sdentato non mi disturba più di tanto… Anche a lei non deve piacere granché questa roba sul palco, si vede che avrebbe voglia di slegare, ma proprio non le viene. Per lei è musica, solo musica. Per me no, non riesco a non sentire le parole, anche senza quell’ossessivo Ascoltate le parole ascoltate le parole! che risuona tra un pezzo e l’altro. Perché il problema è proprio questo: che io le parole le ascolto. Fotti il sistema spezza la catena! Non scendo a compromessi cerco soluzioni per la mia tribù! Non ti fidare dico non ti fidare! Non ti fidare ti dico non ti devi fidare! La rivoluzione in rima baciata che ritorna vent’anni dopo. Eravamo bravissimi a trovare una rima per ogni slogan: la sintesi perfetta del rapporto teoria-prassi in due endecasillabi. Veniva così facile che ci accontentavamo di gridarli a squarciagola, senza nemmeno chiederci come si fa a realizzare quella rima baciata. Perché il mondo non è in rima, diceva Cristiano. E Andrea annuiva. Loro due, ai cortei, non gridavano mai. Non hanno il problema della giustezza o meno di ciò che gridavamo, almeno. In fondo neanch’io: magari quei signori che creano famiglie felici nelle case di campagna, loro sì che hanno da spiegare i loro vent’anni nell’ottica della loro pubblicità dei buoni sentimenti. Io non ho la casa in campagna, e soprattutto non ho buoni sentimenti da dispensare: non amo gli spaghetti sino a quel punto. I loro buoni sentimenti colano giù in questa Terra nella quale non vivono come le strida dell’esercito dei morti, mormoro soprappensiero. – Morti? Gli zombi, quelli di Romero? Cosa dici? – L’esercito dei morti delle Highlands. Quel mio amico in galera mi ha detto una volta che «slogan» deriva da qualcosa come sluagh ghairm, il grido di guerra che lancia l’esercito dei morti che ritornano a combattersi nelle notti d’inverno. Le rocce delle Highlands sono rosse per il sangue degli sluagh. È una cosa macabra, scusami. Mi viene in mente ogni volta che vedo della gente riempirsi la bocca di parole e credere che basti questo per parlare bene. – Yes, baby: non è parlando che cambiano le cose… – Lo sai che hai ragione? – Certo che ho ragione: me lo hai detto tu due sere fa. – E tu non hai niente di meglio da fare che darmi retta? – Fottiti, stronzetto. Dài, andiamo sotto il palco. – Aspetta un momento… – Cosa c’è? – Un momento solo, vuoi? C’è… ti raggiungo subito, devo vedere una cosa. – Ma lo sai che sei strano? Va bene, hai due minuti per raggiungermi, se Mc Moo-D finisce Fotti il buio e non sei a contatto con me, giuro che te la faccio pagare. Mc Moo-D è quello che non stacca il cartellino del prezzo, se ricordo bene. Con quell’improbabile cappellino calato fin sugli occhi. Gli altri della posse gli fanno da coro. Capelli rasati, o corti, o scolpiti con fulmini o arabeschi. C’è uno stile, nella varietà. Li riconosci non solo dalle scarpe, ma anche dai capelli. Capisci che questi crani rasati non sono crani da naziskin, lo senti. Percepisci il loro essere innocui, in tutti i sensi. Loro. Quei due no. Hanno i capelli più o meno come gli altri, ma non sono come gli altri. Non muovono la testa al ritmo, ad esempio. Sono vestiti più o meno come gli altri, ma non sono i loro abiti consueti, si vede. E soprattutto, quelle non sono scarpe da basket, e nemmeno anfibi o Doctor Martens. È roba seria, costosa. Roba militare, ma fatta con gran cura. Mi è bastato vedere un taglio di capelli e un paio di scarpe per sentire uno strano brivido. E le loro facce mi convincono ancora meno: il loro modo di essere inespressivi, il loro guardare avanti senza guardare negli occhi nessuno. Neanche le belle ragazze. Se non li guardi negli occhi, loro non ti guardano negli occhi. E non si ricordano di te, quando gli chiederanno chi c’era. Poco ma sicuro, conoscono la regola. E chi conosce la regola non dovrebbe stare qui, a ballare. In un luogo esposto, dove una rissa può scoppiare da un momento all’altro. Dove la polizia può arrivare all’improvviso per un paio di spacciatori di fumo o di paste. A meno che siano venuti qui di proposito. E non per divertirsi. Lara è sotto il palco che parla con un ragazzo, riesco a vederla. Mc Moo-D continua a ripetere Fotti il buio fotti il buio. La posse continua a ripetere il buio-il buio-il buio. I due sono vicini a una porta. Uno dei due la apre, si infila, richiude. L’altro resta fuori. Cos’è quella porta? Non è il bagno. Non è un’uscita di sicurezza. I ragazzi del bar entrano ed escono da un’altra porta: non è neanche il magazzino. Troppo lontano dal palco, troppo scomodo: non sono i camerini. Potrebbe essere lo sgabuzzino delle pulizie. Potrebbe. Oppure no. Potrebbe essere un’altra cosa. La sala degli interruttori. L’impianto luci. Fotti il buio fotti il buio fotti il buio… Di colpo mi sembra di avere vent’anni, e non capisco perché. Corro zigzagando verso Lara, mentre la mia mano afferra al volo una bottiglietta di minerale. Lara! lara! laraa!!! Fotti il buio, fotti il buio. Il buio-il buio-il buio… Nel preciso istante in cui Lara si volta sorridendo al mio grido, è il buio a fottere la posse sul palco. Niente luci. Niente suono. Più niente. Panico. Urla. Crisi isterica dell’eroico Mc: lo si sente urlare come una gallina strozzata. La notte moltiplica il disorientamento. Voci su voci. Accendini. Fiammelle. Afferro Lara per la vita, la sollevo per farle scavalcare qualcuno che sotto di lei inciampa e cade, la tiro verso l’uscita di sicurezza, veloce ma con calma. Non vedo la scritta luminosa, ma a tentoni sento il muro. Sono sicuro che è più in là. Qualcosa mi attraversa la mente. Non si sono accontentati di spegnere le luci. Non è gente che scherza. Ho ancora la minerale in mano. Il boato arriva senza lampi. Al buio. È lo scompiglio. Una fuga di topi, tutti contro tutti. Sbattono, cadono, si rialzano, ricadono. Corrono, inciampano, urlano. Le gole cominciano a bruciare. C’è qualcosa nell’aria. Ecco a cosa mi serviva la bottiglietta d’acqua. Bagno il fazzoletto e lo metto sulla bocca di Lara. È paralizzata. – Mi senti, Lara? Tienilo sulla bocca e sul naso, hai capito? Sulla bocca e sul naso. Resta qui. Torno subito. Non la vedo, la intuisco appena. Immobile. Trema. Mi stringe il braccio con tutte e due le mani. Non riesco a svincolarmi. – Lasciami, Lara. Tieniti questo sulla bocca, non respirare! La stacco dal mio braccio, le metto il fazzoletto in una mano e gliela prema sulla bocca. Comincio a sentire il fumo in gola. Mi libero con uno strattone, arrivo all’uscita di sicurezza strisciando sul muro. C’è una catenella: chiusa. Porci. È con le maniglie a spinta. Le premo entrambe, spingo con forza, si apre uno spiraglio sottile. Basta questo. Il filo di luce mi aiuta. Due passi indietro, rincorsa, pedata con forza: tutta quella che ho. Una delle maniglie comincia a cedere. Di nuovo: due passi, rincorsa, calcio. Accanto a me un felpone, jeans enormi, capelli scolpiti. Mi guarda. Riesco a vederlo in faccia: non sembra stupido. – Fai come me! Come me, hai capito? Ha capito. Ed è il doppio di me. Io parto con la porta sinistra, lui con la destra. La catena tiene, la maniglia no. Le porte si aprono di schianto, entra luce, aria fresca, notte settembrina. Mi dà il cinque. Corro a prendere Lara. La gente esce di corsa, terrorizzata. Tengo Lara per la vita, contro la parete. Meglio lasciar uscire gli altri, ora che il fumo dirada. Il B-boy che mi ha aiutato usa il suo corpo per dividere i ragazzi che fuggono, li separa in due corsie, evita cadute, afferra chi inciampa. Proprio bravo, penso. Lara non è più paralizzata. Il suo corpo si affloscia. La afferro per non farla cadere. La prendo in braccio e la porto fuori. Il B-boy mi fa cenno: tutto ok. Non sarà un grattacielo in fiamme, ma i miei cinque minuti come Steve McQueen li ho avuti. Per la vita spericolata ne riparliamo più tardi. Ore 23.10. Invio: da telefono cellulare a telefono cellulare. Uno squillo. Uno solo. Il braccio scatta, al buio. Voce bassa. Non assonnata, non impastata: soltanto bassa. – Sì. – Andrea? – Ti ascolto. Dimmi tutto. – È successo un casino, Andrea. Forse una bomba. Vieni subito qui. Discoteca Pagoda, verso Budrio. Hai presente? – Sì. Hai chiamato il 113? – No… no, perché? Ho chiamato te. – Stai bene? – Io sì. Anche gli altri, direi. Nessun ferito, credo. – Arrivo. Andrea scivola dal letto senza accendere la luce, si veste al volo, afferra l’impermeabile ed esce. Silenziosamente. Fuoriuscendo dal lenzuolo, un braccio cerca invano la testa di Andrea nell’infossatura del cuscino. Una testa bionda sbuffa. Accende la luce. Rimette la cornetta del telefono fisso a posto. Scuote la testa. Rumore di auto partita sgommando. Si veste in silenzio. Si guarda allo specchio e vede una faccia contratta. Sguardo duro. Pelle tesa sugli zigomi. Denti serrati. Piccola ondata di rabbia sale piano. Stronzo. Capelli rassettati con due colpi di spazzola. Stronzo. Chiara esce sbattendo la porta. 4 settembre, strada per Budrio (Bologna). Discoteca Pagoda, ore 0.35. Come quei giorni di vent’anni fa, mi ripeto seduto per terra di fronte al B-boy della discoteca. Destroy, si chiama. Mette sicurezza. Lara ha la testa appoggiata sulle mie gambe. Continua a singhiozzare, squassata dai tremiti, pallida, sbavata di rimmel e mascara. Non dice niente, singhiozza soltanto. Mi tiene stretto. Come vent’anni fa. Il fumo dei lacrimogeni. I fazzoletti bagnati. Il mezzo limone in bocca. I sampietrini della piazza, tac tac tac. A colpi di martello sullo scalpello, uno dopo l’altro, tac tac tac. Una piccola piramide accanto a un’altra, e un’altra, tac tac tac. Arrivano compagni, chiedono, scoppiano a piangere. Poi il silenzio: non parla nessuno, nessuno chiede perché i sampietrini, perché le bottiglie. Lo sappiamo tutti, perché. Tac tac tac. Barbara lo ha sentito per radio, arriva in silenzio, non dice nulla. Cristiano è lì, col suo scalpello, tac tac tac. Due sole parole: dài qui. Cristiano capisce: questo lo posso fare io, tu servi altrove. È bravo, Cristiano, altrove. Torna dopo un quarto d’ora, Cristiano. Con un bidoncino di benzina. Comincia subito a riempire. Io vado da lui, in due facciamo presto. Andrea arriva tardi, gli scontri sono ormai dappertutto. Sempre stato contrario alle bottiglie, Andrea. Mai voluto lanciarne una, mai presa una in mano. Discussioni feroci tra lui e Cristiano, ma soprattutto con Barbara. Ci faremo impallinare come fagiani, dice Andrea. Ancora pochi mesi e finiremo appesi, mormora nei cortei. Barbara non lo sopporta quando fa così, a Barbara non piace che le si dia la linea. Neanche a me, del resto. Cristiano è diverso: senza organizzazione l’utopia è l’Isola-che-non-c’è, dice. Domani assalteremo il quartier generale della rivoluzione, dice: prima però dobbiamo farla, la rivoluzione. Cristiano è nei servizi d’ordine, quando serve: non si tira indietro, quando serve. Anche Francesco non si è tirato indietro: adesso è lì, sotto una rosa di fori nel muro, sotto il portico. I cerchi di gesso arriveranno tra poco, assieme al guanto di paraffina: peccato non avesse niente in mano, deve aver pensato qualcuno. Peccato non averci pensato, a mettergli in mano una pistola, deve aver pensato qualcun altro. Qualcuno avrà preso appunti: prossimamente le cose saranno fatte meglio. Partiamo senza dirci niente, i sassi nel tascapane, i bastoni tenuti stretti insieme. C’è fumo, le gole bruciano. Anche la città deve bruciare oggi. Abbiamo le bottiglie pronte. Cristiano è un passo avanti, com’è naturale: e com’è naturale, alcuni parlano, altri tacciono. Si prendono decisioni. Andrea avanza, ci guarda negli occhi, toglie la bottiglia di mano a Cristiano, dà fuoco allo straccio e parte. La prima macchina comincia a bruciare. Qualcuno, nei collettivi, ci guarda sorpreso: non ci facevano capaci, per loro siamo solo dei goliardi, col nostro western, i nostri volantini demenziali, la nostra musica. Non siamo considerati seri, non fino a oggi. Domani alcuni dei capetti avranno tempo e modo di far il salto della quaglia, la jacquerie cederà il passo al sorrisetto ammiccante. Oggi tiriamo la sera, tutto quello che abbiamo lanciato non basta a scaricare la rabbia. Dal Cantunzein esce di tutto: salami, prosciutti, grana. Una nonnina si avvia verso casa con una forma intera di reggiano stagionato ventiquattro mesi, facendola rotolare. Il Cantunzein non c’è più: niente tartufi per il sindaco di Bologna, stasera. Il suo ristorante stasera si chiama Carbunzein. Escono fuori anche le bottiglie di vino. Andrea e Cristiano intervengono, con queste non si fanno bocce, questa è roba buona, l’inverno che viene sarà freddo, anche se è solo marzo: ci scalderemo col vino dei signori, quest’anno. Hai cambiato idea, Andrea? No, dice Andrea guardando la sabbia che ha soppiantato l’acciottolato, non ho cambiato idea. E allora, dice Barbara? Allora niente, dice Andrea. Stasera hai ragione tu, Barbara, dice Andrea: si fa quel che si deve fare, a culo la coerenza, non è il momento della coerenza, dice Andrea. È il momento del fuoco, dice Cristiano. Della rabbia, dico io. Della rabbia, dice Barbara, e della gioia. Della gioia. Andiamo a casa sua ad ascoltare gli Area, Tim Buckley, i Soft Machine. Hope for happiness. Hope for happiness happiness happiness. A fare l’amore, anche: una delle prime volte, sulla voce straziata di Robert Wyatt. I cant’t forsake you, or forsqueak you Alife my larder Alife my larder. Andrea resta tutta la notte davanti alla finestra, in silenzio, accendendo ogni sigaretta con la brace residua della precedente. Non so, non ricordo se il sapore del fumo di questa sera è lo stesso di quello di ieri. So che gli occhi mi bruciano ancora, so che ho ancora una ragazza che si stringe a me. I’m not your larder, I’m your dear little dolly. But when plops get too helly I’ll fill up your belly. I’m not your larder, I’m Alife your guarder. – I tuoi gusti musicali sono scesi tanto in basso? – Ciao, Andrea. – Allora, cosa ci fai qui? – Quella roba del ragazzino sparito. Sono venuto a dare un’occhiata all’ambiente, tanto per fotografare meglio la situazione. Magari avevo voglia di passare una serata in allegria: può capitare di averne voglia, che dici? – Dico che ti sei trovato nel mezzo di un gran casino. Raccontami come ti è andata, poi ti dico quel che ho saputo finora. Non avevo dubbi: l’unico momento che smuove la sua espressione è quando cerco di descrivere le facce dei due. Andrea sa bene cosa significano certi segni di Caino scritti con inchiostro simpatico sulla fronte. Prende nota sui suoi post-it mentali. – Allora, ecco cosa sono riuscito a sapere. Hanno fatto saltare le luci, prodotto il botto e tirato dentro un fumogeno da stadio. Sei stato bravo, ma non avrai la medaglia da eroe per caso: dall’altro lato della sala avevano aperto loro stessi le uscite di sicurezza, tagliato le catenelle con le tronchesi. La roba che hanno usato sembra professionale. Sin troppo. – Sin troppo? – Già. Non doveva morire nessuno, hanno calcolato ogni cosa. Tutto questo spreco di lavoro per spaventare quattro rapper bolognesi? – No, hai ragione. Però è il secondo attentato conto la Digger’s Voice nel giro di pochi giorni: prima la sede, adesso la loro serata. Annuisce in silenzio. Ha qualcosa da dire, ma vuole pensarci sopra. – Vannini? Ispettore Vannini? – Oh, salve, De Petris. Di servizio? – Io sì. E tu? Ti avevano cercato a casa, ma avevi il telefono occupato. Come mai qui? – Per caso. Ho fatto un paio di domande in giro, ti interessa? – No, no, me ne occupo io, le faccio io le domande, se non ti dispiace. Non facciamo inutili sovrapposizioni, d’accordo? Vai pure a dormire. – Certo, certo. Inutile sprecare delle intelligenze, per un caso come questo. Basti tu, De Petris. Cerca solo di non fare le solite stronzate, eh? – Guarda che non ho niente da imparare da te, Andrea. – Lo so, lo so. Nemo ad impossibilia tenetur, De Petris. – Cosa stai dicendo? – Ti mando un fax domani con la traduzione, Sergio. Andiamo via, – dice Andrea. Poi si ferma. Guarda Lara, un po’ più calma, ancora tremante. – La tua amica ha freddo, – mi fa passandomi il suo impermeabile. Glielo metto sulle spalle. Lara guarda Andrea stupita. – Avrai freddo tu, adesso. – Allora andiamo in un posto dove possiamo scaldarci. Avete una macchina? – No, siamo sulla mia Vespa. Dove ci vediamo? – In una serata come questa? Da Pierino, no? Certo. Da Pierino. 3. Pierini e tacchini Bologna, bar Pierino, ore 1.30. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso. Mittente e destinatario: Andrea Vannini. Non suona occupato. Non risponde. Pazienza. Andrea tira il fiato, espira, spegne il cellulare. – Tre pierini belli carichi, – dice Andrea quando lo raggiungiamo. Lara si è ripresa, non è pallida e non trema più. Però la paura non le è passata. Per una della sua età le bombe non sono un’abitudine, non ha la scorza dura che abbiamo noialtri. Anche noi nel Sessantanove ci eravamo spaventati. Eravamo poco più che bambini, con la mente ingenua e la pelle tenera e rosea. Poi, crescendo, ci è venuta la crosta sullo stomaco. – Cos’è un pierino? – chiede Lara dubbiosa dopo aver annusato il liquido nel bicchiere. Sembra Pinocchio che saggia la medicina con la punta del naso. – Cosa c’è qui dentro? – Non lo so, e del resto non lo sa nessuno. Tu manda giù, che ti fa bene. A proposito, io sono Andrea. Andrea Vannini. – Piacere, bello. Io sono Lara. Lara-e-basta, se ti accontenti. Grazie mille per l’impermeabile. Ti spiace se lo tengo su ancora un po’? Mi sento meglio con… Ehi, ma cos’è questa roba? – Buono? – Scalda, se è quello che vuoi dire. Anche troppo. Dici che se lo aggiungo alla miscela il Vespino va più forte? Il pierino non fallisce mai. Solo questa bibita dagli ingredienti ignoti può rianimare qualcuno così in fretta. Ne ordiniamo subito un altro, mentre la bettola si riempie di nuovi reietti della notte in cerca di una sbronza facile. Lara è rapita dall’aria unica di questo pertugio alcolico che pare sul punto di crollare da un momento all’altro. Dicono che sarà abbattuto per allargare la strada, o il parcheggio, vai a sapere. Il giorno che accadrà, un pezzo di Storia sarà cancellato da Bologna. Ma Bologna di questa Storia ormai se ne frega, a giudicare dai locali che pullulano in zona universitaria. E di certo non ci trovi gli studenti universitari dell’Alma Mater Studiorum Secularia Nona qui dentro. Non oggi, almeno: anni fa, a colpi di pierini sono state fatte memorabili festa di laurea. – Tu sei quello che non si faceva vivo da cinque anni? – chiede Lara con gli occhi di bragia. – Sì. Quello, più o meno. – E come mai eri al Pagoda? – Perché mi avete chiamato. – Dopo cinque anni che non vi vedevate? – Ci eravamo rivisti stamattina. Comunque sì, dopo cinque anni: non sono tanti, tra amici. Tu non hai amici? – Uno solo, – risponde Lara, – di quelli veri uno solo. – Chi era quel simpaticone del tuo collega? – Sergio De Petris. Un coglione. Uno che nel tempo libero legge libri sui templari e il Sacro Graal. – Si occuperà lui dell’attentato? – Occuparsene è una parola grossa. Ma a quanto pare, sì. Ufficialmente. – Ufficialmente? – Non mi piace. E quando qualcosa non mi piace… E non è l’unica cosa che non mi piace, in questi giorni. Anzi, – dice buttando giù il secondo pierino, – ce ne sono sin troppe. La morte di Tassone, un’esecuzione fuori tempo massimo. La scomparsa del Togliatti, che continua a seminare volantini dappertutto. L’assassinio del Cioccolata. Un attentato compiuto con troppa maestria che replica un attentato ridicolo. E se li mettiamo insieme, c’è dentro anche il figlio di un noto e stimato cittadino che scompare in modo piuttosto sospetto. Sembra che all’improvviso Bologna si sia stancata di mancare dalla cronaca nera nazionale. – Dimentichi le croate, – si inserisce Lara decisa. Andrea la guarda perplesso, Lara insiste. – Se proprio devi fare la conta degli eventi bizzarri, come la mettiamo col fatto che una dozzina di prostitute croate, tutte e solo croate, prendono il treno e tornano a casa dall’oggi al domani? – Ha ragione la tua amica, – dice Andrea. Hai proprio ragione. Non ha senso, quindi tanto vale mettere anche questo nella lista. Sei tu l’amica delle croate, vero? Sì, fa Lara con la testa. Dimmi della tua amica, chiede Andrea. Posso avere un secondo affare?, chiede Lara. Si chiama pierino, dico io, pierino come il vecchio Pierino, il primo proprietario di questa bettola, aggiungo mentre indico il bicchiere vuoto all’erede di Pierino. Che non perde tempo a riempire. – Grazie, tesoro, – dice Lara schioccandomi un bacino sulla guancia. Beve un sorso… (Mai visto nessuno centellinare un pierino, ma c’è una prima volta per tutto…) …strizza gli occhi per far uscire le lacrime provocate dall’intruglio e risponde ad Andrea. – Aveva paura, tanta paura. Non è uno scherzo, mi ha detto di andar via da Bologna. Voleva dirmi qualcosa, ma aveva paura di farlo. C’è qualcosa nell’aria che non mi piace, – aggiunge abbassando la voce. – Qualcosa… qualcosa come le pietre rosse, mi dice, come le urla dei morti. – Quali morti? – chiede Andrea. – Quelli scozzesi. I morti delle Highlands. Andrea mi guarda. Lo sa da dove viene la storia dei morti delle Highlands. Annuisce. Certo che qui con noi, adesso, ci vorrebbe proprio Cristiano a bere il suo pierino. – Eeehi, ciaao, Andrea. Ma guarda chi si vede, Guglielmo, dopo tanto tempo. Non è che avresti un soldino per un vecchio amico? Raffaele. Naturale che sia qui. E come sempre, per lui sono Guglielmo: ci ho rinunciato da tempo a dirgli che non mi chiamo così. Certo che ho un soldino. Un biglietto da dieci, per lui. Ordina da bere. – Ehi, ehi, Raffaele, non avevi smesso? – Certo che ho smesso, – mi fa porgendo il bicchiere. – Chinotto e fetta di limone: tutto a posto. Un chinotto ogni due ore fa passare il malumore, – mi dice sorridendo. – Di cosa parlate con quest’aria seria? E questa bella ragazza chi è? La tua morosa? Sempre bravo a capire in quale piaga infilare il dito, Raffaele. E adesso cosa gli rispondo? E, per inciso, chi è questa bella ragazza? Una ragazza, o la mia ragazza? In ogni caso una ragazza che sa quel che vuole, perché non perde tempo a rispondere. – Dipende da lui, se sono la sua morosa. Comunque vada sono Lara. Grazie per la bella ragazza. – Allora, – dice serafico il vecchio barbone, – di cosa parlavate? – Mettevo in fila un po’ di dati, – risponde Andrea. – Li metto tutti in fila e cerco di capirci qualcosa. – Guarda che poi fai la fine del tacchino, – dice Raffaele masticando la fetta di limone. – Cos’è questa storia del tacchino? – Il tacchino. Quello a cui portavano da mangiare ogni giorno. Lui conta i giorni, uno dopo l’altro, e dopo averli valutati uno per uno, un bel giorno conclude che la regola è che ogni giorno portano da mangiare al tacchino. Purtroppo per lui quel bel giorno è la vigilia di Natale. Lo guardiamo come fosse un alieno. Lara scoppia a ridere. – E questa dove l’hai imparata? – chiede Andrea. – Al Dams, – risponde serio Raffaele. – Lo sai che adesso studio, no? Non puoi ricavare una regola da una serie di dati singolari: non funziona. – Lo dici tu che non funziona. Nel mio mestiere funziona, eccome. – Però questa storia l’ho sentita anch’io, – interviene Lara, – al corso su Popper. Perché invece per te funziona? – Perché io non cerco né la regola generale, né il senso della vita. Io non vado alla ricerca della spiegazione ultima sul perché del male nel mondo quando ho davanti un cadavere. Una volta trovato il colpevole, mi fermo lì con le deduzioni e vado a farmi un bicchiere di whisky, così sono doppiamente soddisfatto. Alla faccia di Popper e dei suoi ragionamenti a pera. Usciamo. Raffaele e Lara si scambiano qualche battuta. A Lara piace Raffaele, si sforza di ascoltarlo mentre le palpebre le si fanno pesanti. Guardo il muro di fronte, con i sedili in pietra. – Eravamo seduti lì, Andrea. Ti ricordi? – Ci sedevamo sempre lì, quando c’era il sole. – Anche la volta che ci hai detto che entravi in polizia. – No: la volta che vi ho detto che ero già entrato in polizia. E già che c’ero, che avevo fatto sparire un po’ di carte su tutti voi. – E quelle su di te? – Erano già state fatte sparire. – Sparire come? Da chi? – Sparire. – E allora? – E allora niente. Ti accontenti se ti dico che è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare? – Detto dal cantante dei Platters arrestato per lenocinio forse. Da Antonello Venditti già meno. Detto da te proprio no, non è da te. – Pazienta ancora un poco, allora. Sto per finire, ormai vado per i quarantacinque, ci arrivo, prendo la pensione da mestiere usurante, anzi, da mestierante usurato, e vado via. E pensa che se volessi potrei trovarmi un secondo mestiere nelle agenzie di sorveglianza, sai… non siamo più ai tempi di Pasolini, non puzziamo più di rancio e fureria… va’ là, va’ là, porta mò a dormire la tua ragazza, che non si regge in piedi e ha avuto una brutta serata. Ti chiamo domani. Raffaele sta andando via. Saluta Andrea, prende una carezza da Lara, saluta anche me. – Ciao, Guglielmo. Grazie per i soldi. – Non mi chiamo Guglielmo, Raffaele. – Lo so che non ti chiami Guglielmo. Grazie lo stesso. – Ti porto a casa, Lara? – No, per favore. Non farmi dormire da sola stasera. Vengo da te, vuoi? 4. La veste dei fantasmi del passato Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 7.30. Cammina a piccoli passi frettolosi, la Rachele, con la sua sportina al braccio. Il litro di latte, il pane, le verdure per la minestra allungate dal fruttivendolo di fiducia che sta iniziando a scaricare la merce del mercato nelle sue cassette, la mezza caciotta di Castel San Pietro, due uova, il giornale appena comprato. Oggi anche la bottiglia di rosso della cantina sociale, un giorno sì e uno no. E il toscano. Eh sì, don Ricrea ha qualche piccola debolezza, qualche peccatuccio da confessare. Gli piace il bicchiere di vino dopo pranzo, e a sera gli piace il sigaro. Se li fa contare dalla sua vecchia collaboratrice, giusto per non esagerare. Probabile che la voglia che gli rimane serva a espiare il piacere della gola. Però la carne non la mangia, non ha cuore di sapere che una creatura di Dio è stata uccisa per lui. Al massimo accetta il brodo, ma solo di ossa, senza pezzi di carne: tanto i tagliolini della Rachele son buoni anche così. Ci sa fare con le braccia, la Rachele: un’autentica sdaura, di quelle capaci di tirare trenta uova di tortellini e lasagne in un pomeriggio per la trattoria del paese. Vive così, al mattino a mezzo servizio dal vecchio parroco, al pomeriggio a cottimo in trattoria, poi la sera con le sue vecchie amiche alla partita a carte nel centro sociale, due volte a settimana in balera con i vecchi filarini, sabato e domenica al lavoro alla trattoria che due cuoche da sole non bastano, che c’è più clientela, di quella che ci piace di guardare in cucina e vedere le tre sdaure tirare la sfoglia all’asse di legno, affettare il salame al tagliere, rimestare il ragù: la Rachele, l’Elvira e la Giuseppa. Ora che è anziana, la Rachele si scopre più serena, la vita scorre ordinata, tutte le cose a posto: si fa meno fatica così che alla cucitrice per dieci ore, la figliola s’è maritata e i soldi per i regali ai nipotini per fortuna ci sono, c’è finalmente il tempo per qualche svago. Poi don Ricrea è tanto una brava persona, pensa la Rachele, sempre sorridente: quando c’era quel prete in tivù con i suoi ragazzi, come si chiamava pure quel prete che cantava chi trova un amico trova un tesoro, tutti dicevano che sembrava lui, che gli avevano rubato la parte. Mica come quell’altro che è venuto dopo, quello che si innamorava e scappava via con la morosa, bell’esempio per i ragazzi, pensa la Rachele, ecco perché vengon su così. Ci vogliono esempi, ecco quel che ci vuole: come quel prete in tivù che diceva sempre che chi trova un amico trova un tesoro, che simpatico che era. Perché assomigliava tanto a padre Ricrea, conclude la Rachele girando la grossa chiave nella porta della canonica. A ve’ ve’, don Ricrea è mattiniero più del solito, senti l’odore del caffè, dice la Rachele. Non solo l’odore del caffè: anche un’altra voce. Non è mica uno che parla da solo ad alta voce, don Ricrea: c’ha un ospite, un ospite mattiniero. La Rachele socchiude appena la porta, giusto quel filo per buttare un’occhiata: curiosa come una biscia, la Rachele. E quella coperta lì, sul divanetto? Allora non è arrivato di mattina, quel signore. – Vieni, vieni pure, Rachele, che sennò ti si storce il collo a cercare di spiare da dietro la porta, – dice una voce familiare. – Ma no che non spiavo, – ribatte risentita la Rachele, – è solo che mi sono preoccupata, chissà chi può essere a quest’ora, che lei non c’ha neanche una serratura buona, quante volte glielo devo dire che prima o poi qualche malintenzionato le fa un brutto scherzo. – Va’ là, Rachele, chi vuoi che venga a rubare qui, in questa canonica spelacchiata? Te l’ho già detto, la migliore protezione è l’onestà. E la mano del Signore, ovvio. Un parroco con l’allarme cosa farebbe pensare al buon Dio lassù? Che non ci si fida più di lui? Che la pila dell’allarme è più sicura della sua misericordia? – Sì, sì, dica pur così, che ne ho già viste di brutte facce forestiere in paese. Vorrà dire che uno di questi giorni la Rachele si deve trovare un altro lavoro, perché quando le avranno dato una bastonata in testa la dovranno portare al Sant’Orsola, e io l’infermiera non la so fare. E comunque questo signore che non saluta chi sarebbe? – Sarebbe un vecchio amico di tanti anni fa, Rachele. Augusto. Un amico di quando si era giovani e c’era la guerra. È venuto ieri sera a trovarmi, ma ti pare che lo lasciavo andar via in piena notte? Tanto alle funzioni ci pensa il nuovo parroco, io ormai sono un pensionato, e i pensionati stanno bene con i pensionati, no? – Scusi, signor Augusto, certe volte sono proprio una vecchia bisbetica, vuole mai, con tutte le preoccupazioni… Ma cosa fa, si ferma qualche giorno? Che se c’è qualcuno qui di sera sono più sicura, sa? Solo che bisognerà fare della spesa, vuole che torni più tardi? – No, no, per oggi non è il caso. Ci faremo bastare quel che c’è, l’uovo che ho ancora in frigo servirà a fare una bella frittata con le due che ti avevo commissionato. Per domani porterai qualcosa in più, magari farai sentire al mio amico i tuoi famosi tagliolini, oh, guarda che vengono da fuori a mangiarli alla trattoria del paese, son famosi i tagliolini della Rachele… Augusto. – Devo portare anche una bella fettina di carne per l’amico, don Ricrea? Che magari fa bene pure a lei un po’ di carne, guardi che faccia pallida che ha. – No, no, l’amico Augusto farà a meno della carne. Un po’ di penitenza non guasterà, abbiamo qualcosa da farci perdonare, vero? Basterà dell’altro latte. E una bottiglia di vino in più, magari. Sorride, don Ricrea. Sorride anche la Rachele, il vecchio amico del parroco sembra proprio un brav’uomo, due belle braccia, due mani belle callose, si vede che ha lavorato tutta la vita. Dev’essere una brava persona, questo Augusto. Sorride anche il vecchio amico del parroco. Poco, a dire il vero. Non ha molto di cui essere contento, il vecchio Augusto. Bologna, rione Santa Rita, ore 7.30. Invio: da cabina telefonica a telefono fisso. Drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… Telefono di merda… Drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… Testa sotto il cuscino. Occhi impastati, bocca da schifo. Cazzo suoni, stronzo. Cazzo vuoi. Drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… Ancora nessuna risposta. Il telefono tace. Vaffanculo. Drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… drìììn… Ancora. Magari è importante. Dio, che male alla testa. – Chi cazzo è? Zeta: – Impara a parlare con rispetto quando parli con i grandi! – Cazzo, scusa, non… Zeta: – Vedi di star zitto e accendi il fax tra mezz’ora. – Sì, sì, certo, scusa ancora, io… Zeta: – Lercio? – Sì? Zeta: – Un’altra volta ti mando due amici a spezzarti le ossa una per una, tanto per insegnarti l’educazione. Anche se dopo dell’educazione non saprai più che fartene. Ci siamo capiti? – Scusa ancora, non volevo… Telefono riattaccato. L’uomo grassottello esce dalla cabina, calmo, ben vestito nel suo spigato di mezza stagione. Con le forbici taglia a metà la scheda, ne butta le parti in due diversi cassonetti, entra in un bar a prendere un caffè. Non è affidabile quel tossico di merda, pensa sorseggiando con lentezza. Bisognerà tenerne conto. L’uomo grassottello ordina un cornetto alla crema. Andava a piedi nudi per la strada mi vide, come un’ombra mi seguì… – ’A dotto’, ma a lei je piace cantata da Bajoni? Nun era mejo prima, dotto’? La notte lei dormiva sul mio petto sentivo il suo respiro su di me e poi mi dava calci dentro al letto… Due tazze di caffè per svegliarsi. Radio accesa. Anima mia, torna a casa tua ti aspetterò dovessi odiare queste mura… Ci vorrebbe uno schizzetto di coca per tirarsi su. Niente da fare, tocca arrangiarsi, uno speedball artigianale è meglio che niente. Mettere sul fuoco la moka e preparare due tazze di caffè forte: l’ultimo dito del precedente caffè nell’acqua per il prossimo. Intanto che il caffè viene su, due zollette di zucchero come colazione. Avrei soltanto voglia di sapere che fine ha fatto e chi sta con lei… Preparare l’attrezzatura: cucchiaio pulito, siringa monouso, accendino. Meglio candela: l’accendino dopo un po’ brucia le dita. Laccio emostatico, acqua distillata. Cazzo, queste fialette! Lercio Giani si succhia il pollice tagliato dalla rottura della fialetta. Succhia la goccia di sangue. Bustina di stagnola: l’ultimo quartino. Lametta da barba nuova: tic tic tic. Due mezzi quartini: uno adesso, l’altro stasera. Prudente, Guido Giani: dopo l’epatite non si scherza più. Non ha mica voglia di fare la fine dei ragazzini dello sballo del sabato sera: l’aidiesse non lo frega, il Giani. Anima mia, nella stanza tua c’è ancora il letto come l’hai lasciato tu… Polvere sciolta nell’acqua. Era meglio la vecchia brown al limone, ma non ne gira più. Questa comunque non è un granché. Devo cercare un giro nuovo, pensa Giani mentre tira su dal cucchiaio con la siringa. Goccia fuori dell’ago per evitare bolle d’aria: un embolo non è il modo migliore per cominciare la giornata. Cazzo, il fax. Acceso. Speriamo bene, ha detto tra mezz’ora, mica è passata. Laccio emostatico all’avambraccio. La vena è bene in vista. Ingresso. Attimo di luce. Calma. Pace. Caffè doppio buttato giù tutto d’un fiato. Controbotta. Non è come con la coca, ma se non ce l’hai ti arrangi. Magari con questo colpo, un grammetto o due… A te che sei il mio presente a te la mia mente… Squillo. Il fax è in azione. Gnic… gnic… gnic… gnic… gnic… Buone notizie. Occhiata al residuo mezzo quartino: quasi quasi… E come uccelli leggeri fuggon tutti i miei pensieri… – Je l’ho mannato er faxe, dotto’. Certo che Battisti è sempre er mejo, no, dotto’? Si je piace puro a lei che ha studiato... – Sì, certo. Sempre er mejo. L’uomo grassottello esce dal bar pensoso. Canticchia. La veste dei fantasmi del passato cadendo lascia il quadro immacolato… Bologna, quartiere Bolognina, ore 4.30. La voce parla, parla, parla. Sghignazza. Ha un cappuccio senza aperture, ma io so chi è. So che sta per uccidermi. Lo lascio parlare, aspetto che rida e lancio un fumogeno da stadio nella stanza. I personaggi dei quadri di Bacon appesi alle pareti della galleria d’arte (ma non ero a casa mia?) fuggono dalle cornici, lasciando le tele vuote. Mi tuffo dietro la poltrona, impugno una bottiglia di tequila e la punto contro i due uomini mascherati (ma non era uno solo?) Loro ridono, io sparo. Il tappo della bottiglia si trasforma in una rosa di pallini, mentre io bevo a canna servendomi delle fette di lime che sono comparse sul tavolino. I due loschi figuri sono diventati due sagome di cartone nere, traforate dai pallini. La luce filtra attraverso i fori. Lara indossa una tuta da imbianchino, e con un grande rasoio sta incidendo le tele bianche una per una: è arte, baby, devi aggiornarti, mi dice. Suonano alla porta: Andrea e Cristiano entrano senza aspettare che io vada ad aprire. C’è un problema, dicono reggendo un enorme manifesto elettorale del 1948: hanno sparato a Togliatti. Quello vero, aggiunge Cristiano. E perché è un problema?, chiedo io. Perché sì, dice un rapper sulla soglia della porta, con un cappellino con su una R. Ma tu non eri al concerto?, gli chiedo. Sì che ero al concerto, sono il Colonnello R, il Dj: sono quello che si mette in tasca i soldi del concerto, e tu non hai pagato il biglietto. E credo che della morte di Togliatti ne sai qualcosa, aggiunge allungando un’enorme pistola verso di me, ne devi sapere per forza qualcosa, perché se tu non ne sai niente io non ci guadagno niente, e io non lavoro mai gratis, hai capito? Mai, mai, mai… Mi sveglio col cuore in gola. Il divano è troppo stretto, stavo per rotolare giù. Vado in cucina a bere un sorso d’acqua, mi sento disorientato. Cosa ci faccio sul divano di casa? Certo che sono sul divano, mi rispondo, dove altro dovrei stare? Non ce l’ho la camera dagli ospiti, non ho neanche la cucina abitabile, se è per questo. Nel letto c’è Lara. Apro piano la porta: non ha chiuso a chiave. Dorme come un angelo. Mi ha chiesto una camicia da usare come pigiama, mi ha dato una lunga carezza sussurrando un grazie, mio eroe e si è avvolta nel lenzuolo senza neanche verificare la pulizia del letto. Mi fa uno strano effetto vederla dentro la mia camicia bianca a righe, con le gambe scoperte e il lenzuolo arruffato. Sembra una strega. Non so cosa voglia dire questa frase, ma è l’unica cosa che mi viene in mente. Sciolgo il nodo del lenzuolo e la ricopro. Esco dalla stanza lasciando la porta socchiusa e torno sul divano, rincuorato dalla sua calma: beata lei che riesce a dormire. Evito la tentazione di un ulteriore cicchetto, mi basta il cerchio alla testa che ho: domani non sarà una mattinata leggera. Mi riaddormento. Lara apre gli occhi. Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 8.30. Invio: da telefono fisso a telefono fisso. All’altro capo: Diego Dall’Olmo. – Capito? – Certo, Andrea. In effetti è una cosa strana. Tu sei convinto? – Convinto no, ma non mi torna. Diciamo che se invece di sparare un titolo sulla faida tra i rapper mi aiuti a seminare qualche dubbio, forse si muoverà qualcosa. – E in cambio? – In cambio ti richiamo più tardi, dopo aver fatto due chiacchiere col proprietario del locale. Se c’entra qualcosa, tu sarai il primo a saperlo. – Promesso. E quell’altra storia? – Tassone? – Allora c’è un collegamento! Fregato come un pivello! A volte Andrea dimentica che Diego è un bravo giornalista, ha il fiuto del cronista, non è uno che scarica comunicati. Quando c’è una notizia lui è in strada, non alla sede Ansa. – Dài, Andrea, ammettilo. Quel morto del pomeriggio ha a che fare con la morte di Tassone, vero? – Sì, è vero. Ma non lo puoi scrivere, e questo per davvero. Le due notizie non devono essere collegate, non per ora. Intesi? – Intesi. Ci vediamo più tardi? Magari da Sauro? – Magari. Magari alla mezza. Magari con quella malvasia di ieri. Andrea mette giù. A quest’ora Chiara dovrebbe essere già in servizio. Inutile prendersi in giro: Andrea ha qualcosa da farsi perdonare. Diego Dall’Olmo mette giù. Si accende un mezzo toscano, tanto per evitare il rischio che qualcuno metta il naso nel suo ufficio. Niente gente tra le palle quando pensa: è la regola del caporedattore. Il fumo del toscano è un deterrente adeguato alla necessità del momento. Anche perché in genere durante il toscano Diego trova miracolosamente il filo dell’articolo da scrivere, e sono tutti più contenti se la pagina locale parte bene. Infatti dopo pochi minuti Diego è già a scrivere una bozza. Niente di definitivo, la stesura finale aspetterà gli sviluppi dell’incontro di mezzogiorno: però intanto meglio buttare giù la cronaca sulla base del resoconto telefonico di Andrea. Finito. Buona così, pensa Diego. Salva e chiude. Prende una carpetta giallina, da sotto una pila. Il modo migliore per tenere qualcosa celato agli occhi degli estranei è metterlo in evidenza sulla scrivania, insegna Poe. Certo però che se all’evidenza si aggiunge una discreta pila di carte, e sull’evidenza si scrive un generico «Ambiente e costume», si evita anche il rischio costituito dal ficcanaso colto, quello che Poe lo ha letto anche lui. «Ambiente e costume». All’interno: alcune fotocopie. Vecchi articoli di fine anni Quaranta. Il processo Tassone. A dire il vero, non c’è stato alcun processo. Il procedimento Tassone, diciamo allora. Il giovane Tassone prosciolto dall’accusa di aver partecipato alle gesta della famigerata Banda Tartarotti. Torture, esecuzioni sommarie: il peggio dei bravi ragazzi di Salò. Tartarotti fu fucilato, alcuni pesci piccoli riuscirono a farla franca. Egidio Tassone viene prosciolto per intercorsa amnistia: abbastanza normale, in buona parte l’hanno scampata così. A parte il ceffone il 26 luglio del ’44, non lo hanno toccato: una fortuna sfacciata, niente da dire. Interessante la difesa legale: Arconovaldo Bonaccorsi, uno dei peggiori macellai della prima ora, l’assassino di Anteo Zamboni, responsabile di centinaia di morti a Majorca, durante la Guerra civile, con lo pseudonimo di conte Rossi. Il suo studio legale, aperto a Bologna nel 1950, patrocina il generale Otto Wagener, criminale di guerra. Gratuitamente, come anche Tassone: e sì che di soldi, tornato a Bologna, ne aveva. L’avessero ucciso in quegli anni, non si sarebbe stupito nessuno. Ma oggi? A parte quella vecchia stronza che gira per la stazione a chiedere soldi e a insultare chi non gliene dà, che da un po’ di tempo si mette le spille fasciste al collo e va in giro a bestemmiare contro i comunisti che lei ha visto all’opera nel 1945 (giusto quel che ci vuole davanti alla sala d’attesa della stazione di Bologna), a parte quella vecchia balorda e qualche giornalista con ambizioni letterarie e pochi spunti per la trama, a chi interessa ancora? E che c’entra il giro di Lercio Giani e della sua agenzia di merda? Già… quell’agenzia di stampa con più di un figuro dei vecchi tempi all’interno… comprese un paio di persone che hanno fatto un po’ di dentro-e-fuori dalle inchieste sulle stragi… Diego decide che è ora di far cambiare aria all’ufficio. Andiamo a fare quattro chiacchiere con qualche frequentatore del giro delle posse, si dice, tanto per far arrivare la mezza. Lo chiamano mentre esce dalla redazione. – Scusa, Diego, non ti ho disturbato perché eri nel tuo sancta sanctorum, ma ho da dirti una cosa che non ti farà piacere. Ti ha cercato Lercio. Dice se ti interessa una primizia, scusa, ha detto proprio così. Dice se lo richiami. Merda. Quartiere Bolognina, ore 7.30. Forse sto ancora sognando: Veronica Lake mi è entrata in casa e compie gesti strani in cucina. No, non sto più dormendo. Però è lì, cosa diavolo fa? Non è Veronica Lake. I capelli sembravano biondi per la luce. E non ha indosso un pigiama a righe, ma la mia camicia. Che è comunque a righe. Ed è abbottonata solo negli ultimi bottoni, giusto per tenerla ferma mentre i seni fanno capolino. – Cosa fai, Lara? – Ciao… volevo prepararti un caffè, ma non capisco come si monta questo affare. Perché questa qui è una caffettiera, vero? – Aspetta, faccio io. L’acqua qui, non nel pezzo col beccuccio. È una napoletana, ti faccio vedere… guarda nel cassetto, dev’esserci una striscia di carta. – Questa? E a cosa ti serve? Ehi, cosa fai, uno spino appena svegliato? – No, quale spino: il coppino di carta. ’O coppitiell’ ’e carta, come dicono a Napoli. Sembra niente, ma anche lui ha la sua funzione, diceva quello che mi ha insegnato a fare il caffè. Aspetta e vedrai. Ti spiace accendere la radio, lì sulla mensola? Se sente ancora freddo nella notte se ha sciolto i suoi capelli oppure no… Anima mia, torna a casa tua ti aspetterò dovessi… – Ma tu la ballavi questa, ai tuoi tempi? – Fammi il favore, Lara, cambia stazione. Trova qualcosa di decente, vedi tu. Quella radio che ascoltavamo a casa Albergani va benissimo. Smanetta un po’ per trovare la frequenza. Non è molto precisa la sintonizzazione della tua radio, bello, no, non lo è, perché non prendi una radio digitale? Perché… non lo so perché, forse perché non ci ho mai pensato, tanto in questi cinquanta metri quadrati basta quella lì. – Trovato prima Radio Kappa, fa lo stesso? Ascolta, prima che mi passi di mente: ieri, quando sono andata sotto il palco, ho parlato con uno della posse. Be’, che c’è da sorridere? – Niente, niente. Mi fa uno strano effetto sentire parlare di posse. – Perché? – La posse è una cosa da Far West, da cow-boy. A te piacciono i western? – Per niente. C’è troppo testosterone in quei film. – Ah, sì, il testosterone: l’origine di tutti i mali. Ma voi donne cosa avete invece al posto del testosterone? – Fottiti, stronzetto. (Ecco, mi mancava). – Ti dicevo, parlo con quel mio amico che mi dice qualcosa che può interessarti, credo. C’è della ruggine tra alcuni cantanti delle posse bolognesi e la Digger’s Voice. Roba di diritti d’autore, sai: i pezzi sono registrati alla Siae quasi tutti a nome di un paio di persone della Digger’s, perché hanno la registrazione alla Siae che quasi tutti i cantanti non hanno. E adesso stanno litigando di brutto perché non c’è molta trasparenza nella gestione di questi soldi. Insomma, la molotov contro la Digger’s era nell’aria, una specie di avviso, nell’ambient lo sapevano tutti. E secondo il mio amico, Speacker dd se l’è fatta sotto e ha tagliato la corda perché non era capace di starci dentro. Chiaro? Annuisco. Questo spiega tutto. Tutto fino a ieri sera, almeno. – Quando è pronto il tuo caffè? Be’, cosa fai? Ausculti la macchinetta? – Sento se ci sono gocce che cadono giù: se non ne senti più vuol dire che è sceso tutto. Mi passi due tazzine? – Giusto due pulite, le altre sono nel lavello. – Siamo in due, no? Abbiamo ospiti? – Solo una, bello. Sentiamo il tuo famoso caffè. Mmm, buono. Devo venire più spesso a prenderlo qui da te. – Puoi venire quando vuoi, – le dico cullato dalla musica lenta che viene dalla radio. Lara posa la tazzina. Mi guarda negli occhi senza parlare. – Posso chiederti perché tutte le volte che mi guardi c’è qualcosa di strano nei tuoi occhi? – Segreto, bimbo. Mi passa le dita tra i capelli. – Ho un quasi impercettibile strabismo, tutto qui. Strabismo di Venere. Continua a guardarmi. – Cos’è questa musica? – Alma Megretta: dub partenopeo. Bello, no? – Cosa c’è? – le chiedo. – Tante cose. Nessuna facile da raccontare. – Ancora sotto l’effetto della serata? – Anche. Non so tu, ma io in genere non vado a ballare a Sarajevo. Poi… ascolta, facciamo così: ti vengo a prendere stasera, ti porto a cena fuori, poi vediamo che succede. Magari tu mi offri l’aperitivo, ti va? Mi va. Mi va anche che non vada via. Mi fa ancora paura vedere una donna andar via. Succedeva ieri, succede ora. – Se vuoi puoi restare qui. Non ti mando via… Mi guarda di nuovo negli occhi. Sorride. Triste. – Meglio di no. Devo ricompormi, ho bisogno di passare da casa. Oggi pome lavoro, ti chiamo dopo le sei, passo da te. D’accordo per l’aperitivo? D’accordo, certo. Purché mantenga le promesse. La musica continua a vagare lenta nella stanza. Sembra che il cantante sia napoletano. Sembra proprio: fanno musica così, a Napoli? Musica dolce e lenta come un caffè napoletano? Musica lenta e triste come la paura di rimanere solo, di vederla andare e non più tornare? 5. Emisferi cerebrali Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 10.30. – Andrea, posso? – dice Chiara affacciandosi alla porta. – Certo che puoi. Oggi non chiede: che c’è? Chiara è stata sin troppo gentile stamattina, quando c’era d’aspettarsi una sfuriata che non è arrivata. Non preoccuparti, non è successo niente, ha detto. Se mi avvertivi era meglio: tutto qui. Così adesso ad Andrea resta un residuo di timore che la libecciata sia stata solo rimandata: dalla porta entra solo una poliziotta bionda, niente foglie secche, carta straccia, rami spezzati, rifiuti fuoriusciti da cassonetti scoperchiati, remi spezzati; nient’altro che una faccia serena. Vai a capire le donne, pensa Andrea. Però è preoccupata. – Andrea, guarda che ti cerca il questore. È scuro in volto: non è che hai fatto qualcosa? È quello che Andrea si sta chiedendo: no, proprio no. Coscienza a posto, direi, pensa Andrea, a parte la camicia stropicciata e lisciata alla meno peggio per sembrare stirata. Tanto vale andare a vedere. – Grazie per l’avvertimento. Passo dopo a dirti. – Va bene. Sono giù ai passaporti. Nel corridoio, davanti all’ufficio del questore, c’è De Petris. Brutto segno: sorride con aria di sfida. Andrea bussa, ottiene il permesso ed entra. De Petris si fa vedere sulla soglia. – Venga, Vannini, venga pure. Lei resti fuori, De Petris, la chiamo io. Allora, Vannini, vediamo di non perdere tempo inutilmente: lei ieri sera era alla discoteca Pagoda, vero? Questo rapporto informale lo ha scritto lei, vero? – Vero. Ho sbagliato? – No, no. Magari se lo faceva avere all’incaricato delle indagini, il collega De Petris… il famoso lavoro di squadra, Vannini, ha presente? Quello che proprio non le riesce di far entrare nella sua testa dura, Vannini… – Non capisco, signor questore. Se non sbaglio ho fatto qualcosa in più, mi sono reso utile: non dovevo? – Guardi, Vannini, a parte questa rivalità tra lei e De Petris… tra lei e il resto della questura, dovrei dire, ma lasciamo perdere… vengo al dunque. Lei stamattina ha telefonato al proprietario della discoteca Pagoda per chiedere un incontro, vero? – Vero, – risponde Andrea continuando a non capire. Però un piccolo sospetto comincia a tarlargli il cervello: vuoi vedere che… – Vuoi vedere che, come già in passato, l’ispettore Vannini si mette a giocare da solo? Col bel risultato che il signor Molina, il proprietario del locale, viene convocato una seconda volta in questura da De Petris e non capisce più quanti interrogatori deve subire: vogliamo dare l’immagine di una squadra in cui ogni giocatore nasconde la palla agli altri, Vannini? – Va bene, mi scusi, vorrà dire che… – No, Vannini, non vorrà dire proprio un bel niente. L’indagine è affidata a De Petris, lei mi farà il favore di fargliela condurre senza interferenze. Molina è appena uscito dalla questura, e non mi sembra il caso di disturbarlo ulteriormente, non crede? Fino a prova contraria è la vittima, non l’imputato, fin qui ci siamo, non è vero, Vannini? No, non è vero, ma Andrea Vannini annuisce, sconcertato. Continua a non capire il vero motivo di questa piazzata. Tanto più che il questore ha dato voce a De Petris, che entra sorridente come avesse risolto il gioco dei quindici: il che, considerato che ci prova da quando aveva otto anni, prima o poi per mero calcolo probabilistico dovrà succedere. – Ecco, giusto per chiarire una volta per tutte come stanno le cose. L’indagine sulla discoteca è sua, De Petris, e l’ispettore Vannini è qui per confermare che non ci saranno altre sovrapposizioni. Vero, Vannini? Andrea annuisce. Mastica amaro: un’umiliazione del genere proprio non se la merita, Andrea. Anche perché l’idiozia di De Petris non è una sua illazione: è risaputa. – Se non ha altro da dirmi, signor questore, io toglierei il disturbo. Torno alle mie indagini, sempre che non voglia assegnarne un’altra al collega De Petris, tanto per tenere impegnati entrambi i suoi emisferi cerebrali. A proposito, De Petris, lo sai che ne hai due di emisferi cerebrali, vero? – Cos’ha detto, Vannini? Vannini! Torni subito qui! – urla inutilmente il questore. Quanto a De Petris, egli guarda – non il questore urlante o l’ispettore uscente: guarda, e questo basti – con aria ebete, come non avesse capito alcunché della discussione. In effetti, a parte la soddisfazione di vedere umiliato l’insopportabile ispettore Vannini, non ci ha capito un cappero: cioè nulla di maggiore delle dimensioni del suo encefalo, commenterebbe Andrea Vannini se fosse in vena di commenti. Enoteca Calzolari, via Petroni, ore 12.30. – Non è che stai esagerando, Andrea? – Esagerando con i sospetti? – Se la chiamassimo paranoia? Andrea infila d’istinto la mano in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette. Ma l’ispettore Vannini ha smesso di fumare, anche se il coordinamento mano-mente su questo punto è ancora un po’ difettoso. Per essere esatti, è la mano che continua a pensare da sola. Come alternativa ci sarebbe la fiaschetta del whisky, ma la malvasia di Sauro arriva prima. – Chiamala come ti pare, Diego. D’accordo: paranoia. Però la mia paranoia funziona sempre. Anche se ultimamente tendo a non ascoltare i suoi segnali: magari mi sto incivilendo. A Diego la paranoia di Andrea è sempre parsa un oggetto di studio. Anche lui ha fiuto per le piccolezze: è così che è riuscito a diventare redattore capo di un giornale non proprio incline a condividere le sue passioni politiche e, diciamola tutta, le sue inquietudini sentimentali, peraltro mai nascoste. Resta il fatto che Diego Dall’Olmo è un bravo – diciamo pure ottimo – giornalista: sente le notizie a fiuto, le annusa sottovento. Quello che proprio non capisce è perché questa relazione olfattiva con l’esistente debba incupirsi e incartarsi in un carattere impossibile. – Come farà a sopportarti quella povera ragazza che ha la sventura di condividere la tua esistenza da qualche tempo, chiede Diego? – Non lo so come fa, – risponde Andrea. Sarà che è una cosa che dura da troppo poco tempo, un paio di mesi… Certe volte me lo chiedo anch’io, comunque. Io, al suo posto… – Tu al suo posto un bel niente, sbirro: tu sei maschio, lei femmina. Poi tu ti basti da solo. – E da quando sei diventato un esperto di maschile e femminile, di grazia? – Da quando sono gay: non lo sai che il miglior amico di una donna è un gay? Questa è proprio vecchia, pensa Andrea sorridendo. Vecchia come quella degli animali preferiti da una donna… – Lasciamo perdere, Diego. E comunque anche lei non dev’essere normale, vista la pazienza che ha: sarà che certi scarti di natura sono fatti per intendersi. Come la storia delle due mezze mele che si cercano, – aggiunge come parlasse fra sé e sé. – Passi tutta la vita a cercare la tua metà mancante, poi magari la trovi e scopri che c’è dentro il baco. – Ehilà, che allegria! – Sai, noi paranoici… Verità come queste, non resta che farle suggellare a Sauro. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 12.45. Dev’essercene ancora una bottiglia, quella del ’95. Era una partita di quattro, tre di sicuro sono andate, l’ultima dev’essere ancora qui in cantina. Infatti c’è. Yeden 1995: chardonnay bianco delle alture del Golan. C’è guerra, c’è sangue tutto intorno, ma su questi colli le viti sono miracolosamente immuni dalla peste. E la vigna rende grazie alla terra con un bianco straordinario, intenso, profumatissimo. Non è il profumo a renderlo pregiato: è l’aroma cui rimanda che dovrebbero avere tutte le vigne del mondo se il mondo non fosse un banco di macelleria, ma una vigna fiorita. Niente guerre, niente sangue, niente brutture: soltanto uve da vino. E terra buona per fare l’amore: solo il bene, senza il male. Cioè senza uomini, pensa Lara estraendo la bottiglia e pulendola con un panno per toglier via la polvere. Questa viene buona per stasera: è la migliore, finalmente l’occasione giusta per aprirla. Poi vada come vada: intanto la si beve. A piccoli sorsi, degustandola, facendo sì che il secondo sorso scenda nella bocca odorosa di frutti e aromi mediterranei, con quel gusto un po’ rétro che sa di vecchi vitigni fenici, di calma. Il terzo sorso scenderà sul secondo aggiungendo profumi, tonalità, sfumature. Soprattutto quelle: le sfumature. Una dopo l’altra, come le pennellate di un pittore, sfumature trasparenti faranno spessore, tocchi impalpabili diventeranno sapore, l’impercettibile prenderà sostanza. Gli altri sorsi scenderanno cantando in coro come note a cascata. L’importante è che non resti memoria del ricordo che riempiva la bocca prima della degustazione. Un’occasione unica: qualcosa da inaugurare, qualcosa da dimenticare. L’orologio dice che è quasi ora. Lara si aggiusta la lampo della mini di pelle, infila gli stivaletti a punta con tacco da otto e si contempla nello specchio. Sempre a posto, quella lì. Mai un problema, lì dentro: è qui fuori, di fronte allo specchio, che le cose sono diverse. Com’era quella degli animali preferiti dalle donne? La Jaguar in garage, il visone sulla pelle… Lara odia le pellicce di visone: è iscritta alla Lega antivivisezione. Difende gli animali, Lara. Quelli piccoli. Si sfila gli stivaletti, li mette nello zainetto Mandarina Duck, li scambia con un paio di pratici mocassini Tod’s in pelle morbida ed esce. Enoteca Calzolari, via Petroni, ore 12.50. Insomma, spiega Andrea, è come quell’intervista a Falcone, hai presente? Quella del concorso per un posto da magistrato? Quella dei tre concorrenti?, fa Diego. Proprio quella: uno è preparatissimo, un altro è raccomandatissimo, il terzo è un imbecille e vince il concorso. Sì, certo, fa Diego: questa è la mafia, concludeva Falcone. Ma che c’entra? – C’entra. Perché il sospetto che ho da stamattina non riguarda De Petris in sé, ma il fatto che gli sia stata affidata un’indagine dalla quale io devo stare lontano. Ma dimmi tu che problema posso creare se faccio qualcosa di buono e gratis: sai quante volte De Petris ha risolto un caso così? O meglio, sai quanti casi ha risolto da solo? Zero via zero, t’al dig mè. – Quindi? – Quindi niente. Non lo so. Sono due giorni che non fanno che accadere cose incongrue. Non riesco a concentrarmi su nulla in particolare, continuo a rimbalzare da un fatto all’altro. – Stai pensando a una specie di grande complotto? Un Grande vecchio che semina confusione? – insinua sardonico Diego. – No, no, sono serio. Piuttosto, come se ogni singolo elemento avesse i bordi fluttuanti che vanno a frammischiarsi con i bordi fluttuanti di un altro elemento, e così via. Il quadro d’insieme è sfalsato perché non si vedono i margini dei singoli elementi. Da un lato questa storia dei ragazzini, degli attentati: cose da cinnazzi mescolate con una mano d’altri tempi, professionismo serio, da quel che pare. Dall’altra i vecchietti che si mettono a sparare e a farsi sparare, come si credessero ancora giovani, come ci fosse ancora Liberty Valance da uccidere… – Sin qui ci arrivo. Ma io vedo due storie distinte, non mi sembra che si incrocino. O no? – Non lo so… Hai ragione, in mezzo non c’è niente. Salvo che a Bologna di solito non succede niente, e tutta questa attività sembra un attacco di frenesia un po’ troppo generalizzato, – dice Andrea pagando. – Salvo un’altra cosa, – aggiunge. – Salvo che in ciascuna di queste linee c’è una metà di una vecchia coppia di amici che non si parlavano da cinque anni: guarda un po’ le coincidenze… – Le due mezze mele? – Già. Le due mezze mele col baco dentro. Escono. Movimenti di studenti tra pizze al taglio e piadine al volo, tossici circospetti, punkabestia e cani col collare, vecchiette ingrugnite che surfano tra un passante e l’altro non fidandosi di nessuno che abbia meno di quarant’anni. – Ascolta, Andrea: c’è qualcosa che devo chiederti. Si guardano. Diego ha la faccia seria, quella che usa solo quando è il caso. Andrea capisce: sinora Diego ha studiato la situazione. Sta fiutando l’aria. – Cos’è questa storia dei volantini di Garibaldi? Inutile negare, pensa Andrea: se chiede vuol dire che lo sa già. – Come l’hai saputo? – La solita voce della fogna. È tutto vero? Andrea annuisce. – Brutta storia. – Non mi piace per niente. E non parlarmi di paranoia. Pensi che la fonte sia sempre l’Abc-Time? – Non riesco a pensare ad altro. Il soggetto in questione è un rifiuto dell’ambiente, conosce mille vie ma il mestiere non lo ha mai praticato. E che io sappia, l’unica agenzia con cui è in contatto fa riferimento all’Abc-Time. – Che non ha una sede locale a Bologna… – Neanche in regione, se è per questo. Pausa di riflessione. – Fammici pensare su, Diego, – dice Andrea. – Sentiamoci più tardi. – Ti chiamo io, – dice Diego. – Sento io il signor Molina, non si stupirà di essere chiamato dalla stampa, no? – Grazie, Diego. Non credo ci sia da cavarne fuori niente, ma grazie lo stesso. A dopo, allora? – Per forza. Se non devo titolare sulla faida tra primedonne del rap al ragù, bisognerà che ci inventiamo qualcosa. Bologna, zona universitaria, ore 14.30. Un pomeriggio da sfaccendato: è quello che mi ci vuole, di tanto in tanto. Staccare la spina, resettare il cervello e andare a zonzo. Vagare in centro a caso, tra la parte vecchia e quella commerciale, tra il vecchio ghetto e la zona di rappresentanza. Chioschetto pieno di studenti, col cartellone di bigliettini – affitto vendo dispense cerco stanza auto usata moto d’occasione libri nuovi a metà prezzo per l’esame di – già pieno. Frappè: anche quello ci vuole. Bello perdersi in queste strade pacificate, tra un negozietto e un po’ troppi punti di ristoro: comincia a diventare trendy perfino il dedalo di portichetti nei quali un tempo ci si infilava per sfuggire alle cariche della polizia. Via dell’Inferno. In genere da queste parti mi perdo, non la imparo mai. Proviamo laggiù: no, ci ho preso. Un’occhiata ai dischi da Nannucci? Com’era quel gruppo che doveva regalarmi Lara? Ricordarselo… sarà per un’altra volta. Ma no, entro lo stesso, magari ci trovo il vecchio Aramis: che infatti c’è. Franco Turra, alias Aramis Passepartout: una casa discografica in un solo cervello. Che ora fa il commesso, mentre Carboni continua a lamentarsi di Luca che si buca ancora. Una casa discografica grande quanto una stanza, con uno studio professionale in venti metri quadri e creatività a dir poco esagerata, decine di cassette autoprodotte per ottenere qualche concerto dei Bohemien Flambé, passaggi radiofonici su Città del Capo, poche recensioni incoraggianti. Nient’altro. A proposito, lo sa Silvia che Luca si buca ancora? Quattro chiacchiere, una pacca sulla spalla, saluti. Hai saputo dei Technogod? No, tu neanche sai chi sono, fa lo stesso, tanto adesso non sono, erano: si sono sciolti. E intanto Silvia non sa che Luca si buca ancora, sono dieci anni che non lo sa, eccheccazzo: diteglielo, mandatele una lettera anonima! Fine della rimpatriata. Punto su via Indipendenza. Accidenti, mi sono dimenticato di chiedergli del gruppo. Era qualcosa tipo Trolls, qualcosa tipo folletti. Ci vorrebbe un caffè. Su via Indipendenza trovo un Illy, merita. Eccolo lì. Caffè, cremino e un’acqua minerale non gasata. Ancora in giro. Scarpe a destra e a sinistra, sin troppe. Le mie vanno benissimo, non mi fermo a guardare le vetrine: del resto hanno ancora i fondi di magazzino estivi. Nugolo di ragazzine. Bisbigli, occhiate, guardano qua e là. C’è qualche stella dello spettacolo al Baglioni. Gridolini: eccolo, arriva, è là dentro, guarda che macchina, è lui di sicuro. Macchina di lusso, autista, vetri fumé. Dev’essere senz’altro l’imperdibile divo del momento, quello della soap del pomeriggio. Scattano con i diari in mano per l’autografo. Il portiere in livrea si fa largo per aprire lo sportello. Mormorio di delusione: non è lui, chi è, uno qualunque, è carino almeno, macché, è un vecchio, avrà quasi quarant’anni. Lo sciame si disperde, le vedette tornano a disporsi sui due lati della strada. L’uomo distinto scende avvolto in un abito tagliato su misura, elegante, perfetto. Allunga al deferente servo in livrea la borsa del computer portatile in pelle nera. Si gira, porge la mano alla donna che esce con aria sprezzante e sorridente dalla macchina dai vetri fumé. Stivaletti col tacco a spillo. Gambe lunghe, calze velate. Minigonna in pelle, top nero, zainetto Mandarina Duck. Capelli lunghi neri. Si toglie gli occhiali scuri. Occhi verdi. 6. L’animale preferito dalle donne Rocca Messapica (Taranto), ore 15. Sullo scrittoio, leggio in faggio: Platone, Politeia, Nomoi. Testo greco, senza traduzione. Qualche glossa marginale, a stilo, su carta bianca. Un possibile spunto per un ulteriore scritto sul Filosofo. Lo Stato secondo giustizia e l’ordine cosmico: nella necessità cosmica della decadenza, la comunità dei philosophoi si erge come punto di riferimento contro le illusorie proposte democraticistiche. La parola-verità contrapposta al relativismo, alla pseudoriflessione critica. La necessità di una guida della polis e il ruolo del filosofo. Ipotesi: il Filosofo non è un vero Capo, nondimeno non conosce alcun autentico capo cui sottomettersi. Nel crepuscolo del Kali-Yuga, durante il ciclo della decadenza cosmica, non può emergere dall’oscurità un vero Capo. Dunque: il Re-filosofo come detentore del logos-basilikos, capo vicario in attesa del vero Capo cui far atto di sottomissione. Verificare alcune fonti. Comparare. Rivedere i luoghi di Evola e Guenon su Platone. Voegelin e i suoi allievi possono essere utili. Non Strauss: intelligente, ma giudeo. L’uomo dai capelli bianchi sorride. Il Filosofo e il Vicario. Per anni l’uomo dai capelli bianchi si è attribuito il ruolo di Vicario all’interno del Movimento. Un capo supplente, uno scoglio contro i flutti del crepuscolo. Mantenere la purezza anche quando la Storia ti obbliga a sporcarti le mani: quello che gli adepti non hanno capito, dilaniati in guerricciole interne. La fibbia, la coltellata in carcere: Kali-Yuga. Il gesto eroico può invertire la decadenza del Kali-Yuga. Interrompere il corso della Storia: un gesto che richiede lunga preparazione. Nel frattempo: accumulare energia nel silenzio ascetico. Restare in attesa. Il furgone entra nella cittadina pugliese. Vvola, un’aquila ner cielo vvola, vvola, e nun sarai mai sola!, canta l’autista. «Benvenuti nella città del Primitivo», dice il cartello all’ingresso. – Embe’? Er primitivo chi, Flintstone? – Ahò: er vino, no? Ma che vòi sape’ te, che sei de coccio… ’Nnamo, va’, che sinnò famo notte: passa ’mpo’ ’sta piantina… Il furgone entra nel centro di Rocca, s’intriga nei sensi unici, svolta qua e là, esce e punta diretto in fondo alla strada. Porta fuori, la casa è una delle ultime. Un villino. Terrazzato. Alla terrazza, due uomini col binocolo. Non solo quello, probabilmente. Il furgone rallenta, scala in seconda, in prima, ferma. Qualche metro prima del cancello: meglio farsi vedere. Meglio fare qualche metro a piedi. L’aria è calda: è la tramontana che attraversa la campagna pugliese. Il campanello è senza nome: regolare, no? Suonano. L’uomo dai capelli bianchi va ad aprire. Il furgone era segnalato, i due uomini di guardia annuiscono: tutto in regola, corrisponde. Il pacco viene consegnato. Niente parole, niente firme. Il pacco è sullo scrittoio. Platone cede il posto. Si torna all’azione. Dentro il pacco: due telefoni cellulari, due Sim Card di ricambio, schede telefoniche. L’uomo dai capelli bianchi enumera mentalmente gli oggetti contenuti. Tutto in regola. Il telefonino comincia a vibrare. All’altro capo: l’uomo grassottello. La tramontana soffia caldo vento di terra sulle case di Rocca Messapica. Bologna, via Indipendenza, hotel Baglioni, ore 17. Dall’impianto di filodiffusione: musica lirica. Mahler, più o meno. Fa tanto stile colto, pensa l’uomo sul letto: in verità è tutta la stessa palla, pensa. Però fa. Che cosa non è chiaro, ma fa. Come il millesimato nel flûte, le lenzuola di seta richieste come corredo della suite, le primizie di bosco per accompagnare la magnum di Dom Perignon. Costo complessivo, compreso di pranzo dalla Cesarina e le due righe di coca fermamente rifiutate dalla libidinosa: una quindicina di secondi di transazioni finanziarie, più o meno. Scaricabili come spese di rappresentanza, per di più: volpina l’idea della partita Iva individuale. Intestazione neutra: Top Economic Advice. t. e., come «Top Escort»: la pollastra è brava a far ballare l’occhio sulle money, è più avanti delle sue colleghe la faina bolognese. Ciulata detraibile: doppia libidine, pensa l’uomo elegante guardando lo schermo del telefonino. Sms: aggiornamento sull’andamento dei titoli. L’idea delle Borse asiatiche, combinata con quella dell’E-business, è stata vincente: Singapore è una piazza ancora poco sfruttata. Sganciarsi a breve dal Far-East, dice il consulente. Il sesto senso dice che ha ragione: mai troppo a lungo nello stesso posto. Certo che in questa suite, con questa coscialunga, un’eccezione si potrebbe fare. Per chiudere in bellezza: una barzelletta allusiva che funziona sempre. – Ohé, testina, lo sai quali sono i tre animali preferiti dalla woman? Il visone sulla pelle, la Jaguar in garage e il ghepardo nel letto, – enuncia compiaciuto. L’avrà capita l’allusione al ghepardo? – Guarda che sono quattro. – Quattro? – chiede con vago stupore. Un’ammucchiata, pensa compiaciuto dall’idea. Maiale per maiale, ci si vede proprio bene nella parte del prosciutto dentro un Club Sandwich di tette e culi. – Quattro. C’è anche il somaro che stacca l’assegno, – dice Lara agganciandosi il reggiseno. Località di partenza non individuabile, ore 17.20. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda estera. All’altro capo: l’uomo dai capelli bianchi. zeta?Tutto in regola? ti?Tutto in regola: come una volta. zeta?Non ti emozionerai per così poco. ti?Non confondere l’emozione del neofita col brivido che precede la rottura della quiete da parte di chi sa riconoscere il vento che arriva. zeta?E tu lo scirocco lo sai riconoscere? ti?Non solo quello. L’importante non è il senso del vento, ma ciò che esso porta. zeta?Forse hai ragione. Se i venti adriatici non creano problemi, il portato arriverà a breve. Dovrai essere pronto e garantire il deposito. ti?Solo quello? zeta?Non solo quello. L’ospite sta per arrivare: custodiscilo bene, come noi abbiamo custodito te. ti?Credo che abbiate trovato la casa adatta. Più o meno dove ho soggiornato io. Interessante metafora, non trovi? I ricorsi, i cicli, crepuscolo e alba… zeta?Non sono la mia passione, le metafore. Preferisco il romanzo realistico. ti?La tua povertà spirituale è sconcertante, se rapportata alla tua leale dedizione alla Causa. zeta?Non sono certo i tuoi filosofi ad averti parato il culo, vecchio mio. Serviamo anche noi brutali pragmatisti. Soprattutto ora che le cose sono molto confuse. Fatti trovare pronto, per qualcuno sei ancora sotto esame. ti?Grazie per l’avvertimento. Fai attenzione anche tu: la notte è ancora lunga. L’uomo grassottello riattacca. La solita menata mistica, il solito dubbio: c’è, o ci fa? Alla fine di questa storia bisognerà trovare la risposta. Una volta per tutte. L’uomo dai capelli bianchi riattacca. Guarda a lungo il telefonino. Mette la mano in tasca e tocca il nuovo Nokia preparato dai suoi ragazzi. Schermato al cento per cento: su questo ci mette la mano sul fuoco. Su quelli arrivati da Roma, no. Se credono che non li conosca… L’uomo all’ascolto chiude dopo aver sentito i due clic. Si toglie l’auricolare, estrae la microcassetta dal registratore e sigla con la data la custodia. Poi la porge all’uomo grassottello. La lealtà è tutto, tra vecchi amici. Bologna, hotel Baglioni, via Indipendenza, ore 17.20. Tre ore fermo davanti al Baglioni. Tanto un posto dove andare non ce l’ho. Ho un appartamento di cinquanta metri quadri e due stanze più cucinotto per dormire. Ho una città da camminare senza meta in cui è facile perdersi per riflettere sul vuoto che mi porto dentro e sul niente che sono. Ho dei bar da bere per stordirmi quando le voci di dentro si fanno troppo rumorose. Ho dei mattini in cui la congiuntivite non è la causa degli occhi pieni di lacrime, e delle sere in cui il buio mi fa star meglio. Ho un libro di poesie fuori commercio che continua a commuovermi. Ho un cimitero in cui andare a leggere i versi di un poeta bolognese morto che parlava per radio proprio come Barbara. Ho un telefono cellulare che mi costa meno dell’affitto dell’ufficio che non ho più. Ho un mestiere di merda. Ho un amico che lavora in un posto di merda. Ho un amico recluso in un posto di merda. Ho un amico che chiede l’elemosina a gente di merda. Ho un cuore debole e idiota innamorato di una ragazza di merda. Ho una vita di merda. Ecco tutto quello che ho. Un posto dove andare qui in mezzo proprio non c’è. Lara esce dall’ascensore. Da sola. L’uomo elegante è rimasto a letto a copulare col modem, Ohé, testina, sulla piazza di Singapore gli occhi a punta son già lì che lavorano, esserci: ecco il segreto, chi si cementa sul made in Italy è fuori come un catamarano, dura minga, e via di lungo a dar vento alle gengive mentre manovra la track ball. Probabilmente avrà quell’orgasmo che cerca invano con prestazioni sessuali palestrate, il sciur Brambilla (Ohé, testina, siamo mica tutti Brambilla sotto la Madunina) (Ah, no? Ma tu guarda, credevo): casomai non bastasse, lo specchietto con le due righe è ancora lì sul comodino. Passa alla reception, si fa restituire lo zainetto che aveva consegnato entrando. Si ferma nel salottino della hall, si sfila gli stivaletti con non chalance e li sostituisce con i mocassini. Finge di riguardarsi il trucco, tanto per far ingoiare alle culone ingioiellate che la scrutano entomologicamente la geometrica perfezione del suo trucco e del suo fondoschiena. Ripassa davanti alla reception, appoggia un bacino a fior di labbra sulla punta delle dita per soffiarlo verso il portiere ed esce. Il taxi l’attende. Il tassista apre la portiera misurando con gli occhi la linea perfetta del sedere. Lara si blocca: c’è qualcosa che la disturba, e non è lo sguardo suino del tassista che crede di non essere stato visto. È qualcosa di meno vicino. Dall’altro lato della strada. Due occhi che la guardano senza far nulla per nasconderlo. Lara capisce. Roxy bar, via Rizzoli, ore 19. Andrea sta masticando il terzo tramezzino della serata quando Diego entra. Sorriso abituale, manciata di noccioline dalla ciotola al palmo della mano, sguardo interrogativo al barista. Oban, risponde Oriano. Buona idea, commenta Diego. – Credevo bevessi solo irlandese, – dice il giornalista. – Ho ampliato le mie vedute, – risponde il poliziotto. Resoconto del pomeriggio: intervistato Alfio Molina, proprietario della discoteca Pagoda – siamo più precisi: presidente della società proprietaria. Un coniglio bagnato, secondo Diego. Trema come una foglia, e non ha la minima idea del perché gli abbiano messo una bomba nel locale: mai avuto richieste di pizzo o altro, men che meno avuto a che fare con le dispute interne all’ambiente musicale bolognese. Verso il quale, peraltro, non ha alcun interesse di tipo culturale: la discoteca è un’impresa di natura commerciale, acquistata da una società che ha per finalità investimenti differenziati: era un affare, è stata già ampiamente rilanciata, entro un paio di anni contano di rivenderla a un prezzo maggiorato, avendo dimostrato che il locale funziona. Andrea non muove un muscolo: sta pensando. Quando è il suo turno, è ancora più parco di parole del suo amico del «Mattino»: l’unica cosa di cui è sicuro è che i ragazzi hip hop non sono in grado di organizzare una cosa del genere, posto che ne avessero avuto l’idea. Prova a minimizzare, cerca di andare sul vago, suggerisce. Diego, sorridente, estrae dalla tasca una lista di date e locali. – È un po’ gonfiata, c’è del fritto misto, ma come fumo negli occhi può funzionare: i locali che hanno avuto problemi negli ultimi due anni. Che te ne pare? Pare una buona idea: si resta sul vago, si adombra chissà cosa – estorsioni? Racket? Creazione di un cartello monopolistico? – e si vede chi si sente punto sul vivo. Di meglio, al momento, non si può fare. Quanto alla notizia del volantino, in qualche modo bisognerà pur darla. Magari in forma di smentita: anche qui, tanto vale dare parola e vedere al tavolo cosa si risponde. E Diego, con le carte da poker, non è secondo a nessuno. – Eccoti qui che ti ubriachi alla faccia mia, – dice Chiara sedendosi. – Amica tua? – chiede Diego mal celando il sottinteso. – Interessa l’articolo? – risponde Andrea rilanciando poker-faced. Chiara non capisce: deve intervenire Diego. – Stia tranquilla, signorina: dei due, tutt’al più potrei essere sessualmente interessato al suo apparente compagno. Se non temessi di morire di noia nel silenzio delle sue conversazioni, – aggiunge facendola sorridere. – Come sapevi che ero qui? – chiede Andrea intrecciandole le dita con le sue. – Sandro, – risponde Chiara, – hai lasciato detto a lui. Lo sai che con me Sandro non ha segreti. – Tremo all’idea di quello che puoi avergli promesso, – commenta Andrea. – Chi ti dice che glielo abbia solo promesso? – rilancia Chiara liberandosi con un gesto il bottone della camicetta col tono di chi sfida a venire a vedere. – Allora mi controlli, – prova a ribattere Andrea. – Scusate, piccioncini, – interviene Diego, – ma restare qui nel mezzo delle vostre stucchevoli smancerie mi sembra troppo. Se la piantate vi offro la cena, altrimenti vado via: reggere il moccolo a due sbirri in versione Romeo e Giulietta non è il massimo, sapete? – E come sai che sono una poliziotta? – chiede Chiara. – Perché dalla borsetta aperta si intravede la pistola, e Andrea non può non averla già vista. E se qualcuno in compagnia di Andrea ha una pistola non può che essere uno sbirro, anche se carini come te ne ho visti pochi anche tra i poliziotti, – aggiunge Diego. – E sì che ci sono fior di maschioni nella polizia di Bologna. Che io peraltro preferisco in divisa, o quantomeno col cappello d’ordinanza che fa tanto Village People, UaiEmSiEi, – conclude. Chiara scoppia a ridere: cosa non molto usuale, se frequenti uno come Andrea Vannini. Sì, c’è proprio bisogno di una cena in compagnia. Anche Andrea sorride. Poco, ma sorride: l’importante è sapersi accontentare. Hotel Baglioni, via Indipendenza, ore 17.20. – Cosa fai qui davanti? – Aspetto. Aspetto te. Tanto non piove. – Da quando aspetti? – Da quando ti ho vista entrare. Silenzio. – Avevi da lavorare, mi hai detto. – Infatti. – Infatti cosa? – Infatti ero al lavoro. Silenzio. Sguardo di sfida. – Al Grand Hotel? – Anche. Al Jolly, al Guercino, ai Commercianti. O al Baglioni: dipende. – Dipende da cosa? – Dipende da quanto possono permettersi. Fine della discussione. Mi giro e vado via senz’altro. Dopo qualche passo la sento chiamarmi: non rispondo. Chiama ancora: non rispondo. Chiama ancora: per favore, grida. Continuo a camminare, mi passo il dorso della destra sugli occhi per asciugarmeli. Salgo sull’autobus, non m’importa quale. Il telefonino squilla. Guardo il numero sul display: spengo. Lo butto nel cestino dei rifiuti appeso al palo della prima fermata. 7. Stai zitto e baciami Bologna, bar Pierino, ore 23. – Bevi ancora per molto, Guglielmo? – Non sono cazzi tuoi. E comunque non mi chiamo Guglielmo. – Lo so che non sei Guglielmo, ma non è vero che non sono cazzi miei, – dice Raffaele con la voce impastata che gli è rimasta anche ora che è astemio. – Intanto perché siamo amici, e a me non piace vedere gli amici tristi che piangono. Poi perché tutti questi pierini ti fanno male. E guarda che i tuoi liquori fanno male anche a me. – Ma se bevi chinotto… – Certo che bevo chinotto, sono diventato astemio, cosa vuoi che faccia: non posso mica ordinare un pierino ogni volta che ne ordini uno tu. – E allora? – E allora: a furia di chinotti mi sembra di essere diventato una botte piena di bollicine (rutto), ecco, lo vedi che mi escono fuori da ogni parte? Grasso come sono, poi, non è che sia bello da vedere. Però non posso mica lasciarti bere da solo: quindi per ogni pierino che butti giù mi tocca ordinare un chinotto, è educazione, lo sai che educato lo sono sempre stato. Perciò vedi di smetterla, perché tutti questi chinotti mi stanno dando la nausea. Guarda: se non lo fai per te, fallo almeno per il tuo vecchio amico Raffaele. Adesso te ne vieni fuori, ci sediamo sul muretto e mi racconti tutto per filo e per segno. Poi ti porto a casa, ti rimbocco le coperte e ti dò il bacino della buonanotte. Per quanto ubriaco sia, la prospettiva di un bacino della buonanotte da parte di Raffaele mi appare agghiacciante. Comunque ha ragione: ho bisogno di aria fresca, sul muretto di fronte non è troppo lontano per ordinare un altro bicchiere tra cinque minuti. Non fa neanche freddo: un paio di bicchierini e potrei addormentarmi qui. Alla peggio mi svegliano i netturbini all’alba, magari con uno schizzo d’acqua. Il guaio è che fino a quando ero appoggiato al bancone della bettola ero relativamente fermo, tranne inalberarmi per concionare con gli astanti sulla naturale perfidia delle donne. Ora che mi sono mosso realizzo che il mio problema più immediato non è la sottrazione della costola ad Adamo: è il mondo che bascula pericolosamente da destra a mancina, e viceversa. Aumento vertiginoso delle oscillazioni: i muri delle case tendono verso le mie tempie. Perdita di equilibrio. D’improvviso le oscillazioni diminuiscono di frequenza. La caduta si arresta: Raffaele mi ha preso sottobraccio e mi sorregge. Una mano sotto la spalla, l’altra contro la fronte. Perché mi tiene piegato in avanti, dio cane, che la testa mi si è fatta pesante? Ci metto poco a trovare la risposta: tutte le porcherie che ho bevuto oggi, a partire dal bar di fronte alla fermata dell’autobus sino agli innumerevoli pierini che ho seccato giù, tutto questo liquame acido e alcolico impastato con l’unico panino che ho mangiato, tutta questa roba mi ritorna su e mi esce a fiotti dallo stomaco. Una volta, due. Finita: sto meglio, dico rassicurando Raffaele. Che per fortuna non ci crede: infatti arriva una terza gettata, la più violenta. Ci galleggiano dentro anche le due uova sode che avevo dimenticato di avere preso. Come un angelo Raffaele è qui, con un bicchiere di vetro pieno di caffè fumante: anche il barista doveva essere preparato al crollo strutturale della mia resistenza gastrica. E che cristo, non è mica un lavandino, lo sento commentare mentre ritorna dentro. Un bicchiere pieno di caffè nero, amaro: uno schifo. Dopo il primo sorso ho un altro conato, vomito anche l’anima – perché a questo punto è chiaro che ho un’anima, altrimenti non capisco cos’altro possa essere uscito dalla mia gola – e riprendo a bere il caffè. Meglio: col penultimo sorso faccio una specie di sciacquo della bocca e sputo via, come per ripulirmi. Poi bevo l’ultimo dito di caffè, lo sento scendere graffiandomi la gola acida e piombare dolorosamente sul fondo dello stomaco. È il momento dell’amicizia virile, del chiarimento tra veri uomini, mi dico. In verità ho solo bisogno di raccontare a qualcuno il perché di tanto spettacolo, e Raffaele è un’ottima spalla in questi casi: non foss’altro che per le volte che tutti noi, negli anni passati, ce lo siamo dovuti accollare sopportando le sue etiliche litanie. Quindi adesso è il suo turno. Raffaele ascolta paziente, sorridente, amichevole: un vero amico sa quando è il momento di lasciar dire, sa che deve accompagnare il tuo sfogo e supportarti, almeno per stasera. Domani magari avanzerà un’obiezione: ma del resto chi se ne importa di domani? Poi domani Raffaele mica lo vedo. È ben quello: che Raffaele domani non lo vedo, e probabilmente lo sa anche lui. Oppure non è un vero amico, o in ogni caso non ha quella cultura del maschio duro-lagnoso nella quale ci piace tanto adagiarci come dentro una seconda placenta piena di melliflue parole amniotiche. Raffaele parla poco, continua a sorridere, ma quando apre bocca con la mazza delle sue parole batte un home run. – Da quand’è che sei diventato così moralista? Bologna centro, autoparcheggio privato, ore 17.15. The atmospheres range out on the town music for pleasure its not music no more. Settore C 12. Auto registrata: Golf tdi 1900 grigio metallizzato. Ingresso registrato: 030998h2200. Uscita prevista: 070998h1200. Veloce, robusta, niente di vistoso: perfetta. Intestataria del libretto: Ludovica Forlanin. Viene a Bologna dal paesello per fare shopping, la signorina. Inserire scheda nel registro d’uscita. La scheda clonata ottiene il permesso di uscita anticipato. Registrazione del pagamento della sosta su c/c bancario parallelo: inserire American Card. Digitare password: ******. Ritirare prima la carta, poi il biglietto, recita la voce metallica. Un gioco da ragazzi. L’hard disc registra i movimenti di uscita sulla partizione nascosta, senza comunicarli al registro ufficiale. Non resta che occuparsi della chiave: originale non duplicabile, garantisce la casa di produzione. Canticchia. Music to dance to music to move this is music to march to to dance the war dance the war dance the war dance the war dance… Apre il case da viaggio, estrae la macchinetta, la poggia sul banco. Seleziona la chiave da plasmare: originale della casa produttrice. Chiave originale nella fessura destra, chiave da modellare nella fessura sinistra: trenta secondi di lavoro. Limatina finale sui denti della chiave duplicata, goccia d’olio di lino, chiave asciugata. Prova del nove: apre senza far scattare l’allarme, bene così. Antifurto banalotto: facile da sincronizzare sul telecomando universale. Prova di controllo: accensione, spegnimento. Docile come un cagnolino. Apre il cofano, mette il case all’interno, controlla triangolo e cric: meglio non correre rischi. – E se uno di questi giorni ti beccano, Ferodo? – E se uno di questi giorni mi cade un vaso in testa mentre passo su un tombino aperto? Il collega sbuffa. Si toglie il cappellino della ditta, si asciuga la fronte col fazzoletto. Si rimette il cappellino. – Non è che posso coprirti per sempre, sai. – No, non per sempre. Solo fino a quando ti sostituisco nei turni di notte, ti aggiungo le ore di straordinario che non fai e non vado a dire in giro di quel paio di cosucce che sappiamo tu e io. – D’accordo, d’accordo. Non è il caso di scaldarsi: dicevo solo che ci giochiamo il culo tutti e due per una sciocchezza. – Tu non preoccuparti, che il tuo culo te lo copro io. Mi alzi la sbarra o faccio il numero sgommando dietro il prossimo cliente in uscita? Sbarra alzata. Stretta di mano. La Golf parte. – Buon viaggio, – dice agitando la mano. Nessuna risposta. Ferodo ha già infilato gli auricolari nelle orecchie. Volume del lettore Cd: 9. Per meno, non vale la pena di ascoltare i Killing Joke. Play loud. Look at the victim sprawled on the wall you know the reason outside the door you got something nasty in your mind wanting to get out to dance the war dance the war dance… Bar Pierino, ore 23.30. – Da quand’è che sei diventato così moralista? (Silenzio). – Guarda, Guglielmo, che un lavoro è un lavoro. Non mi sarai mica diventato un difensore della società del lavoro. – No che non… cazzo, sono un investigatore privato, non un sindacalista! Ma c’è lavoro e lavoro: la mercificazione del corpo... – dice la mia bocca ripescando qualche frase fatta dal baule della memoria. – La mercificazione, la mercificazione… Cos’altro è il lavoro se non mercificazione del corpo? Cosa credi che venda l’operaio al padrone: la sua bella faccia, i suoi figli che vogliono la Playstation come i figli del dottore, la sua reputazione? Vende la sua capacità di lavorare, no? E dove pensi che stia questa capacità, nelle nuvole? Nella musica che ascolta tornato a casa? Sta nelle sue mani, nelle braccia. Il padrone non può mica assumere la mano della famiglia Addams, gli tocca prendersi tutto l’operaio, ma gli paga solo la mano che pigia i pulsanti, mica il cervello che pensa alla moglie. Eh, bän bän, Guglielmo, come siamo cambiati: la mano diventa una merce, l’operaio vende un pezzo di corpo mercificato, no? Ma tu, cosa credi che ti paghino quando lavori? – Le mie capacità intellettuali, credo. Gli vendo quelle, non certo prestazioni sessuali! – Lo vedi che sei un moralista? Chi ti dice che sesso e cervello non abbiano lo stesso valore? Credi che il cervello serva soltanto per pensare? Si capisce che non hai la televisione, altrimenti vedresti che non tutti i cervelli pensano, e che non tutti quelli che pensano usano il cervello: c’è quel ferrarese lì, che mentre parla stacca la bocca dal cervello e si masturba aggiustandosi i capelli con la mano, dio bono. Oh, Guglielmo, cervello e corpo non sono mica mele e pere, non li puoi pesare per vedere cosa costa più e cosa meno… – Scusa, Raffaele, ma questa tua filosofia proprio non la capisco. – Senti, Guglielmo, non è che pensi solo con il cervello e ti muovi solo col corpo, no? Pensi e ti muovi con tutto il corpo. Non puoi dare più valore a un pezzo e meno a un altro: è così duro da farti entrare in testa? Non mi esce di bocca che un flebile: sì. – E chi dice che si può vendere il cervello ma non il sesso? I moralisti, no? Li decidiamo mica qui dentro davanti a un bicchiere, i valori sociali. Che sarebbe anche una buona idea, guarda, prima farsi due pierini poi votare, t’al dig mè, che il Parlamento te lo faccio funzionare io come si deve. Insomma Guglielmo, bona lè: se sei diventato un difensore dei valori borghesi... vuol dire che non sei mai stato un buon compagno, lo sai che l’ho sempre pensato. Da sobrio Raffaele ragiona come quando giocava a scacchi da ubriaco: scacco matto del nero in quattro mosse. Non posso dargliela vinta così. Fossero stati veri scacchi... ma farmi mettere in buca da un barbone ex alcolizzato che crede ancora nel comunismo… – Va bene, va bene, però chi paga una donna per scoparci paga solo un corpo, non gliene frega niente del suo spirito: e questo non possiamo accettarlo, no? Accettare la prostituzione non è come condividere la bastardaggine del cliente? Insomma, Raffaele, io la coca non la tiro perché mi fa schifo chi ci guadagna dietro. Faccio male? – No che non fai male, – dice una voce bassa alle mie spalle. È la voce baritonale di Diego Dall’Olmo, col sorriso di quando si diverte e la barba di due giorni: chissà da quanto è qui ad ascoltare, col suo intruglio in mano. – No che non fai male: è solo che non riesci a vedere le cose da ogni lato. In questo caso, visto che ci sono di mezzo i soldi, i lati sono due: quello del venditore e quello del compratore. Mi segui? Sì, e non solo metaforicamente: stiamo andando a prenderci una crêpe per tappare lo stomaco. – Allora, – conciona Diego, – sul lato della vendita ha ragione Raffaele: ciascuno di noi prostituisce una parte del suo corpo e la scambia non per quello che vale, ma per il valore del tempo di lavoro. Puttane, accattoni, investigatori, giornalisti, poliziotti come il tuo amico Andrea, insegnanti, manovali: il lavoro è prostituzione. Almeno la tua amica Lara fa attenzione al tempo che passa e se lo fa pagare fino all’ultimo minuto, se sa far bene il suo mestiere. (E giù un’altra bella mazzata proprio al centro dello stomaco: bello avere degli amici, quando serve). – Resta il lato dell’acquisto. E qui hai ragione tu: chi paga considera una donna, o un uomo – perché anche i maschietti dànno via il culetto in stazione o in Fiera, no? – come un pezzo di carne da pagare a tempo. Ma che c’entra la tua amica? Non vorremo mica spostare le colpe degli Agnelli sugli operai, no? È la cultura maschile, mica altro. Ecco, la cultura maschile. Abbastanza gay da non sentirsi parte del genere maschile, abbastanza nostalgico di Lotta continua da non aver dimenticato certe linee di ragionamento: Raffaele mi ha steso, Diego plana giù in veste di avvoltoio a finire il lavoro. – Ma allora le ragazze sfruttate dal racket della prostituzione? Me lo ha raccontato proprio Lara dei tatuaggi, dei marchi da bestiame… – Quelle sono schiave, infatti: ecco perché noi non siamo dalla loro parte. O meglio, siamo dalla loro perché vorremmo aiutarle. Certo che se voi eterosessuali faceste calare la domanda calerebbe anche l’offerta, no? Ma quelle come Lara non sono come loro, è evidente. Un altro pierino? No, per carità, adesso che lo stomaco sta bene... Un caffè, piuttosto: giusto per avere un sapore decente in bocca. – Cosa c’è di evidente nella differenza tra Lara e una slava sui viali? – chiedo mentre il vecchio barista mi porge la tazzina. – Il tariffario? Lara è una prostituta d’alto bordo… – Non si dice più prostituta d’alto bordo, – mi corregge compito il redattore capo del giornale locale. – Si dice accompagnatrice, o Top escort. – Va bene, una Escort… Dicevo, la differenza tra un’automobile e quelle altre che battono sui viali è solo una questione di tariffe? Più ti fai pagare più sei rispettabile? – No, non è una questione di tariffe. Le tariffe sono la conseguenza, – mi risponde una voce alle mie spalle, sulla porta d’ingresso della bettola. Una voce femminile. Una voce con un leggero tremore. Una voce che ho paura di voltarmi a guardare. Una voce impercettibilmente strabica. Una voce appena spolverata di efelidi. Una voce che sa di rimmel essenziale, di eye-liner perfetto come il segno d’un geometra, di rossetto shocking purpureo, di unghia smaltate color metallizzato, di profumo di pregio e di ottimo gusto. Lara. – La questione è che io sono padrona del mio tempo e della mia vita, e loro no. Ecco perché sono libera di decidere quanto darne, a quanto e a chi: è il mio tempo e ne faccio ciò che voglio. Sono libera di farmelo piacere se mi è piaciuto, o di farmi un bagno caldo e lavarmi via l’odore se non mi è piaciuto. Loro non sono libere di fare quello che faccio io. Loro, – aggiunge mentre la voce trema leggermente di più, – non hanno un’altra vita da pagarsi con quelle poche ore settimanali, come me. Loro non sono libere di decidere se lavorare o no. Loro non escono di casa in piena notte per venire fin qui a cercarti. Diego sorride, imperturbabile: di certo sta scommettendo con se stesso su come andrà a finire. Raffaele me lo sono perso tra la crêperia e qui, dev’essere rimasto agganciato a un altro transito notturno di anime migranti, tanto quello che aveva da fare l’ha fatto: l’angelo custode, la versione sfatta, ingrassata e comunista di James Stewart. E io cosa dovrei fare? Voltarmi, come faccio adesso? Guardare Lara che ha deciso di non darmi la soddisfazione di piangere per dimostrarmi che non valgo un trucco sbavato, ed è chiaro che ne è capace? Risponderle? Parlarle? È tutta la sera che parlo con te, Lara. Anche se non c’eri. È tutta la sera che anche se non c’eri sei qui a parlarmi. Sei sempre stata qui davanti. Cos’altro potrei dire, cos’altro dovrei dirti? Niente: non ho niente da dire. Non ho mai avuto niente da dire: non ho le geometriche certezze di Andrea, la parola tagliente di Barbara, l’ironica comprensione di Cristiano. Le parole funzionano come una racchetta da tennis usata per scolare la pasta, ha detto un filosofo: i miei spaghetti finiscono quasi tutti per terra. Passo la vita a osservare i fili di pasta attorcigliati sul pavimento della cucina, gli eventi che accadono sempre un momento prima di trovare la parola giusta da appiccicargli addosso, i sentimenti che girano l’angolo invece di fermarsi ad aspettare che il linguaggio li raggiunga. Il linguaggio è la casa dell’essere, dicono: sulla mia c’è un cartello con su scritto «Affittasi». Cinque anni fa un amico mi ha messo in mano una pistola carica e ha aspettato che facessi fuoco. Cinque anni prima ho ritrovato la mia ragazza sfracellata sul selciato di una discoteca, la mia ragazza che mi aveva lasciato, o che io avevo lasciato perché lei mi avrebbe lasciato il giorno dopo, non ricordo neanche più com’è andata. Vent’anni fa andavo a vedere i western con un amico terrorista, senza sapere della sua seconda vita. Quali parole potrei usare per esprimere tutto questo? Quali parole per parlare di quello che c’è stato tra quegli anni e questa sera maleodorante di miscugli alcolici fatti in casa? Con quali parole potrei parlare di una ragazza che mi viene a cercare senza sapere niente di me? Il mondo non è suadente: il mondo fa male. Il mondo non parla: colpisce. Il mondo non comunica: lascia il livido. Il mondo è fatto di pietre, non di parole. Non ci sono parole, non ce ne sono mai state. Non nel mio mondo, non per me. Lo capisce anche Lara quando apro bocca e non ci sono parole. – Non dire niente per favore, non dire niente. Stai zitto e baciami, stronzetto. Heaven There was a guy an underwater guy who controlled the sea… Se non sono lì sono morto. Non sono morto. Sono vivo. Sono vivo sono vivo sono vivo. Se sono vivo corro. Se corro sono vivo. Ho le chiavi. Le chiavi le chiavi le chiavi. No. Sono le chiavi di casa. Qui a destra. La milza. Scoppia. La milza. Il fanale. Il fanale della moto svolta. Sempre dietro. Devo correre. La milza fa male. No. Non fa male. Non fa male non fa male non fa male. Mi tuffo per terra rotolo la moto mi sorpassa frena mi rialzo mi volto scappo. Per loro è più difficile girarsi. Prendo dei metri. Altre chiavi. Le chiavi della Vespa. Sono salvo se raggiungo il Vespino. La Vespa il Vespino la Vespa. Il Vespino. Non li vedo ancora dietro. Non mi servono le chiavi della Vespa. La Vespa è sotto casa di Andrea. Mi serve il Vespino, le chiavi del Vespino. Dove sono le chiavi del Vespino? Come è cominciato tutto questo? Come ho fatto a cacciarmi in questa trappola? Perché io? Perché io? Perché io? Devo avvertire Andrea. Sanno tutto. Ci seguono, ci controllano. Ci vogliono eliminare eliminare eliminare. Da quella sera giù a Rocca, quelle moto, quelle facce. Erano per noi, avevamo ragione. Ci cercavano. Dio, che male. No no no. Non fa male. Non fa male. Non ci sono più. Non li vedo. Il fiato. Trattenere il fiato. Ansimo troppo. Trattenere il fiato. Silenzio. Non ci sono più. Raccogliere le idee. Piegato in due. Non ce la faccio più. La chiave. Col portachiavi a cuoricino. Il cuoricino. Era tutto preparato? E adesso? Adesso… Rombo. Una moto. Dove sono? Non li vedo. Li sento, non li vedo. Li sento. Sbucano fuori dall’altra traversa. Hanno fatto il giro dell’isolato a fari spenti. Hanno spento il motore. L’ombra scura svolta. Mi viene incontro. Un braccio si sporge dalla massa compatta. Sono due un’unica forma un braccio fuori. Una pistola. Cercano me. Con la pistola. Ricominciare a correre. Il fiato va meglio. Il fianco non fa male. Le gambe non vanno bene. Mi sento le gambe pesanti. Faranno male domani. Acido lattico. Devo correre. Se corro domani avrò male alle gambe. Se corro. Ho le chiavi. Sto correndo. Sto correndo in un’altra direzione. Mi sto allontanando. Se giro l’isolato capiscono e mi vengono incontro. Non ho scampo. Se continuo a correre mi raggiungono. Loro sono in moto, io a piedi. Se cerco di tornare indietro gli vado incontro. In ogni caso nessuna speranza. Doppio gioco. Faceva il doppio gioco. Sorvegliava l’anello debole. Sorvegliava me. L’anello debole. Controllava Andrea grazie a me. Grazie a me grazie a me grazie a me. Andrea. Controllava Andrea. Gli ha pestato i piedi, Andrea. Ha pestato dei piedi sensibili, Andrea. Vogliono ucciderlo Andrea. Vogliono uccidere anche me. No che non sono perduto. Non è vero non è vero non è vero. Non lo sanno del Vespino. Non lo sanno non lo sanno non lo sanno. Non è sotto casa. È dietro. Non lo sanno che ho il Vespino. Non sono in Vespa. Se torno indietro non sanno in che direzione sto andando. Devo schizzare in una traversa girare ancora girare ancora poi tornare indietro. No. Non subito indietro. Devo arrivare di lato, non di fronte. Mi aspettavano sotto casa, non mi hanno visto arrivare in Vespino. Non lo sanno. Posso farcela. Se corro posso farcela. La milza scoppia. Milza scoppia milza scoppia milza scoppia. Non fa male. Non fa male non fa male non fa male. Se mi fermo sono morto. Se fa male mi fermo. Se fa male sono morto. Non fa male. Se corro sono vivo. Se sono vivo non fa male. Non fa male. Non può far male non adesso non adesso non adesso. Sono ancora vivo. Domani starò male. Domani farà male tutto. Le gambe la milza la schiena. Domani farà male. Domani sarò vivo domani farà male domani sarò vivo. Domani. Farà male. Domani… If man is 5 if man is 5 if man is 5 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6… 3. Il nostro giallo è contro le regole Ma il nostro giallo è contro le regole: dunque più angoscioso e meno divertente delle trame letterarie. STEFANO REGGIANI 1. Cappuccino zen 5 settembre, Torino, ore 6.22. Truly, fuck the world, for all it’s worth every inch of planet Earth, fuck myself don’t leave me out, but don’t get involved don’t corner me… – Hai dell’altro caffè? – Sì, certo. Manca molto? – Ho quasi finito. Resta di stucco… dài, bello, dài dài dài… è un barbatrucco! Due tazze di caffè in una per festeggiare la password! Inside, ulcer, unjust bastards file out face first meet the lies and see what you are… Salta come un grillo sulla sedia. La canotta nera dei White Razors si impiglia alla spalliera, il buco si allarga: non se ne accorge. Scuote violentemente la testa aggiungendo la sua voce al coro. For every fucking second the pathetic media pisses on me and judges what I am in one paragraph look here: fuck you all! Le dita continuano a correre sulla tastiera, i battiti ritmici confliggono con i movimenti epilettici del torso seminudo che ruota facendo quasi perno sulla cintura borchiata. Gli anfibi consunti battono ritmicamente il tempo, sottolineando col brutale calpestio le parole di Phil Anselmo. Expect the worse, you bleeding heart but kill me first before it starts yes, my cock is getting hard we are born different after all… Un tazzone con su il musetto di Topolino arriva pieno di caffè amaro. Vago odore di guarnizione bruciata. Sorso veloce. Manca poco, manca davvero poco. Dài, piccolina, dài dài dài… Ecco… ecco… Guarda guarda chi si vede: vuoi fermarmi col vecchio dottor-Scemo? Quel vecchio rincoglionito contro il mio nuovo giochino? For every fucking second the pathetic media pisses on me and judges what I am in one paragraph look here: fuck you all! Ecco qua! Pugno levato al cielo, tazza bollente rovesciata in gola in un sol colpo, e gran finale dei Pantera dalle casse dello stereo. Una notte di lavoro andata bene. All the money in the fucking world couldn’t buy me one second of trust or one ounce of faith in anything you’re about fuck you all! – Yes, man. Adesso ti faccio il riepilogo. Il cavallo di Troia è dentro, un bel mix di pacchetti-dono. Hai presente la pubblicità sui whisky single e blended? Be’, il mio cavallo di Troia è un blended: mentre un falso virus è lì che salta davanti agli occhi del doctor Inutility Norton, tanto per fargli credere di avere qualcosa da fare, mentre il quattr’occhi si distrae, Ulisse esce dal cavallo ed entra. Il pacchetto è quello che mi hai detto tu. Quando quel bastardo del tuo capo inserirà il tuo nome nella lista dei licenziati… meglio: quando il sistema non leggerà più il tuo nome tra gli impiegati… l’intero hard disc apparirà come cancellato. In realtà da quel momento l’intero contenuto dell’Hd comincerà a rimbalzare, zippato, tra ventidue server ai quattro angoli del pianeta, secondo sequenze stocastiche che nemmeno io sono in grado di predeterminare. Durerà solo quattro settimane, ma loro non lo sanno: non capiranno neppure cos’è successo, finché tu non li contatterai con la buona novella: l’unico modo per far sì che il pacchetto torni nella casella di partenza è in questo Cd-Rom. Se il tuo capo lo vuole dovrà pagare. – Non voglio soldi, Ferodo. Mi basta che registri a mio nome i brevetti che io gli ho creato, tutto qui. A quel punto con lui non voglio avere più a che fare: col mio nome su quei brevetti non ho certo bisogno di referenze. – Fatti tuoi. Però il lancio di questo Cd-Rom farà partire un versamento on line retrodatato che pioverà su un conto che ho appena aperto, e che si cancellerà subito dopo essere stato svuotato con questa carta clonata. Lavorare per un amico è sempre un piacere, ma devo pur mettere da parte per la vecchiaia. – Certo, ci mancherebbe. Ma se tutto questo non succede? Se non è vero che il bastardo sta per licenziarmi, se il Cd-Rom non sarà lanciato? Tu cosa ci guadagni? – Tu sei sicuro che accadrà, vero? Be’, io ti credo. Adesso ti dispiace se uso la tua doccia? – Certo che no, figurati. Non vuoi riposarti? Hai lavorato tutta la notte. – No, non oggi. C’è il concerto dei Pantera a Nizza, stasera: vorrai mica che arrivi tardi. Ferodo si alza dalla sedia tremando per il carico nervoso. Un concerto come questo è imperdibile. Metti mai che Phil Anselmo rifaccia lo scherzo dell’overdose di due anni fa. A Ferodo non piace sprecare un’opportunità. Per chi è cresciuto convinto che la vita ne riserva poche, ogni occasione può essere l’ultima. Coglierle tutte al volo è la sua filosofia di vita. The Lord knows, there’s worse Ignore, this curse hate Bologna centro, ore 9.30. Alle 9.30 di sabato 5 settembre, tocciando il cornetto alla crema nel cappuccino chiaro, Sergio De Petris viene colto da un’illuminazione sul caso della bomba alla discoteca. Non trattandosi un adepto del buddhismo zen, l’illuminazione non può evidentemente essere di quelle inattese e istantanee, frutto di una lunga e intensa pratica meditativa e di un’altrettanto lungo e intenso esercizio orientato all’attendere l’illuminazione senza attenderla: no, il Nostro non ha servito per anni un maestro che gli ha dispensato scarsissime indicazioni filosofiche, relegandolo al ruolo di sguattero (qual era del resto Huang Po, il maggiore tra i filosofi zen). Tanto meno si è trattato di istituire un nesso tra la tazza colma di cappuccino che tracima in seguito all’inavvertita immersione della pasta e lo stato della mente troppo pieno di idee perché una nuova vi potesse fare ingresso, soprattutto tenendo presente di quale mente si tratta: no, l’illuminazione che lo coglie è stata preparata da una serie di coincidenze, e al tempo stesso dalla sua vita abitudinaria. In primo luogo, Sergio De Petris è quel tipo di uomo maschio (ma la democratizzazione della vita pubblica sta ormai producendo impensabili variazioni, scavalcando barriere comportamentali che apparivano codificate nella stessa differenza sessuata) che non ama quello spazio, sostanzialmente inutilizzato e dunque mal posto all’interno della sua abitazione, chiamato cucina, cucinotto o tinello. De Petris ha un pacchetto di caffè aperto in dispensa, la cui funzione è ormai solo quella di far sì che periodicamente egli si interroghi sul perché un caffè comperato seguendo i consigli di due cretini molto pagati alla televisione, mantenuto nel suo pacchetto originario (perché non si vede la ragione di travasarlo in un barattolo) aperto (perché così pare meglio: respirando il caffè non prenderà odore di chiuso), col suo bel cucchiaino tenuto ben piantato all’interno – insomma, un caffè tenuto con cura in una dispensa semivuota faccia schifo. Dipende anche dal fatto che la moka viene mantenuta chiusa dopo ogni, ormai raro, caffè, per essere aperta e lavata solo all’occasione del prossimo: di sicuro le muffe bianchicce e lanuginose che ha trovato sul fondo della caffettiera l’ultima volta non sono un buon segnale. Sta di fatto che De Petris ne ha concluso che sarebbe ora di cambiare caffettiera, che evidentemente deve aver fatto il suo tempo: ma stretto nell’indecisione tra una nuova moka dal nome spagnoleggiante e dalla forma panciuta, che ha visto in vetrina, e una macchina espresso bar, che per quanto costosa attira il suo interesse, il nostro maschio adulto medio ha ormai adottato i bar della città. Dove, vantaggio non trascurabile (da aggiungere al fatto di poter evitare l’apertura di quella vasca di coltura per forme di vita di svariato colore e odore che è il suo frigidaire, che soprattutto di prima mattina non è bella da vedere e da odorare), può scegliere tra una vasta gamma di bevande mattutine: caffè lungo, ristretto, macchiato caldo o freddo, mokaccino, moretto, cappuccino normale, cappuccino chiaro, eventualmente col deca. L’abitudine è talmente risaputa che, ecco la seconda concomitante coincidenza, un collega incontrato per strada lo ha invitato in questo bar che fa della varietà di aromi (nocciola, cacao, ginseng, cannella, peperoncino) per la correzione della normale tazzina un punto di vanto. Tra una chiacchiera e un’occhiata al titolo del «Mattino di Bologna». Racket delle estorsioni, vendetta privata intimidazione ai cantanti o teppismo gratuito? nessuna pista esclusa per la bomba al pagoda di Diego Dall’Olmo. (Titolo che lascia insoddisfatti: ma se anche la stampa brancola nel buio, si dice De Petris, vuol dire che il caso è effettivamente complesso). Alle nove e un quarto la radio del bar (terza coincidenza), sintonizzata su Radio Cuore Bologna, ha iniziato a trasmettere uno delle più ascoltate trasmissioni in salsa felsinea: sulle note di Toto Cotugno, ecco a noi Italiano vero, condotto da Rocco D’Angelo, l’opinion leader che non ha paura di niente e di nessuno. Il barista sorride, annuisce compiaciuto. Certo che ci vorrebbe proprio un sindaco come lui a Bologna, a ripulire la stazione, piazza Verdi, via Irnerio dai marocchini, dallo spaccio, dai barboni. E infatti il telefono prontamente mandato in diretta non tarda a dar voce al popolo oppresso da mezzo secolo di dittatura comunista o cattocomunista (questo è ancora un elemento di divisione all’interno dell’audience di Italiano vero), popolo che reclama a gran voce il cambiamento come ieri avrebbe reclamato a gran voce l’Impero o i sesterzi: Io un’idea ce l’avrei per le elezioni, tutti in piazza Maggiore con una ramazza di saggina, a far vedere di cosa c’è bisogno a Bologna, Ha ragione la signora che ha appena telefonato, bisogna andarci giù pari, ma davvero, dare i manganelli ai vigili e dietro tutti i volontari con la scopa a pulire le schifezze che si vedono ogni giorno, Volevo dire anch’io che secondo me è più pericolosa via Irnerio della stazione, sa, altro che macchinette per limitare l’accesso al centro storico, Giusto, se cacciamo tutti i drogati e i barboni vedrai che c’è lo spazio per far entrare nel centro i bolognesi, sta’ a vedere che io che sono di Bulaggna non posso entrare in centro perché abito al Meloncello e i libanais son dappertutto che spacciano e rubano, Ho anch’io una cosa da aggiungere, quel covo di drogati punkabestia anarchici che è lì sotto il ponte della stazione, il Livello 57, proprio quello, con quelle feste che durano fino al mattino, come si chiamano, i rave party, proprio così, perché secondo me le bombe nelle discoteche ce le mettono loro, è tutto un racket, fanno chiudere le discoteche così i ragazzi la sera vanno da loro! Interessante questo intervento, commenta il Rocco, possiamo approfondirlo? Se posso lo approfondisco io che sentivo la radio qui al lavoro, perché io lavoro tutto il giorno, non vendo mica la droga per vivere, volevo dire che anche secondo me dopo le bombe in discoteca è arrivato il momento di chiuderlo quel covo di drogati dietro la stazione, che lo sanno tutti che non possono vedere quelli che suonavano in discoteca perché invece di suonare gratis da loro hanno fatto i dischi e i soldi e allora si vendicano. «Grazie, amici, come sempre Italiano vero dà voce alla gente, a chi ha da dire e non trova altro spazio, perché ricordate: Rocco D’Angelo non ha paura di niente e di nessuno, e adesso un breve spazio al nostro sponsor, poi l’editoriale del giorno». A fatica, sgomitando tra pensieri abortiti e cerebrali gravidanze isteriche, un’idea si fa strada nella mente del De Petris. Il collega al banco abbassa la testa in segno di assenso, come a dire che sì, è proprio ora si prendano provvedimenti contro quel locale pang, che qualcuno dia ascolto alla gente che si sfoga alla radio. Due possibili filoni d’indagine appaiono chiari, di un lucore abbagliante nella nebbia del caso-Pagoda: un possibile tentativo di costituzione di un cartello per il controllo degli spazi musicali cosiddetti alternativi, e una possibile vendetta contro i rapper fedeli alla lira che hanno tradito per sete di denaro. O magari – una volta lanciata a briglia sciolta l’immaginazione galoppa per praterie – entrambe le possibilità: due piccioni con una fava, una vendetta contro i venduti che al tempo stesso intimorisca i gestori dei locali. De Petris paga, saluta il collega e si affretta verso piazzale Galileo: c’è molto da lavorare, e non c’è un minuto da perdere. Ore 9.31. Invio: da telefono cellulare a telefono fisso. All’altro capo: Rocco D’Angelo, Radio Cuore Bologna. Luce rossa accesa: on the air. – …feste che durano fino al mattino, come si chiamano, i rave party, proprio così, perché secondo me le bombe nelle discoteche ce le mettono loro, è tutto un racket, fanno chiudere le discoteche così i ragazzi la sera vanno da loro! Luce rossa spenta. – Grazie per l’intervento, siamo fuori dalla diretta, a Rocco è piaciuto molto. Resta in ascolto su Cuore Bologna. – Interessante questo intervento, possiamo approfondirlo? Il conduttore fa segno al regista di passare il telefono 3, non il 2. Luce rossa: on the air. L’uomo al cellulare continua a sentire la diretta radiofonica dal suo portatile. Guarda l’altro lato della strada, nel bar di fronte. Dalla vetrina intravede Sergio De Petris, con una pasta in una mano e una tazza nell’altra. Ore 9.34. Invio: da telefono pubblico fisso a telefono fisso. All’altro capo: Rocco D’Angelo, Radio Cuore Bologna. Luce rossa accesa: on the air. – …è arrivato il momento di chiuderlo quel covo di drogati dietro la stazione, che lo sanno tutti che non possono vedere quelli che suonavano in discoteca perché invece di suonare gratis da loro hanno fatto i dischi e i soldi e allora si vendicano. Luce rossa spenta. – Grazie per l’intervento, siamo fuori dalla diretta, a Rocco è piaciuto molto. Resta in ascolto su Cuore Bologna. L’uomo al telefono riattacca. Torna al banco, toglie il piattino dal caffè lungo macchiato freddo, lo ammazza definitivamente con due cucchiaini e mezzo di dolcificante e lo beve. Fa segno al barista di mettere in conto. Invia un Sms dal suo telefonino: «tt ok». L’uomo al telefono esce dal bar Prezioso, attraversa piazzale Galileo ed entra nel suo posto di lavoro. 2. Chi trova un amico trova un tesoro Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 7. – Te l’ho mai chiesto com’è che c’hai quel nome lì? Don Ricrea sorride. No, Ruggero non gliel’ha mai chiesto. Non lui: ma quando ti capita la ventura di chiamarti Educando, prima o poi te lo devono venire a chiedere. Non subito, che sembra talmente buffo che all’inizio non si azzardano. Poi c’è la veste talare che intimorisce, poi è arrivata l’età, con i capelli bianchi. Insomma, un po’ per rispetto, un po’ per timidezza, cercano di non chiedertelo. Ma prima o poi lo fanno. – È merito della mia povera sorella, quella che non ho mai conosciuto. Morta di malattia due mesi prima che nascessi, poverina. Si chiamava Educanda, va’ mò a sapere perché aveva questo nome. Quando lei morì mia madre fu presa dal terrore che la malattia uccidesse anche me, e fece voto alla Vergine Maria che mi avrebbe chiamato come mia sorella, se fossi nato vivo. Sai quelle storie della pancia tonda e della pancia a punta per sapere se nasce un maschio o una femmina? Be’, io le confondo sempre, ma le levatrici del paese erano tutte concordi: nasce una femmina. Così al nome da maschio non ci pensò nessuno finché la levatrice, dopo avermi cacciato fuori il primo pianto con lo scapaccione, non esclamò: «Ah, ve’ ve’ al burdel: c’ha il pisellino!» E a quel punto… A quel punto la porta si apre ed entra Rachele, con la spesa del giorno: un po’ di verdurine fresche di stagione, che ci preparo quella buona minestrina d’orzo che le piace tanto, piace anche al signor Augusto? Che ce la preparo prima di andar via e stasera la mangiate riscaldata, che l’è più buona la minestra riscaldata, altro che storie, magari con dentro qualche crosta di forma che ci sta di un bene, poi qualche salume per il signor Augusto, salame, ciccioli, un po’ di mortadella, mica le fettine trasparenti che comprano oggi quelle signore tutte vestite bene per sembrare, e invece fanno tagliare il salume sottile così sembra di più, no no: tagliata grossa a coltello, e un po’ di scorte come mi ha chiesto lei, padre, che ora siete in due, che le ci voleva proprio un po’ di compagnia, poi insisto che in due mi sento più sicura, voglio mica dire, ma io continuo a vedere delle facce che a me piacciono brîsa qui in paese, ma solo a certe ore, che secondo me vengono da fuori e mi sa che un giorno o l’altro… – Un giorno o l’altro brîsa, Rachele: il Signore fa il giorno e fa la notte, il Signore ha fatto giorno anche oggi e lo farà anche quell’altro giorno. Ma prendi piuttosto una tazza di caffè, che non abbiamo aspettato te per farlo e ne è rimasto. A Rachele una tazza di caffè caldo non dispiace: anche perché quello vero lo beve solo da padre Ricrea, quando ne avanza e gliene offre. A casa sua Rachele continua a usare l’orzo, ormai è un’abitudine: dopo una vita passata a bere orzo, il caffè vero, come continua a chiamarlo, la lascia sveglia la notte. Giusto una tazzina ogni tanto, per non perdere l’aroma di novità che ha il caffè nella tazzina. Mette di buon umore, fa ricordare che sono passati i tempi in cui non ce lo si poteva permettere: soprattutto, ricordare il sapore dell’arabica tostata si associa alla mancanza di memoria della mistura di ceci tostati e macinati, che si beveva in casa prima di potersi permettere l’orzo. Quel sapore Rachele lo ha dimenticato, e le sta bene così. Finito il caffè la comitiva si scioglie: Rachele ha da sbrigare le faccende, e la cucina diventa il suo regno incontrastato. Don Ricrea deve catalogare alcuni vecchi documenti curiali: registri di battesimi, cresime, matrimoni che ha scovato chissà in quale fondo di magazzino, e che permetteranno di ricostruire qualche albero genealogico della comunità villanoviana. Augusto si è fatto scuro in volto, e senza dire una parola si alza lentamente, fa cenno a don Ricrea, saluta Rachele e va nello stanzino che è stato acconciato alla bell’e meglio come camera per gli ospiti, dopo una mezza litigata col vecchio parroco che voleva trasferircisi per lasciare il letto buono all’amico dei vecchi tempi. Ad Augusto piace più lo stanzino: c’è un lettino stretto ma pulito, un comodino su cui mettere I miserabili, che è ormai un anno che ci sta dietro e vuole finirlo, una mensola per appoggiarci la borsa da viaggio e una chiave nella serratura che era inutilizzata, ma che lui ha rimesso a nuovo con un cacciavite, un pezzetto di carta vetrata e due gocce d’olio di semi. Ora infatti la chiave fa trac quando Augusto la gira: un trac che fa trasalire Rachele, che al rumore della serratura non ci è abituata e guarda stranita la porta chiusa a chiave. In casa di don Ricrea non s’è mai chiuso a chiave niente, borbotta. Quando la chiave fa trac dentro la serratura, Augusto smette di esistere. La mano che fa girare la chiave è quella del signor Augusto, la mano che lascia la chiave a riposare nella serratura è quella di Ruggero Passarini. L’altra mano del Togliatti è sulla sua spalla sinistra. La spalla fa male. Il Togliatti apre la borsa. Estrae una piccola scatola bianca, di quelle che vendono in farmacia col necessario per il pronto soccorso. Ruggero apre la bustina che sigilla la siringa monodose, infila l’ago nella fialetta che ha appoggiato sul comodino e ne risucchia il contenuto. Fa uscire la goccia dall’ago per sicurezza. Si inietta il contenuto della siringa nel braccio sinistro. Avvolge nel giornale siringa e fialetta, per evitare che la curiosa Rachele le trovi: a buttarle via ci penserà stasera, quando la vecchia badante sarà andata a casa. Steso sul letto Ruggero si assopisce, con la faccia coperta dal libro che gli è cascato sulle palpebre. La bronchite lo fa russare. Sogna le fognature di Parigi: l’acqua marcia, il fango, i topi. I gendarmi armati di grandi torce per illuminare il mostro sotterraneo nel cui ventre fugge con la pistola in pugno. Al guinzaglio degli inseguitori: grossi cani neri che camminano sull’acqua. Il fiume di liquame sfocia in un laghetto nero come petrolio. Sull’acqua del laghetto un cadavere gonfio: il Cioccolata. Il Cioccolata alza un braccio, indica qualcosa col dito: che cosa? Mi sta accusando, pensa il Togliatti in sogno. Indica i gendarmi dietro di me? Guarda meglio, dice una voce al Togliatti: c’è una bandiera che sventola alle spalle del Togliatti. Una bandiera nera. Il Togliatti si rigira, il russare diventa un brontolio animalesco. Il sogno svanisce, ingoiato da una notte senza sostanza. Dall’altra stanza don Ricrea sente il suo grugnito d’animale. Silenziosamente abbandona il lavoro d’archivista, si inginocchia ai piedi del letto e inizia a pregare rivolto al crocifisso. Milano, San Vittore, biblioteca carceraria, ore 9.30. La narrativa italiana. Quella americana. Quella francese. Quella sudamericana. La saggistica è da riordinare: lasciala perdere, ci pensano quelli già esperti, ha detto il direttore. Va bene. Le riviste: vediamo che roba arriva qui. Gli abbonamenti: mmm… Dovrei fare domanda per le mie: vedremo. – Sei il nuovo arrivato? Il detenuto scruta con attenzione lo sconosciuto che gli rivolge la parola. – Cristiano Malavasi, omicida. Benvenuto tra i camosci meneghini. Se permetti ti dò una mano a raccapezzarti, così il lavoro ti riesce meglio. – Mi conosci? – So chi sei. Fuori dal 41 bis? – Sospensione. Trasferimento da Sollicciano a un carcere ordinario e permesso di lavoro in carcere: sono sotto osservazione. Comunque anch’io so chi sei, – aggiunge. – Uno come te lo avrei ammazzato senza problemi, fuori. – Anch’io, una volta. Ma la guerra è finita. – Finita? No. I generali sono tornati a casa, sempre che ne siano mai usciti. I generali e gli infami: i soldati, no. I soldati restano in prigione. – Che dici: la ricominciamo tu e io, la guerra? – No. Anche tu sei un buon soldato. Un uomo vero. – Soldato di niente, camerata. Soldato di niente e servo di nessuno, se non ti spiace. Sigaretta? – Sigaretta. Ci si può fermare a fumare? Si può. Il soldato Valerio Guerra – soldato politico Guerra Valerio, come gli piace essere chiamato – fuma con calma. Non è abituato alle cortesie: nelle carceri del 41 bis non usa, e comunque con uno come lui non usa mai. Da un combattente dell’altra sponda poi… La pelle di camoscio rende uguali, evidentemente. Finisce la sigaretta. – Mi dài una mano, allora? Cristiano scorre la lista, si muove con l’agilità di un Dj tra i suoi dischi: conosce a memoria quegli scaffali. Ogni libro, un codice: basta indicare, Valerio capisce. – Conosci la classificazione Dewey? Non la conosce: non è il genere di cose ha studiato Valerio. Pistole, armi da fuoco. Inneschi: in quello era bravo. – Il Dewey è in questo manualetto di biblioteconomia, dacci un’occhiata: dopo un po’ ci arrivi da solo. Il carrello dei libri scorre nei corridoi dei bracci, spinto da una strana coppia. Libro di qua, rivista di là. Alla fine si torna indietro. – Prendi un pacchetto, per il primo giorno. Non presentarti a mensa a mani vuote, è una questione di cortesia. Cortesia, certo. Perché a uno come Valerio Guerra nessuno va a dare fastidio in carcere. Però non c’è ragione di fare subito la faccia cattiva, questo lo capisce anche un soldato politico prigioniero. – Ti lascio un posto libero vicino al mio, se ti va. Poi facciamo un po’ di presentazioni, così sai con chi hai a che fare. Dei tuoi qui non ce n’è, mi pare. Gli va. Anche un ex nemico può meritare rispetto. Quelli che ha combattuto per davvero, il rispetto di Valerio non lo hanno mai avuto. Poi la vera nemica della Roma cristiana non era Mosca. Era Zicago: la capitale del maiale. Località non determinabili, ore 12.30. Schermo: acquario tropicale. Pesce palla. Alghe. Tostapane con le ali. Tasto F1: interruzione dell’acquario. Modem acceso. Enter. Connessione Internet: attivata. Request: Chat-line riservata. Password request. Insert password: ********. Second password request. Insert password: ******. Connected with: Chat-line riservata. Welcome. alfa?Chi è on line? zeta?Bel casino: non hai esagerato? alfa?Presto e bene spesso non avviene. zeta?Risultato? alfa?Fatto l’invio. Il fiammingo, dopo la transazione, ha prenotato il volo, il freezer per il pesce è pronto. Restiamo in stand by e vediamo. Ci sei, Lambda? lambda?Sì. L’orientamento è stato avviato. Tutto sotto controllo per ora. alfa?Per ora? lambda?Non è facile da controllare, lo sai. alfa?Che mi dici, Zeta? zeta?Non so se fidarmi di Ti. Al marinaio non piace, lo sai. alfa?Anche Ti è sotto controllo. Il marinaio ci viene utile per far la guardia al pesce: due occhi vedono meglio di uno, quattro meglio di due. lambda?C’è qualcos’altro. Una sensazione, niente di preciso. Chiedo il permesso di effettuare un’altra rilevazione ambientale. alfa?Hai carta bianca, mi fido del tuo istinto. Serviti nel solito emporio. lambda?Ti tengo informato. alfa?Anche tu, Zeta. zeta?Cosa? alfa?Tienimi informato. zeta?È il mio mestiere. Exit. Bologna, quartiere Bolognina, ore 13.05. – Allora? Mi fai vedere? – Facilissimo. Scotti i San Marzano giusto il tempo che la buccia cominci ad aprirsi. Li tiri su e li passi. Soffritto a piacere: io preferisco farlo così. – Il cipollotto, il bianco del sedano… anche il verde del cipollotto? E quell’erbetta lì, quella che hai messo insieme al prezzemolo? – Finocchietto, – dico indicando con fierezza il vaso di finocchietto accanto a quello di basilico. – Aromaterapia, sono sicuro che è una delle tue passioni. Be’, io la mattina mi tiro su con l’odore del basilico e del finocchietto. Lara sorride, divertita. La lezione di cucina le mette buon umore. Anch’io sono di buon umore, vedendola con indosso una maglietta delle mie che la copre appena. Ci ho messo dieci anni per meritarmi una mattina come questa: una mattina dopo una notte come questa, voglio dire. – Soffriggi a fuoco bassissimo con l’olio d’oliva, bene così, lo spicchio d’aglio vestito lo togli, brava, sfumata di vino bianco, lasci evaporare… giù la salsa. Bastano cinque minuti. Lara esegue compita, mescolando il sugo col cucchiaio di legno nel wok. – A proposito, perché usi il wok? – Perché è concavo e rende meglio. Ecco, appunto, mi passi quel pentolino? Sì, proprio quello dell’acqua bollente. Allora, adesso ti spiego: allunghi la salsa con l’acqua bollente, ci butti dentro la pasta e la fai cuocere dentro. Volendo puoi barare: mezza cottura della pasta in pentola, e poi nel sugo. Ecco, brava: devi girare ancora. Ci aggiungi un filo d’olio per non farla attaccare sul fondo, e un buon bicchiere di vino. Una poesia. L’odore del pomodoro fresco, il basilico, le risate di Lara che si fa schizzare il sugo sulla maglietta, la manata di foglie di basilico buttate giù all’ultimo minuto, e il bicchiere di Schiava Gentile del Trentino ghiacciata come aperitivo. – Buono questo rosé, – dice convinta l’intenditrice. – Io ci avrei visto più una falanghina, ma se in casa non… Oh, dimenticavo: ho un bianco della Galilea da bere insieme a te. Stasera, assolutamente: anche con olive e parmigiano, se vuoi. Certo che voglio. Lara versa la pasta nei piatti, fa le parti e mi guarda perplessa: mi sa che abbiamo esagerato con la pasta, qui ce n’è per tre. Niente di più facile: non sono più abituato a cucinare per più di uno. – Be’, vorrà dire che… Suonano alla porta. Guardo Lara, i due piatti, la padella con ancora una mezza porzione di ziti spezzati, i due bicchieri già pieni di vino rosato. Vado a sentire. Uno di quei giorni in cui il mondo gira all’incontrario: è Andrea. Chiede se lo invito a pranzo. Mare Jonio, acque internazionali. Peschereccio San Michele, ore 13.20. Si sente a fiuto: scirocco in arrivo. Una questione di odore, di colore del mare. Di sensazione su per la schiena, anche: non si abita il mare se non si conoscono i suoi venti. La depressione si sente sulle braccia, la senti con le vene. La costa albanese si annebbia in lontananza. L’umidità sale. Le nuvole si muovono frettolose verso nordovest, in diagonale. Non mi piace lo scirocco, pensa l’uomo col pizzetto. La bora scura è più franca, più dura anche. Non c’è appannamento lontano: la visibilità cala, lo sai che arrivano schiaffi feroci. Ti prepari, aspetti la grandine, la neve se è inverno. Lo scirocco è infido, mette stanchezza nelle ossa. Devi fare attenzione. Sotto Genova lo scirocco prepara il libeccio, sai che la pioggia diminuirà: ti prepari alla risacca. Lo scirocco no: è volubile, incerto. Insidioso come un serpente. Niente da dire: bisogna esserci nati, e l’uomo col pizzetto è uomo di bora, chiara o scura che sia, non di scirocco. Il fax entra in funzione. Documentazione di accompagnamento. Cooperativa Stella Maris, Taranto, via Garibaldi. Taranto: base di massima sicurezza, livello di protezione 1. Invio: cellulare satellitare con scheda internazionale. All’altro capo: peschereccio San Michele, cellulare satellitare con scheda croata. Beta: – Arrivato il fax? – Sì. Beta: – Punto di navigazione? – Tra Santa Maria di Leuca e una sciroccata. Beta: – È tutto pronto, ti aspettano. – Bene. Fagli sapere che mi fermo. Il mio pesce preferisco sorvegliarlo di persona. Beta: – Ne ero certo. Tieniti a distanza. – Non preoccuparti, mi basta essere nei paraggi. Non si sa mai. L’uomo al telefono richiude l’apparecchio, estrae la Sim Card e l’accartoccia nella mano. Riflette. Rilegge la stampata della chat: la squadra bolognese sembra in grado di muoversi di propria iniziativa: Alfa ha messo su un buon gruppo. Quanto a Zeta, è sempre quello di una volta: ci si può contare. Che faccia un solo gioco: questo è un altro discorso. Ma è sotto osservazione anche lui, e lo sa. Zeta non è stupido. Il cameriere arriva col vassoio. Brandy stravecchio nel bicchiere. Antipasti. Il Club non è molto affollato oggi. Alle 14 appuntamento con gli emissari: vogliono essere tenuti al corrente. Mantenersi sul vago: il progetto è troppo importante per essere anticipato. Il vero punto della situazione stasera, altrove. Stanno tornando insieme i pezzi sparsi del puzzle: tranne qualche vecchio idealista, ovviamente. Perché c’è persino chi crede ancora nell’ideale. Come Ti? La maggior parte voleva tenerlo fuori: il suo gruppo era l’unico disponibile in loco in tempi brevi, la sua esperienza è una risorsa troppo preziosa. Beta è abituato a pensare per alternative: la linearità è il forte delle menti semplici come Alfa. Guarda il calendario. San Michele arcangelo: l’angelo sterminatore. Il belga è in naftalina, pronto all’uso. Mai implicato in movimenti politici, mai agito fuori dal Brabante: irrintracciabile. Non ci saranno rivendicazioni attendibili. I dati forniti ad Alfa per la rivendicazione sono inesatti, la sua chiamata non sarà creduta. Altre sigle dal suono improbabile rivendicheranno ai quattro angoli d’Italia, con accorta mescolanza di vero e falso. Due uomini in abito blu scuro entrano nel Club, preceduti dal direttore di sala. Vengono a sedersi, aspettano informazioni. Beta è qui per dargliele. Saranno accuratissime: le crederanno vere, non c’è dubbio. Anche i loro referenti politici le crederanno vere. L’uomo noto come Beta ha un leggero sorriso: il fascino discreto del passato. Come rivedere un vecchio film con Lana Turner, come riascoltare una vecchia canzone di Nat «King» Cole, come riguardare una partita della Juve di Boniperti e Sivori. Come rigiocare un vecchio gioco già noto. Unforgettable, that’s what you are unforgettable, tho’ near or far… 3. Cowboys from Hell Bologna, quartiere Bolognina, ore 13.30. Una di quelle giornate in cui il mondo ruota all’incontrario: Andrea e Lara seduti al mio tavolo come ai vecchi tempi, penso mentre vedo Lara riempire sorridente il piatto di Andrea, mentre l’odore del pomodoro si mescola nell’aria con quello del basilico, mentre passo il cacioricotta siciliano, con questo è meglio, fidati, mentre i bicchieri tintinnano e il rosé si agita, mentre sbriciolo un peperoncino sul mio piatto e ne passo uno ad Andrea, come ai vecchi tempi in cui Andrea non diceva una parola e infatti è lì che mangia con appetito ed educazione, il che vuol dire che ha una buona scusa per non parlare, mentre Lara con un pezzo di pane fa scarpetta nel piatto tirando su il sugo residuo mescolato con gli angolini degli ziti spezzati che restano sempre sul fondo, come ai vecchi tempi penso mentre mi tocco inavvertitamente l’occhio con le dita e un quasi impercettibile granello di polvere capsica mi infiamma la visione, mentre l’ultimo bicchiere di vino va giù. Come ai vecchi tempi. Che sono andati via portandosi dietro metà della mia vita, penso mentre vedo Andrea e Lara, e mi assale l’angoscia che debbano andar via anche loro, che il buco nero che ha risucchiato Barbara e Cristiano si stia per riaprire per togliermi anche questo istante di felicità. – Ehi, cos’hai? – sento chiedermi dalla voce di Lara. – Hai una faccia… stai male? – No, non ho niente, – rispondo sottovoce sforzandomi di sorridere, – scusami, non so cosa farci, ho bisogno di un minuto solo poi vi faccio il caffè, faccio quello buono, vedrai, vedrai… Poi non dico più niente, avvolto dal calore del corpo di Lara che mi abbraccia e mi stringe chiamandomi piccino mio, tesoro mio. Poi il calore scioglie la paura. Finisce così, improvvisa com’è iniziata. Ricambio l’abbraccio, accarezzo Lara. Andrea mi guarda senza alcun commento. Lo sa come sono fatto, sa perché faccio così, sa che non c’è nulla da fare: aspettare che passi, e far finta che non tornerà più. Caffè napoletano e cremini: cos’altro, per concludere? Mentre scarto il cioccolatino in attesa della lenta calata del caffè, mi ricordo del cellulare buttato via: chissà se Andrea… – Mah, se l’hanno ritrovato e riconsegnato non è un problema, al più posso cercare di farti risparmiare tempo… Aspetta che sento, tanto agli uffici c’è Chiara… Estrae il suo telefonino, compone un numero dalla rubrica: – Chiara? Sì, sono io. Ascolta, oggi dove sei? Sempre ai passaporti? Ascolta, puoi farmi una ricerca? Si tratta di un telefono cellulare, è di quel mio amico che… sì, quello… smarrito, sì, dovresti vedere se è stato ritrovato, magari chiama gli oggetti smarriti, tanto per fare prima… sì, te lo passo, grazie, sì, certo che ti chiamo dopo, no, sono a casa sua, sono andato via, poi ti dico, no, non sono le mie solite fisse, ho avuto una mattina di merda, guarda, magari ci guadagni che per un mese sono in ferie e ho tempo anche per te, sì, sì, ma figurati, sì, te lo passo, ciao. Prendo il suo telefono perplesso da tanta logorrea, e soprattutto da quello che mi sembra di avere capito, dico alla sua amica com’è fatto, dove potrebbe essere stato ritrovato, le passo il numero. Molto gentile e disponibile, sembra. Il caffè è sceso: si può versare. – Allora, questa storia delle ferie? – Lo vuoi proprio sapere? – mormora con un tono alla Alan Ladd. – Scusate, cow-boys, se dovete parlare di cose importanti e segrete io mi apparto e vi lascio al vostro testosterone, – canzona Lara. Dalla faccia di Andrea deve aver capito che non tira una bell’aria. – No, figurati, – fa Andrea, – poi è lui il misantropo clinteastwoodiano, – dice serio, indicandomi. – John Wayne le donne le ha sempre trattate con rispetto. – John Wayne? Quel fascio maschilista, per di più malato di travestitismo? – risponde piccata Lara, che non sa della storica scissione dei Quattro gatti in due fazioni: gli spontaneisti della Colonna Clint Eastwood e i duri del Nucleo John Wayne. – Fascista John Wayne? Ma tu li hai conosciuti i fascisti veri? – risponde Andrea punto sul vivo. – No che non li ho conosciuti, bellezza: ho bisogno di conoscerne uno per dire che John Wayne è un fascista? Poi, se non ci fossimo noi bambine ignoranti, voi vecchietti a chi raccontereste le storie, la sera, prima di andare a dormire? Mi aspetto di sentire la storica «John Wayne è un compagno che sbaglia», uno dei pezzi forti di Andrea e Cristiano, ma Andrea sa quando è il momento di mollare il colpo. Sorride e alza le mani in segno di resa. Insomma, comincia Andrea, come avesse già iniziato a parlare e stesse continuando un discorso, avevo in testa un’idea. Nulla di preciso, ma qualcosa come una sensazione vaga di aver capito come procedere. Vado dal commissario Valente e gli chiedo l’ausilio di un agente della polizia postale per un’indagine informatica. Ora, va bene che io e quello lì non ci siamo mai presi, ma sto pur sempre facendo il mio mestiere, no? Scusa, lo interrompo, io non so neppure chi è questo commissario Valente: perché non vi prendete bene? Ma dài, mi interrompe Lara, lo so persino io, è quel… quel… be’, a lui posso dare del fascio, o te la prendi di nuovo? No che non me la prendo, sorride Andrea. E tu come fai a saperlo?, chiedo io sentendomi improvvisamente scavalcato, lo so perché è quello stronzo che era sempre in prima fila davanti ai centri sociali, una volta ha tenuto bloccata anche me un’ora per un controllo documenti all’esterno del Livello 57, la vecchia sede, col freddo che faceva e lui che se la rideva, e a proposito, che ne sai delle voci che dicono che entra in politica? Andrea abbozza un mezzo sorriso, prende una pausa come stesse fumando una sigaretta e dice che sì, sembra che voglia tentare la strada della politica, che abbia già incassato l’appoggio del segretario nazionale del movimento politico, ma è un’altra storia, e comunque credevo che proprio per questo un’indagine risolta gli potesse far comodo. E invece?, chiedo io dopo che si è fermato, e invece niente, risponde Andrea scuotendosi dal torpore di un istante, invece mi ripete la stessa tirata del questore di ieri sul mio modo di lavorare, sul mio procedere come un cane sciolto, altro che lavoro di squadra, poi cos’è questa indagine informatica, un vecchio partigiano ammazza due anziani cittadini e l’ispettore Vannini vuole indagare su una delle vittime, ma dove siamo finiti, e inoltre cosa significa questa reticenza del tuo amico giornalista, Vannini, perché lo so bene che se quel tuo amico invertito scrive queste scemenze è d’accordo con te, uno come lui sulla notizia ci si butta come un cane sull’osso, altro che elencare ipotesi vaghe. – Insomma, hai capito dove voleva arrivare? – conclude Andrea. – Veramente no. Però so ancora fare due più due, se ti ha ripetuto le stesse cose che ti aveva detto il questore… insomma, dev’essere stato Valente a imbeccare il questore, no? – Chiaro che sì. Almeno questo adesso l’ho capito. Per finire: sai che a settembre in genere io prendo due settimane di ferie, no? Be’, lo stronzo si è preso la briga di contarmi anche i giorni di ferie non godute che devo recuperare, e mi ha caldamente invitato a prendermi un mese di riposo, così la smetto di intralciare il lavoro e mi dò una calmata: che secondo lui ho i nervi a pezzi, io. – E tu? – Gli ho detto che ci penso su due giorni e gli so dire. – Davvero? – Ho bisogno di capire cosa sta succedendo. Forse non è una cattiva idea, dopo tutto: magari se mi tolgo di mezzo la calmata se la dànno loro e mi lasciano in pace… Capito. Non c’è bisogno di dirci altro. – E magari domani ci vediamo a prendere l’aperitivo? Magari con un certo giornalista, giusto per non essere da soli? E magari anche con la tua amica Chiara? – No, non Chiara, – risponde Andrea con la faccia più naturale del mondo, – lei è meglio lasciarla fuori. Con l’agente Valle, magari. Ecco, appunto: la sua nuova squadra. – E io resto a casa a lavare i piatti? – interviene Lara. – Non è che il testosterone che quattro maschi sono capaci di generare ti dà fastidio? – risponde Andrea. – Fottetevi, stronzetti! – conclude Lara mostrando l’unghia smaltata del dito medio. Ore 15.40. There is a town in north Ontario with dream comfort memory to spare and in my mind I still need a place to go all my changes were there… – Questa la conosco! – esclama Lara tirandosi su dai cuscini. In un film la sua preoccupazione principale sarebbe di afferrare il lembo del lenzuolo per coprirsi pudicamente i seni, ma per fortuna la vita non è un film: niente spettatori, niente macchine da presa, e soprattutto niente falsi pudori o pseudometonimie del tipo seno coperto dal lenzuolo = corpo nudo a letto. – Dài, cos’è questa canzone? È un colpo basso, dovrei risponderle. La versione di Nick Cave: uno dei vertici di questo grande poeta. Tutta la melodia del vecchio Neil Young depurata dalla spennellata di sciroppo d’acero west coast che lo zio Neil si sentiva in dovere di aggiungere per addolcire. – Però, scusa, non è che il tuo amico avesse del tutto torto… – Torto? Chi? – Andrea, no? Pensaci un attimo: probabilmente un’indagine in Rete fatta bene è quello di cui lui ha bisogno… solo che è un poliziotto, no? Helpless, helpless, helpless baby, can you hear me now? The chains are locked and tied across the door baby, sing with me somehow. Non so perché, ma qualcosa mi sale dietro la schiena: come un sottile timore, misto al gracchiare del grillo parlante che sta per dire il fatidico poi non dire che non te l’avevo detto. – Sì, insomma, deve attenersi alle regole: non può mica violare la legge, no? La beata innocenza della generazione allattata dalla mamma che guardava Happy Days. – Ma noi no! – conclude saltellando sul letto, – noi no! – aggiunge per buona misura mentre il moto ondulatorio del suo corpo si trasmette ai suoi seni. – Noi no che cosa, Lara? Cosa c’entriamo noi? – Non hai un’indagine da completare, tesoro mio? – sussurra con voce suadente. – Un’indagine che riguarda l’ambient delle posse bolognesi? E non hai voglia di sapere chi ha cercato di far saltare in aria la tua morosa prima ancora che riuscisse finalmente a portarti a letto? Un po’ di amor proprio, non lo so, quelle cose in cui voi testosteronici siete bravissimi, tipo legarvela al dito e decidere che non è finita finché non l’avete fatta pagare a chi vi ha rovinato la serata? (Lara, tesoro, luce degli occhi miei…) – Anche noi abbiamo un’indagine da svolgere, no? (Com’è che siamo passati da tu al noi?) – Ma non siamo del tutto obbligati a rispettare la legge: mica lo difendiamo noi, l’ordine pubblico, no? Giù in cantina devo avere ancora l’archivio con i ritagli di giornale degli anni Settanta: mi sa che devo portarlo su e dare una rispolverata a qualche pezzo di carta, tanto per spiegare due o tre cosette a questa ragazzina, che per la verità non ha l’aria di una che ha voglia di farsi spiegare come vanno le cose. – Insomma, possiamo farlo! (Lara, tesoro, luce degli occhi miei: in che casino stai per cacciarmi?) – Dunque facciamolo! – Cosa? – le chiedo sfiduciato: perché l’ho capito dove vuole arrivare. – Andiamo a casa di Speacker dd, le chiavi le hai ancora, no? Entriamo in Rete col suo navigatore e facciamo una ricerca estesa intorno alla discoteca, ai suoi proprietari, leggiamo i bilanci, i conti in banca, tanto in queste cose tu sei bravo. Facciamo quello che si deve fare! – Adesso? – No, bello, non adesso. A meno che tu non voglia abbandonare questo letto proprio ora, – risponde col tono di chi chiede se il cliente gradisce panna o sciroppo d’acero sulla torta di mele. – Sembra che oggi tu abbia un’unica idea in mente… – Fottiti, stronzetto, sei tu che ne hai una sola: io ne ho molte, e non vorrei che qualcuna andasse sprecata. Nizza (Francia), stadio comunale, ore 20. Bonne soiré à tout le monde!, introduce il tipo sul palco. L’aria è fresca, il pubblico très sympa, insomma si sta bene. Il gruppo supporter è a sorpresa: vediamo chi capita. Le voci si sono susseguite, più o meno improbabili: dato per quasi certo Johnny Halliday, tanto per far vedere lo sciovinismo francese fin dove può arrivare. In realtà Ferodo non ha molto interesse per i supporter, più che altro serviranno per creare spazio. Non è il massimo un appuntamento nella calca, era meglio fuori, ma vai a ragionare con MicMac: testa dura d’un casseur. Mesdames, Messieurs (valanga di fischi, lattine di birra in volo, pugni protesi a prolungarsi nel medio), Macs et Nanas… voilà Les Carcass. Boato: i Carcass come antipasto: niente da dire. Migliaia di metallari si alzano di scatto per occupare le migliori postazioni, la calca per la conquista del sottopalco lascia già capire cosa succederà quando i Pantera saliranno sulla scena. Ferodo sorride: sarà più facile sgomitare tra la massa estenuata da un’ora di concerto. Vibracall in funzione. Questo numero lo hanno solo in due: o è Lara, o è lui. Numero non disponibile: naturale, Jean-Claude non dà il suo numero in giro a nessuno. Anche perché il cellulare sarà ricettato: poco ma sicuro. Ore 20.30. I Carcass ci dànno dentro con forza, lo stadio è una bolgia. In disparte, due vecchi amici si godono lo spettacolo. Due hacker: è così che si sono conosciuti, anni addietro. Per Ferodo è un mestiere: un hacker a doppio livello, a seconda del cliente. Se serve si cala in un rispettabile fumo di Londra: il più delle volte non serve. Il più delle volte chi paga non bada all’abito. A volte chi paga è il destinatario della commessa precedente: Ferodo ha combattuto alcune guerre aziendali creando virus o spiando bilanci per conto del tale contro il talaltro, e ha snidato i suoi stessi giocattoli nei sistemi informatici del talaltro. Per ogni evenienza Ferodo lascia sempre una backdoor ben nascosta dove è passato: non si sa mai, potrebbe venire buona domani. È stato Lester a insegnarglielo: le backdoors di Lester sono ancora in giro, non tutte quelle installate sono nella Lista. È rimasto quasi solo, Ferodo, a cercare di completare la lista: gli altri hanno mollato, terrorizzati. Qualcuno ha addirittura venduto il computer. Ferodo no: non per ora, almeno. Jean-Claude Mové è un altro tipo di hacker. Hacker per divertimento, o per rimpinguare lo stipendio: non è che a Marsiglia i bidelli li paghino granché. Hacker per passione politica, forse: sempre che il suo radicale nichilismo si possa definire politico. In effetti Jean-Claude non ama la politica: non ama le chiacchiere, i compromessi, le trattative. Il suo orizzonte politico si arresta al rogo del prossimo cassonetto. No future, per J-C: anzi, per MicMac, o 2M, come lo chiamano, o come si firma quando non cerchia una N frecciata. – Allora? Sempre a guidare le rivolte dei casseurs? – Pas du tout, mon chou. Per guidare qualcuno bisogna avere un posto in cui portarlo, n’est pas? E io non faccio il pifferaio magico. Nessuno guida nessuno, mon petit, né dentro la banlieu né fuori, in Babylon: chi crede di farlo si illude. Comunque il calore di un cassonetto scalda sempre il cuore: ma non è tutto, lo sai. C’è qualcosa nell’aria, si respira, e non solo a Marsiglia. Dovresti venire, una volta o l’altra, dovresti vedere. Qualcosa che cresce: si sente. – MicMac, MicMac… un giorno o l’altro con la politica passerai un guaio. Ti butteranno dentro e ti faranno pagare anche quello che non hai fatto. – Allora sbrigati a offrirmi un’altra birra, finché sono in tempo per berla, – dice serio 2M. Ore 22.30. Il concerto dei Carcass ha ottenuto l’effetto voluto: sfiancati da un’ora abbondante di potenza musicale, i conquistatori della prima fila sono stati travolti da un gruppo ridotto ma assai ben preparato. Una piccola falange di marsigliesi con bandana nera si è incuneata subito: gli occupanti dei primi posti, conquistati a fatica con una notte in sacco a pelo fuori dello stadio e un’intera giornata passata ad aspettare, sono forzati ad aprire un varco e accettare i nuovi arrivati. Se ci si stringe c’è posto per tutti: per il cockney, per l’argot, per il patois. E anche per il macaroni, perché c’è uno della banda marsigliese che mastica il patois con una evidente inflessione d’oltralpe. Primi segnali dell’imminente inizio: uno dei ragazzi del backstage fissa un foglio per terra, più o meno dalle parti dei microfoni: la scaletta della serata. Un metallaro dall’accento scottish sale sulle spalle del suo amico, si piega, usa l’amico come trampolino e balza sulla balaustra che delimita il palco, da lì un balzo in alto cercando di intravedere la scaletta. Riatterra sulla balaustra, si volta e alza due dita in segno di vittoria: la stessa scaletta di Barcellona. Brano d’apertura: Cowboys from Hell. In un tripudio di gioia i Pantera fanno il loro ingresso sul palco. Mentre parte la suite introduttiva, i marsigliesi fanno vedere di cosa sono capaci: una, due, tre bandane nere rotolano sulle onde delle braccia dei loro cam’rades in un subitaneo waveing che catapulta oltre la balaustra tre agguerriti fan. Il confronto col servizio d’ordine è breve e incisivo: nelle mani dei marsigliesi spuntano lame da venti centimetri entrate a dispetto delle accuratissime perquisizioni all’ingresso: voi pensate al vostro lavoro, noi saltiamo sul palco. Non c’è trattativa: ogni altra soluzione implica lo scontro fisico. Under the lights where we stand tall nobody touches us at all showdown, shootout, spread fear within, without we’re gonna take what’s ours to have. Uno dopo l’altro i nuotatori rotolano sulle teste delle prime file. Alcuni si fermano, altri cadono sorretti da braccia casuali e fortuite, qualcuno arriva alla balaustra e prende lo slancio: balzo sul palco, accenno di ballo, piedi puntati sul bordo del palco, stage down: l’anima del punk, fracassare la barriera tra gruppo e pubblico. Gli armadi del servizio d’ordine mostrano i muscoli al di fuori delle magliette gialle recitanti «Staff», spalle al palco fingono di non vedere e controllano la tenuta delle transenne. Ferodo non fa waveing: troppo pericoloso, roba da ragazzini. Perdi l’onda e cadi di schiena, o di faccia senza protezione, e ti rovini. Salta sulla balaustra aiutato dalle mani a coppa di MicMac su cui fa perno, usa lo slancio del primo salto come carica e rimbalza sul palco, giusto alla distanza per un cinque veloce al roady che sorregge la seconda chitarra, pronta al cambio, di Dimebag Darrell. Poi si ferma: immobile. You see us comin’ and you all together run for cover we’re takin’ over this town. La scena è stata raccontata dalle cronache del concerto: un fan salito sul palco ha estratto il cellulare e ha mimato una chiamata per Phil Anselmo, dice l’intuitivo inviato di «Rockerilla». Phil ha mimato la risposta, il pubblico ha riso, dice il cronista. Non è andata così. Il vibracall del cellulare appeso alla custodia sotto la maglietta ha vibrato. Ferodo ha risposto. Sono solo in due ad avere questo numero. Uno è qui sotto il palco, l’altra sa dove sono: se chiama è importante. Ci sono poche ragioni per cui Lara può chiamare stasera. Ferodo ascolta. Risponde secco: sono al concerto dei Pantera, arrivo domani. Chiudi tutto. Ripone il cellulare, allarga le braccia, fa leva sulle molle d’acciaio che sente di avere alle caviglie, flette i piedi e spicca il volo. Un angelo nero plana tra braccia amiche che lo attendono. Deed is done again, we’ve won ain’t talking no tall tales friend ’cause high noon, your doom comin’ for you we’re the Cowboys from Hell. 4. Ultimo domicilio sconosciuto Bologna, via Santo Stefano, ore 20.05. – La gorgonzola e salamino piccante è tua, na-tu-ral-men-te. – Gorgonzola, salamino piccante e doppia mozzarella. Tu cos’hai preso? – Verdure grigliate e bufala: equilibrata, vegetariana e leggera. – Sì, sì, certo, la pizza-diet a struttura nutritiva logaritmica. Vedi di godertela, che alla mensa carceraria non ce l’hanno, il dietologo. – Fottiti, stronzetto! Inizia così, la notte degli hacker. Due pizze nel cartone, ordinate col corriere e debitamente aggiunte al conto spese del dottor Albergani, e un cartone di birre indiane – Mi spieghi dove trovi otto birre indiane a quest’ora a Bologna? Conosco uno che le procura per il ristorante indiano, senti che buona. Sì, d’accordo, ma come fai a conoscere il fornitore del ristorante indiano? Tu non fare domande indiscrete e io non ti dò risposte che non vuoi avere! Chiaro e forte, passami la birra di Tremal-Naik, Di chi? Mai sentito Tremal-Naik? No, mai sentito. Nella sua infanzia Candy Candy, Jeeg robot d’acciaio, Furia, e ovviamente il mito di sua madre oltre che il suo, l’oggetto delle prime scenate di gelosia: Fonzie. Una cosa comunque è certa: questa birra è davvero buona. Bene, vediamo di metterci all’opera. Più che altro vediamo di capire da dove si parte. – Be’, per prima cosa proviamo a mettere in un motore di ricerca qualche nome: Pagoda, Digger’s Voice, per cominciare. Poi vediamo. Risultati: niente di utile. Un elenco di recensioni, pochissimo sul Pagoda, giusto l’elenco dei concerti della stagione. Tanto per dire che non c’è una linea artistica: l’unico criterio sembra essere quello del profitto. Ma questo lo si sapeva già. E adesso? – Vediamo un po’… per avere l’elenco dei membri della società proprietaria del Pagoda tu dove andresti? – Io? Alla Camera di commercio di Bologna, direi. – Camera di commercio? E cosa ci potremmo trovare nell’archivio della Camera di commercio? – La registrazione di tutte le società che hanno attività economiche a Bologna. L’elenco dei soci. Le sedi delle loro diverse diramazioni. Un sacco di roba, a sapersi muovere… – È così che fai, quando segui un’indagine? – Più o meno. Chiedo qualche certificato, magari passo una banconota a un amico che mi stampa qualcosa che non potrei vedere senza autorizzazione… – Bene, – mi apostrofa seria. A questo punto lascia fare a me. Mentre parlavo Lara era già sulle tracce della Camera di commercio. Prende qualche dato, inserisce un programma nella scatoletta che ha collegato al computer – si chiama drive esterno, la scatoletta – ecco, appunto, nel drive esterno, e nel giro di un quarto d’ora mi fa, trionfante: – Chi conosci di questi signori? I soci della Pagoda S.n.c.: una dozzina di nomi, capeggiati dal presidente Alfio Molina da Viserbella (Rimini), nato il… Scorro la lista dalla A alla Z, meglio, da Astolfi Giacomo a Ventotene Giuseppe, risalgo da Ventotene ad Astolfi, niente di che… Però… l’undicesimo nome è Varisi Vittoria… – Conosci? – Diciamo che so chi è. Lei e il fratello sono figli di un industriale morto anni addietro. Li ho conosciuti durante un’indagine, hanno un’agenzia di viaggi dalle parti di via San Mamolo. Non mi erano piaciuti, detto come va detto. Cosa ci faranno in una discoteca? – Il Pagoda è un affare puramente economico, lo sanno tutti. Investono nel mattone: solo che questo mattone suona e canta. Il Molina, per dire, produce piastrelle in Romagna. – Sì, sì… puoi scoprire qualcosa di questa signora? – Certo. Entriamo nell’archivio della Cciaa e facciamo una ricerca per nome. Non è difficile, non hanno un gran sistema di protezione. Del resto non sono notizie segrete, stiamo solo prendendo una scorciatoia… eccola qui. Il fratello si chiama Umberto, vero? Ecco tutte le sue attività: partecipazione a una società di costruzioni, la discoteca e le agenzie di viaggi, che sono diventate due: una in San Mamolo e un’altra in centro. Le agenzie sono intestate a lei e al fratello: la sede centrale è in piazza Theodore Roosevelt, agenzia Easy Travel: aperta nel 1995, viaggi, alloggi, ricerca lavoro in Inghilterra e Spagna. Affiliata alla Meeting Centre, con sede generale a Londra. Ti dice niente? – No, su due piedi no. Però, visto che ci siamo, mi fai una ricerca del genere sugli altri undici della Pagoda S.n.c.? – Una ricerca estesa? Se mi stappi un’altra birra e ti armi di qualche minuto di pazienza… Un’altra birra a testa, mentre le dita di Lara sfiorano la tastiera. Sembra quasi che finga, come gli attori che sfiorano i tasti del pianoforte nelle scene in cui devono interpretare un pianista. – Una volta era più che un hobby, sai. Eravamo più che un gruppo, eravamo una vera famiglia. Abbiamo fatto scherzi famosi: ti ricordi dei vermi che dilagavano sui monitor della Rai durante la trasmissione del sabato sera? Ne avevano parlato tutti i giornali: eravamo stati noi. Un’altra volta abbiamo pubblicato il necrologio di Paperinik sulla pagina culturale del «Corriere», con tanto di foto. Poi è finito tutto… pazienza… C’è qualcosa di particolare in Lara mentre parla di queste monellerie: non ha l’aria di chi racconta le ragazzate del passato, non ha un minimo di nostalgia. Sembra che le si induriscano gli zigomi. – Perché avete smesso? – Uno di noi è morto, devo avertelo detto, mi sembra. Era il più bravo, lui ci lavorava per davvero, progettava e vendeva programmi. Voleva creare una vera e propria società, usare i brevetti come base per… insomma, hai presente Linus Thorvald? No? Linux? Un sistema operativo gratuito, open source… be’, Lester aveva la stessa idea, aveva anche contattato Linus, si erano scambiati dei consigli. La morte di Lester è stato un brutto colpo per tutti. È rimasto uno solo a fare l’hacker, quel mio amico dei frigoriferi, ti ho raccontato, no? Oh, ecco qui le liste. Cosa ti serve? – Una camicia lavata e stirata, direi. A parte quella: puoi ordinarla per attività economiche, invece che per nomi? – Ti creo una tabella. Intanto vuoi che stampi questa roba? – Sì, grazie. Stampa pure. – Allora, Sherlock Holmes, chi ha messo la bomba alla discoteca? – Calma, calma. Non ci sono costruttori di bombe qui dentro. C’è di tutto, saranno una novantina di attività, roba da rendere dura la vita anche all’illustre occupante del 221B di Backer Street. Che dici: una soluzione al sette per cento per rianimarci? – Sette per cento di cosa? – Di coca. Non lo sai che Sherlock Holmes si inietta cocaina diluita al sette per cento per ammazzare la noia? – Dovrei bastarti io per ammazzare la noia, bello. Sono al cento per cento, non intossico, e a quanto pare, – aggiunge con una leggera nota di sarcasmo, – non dò dipendenza. Non subito, almeno. Fa lo stesso se ti passo una birra? Ehi, possibile che ti incanti senza preavviso? – No, scusa, mi sono accorto di una cosa. Guarda qui: questo Belli Moreno, uno dei soci della Pagoda S.n.c., è nel consiglio di amministrazione della Società assicuratrice Tassone e soci. Hai presente? L’indagine di cui si sta occupando Andrea: il fondatore di questa società è stato trovato morto l’altro giorno, e uno dei soci è uno dei proprietari di questa discoteca nella quale hanno messo la bomba. – Vuoi dire che ci siamo? – esclama Lara saltando giù dalla sedia e gettandomi le braccia al collo. – Non lo so, però qualcosa può significare. Hai presente la storia del tacchino? Be’, oggi è il 5 settembre, quindi siamo autorizzati a fare un passo per volta. Per il momento avvertiamo Andrea, poi, quasi quasi… quelle pizze erano un po’ leggerine, no? Non è che faresti a metà di un’altra? – Dipende. Se la prendi senza carne, senza salame e soprattutto senza gorgonzola… – Cos’hai contro il gorgonzola? Il formaggio lo mangi, no? – Tu prendi un’altra pizza al gorgonzola, poi vediamo se stasera ti bacio ancora. Capito: margherita classica con peperoncino piccante. Cerco il cellulare, dove diavolo posso averlo messo quel… già, è vero: non ho più un cellulare. Uso il telefono fisso, tanto la telefonata la paga l’Albergani. – Andrea? Sono io. – Ah, eccoti. Ti ho cercato a casa: il tuo cellulare è stato ritrovato, passa domani in questura, ai passaporti, ci trovi Chiara, lo ha lei. Da dove stai chiamando? – Da casa del rapper, hai presente? Ho un’informazione per te. Tra i soci della società che gestisce il Pagoda c’è un tale Moreno Belli, che è anche socio delle assicurazioni del Tassone: ti interessa? – Certo che sì. Come l’hai scoperto? – Diciamo che ho fatto una ricerca estesa in Internet. Silenzio. – Andrea? Sei ancora lì? – Sì. E, di grazia, quando hai imparato a fare queste cose in Internet? – Diciamo che non l’ho fatta proprio io. – Ho capito. E, tanto per sapere: hai scoperto qualcos’altro? – No, è la prima cosa che ho trovato. Però se a te può servire vado avanti. – Andate pure avanti, se potete. Però mi richiamate tra, diciamo, un’ora. Nel caso vi raggiungo. – Nel caso… – Nel caso troviate qualcosa di importante. Quello che state facendo non è propriamente legale, credo. E la storia del Tassone mi piace sempre meno: quindi non prendere iniziative personali. E soprattutto non coinvolgere più di tanto Lara, – intima con una sfumatura preoccupata. Mette giù. – Chi sono questi due fratelli? – chiede Lara mentre taglia la margherita. Già: chi sono? Due fantasmi del passato? Il lembo di un incubo dal quale periodicamente credo di essermi risvegliato? Una traccia residua della mia cattiva coscienza? – Non è facile rispondere. Sono due vittime del terrorismo, dovrei dire. Si dice così, vero? Una mattina il loro padre è stato assassinato a sangue freddo da un nucleo combattente, negli anni della lotta armata: un’avanguardia armata del proletariato, come si definirono. Un’azione di giustizia proletaria: scrissero così, più o meno. Ho il volantino di rivendicazione a casa. – Il volantino? Perché conservi un volantino terroristico? – Lo hai detto tu che erano terroristi: io non ce la faccio a vederli così. Fatti miei, d’accordo? Resta interdetta, con la pizza in mano e la bottiglia di birra a mezz’aria. – Perché te la prendi tanto? – mormora Lara. Già: come fosse colpa sua. – No, non è colpa tua, – le rispondo come se mi avesse parlato, – è che a sparare a quell’industriale è stato il mio amico che ora è in galera. Hai capito adesso? – E l’industriale che aveva fatto per essere ucciso? – Qualcosa. Ma non è che tutte le vittime di quegli anni fossero colpevoli di qualcosa: quello lì sì, però. Aveva prodotto diossina, un agente chimico che serviva a fare il napalm che gli americani tiravano sui vietnamiti. C’è ancora chi nasce tetraplegico, nel Vietnam, per effetto di quella merda arancio. Poi la fabbrica aveva avuto un guasto, e la diossina era uscita fuori. Una cosa così, e poteva andare anche peggio: se invece di diossina era tetracloruro di vinile, o amianto, ne ammazzava qualche decina di cancro dentro la fabbrica. Lara rabbrividisce, prende la bottiglia in mano, fa cin contro la mia e beve un sorso. Ti dispiace del tuo amico?, chiede. Sì, mi dispiace: mi dispiace che sia un assassino, mi dispiace averlo saputo al telegiornale quando lo hanno arrestato, mi dispiace che stia in galera. E che non risponda alle lettere che ho smesso di scrivergli: mi dispiace anche questo. Metto su un caffè, così ci tiriamo su, dico estraendo dalla borsa la scatola di arabica. – Hai qualche idea? – chiede Lara rianimata dalla tazzina aromatica. – Fammici pensare… Fin dove puoi arrivare con questo computer? – Tu di cosa hai bisogno? – Puoi arrivare sino ai conti in banca di queste società? No, non può: ci vorrebbe il suo amico delle camicie in frigorifero. Però… – Però nei loro computer sì che ci puoi entrare, vero? – Se non hanno dei sistemi di protezione troppo complessi... cosa vuoi vedere? La contabilità quotidiana, voglio vedere. Se hanno un programma di contabilità sull’hard disc possiamo guardarci dentro. Movimenti di denaro, pagamenti, fatture: forse è ancora meglio seguire il provvisorio, piuttosto che la contabilità ufficiale che magari è stata rimessa in ordine con qualche aggiustamento. Società assicuratrice Tassone e soci: livello di protezione basso. Per le password Lara usa una scatolina magica, una specie di contachilometri. Qui abbiamo via libera, annuncia trionfante: non si sono preoccupati di blindare il computer. Certo che no: è la contabilità ufficiale, vi può accedere qualunque agente della Finanza con uno straccio di mandato: cosa vuoi che perdano tempo a nascondersi? È ben altro quello che queste società hanno da occultare. – E allora cosa stiamo cercando? – Ho un’idea, una cosa vaga ma che… ecco, vedi se riesci ad entrare nel file dei pagamenti. Mettiamola così: tu mi dici che i tuoi amici rapper non c’entrano. Se hai ragione, la bomba al Pagoda è una cosa diversa dalle molotov alla sede della Digger’s, no? Ora, se Andrea è convinto che la bomba non doveva uccidere, vuol dire che qualcuno doveva capire qualcosa. E se l’avvertimento ha raggiunto il suo obiettivo, qualcosa deve essere stato fatto. Metti mai che fosse un qualche pagamento. Allora, tanto vale cominciare da questi qui: sempre che non sia un caso la loro presenza simultanea nella società della Pagoda. La schermata dei pagamenti: cifre di ogni livello, un’attività economica impressionante. Impressionante soprattutto perché c’è tanta gente che continua a rivolgersi a questi signori, che il più delle volte si mettono d’accordo con la compagnia assicuratrice avversa alle spalle del cliente: vai a farlo capire ai bolognesi! Vedono il manifesto formato parete, la pagina pubblicitaria intera sul giornale, il logo artistico: eccoli lì, a farsi abbindolare. Altro che truffe alle assicurazioni coi collari e i medici compiacenti… E mentre l’occhio scorre su questa scrollata di nomi e cifre, con accanto i codici di pagamento che per me sono come lettere latine, ecco lì quello che volevo trovare, logico e improbabile al tempo stesso. Pratica 032H47J/0298. Doppio clic sul numero di pratica: dettagli. Pagamento effettuato on line: 04.09.98. ka07: Incidente stradale. Viaggio organizzato in Austria. Infortunio autista, invalidità permanente del venti per cento. L’assicurazione paga: è la legge. Dopo soli sei mesi? Certo che sì: la causa era chiara, abbiamo preferito non aggiungere ulteriori spese legali, il patteggiamento è stato soddisfacente… Posso perfino figurarmeli mentre sgranano il rosario delle balle. Per duecento e passa milioni la tirano a lungo per anni, altro che spese legali: non funziona. Doppio clic sul codice destinatario. 329 yt 56: Agenzia turistica Easy Travel S.a.s., sede legale piazza Th. Roosevelt 44, Bologna. – «Tutte le cose convergono in nero marciume»… – Cos’hai detto? – Un verso di un poeta, scritto in guerra, poco prima di suicidarsi. Un poeta austriaco o tedesco, adesso non ricordo, comunque sul fronte italiano. È che ci sono un po’ troppe cose che sembrano convergere… puoi farmi una ricerca dentro il computer della Easy Travel? – Sì, certo. Aspetta solo un secondo, devo fare un… un favore a un amico, – dice Lara inserendo un dischetto nel drive. Fa clic su Invio, preme Esc: il dischetto ritorna fuori. – Cos’hai fatto? – le chiedo mentre si impegna col computer dell’agenzia di viaggi. – Una specie di rito… Accidenti… accidenti accidenti… proviamo un’altra strada… Una specie di rito, ti dicevo. Lester aveva una sorta di firma… Dài, te la spiego dopo, perché qui… No, niente da fare. Piuttosto, il computer di quest’agenzia è una vera cassaforte, al momento non riesco a entrarci: pensi sia importante? – Non lo so. Sto andando a tentoni, volevo vedere cosa riuscivo a cavar fuori.Ce la fai? – Mettiamola così: se ci sto su qualche ora forse sì, ma non ti garantisco niente. Il sistema di password è piuttosto complesso, ci vorrebbe un professionista, io in genere davanti a protezioni del genere mi tiravo indietro anche quando ero brava: dimmi tu. – Facciamo che per stasera gliela diamo su. Per come la vedo io, è rilevante pure che una semplice agenzia sia così protetta. Adesso chiamiamo Andrea e… …E mentre sto ancora parlando lo schermo si sbianca. Si forma lentamente la fotografia in bianco e nero di un uomo in camicia, colletto coi bottoncini, cravatta scura, sigaretta nella mano destra. Dura meno di trenta secondi, poi la foto sbiadisce e ritorna la schermata. Rumore di vetri in frantumi: la bottiglia di birra Cobra di Lara – Lara? Lara, cos’hai? Lara? Non è nella lista, sono sicura che non è nella lista, ripete catatonica Lara, non è nella lista, Cosa non è nella lista? La conosco a memoria, non c’è, non c’è! Cosa conosci a memoria, Lara? La lista, la lista, ripete, scuotendosi cerca nella borsa un dischetto arancio, lo trova, il dischetto ha sull’etichetta una sola lettera: L, lo infila nel drive.Cretina che sono!, dice mentre batte sulla tastiera, le finestre si chiudono, sul desktop c’è il file L, doppio clic: un normale file in Word, vuoi convertirlo con Windows 98? No che non voglio, porcodiddio, muoviti, tartaruga. File aperto: è un elenco. Non c’è. Lara prende il telefono cellulare, cerca un biglietto nella borsa, compone un numero. – Lara? – Ho trovato Lester. Non è sulla lista. – Sono al concerto dei Pantera, arrivo domani. Chiudi tutto. Ha spento il computer. No, non lo ha solo spento: ha strappato via la spina. Usciamo, ha detto, usciamo. Siamo scesi in strada: lei ordina, io eseguo senza fiatare. Lo sguardo che aveva sotto il Baglioni è niente rispetto a quello che ha adesso: la stessa espressione di Andrea nei momenti in cui vorresti essere altrove mentre ti punta gli occhi addosso. Devi chiamare il tuo amico, mi dice. Perché?, rispondo. Perché glielo avevi promesso. E perché abbiamo delle cose da dirgli. Abbiamo? Noi? – Che cosa dobbiamo dirgli, Lara? – Che abbiamo trovato Lester. Lester: quello che era morto? – Va bene, va bene: sono calma. Ora ti racconto. Dài, torniamo dentro, che tra l’altro abbiamo lasciato un casino. Abbiamo le ultime due Cobra in frigo, no? Di’ al tuo amico che ci raggiunga, se può. Così lo spiego una sola volta. Poi, domani, parli con Ferodo: adesso è il suo turno, io voglio scendere. 21 aprile 1996, Bologna. Via del Pratello angolo via Pietralata. – Allora vai a votare? – Non lo so, non lo so proprio. È così importante? Non mi ci vedo a mettermi in fila, mi sembra di dovermi rimettere il grembiulino per andare a scuola. – Dài, cerca di essere serio! Secondo te cambia qualcosa? Ferodo scuote la testa. No che non cambia, non così. Pensa positivo, insiste Lester, una volta nella vita prova a pensare positivo. Lo Stato leggero, lo Stato-Rete: dopo tutto è quello che vogliamo, no? Cioè, è la proposta meno lontana da quello che vogliamo creare: e allora, perché non provarci? Perché no, avrebbe voglia di dire Ferodo. Perché la Rete non è Stato e lo Stato non può essere Rete. Lo creiamo noi, con le nostre dita, l’ambiente a rete: non loro, non con le leggi. Lo chiameranno Rete, ma sarà sempre uno Stato: è certo, poco ma sicuro. Troppo cinismo, dice Lester: troppo blasé per i suoi gusti. Lester è cool: scivola via come un insetto notturno, come una lucciola, come una farfalla della notte: the nightfly. Ferodo non è cool, Ferodo stride: sempre. – Dài, basta, basta parlare, – dice Lara, – andiamo via, – dice Lara alzandosi. La sera del Pratello si popola davanti al barazzo, c’è l’immancabile Marcella che conciona di politica, i verdi, i radicali, il pidiesse, ma quante tessere ha, perdio, poi si finisce come sempre a parlare del Bologna. Il barista scuote la testa, sarebbero quelli i politici, quello lì, quella lì, cioè… quel bagaglio lì, borbotta additando la leader dei trans bolognesi che fanno nido proprio dietro l’angolo. Ehi, ho un’offerta eccezionale, un Pentium ristrutturato come nuovo a pochissimo. Dài, Camacho, che pacchi tiri, l’ho appena rottamato io un Pentium, dice Lara. Appunto, ride Camacho, credo che sia proprio il tuo quello che ho comprato e riparato. Bene, bello, allora facci il caffè con quel bidone, sfotte Lester. Ehi, mica lo devo usare io: è per questo che lo vendo, no? Mutazioni urbane. Il vecchio Pratello sta cambiando pelle, la vecchia muta si confonde con la nuova: i vecchi abitanti con i nuovi arrivati, i trans, le puttane, i vecchi autonomi nella loro corte dei miracoli sempre bravi a dar la colpa allo Stato e al piccì, gli occupanti, il Cantinone che è già un’altra cosa, nuovi locali che trapelano e attirano uno strano popolo notturno, un po’ freak e un po’ fighetto: vedremo. Lino non ha ancora chiuso la sua edicola. Non un’edicola qualunque, una vera libreria tenuta con amore e fatica da un grande macinatore di pagine colte. Il Circolo Pavese è diventato Gran Pavese, e adesso è qualcosa che non si ricorda più nessuno, al 41 nessuno si ricorda più cosa c’era: Lino no, Lino è sempre lì. Non sarebbe il Pratello, senza Lino. Bene così, bacino sulla guancia anche a Lino e si va via, ordina Lara. Niente più discorsi seri, però. – Allora? A cosa stai lavorando? – Niente di certo, mi guardo intorno nel Web. Ho trovato un paio di cose strane, poi vi faccio vedere. Volevo fare un colpetto, poi invece… magari riesce anche meglio. Vedrete, promette Lester. Ci sei domani sera, Lara? – Nx, bellezza. Non prima di mezzanotte, – annuncia Lara con la leggera ebbrezza delle bollicine che s’incontra con i piacevoli brividi della brezzolina notturna. – Alla mezza va benissimo, dichiara Ferodo. – Probabile che finisca il programma se ci lavoro tutta la sera. Ti passo a prendere? – Yeah: alla mezza, quando le zucche si trasformano in carrozze e i cavalli ridiventano servitori in livrea! Però offro io. Bene così, allora: ci si vede domani notte. E tu che fai fino alla mezza, Lester? Faccio surf: ovvio, no? Nel senso che ti rivedi Point Break? No, non sono un fanatico come voi due: lavoro anch’io, mica solo la signorina Pretty Woman qui presente. Stop, baby: guarda che io non ho gli stivali tenuti con la spilla, risponde piccata Lara. Poi Julia Roberts ha le gambe storte, lo sanno tutti: non sono mica le sue, quelle del film. E comunque sono storte anche quelle. Uno, due, tre: tre baci sulle guance, pari porta male. Lester saluta e apre il portone. Bella serata, come sempre quando si è tra amici. Magari domani lo convinco, quel testone di Ferodo. Magari sì, magari no. Magari no: ci vuole tempo per convincere uno come Ferodo. Tempo che Lester non ha. Lui non lo sa ma a casa lo aspettano. Sono in due. Hanno occhiali scuri, scarpe comode e robuste, una borsa da palestra. Piena. Lester gira la chiave nella serratura. Il sistema di sicurezza lampeggia: tutto a posto. Tutto a posto, sembra. 5 settembre 1998, Bologna, via Santo Stefano, ore 11.40. – Aveva un sistema di sicurezza di prim’ordine, Lester. Lo aveva progettato lui stesso. Quando non lavorava con i computer costruiva sistemi di sicurezza, o li testava per le ditte della provincia. Ed era innescato, quando lo hanno trovato. La polizia dice che nessuno può essergli entrato in casa. Lester era in bagno: impiccato a poco più di un metro e mezzo da terra, alla sbarra degli asciugamani. Suicidio, hanno detto. La sera a bere in compagnia, appuntamento per il giorno dopo, torna a casa e si impicca? Ti sembra possibile? Vi sembra possibile, a voi due? No: non sembra. Sembra una storia già sentita: è quello che pensa anche Andrea, lo so che sta pensando la stessa cosa. Una storia piena di esperti subacquei annegati in un metro d’acqua, di ascensori che si aprono senza cabina, di generali che si sparano prima della nomina a comandante dell’Arma benemerita attesa lungo tutta una carriera, ma non prima di essersi preparati un hamburger. Di tubi dell’olio del sistema frenante tranciati, di stuntman che vantano capacità assai utili in un incrocio senza testimoni, di improvvise frenate di camion con rimorchio. – Ma soprattutto: il suo hard disc era resettato. Completamente resettato. Un lavoro da professionisti. Non c’era rimasto niente, neanche una traccia, un segno: niente di niente. E non solo. Il portatile, l’agenda elettronica, scomparsi. Non c’era un solo dischetto, un solo Cd-Rom. Era scomparsa anche l’intera collezione di Cd musicali, non soltanto quelli masterizzati, anche gli originali. Il pavimento era non pulito, ma tirato a lucido. Mai stata così pulita, la casa di Lester. Glielo andavo a lavare io il pavimento, una volta al mese. Lui neanche lo comprava, il… il detersivo. Il singhiozzo che quasi tronca l’ultima parola è la firma di Lara alla deposizione spontanea resa davanti all’ispettore Vannini, davanti a un testimone inattendibile perché interessato. Interessato a spegnere il singhiozzare convulso con un abbraccio. – Spiegami cos’è questa lista, – chiede impassibile Stone-Heart-Andrea. Novembre 1995, Bologna centro, osteria del Sole. Il salume lo porta Gerry, detto Lesto: pancetta coppata, coppa di testa, prosciutto Carpegna e ciccioli secchi. E lo squacquerone, ovvio: il Lesto ne va matto. Al pane ha pensato Lara: vera ciupeta ad frara – ma dove lo trovi il pane ferrarese? Tu fatti servire e non preoccuparti, dice Lara sgranocchiando un crostino di pane. A pagare da bere, Ferodo. In tre fanno sessantacinque anni e una costituenda società di Internet Surfing – è scritto proprio così, sull’atto costitutivo bollato e vidimato dal notaio Leccafondi. Al notaio ha pensato Gerry: timbro, numero di registrazione, marche da bollo. Tutto in regola: tutto così verosimile da sembrare vero all’impiegato che ha concesso il codice fiscale senza battere ciglio. Il primo brindisi è allo Studio notarile Leccafondi e soci, via Vitali da Bologna 10. Speriamo presto, ha commentato Ferodo. Manca solo una cosa: il nickname di Gerry. – Deciso? – Deciso: Lester. – Ovvio, no? – commenta Lara. – Claro que sì, – chiosa Ferodo. – E allora aspettate che vi faccio vedere una cosa. Una demo, ma è già in funzione. Guardate qui, – dice Lester alzando lo schermo del suo portatile. Un portatile da due soldi, a vederlo: il carapace è di un vecchio Toshiba, neanche ben progettato. Il carapace. L’interno, la polpa bianchissima del crostaceo è cento per cento Made-in-Lester: componenti americane amatoriali, qualcosa di derivazione praghese, un paio di circuiti indiani. Enter: visione demo di un sito Internet. Lancio del programma: dopo cinque minuti, tra un cicciolo e un bicchiere di rosso, la schermata svanisce e al suo posto compare la foto di Donald Fagen. Trenta secondi, poi va via. Carino, commenta Lara sgranocchiando: ma cos’è? Una firma, sussurra Lester. Una firma? Yes, darlin’: una firma. Tonight the night is mine… 6 settembre 1998, Bologna, via Santo Stefano, ore 0.20. – Una firma. Lester inseriva una sorta di backdoor… una backdoor, no? Una specie di porta sul retro: tu la crei, e da lì entri ed esci dal computer senza essere rilevato. Così dài un’occhiata in giro, leggi i dati, i codici fiscali, i numeri di conto bancario, i file… Ecco, quelle di Lester erano fatte veramente bene. La sua specialità era nasconderle dentro delle specie di matrioske, in modo da renderle irrintracciabili. Molte di quelle che ha creato sono ancora dentro i computer in cui li ha inserite, hanno resistito a indagini e opere di pulizia. Pensate che certe volte è Ferodo a farle, le pulizie degli hard disc… L’ho detto che era il più bravo, no? Be’, lui non si era accontentato di una porta sul retro: ci aveva messo anche un citofono. Tu lanci un certo programma, e ti risponde l’immagine che hai visto stasera: la copertina del suo disco preferito. Così poteva sapere se in un certo computer c’era già passato o no. La lista è l’elenco dei luoghi in cui c’è la foto, cioè la sua firma. Ferodo è convinto che Lester abbia crackato un computer o un sito in cui non doveva entrare, e che l’abbiano ucciso per questo motivo. Così ogni volta che trova la sua firma aggiorna la lista. Prima o poi lo trovo l’ultimo domicilio sconosciuto, dice Ferodo. – Ultimo domicilio sconosciuto? – Stava facendo qualcosa per conto suo. Doveva parlarci di qualcosa che aveva scoperto, ve l’ho detto… Si appoggia alla spalliera della poltrona. C’è un silenzio impressionante, adesso. Nessuno ha pensato ad accendere lo stereo, a nessuno verrebbe in mente di farlo ora. C’è solo la voce di Lara che si staglia sul muro bianco del silenzio. – Non eravamo solo in tre, ce n’erano altri. Ma noi tre eravamo i primi, ed eravamo l’anima della società. Gli altri hanno mollato, si sono spaventati: Ferodo no. Ferodo vuole andare avanti finché non lo trova… – L’ultimo domicilio sconosciuto? – chiede Andrea. – Quello. Quello che ho trovato stasera, – dice Lara con un filo di voce. – Non avevo mai trovato una firma, prima di stasera: ma lo so, lo sento che questa è quella buona. – Come fai a dirlo? – chiedo con poca convinzione: ha ragione lei, lo sento anch’io. Ci sono morti, bombe, c’è soprattutto qualcosa di oscuro e nebbioso intorno a questa storia: quante probabilità ci sono che non sia la firma giusta, quella dentro il computer della sede centrale della Società assicuratrice Tassone e soci? – Lo so. Lo so e basta, – taglia secco. – Però… – abbozza Andrea. – Lo so cosa vuoi dirmi, – lo tacita Lara, – che quel computer non ha protezioni, ci può entrare chiunque. E infatti Lester ci è entrato. Non è quello che ha trovato dentro: è quello che ha trovato a partire da lì dentro, capisci? Perciò lo hanno ucciso. Andrea, zittito con inaspettata decisione, muove leggermente la testa: vuol dire che sì, si deve partire da lì. 5. This is the sea Bologna, abitazione di Andrea Vannini, ore 2. – Vi dispiace se metto su della musica? C’era troppo silenzio in quella casa, – chiede Andrea. – Dovrebbero farlo ai loro concerti, il silenzio, – aggiunge caustico. – Per me va bene, – dice Lara. – Che tipo di musica hai? – chiede andando a curiosare nello scaffale dei dischi. – Accidenti! Ma quanti dischi hai? Saranno un migliaio… – Milleduecento, più o meno. I dischi: al ritmo di uno alla settimana si può fare. I Cd sono un conto a parte. Se vuoi guardare lo schedario è in quelle scatole di ferro. Lara solleva il coperchio della scatola a-g e resta immobile davanti alla serrata massa di schede Buffetti compilate a mano una per una. – No, va bene quello che piace a te, – conclude sconfortata dalla quantità di cartoncini da vagliare. Andrea non ha bisogno di consultare lo schedario. Infila la mano nella libreria ed estrae un Cd a colpo sicuro: appena una fugace occhiata per controllare cos’è. Annuisce, apre la custodia e mette su. Suono di tromba spagnoleggiante: l’inizio di una ballata western, lenta, quasi straziata. Poi la sezione ritmica parte senza preavviso. La voce squillante di Mike Scott: i Waterboys. Here we are in a special place what are you gonna do here? Now we stand in a special place what will you do here? What show of soul are we gonna get from you? Guardo Lara ascoltare rapita le melodie epiche di questo gruppo mai sentito prima, vedo le sue labbra ritmarne le parole mentre Andrea mette sul tavolo una bottiglia di Lagavulin e tre bicchieri, senza chiedere se ne abbiamo voglia. Intanto c’è: berlo sta a noi. Nessuno si tira indietro. – Chi l’avrebbe mai detto: anche i poliziotti hanno un’anima e ascoltano musica, – dice Andrea rivolto a Lara. – Fottiti, stronzetto. È solo che non li conosco, e mi piacciono molto. Sono irlandesi? – No, non proprio. Mike Scott è di Edimburgo, i membri della band in parte irlandesi, in parte inglesi o scozzesi. Per un certo periodo hanno vissuto a Dublino. Credo si siano sciolti, o quantomeno Scott fa dischi da solo. Peccato. Ci si guarda in faccia. C’è voglia di ascoltare questa musica e non pensare ad altro. Peccato non si possa: un’altra volta, magari. Rifacciamo il punto. La fuga di Speacker dd e l’intimidazione alla Digger’s Voice le abbiamo escluse. Sul tavolo ci sono, elencando (a parte il whisky e un pacchetto di patatine svedesi al cumino che a quest’ora sono una vera provocazione): A. La morte di Egisto Tassone: primo sospettato, il Togliatti. B. La morte di Attilio Bignardi: in qualche modo c’entra di nuovo il Togliatti. C. La bomba alla discoteca Pagoda: i due probabili esecutori avevano «Boia chi molla!» scritto in faccia. D. Un trasferimento di denaro in forma di risarcimento assicurativo dalla società di Tassone a un’agenzia di viaggi di proprietà di due fratelli inequivocabilmente nostalgici dei tempi in cui i treni arrivavano in orario. E.La fuga precipitosa di tutte le prostitute croate legate a Maric, un pregiudicato slavo capo di un piccolo racket delle bianche F. Un presunto suicidio, che è probabilmente un omicidio, avvenuto due anni fa, in qualche modo collegato alle Assicurazioni Tassoni. – E allora? – E allora, – dice Andrea grattandosi il mento, – allora se aggiungiamo a questa lista il fatto che Tassone era un ex repubblichino, peraltro mai pentitosi, e che qualcuno ha voluto ricordarci che anche il Cioccolata era un partigiano dei Gap di Molinella, viene fuori che ci sono un po’ troppi fascisti in questa lista. E in ogni caso il Togliatti ed Egisto Tassone sembrano essere la chiave della storia: se non loro due, quantomeno la ragione della morte di Tassone. – Un momento, – interviene Lara.– La mia amica Vera cosa c’entra? Lei di politica non ne sapeva niente, neanche di quella del suo Paese. – Infatti non sappiamo neanche se faccia parte di questo elenco per una qualche ragione, oppure ci sia finita dentro solo per caso. Però... Si ferma. Ha visto qualcosa, almeno per un attimo. Qualcosa di poco chiaro, di sfuggente. – Però cosa? – protesta Lara. – Non lo so. È solo un’ipotesi, e non mi piace ragionare sulle ipotesi. – E la paura che aveva in stazione? E la sua fuga da Bologna? Guardo Andrea in attesa che il suo silenzio si interrompa. Non parla. Scuote la testa alla ricerca del bandolo della solita matassa invisibile che srotola davanti agli occhi, come se noi non fossimo più lì. Per due volte si ferma, fa no col capo a se stesso, poi finalmente sembra ricordarsi che oltre alla musica dei Waterboys ci siamo anche noi. Ci guarda. – Non lo so. Questo proprio non lo so. Riprende a ragionare con se stesso. – Scusatemi, ho bisogno di riguardare della roba che ho di là. Quello è un divano letto, basta allungarlo. Coperte e lenzuola le trovi nel cassettone, fai tu, – mi dice come fossi abituato a dormire da lui. – Cerca di dormire, Lara, – aggiunge con un’inattesa sfumatura di gentilezza. Perché?, chiede Lara. Perché ne hai bisogno. In un paio di giorni sei uscita dalla tua generazione: benvenuta nella nostra. Non ne avevi bisogno, e sarebbe stato meglio che non lo avessi fatto, ma non hai scelto tu. Lo guardo stupito, e anche un po’ incerto: non l’ho mai visto così cupo. Lo sa anche lui. – A proposito, – mi dice come se mi avesse letto nel pensiero, – hai ancora quell’archivio? Quei due scatoloni? Sì che li ho ancora. In cantina, assieme ai maglioni di Barbara, alla collezione di «Tex» di Cristiano e ai miei «Alan Ford» 1-75. Ci sono cose che non si buttano mai. Lara ha preso una coperta di lana leggera, ci si avvolge dentro e mi abbraccia con la mano che regge il lembo. Restiamo così, sotto la coperta, ad aspettare che l’adrenalina ceda il posto alla stanchezza. – Cos’hai in quegli scatoloni? – Cose che raccoglievamo noi quattro e che io archiviavo. Cose che forse dovresti leggere, se ancora capisco quello che Andrea sta pensando. Dalla porta della camera di Andrea filtra la luce. Filtrerà tutta la notte. Il disco è quasi arrivato alla fine. – Tu sei brava con le lingue? – Sì. Cosa vuoi sapere? – Cosa sta cantando adesso Mike Scott? – Canta di acqua. Di un fiume che diventa mare. Di un viaggio in treno che non ha bisogno di biglietto per arrivare al mare. Bello. Molto bello. Non capisco bene cosa voglia dire, forse perché mi manca la prima parte della canzone, ma mi sembra bello. Molto triste, anche. Ho un brivido, non di stanchezza. – Cosa c’è? – È inquietante, questa cosa del mare e del viaggio senza biglietto. Sarà la serata, l’aria, l’inquietudine di Andrea, non lo so… Però adesso ho paura anch’io. Lara lo capisce: mi passa un braccio dietro la testa e comincia ad accarezzarmi dolcemente. – Mi abbracci forte? – chiedo all’improvviso. – Ti passa la paura se ti abbraccio forte? – Sì. Non è vero. Non passa, ma è bello lo stesso. Now I hear there’s a train it’s comin down the line it’s your if you hurry you got still enough time and you don’t need no ticket and you don’t pay no fee you don’t need no ticket and you don’t pay no fee that was the river this is the sea. 6. Quattro chiacchiere fra amici Roma, Hotel dei 4 Mori. Residenza romana del senatore Cappas, ore 6.30. Guarda l’orologio: le sei e mezzo. L’ora dell’appuntamento. A quest’ora i giornalisti dormono. L’autista esce dalla vettura e gli apre lo sportello. Accenna un battito di tacchi: sguardo di rimprovero. L’autista abbozza. Il generale Corvino entra nella hall dell’hotel. Il senatore Cappas lo aspetta. – Venga, generale, venga. Debbo ringraziarla per la cortesia con cui ha accettato l’orario mattutino per questo colloquio: comprenda i tempi di un anziano ormai poco abituato ai sonni notturni. Il generale Corvino sfila il guanto e stringe la mano del senatore. – Non è dormendo che serviamo la patria, senatore. Per l’Arma il mattino ha sempre l’oro in bocca. Il senatore sorride. Un cameriere compare con una tazza di caffè in pregiata porcellana inglese. – Non accetterò che il colloquio abbia inizio prima che lei abbia gradito il caffè o altra bibita di suo gusto, generale. Seduti sui due divanetti: bevono il caffè. Le tazze sono sottili. Al senatore Cappas piace gustare tè o caffè nelle porcellane sottili. – Mi perdoni il sorriso per quel proverbio così poco italiano che ha pronunciato poc’anzi, generale: mi è tornato in mente un noto professore padovano che lei avrebbe certamente avuto piacere di mettere in guardina, e che ha la stessa sua considerazione delle prime ore mattutine. Una curiosa coincidenza. Ma venga al dunque. – Lei ricorda i termini dell’ultimo colloquio, senatore. – Caro generale, le voci sulla mia demenza non sono così vicine al vero da farmi dimenticare per quale ragione lei ha ritenuto di dover richiamare alla politica politicante un vecchio reduce, come dite voi… in sonno. – Allora non perderò tempo, e non ne farò perdere a lei. La preoccupazione per la situazione adriatica è forte, come sa. Le notizie di una crescente diffusione delle armi da fuoco, di armi da guerra persino, tra la popolazione civile sono purtroppo confermate. – Certo, caro generale, che per acquistare armi è in qualche modo necessario che ve ne sia una vendita: o mi sbaglio? Il generale Corvino sospira: non ama il modo contorto con cui il senatore Cappas gioca al gatto col topo. – L’ultimo vertice dell’Alleanza ritiene improrogabile un intervento in chiave atlantica nell’area. Un intervento breve, risolutivo, che eviti una prolungata guerra civile sull’altra sponda, i cui effetti sarebbero di un’imprevedibilità destabilizzante. – Iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est, – chiosa compito il senatore Cappas, memore dei suoi pur brevi trascorsi nelle Facoltà giuridiche. – Non conosce Machiavelli, generale? Giusta è la guerra per coloro ai quali essa è necessaria, e pie sono le armi se non v’è altra speranza se non in loro. Una frase adatta all’occasione, non crede? Adatta anche alle circostanze, come definirle, concomitanti, non trova? – Concomitanti? – chiede Corvino. Il senatore comincia a innervosirlo. – Concomitanti, concomitanti. Come il sorgere di un conflitto in una zona chiave per le direttrici delle grandi comunicazioni, i cosiddetti corridoi del piano Delors. La Berlino-Atene, per dire. – La cui realizzazione è parimenti essenziale per garantire un ruolo all’Europa dopo le trasformazioni innescate dalla caduta dei regimi comunisti, senatore. – Non occorre questo tono di rimprovero, generale. Le faccio vedere una cosa. Vede questo coltellino? È un tipico oggetto delle mie parti, un oggetto della tradizione: la lippa. Se è ben affilato, come dev’essere sempre, può essere utile per sbucciare un’arancia, scuoiare un capretto, affettare un frutto. O anche regolare un conto in sospeso con un avversario: dipende dalla mano che la impugna. Ciò che importa è che la lippa sia sempre tenuta affilata. Così, generale, se lei mi chiede un parere, come dire, autostradale, io mi limito ad acconsentire al disegno topografico che lei sottopone alla mia attenzione. Se poi su quelle vie passeranno uomini, merci, armi, droghe… credo sia qualcosa che né io né lei abbiamo il potere di controllare o di impedire. Il senatore versa dell’altro caffè dalla caffettiera tenuta calda da una candeletta posta sotto il sostegno. Sembra quasi immergere il naso nella tazza: solo gli occhi sporgono dal bordo fiorito. Occhi vivissimi, acuti. – E dunque, senatore, il problema diventa il fronte occidentale della sponda. Un coinvolgimento attivo del nostro Paese in chiave atlantica sarebbe indispensabile per la più rapida riuscita dell’operazione. Ma la questione della realizzazione di nuovi, più attenti equilibri politici non può certo essere di esclusiva competenza dell’Alleanza: ecco perché ci rivolgiamo alla sua apprezzata consulenza. Il senatore sorride. Continua a giocherellare con la lama del coltello ricurvo. Il cameriere porta un cesto di frutta fresca. Cappas prende una mela lucida e con un colpo secco ne taglia un pezzo dai bordi perfetti. – Come abbiamo già avuto modo di dirci, generale, credo di poter affermare che si avvicinano le condizioni per equilibri politici più ampi e convergenti, che sicuramente incontrerebbero il favore dell’Alleanza. Ma come lei sa, la politica è un’arte sottile e complicata: ci sono diversi modi di perseguire un obiettivo, e diversi modi di realizzarlo. Nondimeno l’avvicinarsi delle condizioni non è di per sé garanzia della loro realizzazione. Sarebbero necessarie maggiori spinte a sostegno: un convergere di spinte centripete, diciamo. – Comprendo, senatore. E su questo abbiamo notizie in parte positive. – In parte? Mi chiarisca il punto, generale. – Abbiamo notizia di preparazione di atti che credo di poter definire dimostrativi. Credo che nulla di quanto potrebbe realizzarsi sia al di fuori della nostra capacità di controllo. Nondimeno, un attento dosaggio dei tempi di intervento… Il senatore appoggia la tazza di caffè sul tavolino con un gesto brusco. Si alza con fermezza, a dispetto della pancia che sporge dalla veste da camera e dal capo incurvato. – Faccia molta attenzione, generale. Se lei non mi dà l’assoluta certezza… – Posso garantirle, – esclama il generale Corvino alzandosi anch’egli di fronte al senatore, – posso garantirle che nulla è al di fuori della nostra capacità. In particolare, siamo in grado di garantire l’assenza di un’adeguata capacità tecnica indispensabile per trasformare un gesto simbolico in qualcosa di diverso. Il senatore alza lo sguardo. Cerca conferma della prima impressione. Ci si può fidare del generale Corvino? L’istinto dice di sì. Però… – Le ripeto, generale: faccia molta attenzione. Io ho fiducia nell’Arma, e ho fiducia in lei. Non la considero al livello di quel gaglioffo che gira con i suoi dossier per le Procure smerciando prove artefatte con fare da tappetaro. E che ha brigato alle spalle di… di… lasciamo perdere, lei sa di chi e di cosa parlo. Ora, glielo dico con la massima serietà: io sono al mio posto, a rendermi utile per il servizio che mi viene richiesto. Ma sarebbe per me doloroso se un domani devessi venire a sapere che le cose andavano in altra direzione, generale. Molto, molto doloroso. Dunque, – conclude il senatore porgendo la mano al generale Corvino, – dunque noi ci siamo intesi e ci intendiamo. Il generale Corvino batte i tacchi sfiorandosi la fronte con la mano destra. Si avvia alla porta: il senatore lo ferma appoggiandogli la mano sul braccio. – Mi permetta di farle un presente, generale. So che il piacere di una buona grappa le è grato. E dunque vorrà accettare questo Filu ’e ferru prodotto espressamente per me da amici di famiglia di vecchia data: un velluto, mi creda. Un velluto. Il generale Corvino esce, con la grappa in mano. Il senatore apre lo sportello della madia e contempla con gioia infantile il suo nuovo acquisto: un home theatre in grado di leggere in sequenza alcune decine di compact disc. Scorre le custodie plastificate per estrarne i dischi. Di Corvino ci si può fidare: ma delle sue fonti? Dei suoi referenti? È dotato del suo stesso fiuto, Corvino? E se così non è… Il senatore programma il lettore. Programmare un’intera giornata di musica: nulla che dia un piacere maggiore. Decine di dischi: innumerevoli sequenze possibili. Il generale Corvino entra in macchina. Alza la cornetta del telefono mobile. Preferisce telefonare dalla sua vettura non ufficiale: i cellulari sono intercettabili, il suo telefono mobile è schermato. – Allora? Possiamo contare sul fattore Cappas? – Credo di sì. Ma sai che non mi piace quell’uomo. – Come l’hai trovato? – Al solito: bizzoso, ermetico… Ha ritirato fuori la storia di Ultimo, ce l’ha con i Reparti operativi… un disco rotto. – Aveva già preso il litio? – Credo di sì. Non ho visto medici, ma direi che stava bene. Più che altro sembrava mi fiutasse: per tutto il tempo, come un segugio o il mio cane da tartufo. Sicuro che possiamo contare su di lui? – Sicuro. In questo momento è il canale politico migliore. Il generale Corvino annuisce mentre spegne l’apparecchio. In fondo sono le solite sottigliezze della politica. Qualche intrigo di corte, nulla di più: in confronto a quello che è successo in passato, praticamente nulla. All’altro capo del telefono l’interlocutore di Corvino compone un altro numero, da un altro telefono cellulare. Il segnale viene inviato a una cella telefonica. Italia centrale. Emilia. Bologna. Bologna centro. Tre tacche: c’è campo. Il telefonino squilla. alfa?Sì? beta?Il meeting ha dato esito positivo. alfa?Bene. beta?Tieni la situazione sotto controllo, ma non esagerare. Autostrada A1, tratto Firenze-Bologna, ore 7. Percorrere l’Autostrada del Sole da Firenze a Bologna comporta, per uno straniero, uno svantaggio e un vantaggio. Lo svantaggio è di trovarsi senza la preparazione data dall’esperienza in uno dei peggiori tratti autostradali d’Europa, una gimcana d’inferno tra camion e automobili ad alta quota. Un viadotto del quale percepisci subito l’assenza di una qualsivoglia via di fuga, mentre la velocità del tuo veicolo dipende dallo spazio che ti viene lasciato davanti e dall’automezzo che alle spalle ti sfiora il paraurti lasciandoti alla mercé del suo inesistente spazio di frenata. E se l’automezzo è un camion, il sudore freddo aumenta. L’unica possibilità di scampare ad alcuni quarti d’ora di panico è nella capacità di guida.La Golf metallizzata in mano a un pilota come Jean-Claude Mové zigzaga spericolatamente da una carreggiata all’altra. Lo chiamano waveing, in America, e per chi lo pratica c’è l’arresto, dicono. Per buona parte di quello che 2M fa c’è l’arresto, e non solo in America. Il vantaggio è di non sapere che stai ripercorrendo all’incontrario una pessima canzone commissionata a suo tempo da un pessimo partito per glorificare una pessima linea politica. Che poi la commissione non sia stata esplicita, ma gentilmente favorita da un tifoso romanista in cerca di sponsor politici (il primo di una lunga serie) non fa differenza. Il problema non si pone: Jean-Claude non ascolta certa roba, il massimo del romanticismo cui può arrivare sono gli Stranglers primi anni Ottanta, o Léo Ferré, ovviamente. Roncobilaccio. Manca poco. A Sasso ci sarà pure un’autogrill per fare colazione. Sul sedile posteriore, avvolto in un plaid leggero, Ferodo dorme. Appena distesosi ha chiuso i contatti col mondo. Situazione da film di spionaggio, quasi: un conducente straniero che riporta a casa il padrone della macchina addormentato sul sedile. In effetti c’era, in un vecchio film: Lino Ventura sfuggiva a je-ne-me-rappelle-pas-quoi raccogliendo un autostoppista e facendolo guidare, mentre si addormentava sul sedile. Per fortuna oggi è tutto in regola: a parte la fottuta fretta di rientrare che ha Ferodo. Che non dormiva da due giorni. Pas d’histoire: mi deve un favore, tutto qui. Prossima uscita Sasso Marconi. Cappuccino caldo e croissant italien: speriamo sia fresco. Milano, San Vittore, biblioteca carceraria, ore 9.30. – Come sei messo a sigarette? – Non bene. Le ho finite ieri, e non mi sono ancora organizzato per la spesa. Cristiano porge il pacchetto. Vittorio sfila una sigaretta e restituisce. Cristiano fa cenno di no: tienilo tutto, non ne ho bisogno. Non fumo molto. Vittorio Guerra fuma in silenzio, guardando fisso oltre la sbarra della finestra. Finisce: spegne nel posacenere. Svuota il posacenere nel cestino. Gira appena la testa: lo sguardo di Cristiano è lì. – Fai parte del comitato di ricevimento, o è la settimana del cuore d’oro? – Nessun comitato. Niente discussioni, niente chiacchiere inutili: meglio solo. Quanto al cuore, chissà se c’è ancora. E comunque è soltanto un muscolo che pompa sangue. Vittorio abbozza. – E allora cos’è tutta questa fratellanza verso il nemico? – Bisogna essere un due perché uno sia un nemico, no? – No, – risponde il soldato politico, – ne basta uno. Basta una dichiarazione: unilaterale, se serve. L’aria si taglia col machete, questa mattina, in biblioteca. Sarà che l’ambiente non è propriamente costruito per distendere gli animi. – D’accordo, d’accordo. Però, se invece di parlare di guerra parlassimo di altro, che so, donne, motori, calcio, politica? Già che siamo nel regno della fantasia, perché banalizzarci? O magari ci scambiamo un paio di libri: non è che devo completare la collezione di nemici proprio oggi, no? No: non deve completarla. Non oggi, almeno. Perciò Vittorio risponde, sempre più divertito. Perché questo comunista riesce a farlo sorridere, il che non è poco, visto il luogo. – Cosa c’è scritto sul tuo foglio alla voce «Fine pena»? – «Parecchio più avanti». – Sul mio, «Mai». – Allora abbiamo tempo. – Tutto quello che serve, credo. Magari sono le sigarette che scarseggeranno, se le procuri solo tu. Hai da prestarmi qualcosa per comprarle? – Sei a stecchetto? – In teoria no. Ma la posta mi arriva se e quando pare a lor signori, e il vaglia non fa eccezione. Facile che per un paio di mesi me lo mandino a Sollicciano, tanto per farmi un dispetto. Poi, quando mi trasferiscono da un’altra parte, vedrai che mi arriva qui. – Allora ti faccio una proposta. Nella mia cella c’è posto, la divido con te e tengo il conto delle spese. Senza impegno. Giusto così: senza impegno. Non è l’inizio di una bella amicizia, è solo un modo per dividere il peso dell’esistenza. Conviene farlo, a volte. A volte, non sempre. Capo San Vito (Taranto), ore 6. L’uomo col pizzetto è in attesa, con i piedi ben piantati su uno scoglio. I pugni chiusi nelle tasche del giubbotto blu da marinaio. La faccia contro il vento che soffia dal mare: sa di sale. Rumore di motore. Un’auto in arrivo. Si affievolisce, poi tace. Motore spento. Sta arrivando. L’uomo dai capelli bianchi scavalca un muretto e incede sicuro sulla spiaggia, visibile. I capelli fluttuano all’aria. Cammina a braccia conserte, fronte alta. I lembi del foulard si agitano sotto il mento. La giacca chiara e i calzoni bianchi contrastano col blu-nero della silhouette dell’uomo col pizzetto. L’uomo dai capelli bianchi taglia in diagonale la spiaggia e comincia a salire sulla bassa scogliera. Sono faccia a faccia. – Era destino, – dice senza mezzi termini l’uomo dai capelli bianchi. – No: non doveva. Poteva. Poteva anche non accadere, per quel che mi riguarda. – Però è successo. Facciamo in modo che non sia inutile. L’uomo col pizzetto lo fissa con odio. Non si piacciono, non si sono mai piaciuti. Non è un fatto personale: sono due generazioni, due comunità, due tipi umani. Anche se entrambi sanno una cosa: in questo momento servono tutti. – Per me tu sei sempre l’Agente Ti, uno degli anni dell’ambiguità, – dice senza mezzi termini l’uomo col pizzetto, – un reclutatore di anime dalla doppia lingua e dalle doppie amicizie. Che mi dici? L’uomo dai capelli bianchi sorride sprezzante. – Per me tu sei un sodale di quegli esponenti della vigliaccheria nazionale che facevano congrega senza il minimo senso della disciplina, – risponde l’uomo dai capelli bianchi. Però siamo qui. Io servo a voi, voi non siete incompatibili coi miei disegni. Possiamo risolvere le questioni personali, ora. Oppure possiamo fare ciascuno la sua parte: dipende da te. L’uomo dai capelli bianchi ha ragione, l’uomo col pizzetto lo sa. – Non serve regolare i conti. Non adesso. Io ho portato una parte del carico, e resto a sorvegliarla. Tu devi occuparti della seconda parte. – È tutto pronto. Se sei così informato sai anche dove. – Infatti. Perché resto a sorvegliare l’intero carico, non solo la mia parte. Chiaro? – Chiarissimo. Niente da dire. – Allora… Non c’è altro. Non si amavano, non si amano, continueranno a odiarsi. È questo a dare la misura dell’importanza del momento, dopo quasi trent’anni: solo qualcosa di decisivo, di dirimente può tenere insieme questi uomini. Questi, e quelli che hanno costruito la rete. 7. Il Grande fratello c’è Bologna, ore 12.30. Si sono abbracciati a lungo, Lara e Ferodo. Come fossero passati anni. Sono passati anni, per Lara. Certi tempi non si misurano con l’orologio, né col calendario. È da tanto che le emozioni non rompevano la dura crosta del suo bel volto truccato. Sotto il rossetto, sotto i trucchi per la faccia e gli occhi. Sotto la tintura nerissima che copre il rosso naturale dei suoi capelli, sotto la piastratura che ne spiana i ricci. Sotto gli occhiali scuri che nascondono il verde chiarissimo dei suoi occhi. Occhi verdi leggermente strabici, capelli rossi, efelidi: una perfetta pixie. Un folletto nordico mascherato da donna da copertina. Tutto studiato, tutto preventivato. Fino a ieri. Poi quest’uomo più vecchio che giovane, questo investigatore privato da niente, fragile come un gattino e chiuso come un’ostrica. Poi… L’ultimo domicilio sconosciuto: ne abbiamo parlato per due anni, pensa Lara, come si parla di un luogo inesistente, i satelliti di Giove, l’Eldorado. E adesso eccolo qui. E ora? Ora ci sono le braccia robuste di Ferodo che la stringono come volessero spezzarla. Poi? Poi il gioco passa a Ferodo, l’hacker solitario. Il viaggio trascorso a dormire sul sedile posteriore lo ha rimesso in piedi. La Golf è tornata al suo posto. 2M ha salutato, si è girato su se stesso ed è andato via: senza dire dove, com’era prevedibile. Amici da trovare, ha mormorato, amici che forse è meglio non conoscere. Tornerà a Marsiglia in Eurostar o in autostop, a seconda del momento. Ruberà un’auto, o prenderà l’aereo: mai dare niente per scontato, con Jean-Claude. O quasi, perché Ferodo non ha avuto bisogno di chiedergli niente, ieri sera, dopo il concerto. – Non mi fermo, devo rientrare subito, – ha detto. – Sali dietro, ti porto io, mon chou. Adesso è seduto al tavolino della piadineria, mescolato alla folla anonima degli studenti. Sembra che parlino del prossimo esame. Ferodo ascolta, poche domande, molto precise. Lara racconta. Ferodo scuote la testa, qualcosa non va. Lara insiste, picchia col dito sul tavolo. Ferodo cede, le dà ragione. Si farà come dice lei, ma a modo mio, avverte Ferodo. Certo, risponde Lara, a modo tuo. È per questo che ti ho chiamato. Lara riaccende il cellulare. Invio: da telefono cellulare a telefono cellulare. All’altro capo: quartiere Bolognina. Uno, due, tre squilli. – Sì? Lara? – Allora te l’hanno restituito. – Sì, certo. L’amica di Andrea. Tutto a posto: devo solo ricaricarlo, sono quasi a zero. Devo averlo lasciato acceso. – Ci vediamo ai Commercianti? Ti presento qualcuno. – Quello delle camicie in frigo? – Come fai a saperlo? – Ho tirato a indovinare. Sono lì tra mezz’ora. Giusto il tempo di mandare un Sms ad Andrea, e sul display del telefonino una manina mi fa ciao ciao: fine della batteria. Lo attacco al caricatore e prendo il casco. L’Albergano l’ho chiamato mezz’ora fa.Ho menato il can per l’aia, tanto per aggiungere un paio di giorni di lavoro, promettendogli entro quarantotto ore di rintracciare la località con tutta probabilità lusitana, ma ho bisogno di fare un’ulteriore verifica nella quale ipotizzo possa essere domiciliato il giovane rampollo. Il lavoro è sistemato, Lara la vedo tra poco: posso anche stare senza telefonino per un altro pomeriggio. Caffè dei Commercianti, strada Maggiore, ore 13.10. Il suo amico ha un fisico nervoso, robusto. Grandi braccia, soprattutto: la canotta nera le mette bene in evidenza. – Tu sei l’investigatore? – mi apostrofa senza convenevoli. – Quello. Tu devi essere l’hacker, – rispondo. – A volte. Oggi probabilmente no. – Perché non oggi? – A volte sono un cracker. Oggi, probabilmente. Per te è un problema? Guardo Lara perplesso. Lara mi sorride, mi regala una carezza e fa segno al banco. Due minuti dopo, quando arriva un aperitivo leggero ma gustoso, Lara mi sta istruendo sull’etica del cyberspazio. – Un hacker in genere non va oltre quello che mi hai visto fare ieri sera. Per la verità c’è una discussione in Rete, ma a noi sembrano più che altro chiacchiere da chat: comunque c’è chi dice che un hacker deve porsi dei limiti etici, e chi nega il concetto stesso di limite. Resta che quelli che televisioni e giornali chiamano hacker, i pirati, rappresentati come i cattivi del Web, sono quelli che crackano siti e programmi. Cracker, appunto. Prendo un paio di olivette taggiasche dalla ciotola per accompagnare questa specie di americano rosso corretto leggero e fruttato. – Insomma, – dico per vedere se ho capito, – una specie di distinzione tra buoni e cattivi. Che alcuni accettano, e altri negano in quanto tale. E noi da che parte stiamo? – Non ci sono né buoni né cattivi, per come la vedo io. E non solo nel Web. In genere, voglio dire, – risponde secco Ferodo. – In genere? – chiedo. – Oggi non è un giorno come gli altri. Oggi i cattivi ci sono, e noi siamo quelli che gli dànno la caccia. – Allora siamo i buoni? – No. Siamo cattivi anche noi. Quanto loro, come loro. Più di loro, se serve. Il bar è quasi vuoto, si può chiacchierare in tranquillità. Ferodo mi chiede un breve riassunto degli eventi. Gli faccio un quadro sommario: capisco che Lara gli ha già raccontato, vuole solo riepilogare. Faccio abbastanza in fretta. Quando ho finito, Ferodo solleva lo sguardo – gli occhiali scuri, più che altro – al soffitto, in meditazione. Lara mi guarda, insolitamente silenziosa. C’è qualcosa che turba la sua espressione: la situazione in sé, Ferodo, la presenza mia e sua contemporaneamente, forse. Poi arriva Andrea. Saluta, ordina da bere al banco, viene a sedersi. Ferodo lo guarda: lo studia. È lui?, chiede a Lara. Lara annuisce. Io chi?, chiede Andrea. Lo sbirro, risponde Ferodo. Per servirti, rimanda Andrea. Non mi faccio servire, rilancia Ferodo. E non servo nessuno, rimarca. Bene, raccoglie Andrea, ora che lo hai messo in chiaro? Ci si può connettere, dice Ferodo. Vale a dire?, chiede Andrea. Vale a dire che se dobbiamo lavorare insieme sarà il caso di creare collegamenti, ripartire le informazioni e dividerci i compiti. Andrea abbassa la testa. Lascia che per un attimo un sorriso arrischi un capolino sul suo volto: ha capito. Ferodo lo ha sfidato, lo ha studiato e ha emesso il suo verdetto. Anche Andrea ha studiato Ferodo, mentre battibeccavano. – È lontano il computer che avete usato ieri? – chiede Ferodo. – No, – rispondo, – è qui vicino. Vuoi usare quello? Ferodo annuisce. – Se la potenza è adeguata, al motore ci penso io, – dice indicando una borsa nera appoggiata sul pavimento. – Certe cose è meglio farle da una postazione neutra, – aggiunge. – E comunque non da casa mia. Non in questo caso. Ci avviamo. Fuori del bar, Ferodo lascia sfilare Andrea e mi affianca. Fai attenzione a Lara, mi dice. Non capisco. Perché me lo dici?, rispondo. Perché le voglio bene: trattala come merita e vedi di non farla soffrire, intesi? Intesi, gli rispondo mentre Lara infila il suo braccio sotto il mio e mi trascina avanti: scusa, ma questo vecchietto è proprietà privata, dice sorridente. Che bello, il suo sorriso! Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 12.30. La domenica del villaggio: passeggio mattutino, caffè o bianco nel bar della piazza, partita a biliardo o a carte, giornale. La Rachele non sbriga le faccende, di domenica: è festa anche per lei. Festa per modo di dire, perché la sera c’è il lavoro in trattoria, come pure la sera del sabato. Infatti è dalla cucina della sera precedente che la Rachele compone il cestino per don Ricrea e il signor Augusto.Ché don Ricrea è una persona semplice, alla buona, che non si lamenta certo di un cestino di avanzi. Gli avanzi di oggi poi sono una mezza dozzina di matassine di tagliatelle all’uovo tirate al matterello e un pentolino di ragù come lo fa la Rachele, col gambuccio nel soffritto e il pezzo di carne magra macinata due volte. Don Ricrea si lamenterà che lui gli animali non ce li vuole, a pranzo, che sono figli di Dio anche loro, ma il signor Augusto è ospite, e all’ospite di domenica non si può mica dare la pasta al burro. Stasera poi la Rachele li mette via, prima che finiscano, un po’ dei suoi tortellini, che quelli sono buoni in brodo, e il brodo lo si fa la mattina durante le faccende con gli ossi avanzati del fine settimana. – Ma com’è questa cosa che non mangi la carne? – chiede il Togliatti. – Non è che proprio non la mangio, ma se posso ne faccio a meno. Diciamo che la mangio solo quando non riesco a evitare che la Rachele me la porti, perché buttare via del cibo mi sembra un peccato di superbia.Certo che se ci fosse un poveretto qui vicino, la darei a lui. – Ma che sei vegetariano mica me lo avevi detto. – ’Scolta, Ruggero, non è che io e te ci siamo mai visti molto, no? Poi non è vegetarianesimo, è una specie di voto, ecco. Sono un uomo del Signore, possibile che debba ricordartelo così spesso? – Oh, non è che quando ti ho conosciuto mi sia venuto subito in mente che eri un prete. Forse non te lo ricordi… – Lo ricordo, lo ricordo… Me lo ricordo molto bene quando ci siamo conosciuti. È un po’ anche per quello che ho fatto il voto… – Per aver conosciuto me? – chiede incredulo il Togliatti. – No, non te. Per tutto il resto. Se anche gli animali sono creature del Signore, forse gli animali che non ho ucciso per la mia gola possono pareggiare quello che… lo sai bene, tu. È corso troppo sangue… – È successo quello che doveva succedere, e bona lè. Non si poteva stare nel mezzo, e ognuno ha fatto la sua parte: non ti starai mica pentendo della tua? – No che non mi pento: però non c’è da esserne fieri. Forse non ci si poteva comportare da cristiani. O forse era il momento di impugnare il bastone e rovesciare i tavoli dei mercanti dal Tempio.Però sono un prete cristiano, e quello che ho fatto non lo so se è da cristiani. Ci sarà modo di renderne conto, alla fine. Anche per te, Ruggero… – Un bel niente, io! Non devo dar conto a nessuno, perché non c’è nessuno cui rendere conto. Quanto a quei morti, poche storie: servivano morti! – Anche il povero Attilio, serviva morto? Il Togliatti si siede quasi di schianto sulla sedia dalla quale si era sollevato all’impiedi mentre la voce si alzava. Quell’alzata gli è costata cara: la spalla ha ripreso a dolergli. Una fitta cattiva. Il Togliatti guarda l’orologio: non è ora, bisogna tenerselo, il dolore alla spalla. Come tutto il resto: tenerselo dentro. Come la storia del povero Cioccolata.Ma cosa c’entra adesso il Cioccolata, dice il Togliatti, che proprio non capisce dove vuole arrivare don Ricrea. C’entra, c’entra: ti sembra giusto che dopo tanto tempo… No che non gli sembra giusto, al Togliatti, no che non mi sembra giusto, e allora? E allora è ben quello, dice don Ricrea, è che certe cose non finiscono solo perché nella morsa del nostro orgoglio lo decidiamo noi, e quello che è successo al povero Attilio è lì a ricordarcelo: ecco perché ho bisogno di chiedere scusa al Signore ogni giorno, dopo tanto tempo. Il Togliatti sospira pesantemente, don Ricrea abbassa la voce: il tempo passa per noi, Ruggero, non per il Signore.Lui vede tutto, vede il porto, la barca, la rotta e l’altro porto. Siamo noi che non vediamo oltre la linea dell’orizzonte. Il Togliatti stringe i denti: è il momento più intenso, poi il dolore si affievolisce e diventa sopportabile. Domani bisognerà fare un salto in farmacia, in San Vitale: quella di Villanova è meglio evitarla. – Non doveva morire, il Cioccolata, – mormora serrando i denti, quasi digrignando. – Non doveva morire, e non doveva morire così… glielo hai detto questo, al tuo dio? In quel momento la Rachele entra col suo cesto del pranzo domenicale e interrompe una disputa che si sta facendo pericolosamente teologica. – Ma che brutte facce, stamattina. Cos’è quest’aria scura nel giorno del Signore? Bologna, via Santo Stefano, ore 15. – C’è qualcosa che non mi è chiaro, – dice Ferodo con in mano la lista tracciata da Andrea la sera prima. – Questa storia dell’assicuratore morto non mi convince: com’è che la notizia è arrivata ai giornali, visto che non l’avevate data voi della questura? – C’è stata una fuga di notizie, – dice Andrea, – probabilmente attraverso uno stronzo che passa il tempo a rovistare nei cassonetti. Come la voce sia arrivata a lui, non lo so. – Ah, ecco, – commenta Ferodo. – Ecco cosa? – chiede Andrea stizzito. – Tu non hai passato la notizia. Andrea lo guarda interrogativo. Ferodo risponde allo sguardo. Tu: non la questura. Andrea non risponde. – E questo stronzo? Che mi dici? – Che ha dei rapporti con un’agenzia di stampa specializzata nel lavoro sporco. Nella quale lavorano alcuni figuri poco raccomandabili. – Gli avete messo il telefono sotto controllo? Andrea lo guarda stranito.Stai scherzando? Il telefono sotto controllo? No, dice Ferodo, non sto scherzando., forse stai scherzando tu. Comunque provvediamo subito, se mi procuri il suo telefono. Vale a dire, chiede Andrea? Vale a dire che posso entrare nel computer centrale della Telecom e stampare il tabulato del suo telefono di casa, senza problemi, conclude Ferodo. Lara sorride. Io guardo Lara. Andrea guarda Ferodo. Ma non…, abbozzo io.Fallo, taglia corto Andrea. Ricevuto, risponde Ferodo. – Adesso, se permettete, faccio un po’ di spazio, – dice accendendo il computer ed estraendo un drive e una scatola di compact. Cosa fai esattamente?, chiedo. Te l’ho detto: spazio. Chiudo i programmi superflui, comprimo ciò che non mi serve, convoglio la memoria disponibile nel navigatore e aggiungo un po’ di additivo nel motore. Ah, dimenticavo: Lara, mi metti su questo?, dice porgendole un Cd. Lara lo prende, smette di sorridere e chiede: proprio questo? Questo, risponde secco Ferodo, quando faccio queste cose ascolto solo questo. In loop, se non ti dispiace. Tastiere elettriche cool, leggera svisata di chitarra, ritmo rallentato, voce in leggero falsetto: proprio quello che non ti aspetti da un dark punk in procinto di violare alcune leggi sulla segretezza delle comunicazioni private. Il disco preferito di Gerry, dice Lara sottovoce: è per questo che aveva scelto come nickname Lester. Ferodo ha già cominciato a battere sulla tastiera, veloce come un dattilografo e muto come un posacenere. What a beautiful world this will be what a gloriaus time to be free… Ore 15.30. Il sito della Società assicuratrice Tassone non contiene niente di interessante. Sin troppo pulito, dice Ferodo: è chiaro che ci stanno attenti. Quindi?, chiedo. Quindi è probabile che partendo da qui Lester sia arrivato dove non doveva arrivare. E quindi vediamo cosa c’è in questa Easy Travel. Un quarto d’ora dopo, senza smettere di battere sulla tastiera, Ferodo chiede a Lara quanto ci ha messo per capire che era blindato. Cinque, forse dieci minuti, dice Lara. Hai usato la scatolina magica? Sì, quella con gli algoritmi. E da cosa lo hai capito che era blindata? Dalle sequenze delle prime due cifre che non rispondevano agli algoritmi, risponde Lara. Brava, rossa, complimenti. Hai ancora le mani d’oro. Le mani forse, il più non me lo ricordo. Già, commenta Ferodo, non hai coltivato il talento. Riprende a picchiettare sulla tastiera. Lara? Yes, darlin’? Perché ti chiama rossa? Perché lo sono, amore. – Rossa? – Rossa. Rossa e riccia naturale. Con gli occhi verdi e le lentiggini intonate. – E perché… – Perché rossa, con gli occhi verdi leggermente strabici fa tanto l’identikit di una pixie. Una cosa? Una pixie: un folletto irlandese. I pixie portano male, diceva Lester scherzando. Invece aveva ragione: quindi niente più capelli ricci, niente più rosso, niente più pixie. – I pixie non portano male, – dice la voce di Andrea, – non portano né bene né male. – Dici davvero? – sussurra Lara. – Dico. Posso sbagliarmi su molte cose, ma non sull’Irlanda, – conferma Andrea. Preso!, esclama Ferodo. Preso cosa? La prima cifra della password: il resto è questione di poco, entro una mezz’ora ci siamo dentro. Chi si mette alla caffettiera? Io, è ovvio. C’è ancora il barattolo di arabica di ieri sera. Mentre i numeri girano vorticosamente nel contatore collegato al drive, Ferodo prende il foglietto col numero di telefono scritto da Andrea. Fai subito?, chiede Lara. Certo, cosa vuoi che sia il sito della Telecom? Neanche a dirlo: una delle famose backdoor di Ferodo è lì dentro. Pausa caffè. Il contanumeri ha trovato le prime tre cifre, Ferodo ha stampato un tabulato di utenze telefoniche e beve due tazze di caffè in una. – Giani Guido: corrisponde? – Corrisponde, – fa Andrea. Ferodo studia il tabulato. Beve il caffè senza staccare gli occhi dal foglio. – Se me lo passi ti rintraccio i recapiti di quei numeri, – propone Andrea. – No, ci metteresti troppo. Li faccio sputare fuori alla Telecom. Però… – Però? – Però secondo me non caviamo nulla, – dice Ferodo. – Guarda qui, proprio in questi giorni.Vedi questi codici? Sono schede telefoniche. Riceve chiamate dalle cabine pubbliche.Poco ma sicuro che sono le più interessanti. – Quindi niente? – Calma. Ho detto che non caviamo fuori nulla dai numeri telefonici. Con le schede è un altro discorso. È più lunga, ma si può fare. Pochi lo sanno, ma le chiamate delle schede finiscono in un computer centrale.Quel computer può dirci quali altri numeri sono stati chiamati da quella scheda. Ce li facciamo dire, poi incrociamo le informazioni e vediamo. – No, – scuote la testa Andrea, – non funziona così. Ci avevamo pensato anche noi tempo fa per un’altra storia, ma la Telecom ci ha più o meno mandato a dire che per la fantascienza si stanno attrezzando, ma che un computer centrale che governa le chiamate ancora non esiste. È la Telecom, mica Echelon. – E voi ci avete creduto? – dice Ferodo.– Cos’è, fate a gara con i carabinieri per entrare nelle barzellette? Andrea lo guarda, senza parlare. – Ehi, non occorre che ti scaldi, – risponde Ferodo, perché ancora non lo conosce: i problemi con Andrea cominciano proprio quando non si scalda. – Ti ho solo fatto presente che vi hanno preso per il culo. Ragionaci su: se non ci fosse un computer a gestire le telefonate, come farebbe la Telecom a scaricare i costi delle chiamate dalla scheda? E se il computer non controllasse tutto il territorio, come potrebbe gestire una scheda che si sposta da città a città? Quindi il computer esiste, solo che cercano di non farvelo sapere, amico mio. In quel computer ci sono già stato, e ho conservato le chiavi d’accesso al server centrale. Tu pazienta un’altra mezz’ora, e ti faccio sapere. Eccoci qui.Una sbarba tirata a lucido, un investigatore da quattro soldi, un poliziotto, e un hacker che ci spiega sorridente che il Grande fratello esiste per davvero.Mica la Cia o l’Fbi, no: la Telecom. Ore 16.40. Ferodo ci fa un bilancio del pomeriggio. Primo, il sito della Easy Travel è stato finalmente violato. C’è una notizia: ricevuto il versamento della Tassone, hanno subito inviato la stessa cifra alla sede centrale di Londra, la Meeting Centre: con i movimenti bancari on line si può lavorare in tempo reale, anche di sabato notte. Ferodo ha messo al lavoro il decodificatore per crackare il sito londinese e vedere che succede. Intanto ha dato un’occhiata all’Easy Travel: società dinamica, interessante. Gestisce appartamenti e posti di lavoro in Inghilterra e Spagna, prevalentemente. Anche nel Sud della Francia, dalle parti di Marsiglia. – Allora? – Allora niente: è questo il punto. Hanno blindato il niente, a quanto pare. Comunque, visto che hanno una sede a Marsiglia, ho mandato un’e-mail a Jean-Claude.Magari non rientra subito a casa, ma se la conosce mi farà sapere. Secondo, le schede telefoniche a pagamento.Niente di buono. – Non risultano altre telefonate fatte da questa scheda, a parte una, partita da una cabina telefonica di Roma il 4 settembre alle 07.03: sono due giorni che la scheda sta zitta. E quest’altra: partita da Roma, e mai più utilizzata. Brutto segno. – Stanno in campana? – chiede Lara, l’unica che ha già capito. – Probabile. Fanno una sola chiamata e bruciano la scheda, ci giurerei. Sanno come funziona il sistema. Andrea annuisce. Ha cerchiato con una matita due numeri identici, di Roma. Confronta il tabulato con la tabella recapiti: lo stesso numero chiama Guidi da Roma poco dopo una chiamata effettuata con la scheda telefonica. Il telefono di partenza è in un bar: luogo notoriamente poco frequentato… Indica i numeri a Ferodo, Ferodo annuisce. A questo ci penso io, dice Andrea: chiamo un collega fidato giù nella capitale e gli chiedo di fare un controllo. Poi… poi Andrea riprende il foglio, lo ripercorre dall’inizio alla fine per due volte. C’è qualcosa, dice. Cosa? L’Abc-Time: non c’è. Cosa vuol dire che non c’è? L’agenzia da cui Guidi riceve le soffiate: qui non c’è alcun altro numero di Roma se non una scheda telefonica e un bar. Perché dalla sede dell’agenzia non gli telefona nessuno?, chiede Andrea. Già, perché? Perché non serve, rispondo. Giusto, dice Andrea, non ne hanno bisogno. Come, non ne hanno bisogno?, dice Lara. È così, certo, conferma Ferodo. Le telefonate dell’Abc-Time sono queste: la scheda telefonica e il bar Trieste. Le date coincidono: alla vigilia della pubblicazione delle notizie. – Perché lo chiamano da un bar? – chiede Lara. – Domanda sbagliata, – risponde Ferodo. – La domanda giusta è: perché lo chiamano da Roma? Nel silenzio, il tictictic del contanumeri che cerca la password londinese. – Insomma, se la notizia parte da Bologna, vuol dire che qualcuno da Bologna chiama la Abc-Time, che poi a sua volta chiama il Giani: niente da obiettare, vero? – conclude Ferodo. Andrea annuisce.Ha la faccia dei momenti brutti. Posso concludere io?, chiede. Fai pure, concede Ferodo. La notizia parte da Bologna, è chiaro. Quindi c’è qualcuno che sa della morte di Egisto Tassone e chiama Roma perché si metta in moto la baracca. Pausa. E chi sa della morte di Egisto Tassone, a parte te, infierisce impietoso il dark punk? In teoria, a parte me… Già, conclude Ferodo: la questura di Bologna. Se la notizia è lì, chi la trova e la manda a Roma è là dentro: in questura. Andrea ci guarda: non ha l’aria stupita. Un uragano sotto la sottile increspatura delle onde, ma senza stupore.Ci era già arrivato da solo. Tictictictictic… Bar Pierino, ore 19.30. Ferodo è ancora al lavoro.Voi andate, io qui ci passo la notte, ha detto. Questo sito lo rivolto come un calzino. Tieni il cellulare acceso, ha detto a Lara. Lara lo ha abbracciato a lungo, poi lo ha baciato. A lungo. Sulla bocca. Non mi è piaciuto. Diego ci ha raggiunto davanti al Pierino per l’aperitivo. Ha il taccuino aperto, prende appunti. Andrea gli sta dicendo qualcosa: parlano di Tassone, dell’agenzia di viaggi, della centrale londinese. Ha la faccia incuriosita, Diego, segno che qualcosa di quello che Andrea dice non gli è del tutto estraneo. – Eravate molto amici? – Con Lester e Ferodo, dici? – Sì. – Eravamo molto… sì, molto amici. No, non proprio. Hai presente quel video degli Skunk Anansie, quello della ragazza e dei due amici? – Non guardo la televisione, Lara. – Be’, c’è una ragazza col suo moroso, o una cosa così, e c’è con loro un altro ragazzo. Stanno molto bene insieme. Però si guardano tutti e tre in modo strano. A un certo punto i due cominciano a fare l’amore, e il terzo fa per andare.Lei… o loro due, non ricordo bene, ma fai conto che lei… lo chiama, e lui comincia a fare l’amore con loro. Però lei si accorge che sono i due ragazzi, a poco a poco, a stare insieme: fanno l’amore tra loro. Poi si addormentano, lei si alza, li guarda e va via. Non è arrabbiata, però va via: non è quello il suo posto, quindi se ne va. Capisci? Credo di sì. Credo di aver fatto la domanda sbagliata alla persona sbagliata. – Ecco: tra noi non c’è stato bisogno che io andassi via. Non era così importante, dal punto di vista affettivo, Lester. Era importantissimo per tante altre cose, ma non da quel punto di vista: però è andata proprio così. Eravamo un bel gruppo, noi tre.Belli come quella canzone degli Skunk Anansie. Una volante della polizia frena davanti al bar. Repentino movimento di un paio di avventori. Una ragazza bionda esce dallo sportello destro. Chiara saluta il conducente e si pianta davanti ad Andrea. – Allora, hai intenzione di continuare a fare il cavaliere della valle solitaria o pensi di poterti dedicare un po’ anche a me? Guarda che non sei l’unico maschietto desiderabile in tutta Bologna: basta che me lo fai sapere e comincio a dare uno sguardo intorno. – Mi sa che proprio qui intorno non ti conviene, – dice Lara prendendo l’iniziativa. – Di questi due uno ha altri gusti, e quest’altro è proprietà privata. – Ricevuto forte e chiaro, – dice ridendo Chiara, – allora sono costretta a rivalermi su di te, visto che non ho scelta, – aggiunge abbracciando Andrea. Le due signore fanno conoscenza, e dopo un paio di minuti sembrano già vecchie amiche. Diego propone una pizza, Lara rilancia con una paella che qui vicino fanno piuttosto bene. D’accordo, acconsente Andrea, purché non si parli di lavoro. Accidenti, fa Chiara, ma se a voi uomini vi togliamo il lavoro e il campionato non è ancora iniziato, di cosa parlate? Be’, non è che dobbiamo sempre parlare, risponde Diego, a volte ascoltiamo anche. Ore 20.30. – A proposito, grazie ancora per il cellulare. – Figurati: piuttosto, com’è che ti era finito nella spazzatura? – Sai come sono questi maschietti, – interviene Lara a spezzare il momento di imbarazzo. – Sono capaci di creare disordine persino nelle proprie tasche. – Andiamoci piano, – risponde piccato Diego. – Non siamo mica tutti normorientati, qui dentro. – Normoché? – esclama Chiara stupita. – Nor-mo-ri-en-ta-ti, scandisce Diego. Non confondiamo la biologia con l’orientamento sessuale. – Guarda che l’argomento della discussione è il disordine, – dice Andrea, – non l’orientamento sessuale. E se vivi ancora come ricordo io… – Sì, sì, vi conosco voialtri: si parte dal preteso disordine domiciliare e si finisce col confonderlo col disordine sessuale. – E allora? – dice Lara. – Cos’hai contro il disordine sessuale? – Perché, tu, – domanda Chiara con un leggero rossore, – stai anche dalla sua parte? – Sto dalla parte del vento, – risponde Lara, – quando mi va, soffio in tutte le direzioni. – Come i pixie, – ribadisce Andrea. – Già, come i pixie, – sottolinea Lara. – Uh-uhu-uhuhu: Where is my mind? – canticchia. – Anzi, no. – Non sono una pixie, – ribadisce facendo finta di imbronciarsi. – E tu cos’hai da appendere quel muso? – mi fa. Già: cos’ho da appendere il muso? Colpa mia se non mi diverto sentendo Lara scherzare su se stessa? O sarà che non mi diverto proprio perché Lara non scherza affatto? – Insomma, se dovete parlare di sesso tanto vale parlare di lavoro, – insorge Chiara, inconsapevole dell’involontario doppio senso che fa scoppiare a ridere Lara. – Dài, cosa state complottando? – No, perché tu ti imbarazzi per davvero? Non stai scherzando, – infierisce Lara. – Stai diventando rossa. – Be’, io ho la mia educazione, e preferisco fare piuttosto che raccontare. Insomma, sono fatta così: poi a stare con Andrea non è che si impari tutta questa facilità a comunicare, vero? Paella per cinque!, annuncia il cameriere scoprendo il capiente vassoio in alluminio. Un tripudio di colori: il giallo del riso, il rosso dei gamberi e dei peperoni, il verde dei piselli, il rosa del pollo. Niente salsiccia per me, avverte Lara. Perché, chiede Chiara, sei ebrea? No, non mangio carne rossa. E soprattutto non mangio il maiale. Perché proprio il maiale? Primo, risponde Lara con la forchetta a mezz’aria piena di riso e piselli, perché le porcilaie hanno un effetto devastante sull’ecosistema, e alla lunga la distruzione della biosfera la paghiamo tutti.Quindi se non cominciamo a limitare la produzione di carne rossa, e soprattutto delle porcilaie, ci ritroviamo nei guai. Sì, d’accordo, interviene Diego che ha appena addentato la salsiccia che Lara gli ha passato nel piatto, ma se modificassimo il modo di produzione della carne di maiale… dopo tutto il maiale non vive nelle porcilaie, in natura: un allevamento più rispettoso del maiale stesso inquinerebbe meno e salvaguarderebbe la diversità biologica dei maiali tipici. No, non è vero: se i maiali fossero allevati con più rispetto della natura ce ne sarebbero comunque di meno, e mentre Diego finisce di masticare per rispondere, Lara si serve di un’abbondante forchettata. Sì, certo: e quindi? E quindi, continua Lara a bocca semipiena, bisognerebbe comunque consumarne meno: be’, io ho già cominciato. Grazie, allora, dice Diego, per avermi lasciato la tua salsiccia. Non c’è di che… A proposito, tu quei peperoni li lasci? Sì, dice Chiara, mi restano su tutta la notte: vuoi tu? Lara non si fa pregare, e continua.Secondo, la carne rossa rende aggressivi. Attimo di silenzio: abbiamo tutti qualcosa in bocca. Terzo?, chiede Chiara. Terzo, con i maiali io ci lavoro, quindi nel tempo libero li evito. Chiara guarda perplessa: evidente che non ha capito. Sì, ma se il maiale metaforico fosse più rispettoso della biodiversità femminile e dell’ecosistema sessuale, diminuirebbe tanto quanto quello letterale, insinua sardonico Diego. Be’, che male ci sarebbe?, chiede Lara divertita dallo sguardo perso di Chiara. Che diminuirebbe la domanda, e di conseguenza la rendita sull’offerta calerebbe, conclude Diego spazzolando il fondo del piatto. No, bello: la rendita complessiva calerebbe, ma aumenterebbe il valore delle singole prestazioni, risponde saputa Lara. Il che farebbe crescere la concorrenza: Struggle of life, bambina. Fottiti, stronzetto!, dice Lara alzandosi in piedi in tutta la sua bellezza, col top aderente come un sottile strato di vernice scura che sormonta il lunghissimo compasso evidenziato dalla mini di pelle e dagli stivali: ti sembro una che teme l’aumento della concorrenza? Io, continua guardando Chiara che davvero non riesce a capire l’oggetto della discussione, sono una nicchia di mercato: una nicchia di qualità, roba di prima classe. E senza soluzione di continuità, con un rapido semigiro me la ritrovo sulle ginocchia a baciarmi. C’è qualcosa di strano in questo bacio. La guardo. Mi guarda felice come una bambina. – L’ultimo gamberetto, baby. L’ho conservato per te. Spero non ti dispiaccia se te l’ho anche sgusciato, – dice togliendosi dalla bocca l’involucro della coda. Bacio al gambero: a me Gabriele d’Annunzio mi fa un baffo!, esclamo facendomi andare il gamberetto di traverso. Lara beve un sorso di Salice Salentino, e impudicamente me lo mesce da bocca a bocca per farmi andar giù il crostaceo. Diego è piegato in due dalle risate, Chiara comincia a innervosirsi, insomma, qualcuno vuole spiegarmi? Andrea si alza e fa segno mostrando il telefonino. Invio: da telefono cellulare a telefono cellulare. All’altro capo: Roma. – Dimme, Andre’. Scusa se nun t’ho chiamato prima, stavo coi pupi ai laghetti, c’avevo poco campo. – Nessun problema, Gigi. Dovresti farmi un controllo a pettine della clientela di un certo bar Trieste. – Quello dell’esse-emme-esse? – Quello. – Che tipo de servaggina stai a caccia’? – Nulla di definito. Possibile che sia materiale politico, estrema destra per capirci, ma in realtà non sono certo di niente. Fammi sapere se noti qualche faccia interessante, di qualunque tipo. – Va bene. Ce faccio quarche passata, chiedo ’n favore ai colleghi d’e volanti de zona, vedo se ho quarche ’nformazione da mannarte. Te richiamo io. – Grazie, Gigi. A buon rendere. Andrea chiude. Gigi chiude. L’uomo con gli occhiali scuri chiude. Si toglie l’auricolare dall’orecchio. Guarda l’altro uomo che giocherella con gli occhiali scuri sul tavolo. Prende il telefonino e scrive un Sms. Invio. Messaggio inviato. Sms in arrivo: il messaggio inviato è stato ricevuto alle ore 21.35. Andrea torna al tavolo. Già finito il rosato, chiede? Ne ordiniamo un’altra, propone Lara? Certo che sì, rispondo. Mentre indico la bottiglia vuota al cameriere, Chiara dice qualcosa all’orecchio di Lara.Be’, ci mancherebbe, risponde Lara. Ci mancherebbe cosa, chiede Andrea? Le signore vanno in bagno a incipriarsi il naso, risponde Lara. Insieme? Certo che sì, dice Chiara, sempre leggermente arrossata: le signore in bagno non vanno mai da sole. 8. Il Corsaro nero piange! Ore 21.45. Invio: cellulare clonato con scheda internazionale. Destinatario: località non determinabile. alfa?Problemi? lambda?Probabile. Sta facendo controllare un bar a Roma, bar Trieste: ti dice niente? alfa?Qualcosa. Credi sappia di Zeta? lambda?Non è facile capire con precisione cosa sa. Avverti Zeta. Bicchiere di sherry brandy. Sorseggiare lentamente. Riflettere. Avvertire Zeta. No: Beta. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 23.25. – Cos’hai? – Ho caldo. – Troppo moto? – Anche. Dopotutto è estate. – Certo, baby. Poi, oltre al caldo, cos’hai? La guardo nel verde degli occhi: a quest’ora è chiarissimo, quasi trasparente. Forse è davvero un folletto irlandese.Sembra ci sia il mare, in quegli occhi. – Non è facile spiegartelo, Lara. È che ti conosco appena, e in certi momenti non riesco a capirti. – Certi momenti quali? – Ad esempio stasera. Quando scherzi sul tuo… sul lavoro che fai. Non è… non mi viene naturale accettarlo, non capisco come tu faccia a parlarne così. Cioè, no, non è che non lo capisca, ma qualcosa continua a non andarmi giù. Non riesco a vedere le cose dal tuo punto di vista. Lara si alza senza coprirsi. Dove va? – Cosa fai? Vai via? Si gira. Mi guarda stupita. Mi abbraccia, mi bacia a fior di labbra e sussurra. – Ehi, bimbo, cos’hai? Sono a casa mia, perché dovrei andarmene? Volevo solo prepararti un drink da bere mentre parliamo. Ho voglia di piangere. Non è possibile: non posso sentirmi così ora, adesso. – Scusami, scusami tanto. Lo so che non è normale, ma ho sempre paura che tu stia per andartene per non tornare più. Sono fatto così, non so che farci. – È per la tua amica morta? – Sì. Anche. Per quello che c’era intorno, e che ora non c’è più. A volte mi sembra che tutta la mia vita debba fuggire via. – Tu dài troppa importanza alla sofferenza, cucciolo. Non riesci a fartela scorrere via dalla pelle. – Tu ci riesci? – A volte. Non c’è bisogno di avere la tua età per capire che la vita fa schifo: ma non le permetto di rovinare la mia, di vita. – Dici che me lo puoi insegnare come si fa, a non farsi rovinare la vita? – Fottiti, stronzetto: è quello che sto cercando di fare da quando ti ho incontrato. Ma a quanto pare non te ne sei ancora accorto, – dice sorridente. Si alza e si avvia al bar. Tequila sunrise?, chiede. Ma non aspetta la risposta: sta già versando la granatina sui cubetti di ghiaccio. Località non determinabili, ore 23.15. Invio: da cellulare clonato con scheda internazionale a cellulare clonato con scheda internazionale. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Invio: da cellulare clonato con scheda estera a telefono fisso. All’altro capo: tavolo in mogano anticato. Telefono nero a disco. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Dieci minuti dopo. Invio: da cabina telefonica pubblica a cellulare clonato con scheda estera. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Il ricevitore viene sollevato. Nessuna risposta vocale. alfa?All’uomo sotto osservazione piace il caffè al bar. beta?E dove lo gradisce? alfa?Pensa che a Roma lo facciano buono. Al bar Trieste. (Pausa). beta?C’è del passeggio, al bar Trieste. alfa?Dunque? beta?Ci penso io. Ci sentiamo domani in chat. Tutti. Invio: da telefono cellulare con scheda estera a telefono cellulare con scheda estera. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… zeta?Cosa succede? beta?Perché chiami dal mobile? zeta?Perché è notte fonda e la cabina non è nei paraggi. (Pausa). beta?Non trascurare le precauzioni. Soprattutto adesso. zeta?Novità? beta?Meglio se il cappuccino te lo fai in casa. Il Trieste non è più sicuro. (Pausa). zeta?Fonte? beta?Non è importante. Domani in chat. Tutti. zeta?Proprio tutti? beta?Tutti quelli che dico io. Tu connettiti. L’uomo grassottello si versa da bere. Tutti quelli che dico io: vuol dire che Ti non ci sarà. Beta sta prendendo un po’ troppe decisioni da solo: meglio lasciarlo fare: in questo gioco dirige lui. In questo gioco. L’uomo grassottello aggiunge due cubetti di ghiaccio e sorseggia. È ora di dare inizio all’altro gioco. È ora di chiamare Yves. 7 settembre, Bologna. Abitazione di Andrea Vannini, ore 3.30. Andrea fuma appoggiato alla balaustra. Il fumo sale bianchiccio, scomparendo in pochi istanti nel buio della notte. Il nero del cielo invade l’apertura dello sguardo, occupa ogni residuo ritaglio di spazio, satura l’alto e il basso, indistinguibile dal blu notturno del mare. Chiacchiera. Chiara è al suo fianco, distante. Al suo fianco, distante. Non ascolta, ascolta distrattamente, non si sa. Andrea parla. Le sue parole si spengono sulla tolda del transatlantico, assorbite dalla notte: non le odi. Chiara si volta e va via, torna in camera. Vado a letto, dice. Andrea annuisce. Spegne la sigaretta e la segue. Chiara è già sparita, il corridoio interno si allunga a dismisura, ingloba i passeggeri della nave. Andrea entra in camera. Chiara non c’è. Naturale che sia così. Andrea lo sa, Andrea sa perché Chiara non c’è. Però aveva detto che andava a dormire. Questo pensiero colpisce dentro, da qualche parte sotto lo sterno, più all’interno, come un piccolo proiettile penetrato silenziosamente che subito esplode. Il buco si allarga, risucchia lo stomaco: fa male, sempre più male. Andrea è alla balaustra, il dolore è insopportabile. Andrea è piegato in due. Andrea trattiene le lacrime. Andrea è in camera, è mattino, Chiara si sveglia, esce dalle lenzuola. La nave è quasi in porto, pare. Passami la maglietta per favore, chiede Chiara, la maglietta, quella sportiva. Non c’è la maglietta, non è sulla sedia. Non c’è. Andrea è in corridoio, vede due persone uscire da un’altra cabina. Andrea sa chi sono, chissà perché sono insieme. Lei è Lara, lo sta guardando, stupita di vederlo. Andrea si gira, finge di leggere qualcosa appeso alla parete, finge di non vederla. Lara pensa di non essere stata vista, si allontana. Andrea la scorge con la coda dell’occhio. L’altro è lui. Meglio: lui è l’altro. Andrea entra nella sua cabina: la maglietta di Chiara è sulla sedia. La nave attracca: i passeggeri devono scendere, presentarsi alla dogana e arruolarsi. La guerra è già scoppiata. La guerra. Quale guerra?, chiedono. La guerra, punto e basta. Andrea non vuole arruolarsi. Chiara non c’è più, Andrea non la cerca. Andrea è su una vecchia macchina anni Venti, vestito come un emigrante. Ti ho trovato un lavoro, gli dice l’autista, vestito come un gangster alla Martin Scorsese. Ad Andrea va bene: lavorerà finché dura la guerra, finché lavorerà non lo cercheranno. Forse dovrebbe arruolarsi dalla parte giusta, pensa Andrea, ma non la vuole fare, la guerra. Chiara non c’è, Andrea non si chiede perché: lo sa perché non c’è. Il pianale della macchina si stacca, Andrea sprofonda nel vuoto. Andrea si sveglia. Gambe indolenzite, brividi gelati, buco allo stomaco. Il dolore sale dallo stomaco ai denti: non è un sogno. La guerra, pensa Andrea, la guerra. Arriva la guerra: non è un sogno. Cosa significa: arriva la guerra? Se verrà la guerra marcondirondera se verrà la guerra chi ci aiuterà? Ci aiuta l’aviatore che non la vorrà ci aiuta l’aviatore che la bomba non getterà. La guerra, le bombe. Scoppiano le bombe quando c’è la guerra. Andrea beve acqua a garganella, a collo. I brividi non passano, il dolore non va via. Cosa diavolo vuol dire: la guerra? Quale guerra? Perché? Chi mi cerca, pensa Andrea? Chi mi vuole arruolare, perché devono nascondermi? Devo trovare un lavoro. Ce l’ho già un lavoro, dice Andrea a se stesso, perché devo cambiarlo? Perché devo? Ci salverà il buon Dio che non la vorrà ci salverà il buon Dio che la guerra… Buon Dio è già scappato, dove non si sa buon Dio se n’è andato e chissà quando ritornerà… Il ritornello di De André continua a risuonare nelle orecchie. Cosa sta succedendo? I contorni dei mobili cominciano a tremolare, gli oggetti affievoliscono. Andrea è solo: nel vuoto. Un grande vuoto bianco intorno. Un grande vuoto buio e doloroso dentro. Andrea ha paura: è la prima volta. Ha paura. Andrea è solo. Non ci sono amici stasera, non c’è la sua donna. Non c’è Barbara: ad Andrea manca, manca da sempre. L’unica amica che abbia mai avuto, l’unica donna con cui sia mai riuscito a parlare. L’unica che l’abbia capito. Ci siamo persi di vista anni addietro, la morte è stato solo il prolungamento di un grande vuoto che si era aperto da quando lui aveva scelto il silenzio: la sua arma difensiva, la sua nicchia. La sua barricata. Non era un sogno, dice Andrea. Chi è che mi stava parlando? Cosa voleva dirmi? Chi c’è là fuori? Dove siete, amici miei? Dove siete stasera? Dove sei, Chiara? Perché non sei qui con me stasera? Dove sei? Dov’eri, stanotte? Cosa dovevo capire? Andrea, piegato in due dal dolore, con i denti che stridono, piange. Silenziosamente, senza testimoni, come in un vecchio romanzo. Guarda lassù: il Corsaro nero piange… Dove siete, amici miei? Nella notte illuminata dai neon del braccio, nel falso silenzio del russare, delle chiacchiere degli insonni, dei passi delle guardie, del cigolio delle brande, nella pietà inane che avvolge le lacrime dei giovani reclusi e dei senza speranza, nel gemito dei rimpianti, dei rimorsi, degli inutili pentimenti. Nella sua cella di San Vittore. Cristiano apre gli occhi. Andrea, sussurra rigirandosi: Andrea. Vittorio Guerra lo studia, dalle fessure degli occhi socchiusi, fumando. Andrea, sussurra ancora riaddormentandosi. Andrea. Heaven There was a guy an underwater guy who controlled the sea got killed by ten million pounds of sludge… Domani… Oggi non fa male non fa male non fa male. Oggi non fa male perché sono vivo vivo vivo. Sono vivo. Ecco perché posso mettere in moto. Perché sono vivo. Devo arrivare al Vespino infilare la chiave girare inserire la marcia spingere salire in corsa accelerare. Se metto in moto in corsa non mi fermo. Se mi fermo sono morto. Se non mi fermo sono vivo. Non devo smettere di correre devo mettere in moto in corsa. Il Vespino va più veloce se parte in seconda. Se parto da fermo fanno il tiro al bersaglio. Eccolo. Infilo la chiave. Spingo dal manubrio. Forza forza forza. Non si mette in moto. Non parte. Non parte non parte non parte. Li sento arrivare. Sono morto. La marcia. Non ho ingranato la marcia. La seconda. Il Vespino si blocca: la seconda. Spingo. Spingo spingo spingo spingo. Mi scappa via dalle mani. Il braccio urla il muscolo fa trac. Non mollo il manubrio. Salto sul Vespino sbando sto per cadere raddrizzo dò gas. Accelero. Terza. Quarta. Corre. Vola. Mi infilo contromano. Passo sul marciapiede tra macchine parcheggiate e muro svolto dò altro gas. È stata lei per forza. Stronza. Mi controllavano sapevano tutto di me. Sono contromano sul marciapiede. Il ponte della stazione. Il motore si sta spegnendo. Si spegne. No no perché perché perché perché non ho aperto la benzina idiota che sono mi chino rischio di cadere giro la chiavetta per fortuna c’è ancora spinta frizione seconda sono in cima al ponte lascio la frizione blocco ruggito del motore. Si riaccende. Mi butto giù e taglio contromano i viali. Li vedo in cima al ponte. Mi hanno ripreso mi vedono loro sono più veloci. In città non si può andare più veloci di così non si può non si può. Finché vado a zigzag non possono usare la potenza del loro motore per riprendermi. Finché vado a zigzag non hanno un bersaglio da colpire. Muovermi. Devo dare gas muovermi a zigzag e pensare. Ora che non corro ho tempo di pensare. Come facevano a controllarmi? C’era scritto una cimice nel letto: era lei. La cimice. No, la cimice c’è davvero. Ma dove? A casa quando ci sono stato? Cos’è che non funziona? Il computer di Ferodo. Il computer di Ferodo non lo conoscono, quello che usavamo all’inizio sì. Che senso ha? Come fanno a non intercettare Ferodo? Taglio qui a destra. Curvone, forse non lo conoscono. Forse sbandano. Comunque finché sono nel curvone non mi vedono. Via Emilia. Pessima idea: larga, dritta. Vuota. Li vedo sbucare fuori. Mi butto contromano posso infilarmi in una laterale posso farlo. Ferodo. La chiave è Ferodo: perché è importante che loro non lo conoscano? Cosa vuol dire che non lo conoscono? Schivo una macchina contromano vedo una strada a senso unico in uscita entrerò lì sul marciapiede. Non mi viene nessuno incontro ho spazio prendo bene la curva. Troppo bene. La prendo lentamente. Troppo lentamente. Il motore si sta spegnendo. Tossisce. Un colpo, due. Si è spento. Sono a piedi. Li vedo lontani. Seconda frizione spingo spingo rilascio la frizione spingo spingo spingo. Colpo di tosse del motore: non si accende. La riserva: non entra la benzina della riserva. Lascio il Vespino a terra ricomincio a correre. Non servirà a molto. Arrivano. Sono morto. If man is 5 if man is 5 if man is 5 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 and if the devil is 6… 4. Tutte le cose convergono Tutte le cose convergono in nero marciume. GEORG TRAKL 1. Cose che succedono 7 settembre 1998. Bologna, via Santo Stefano, ore 4.30. In my dreams I can hear the sound of thunder… Ferodo si sveglia con un sobbalzo. Qualcosa fa male. La faccia. Il divano è diventato duro. Troppo. Sono caduto dal divano, pensa Ferodo, sul pavimento. Le note di Donald Fagen risuonano ancora dalle casse. Il disco sta finendo. Notte intensa. È il momento di mettere ordine al materiale. Quasi una risma di carta stampata a supporto del dischetto zippato, suddiviso per settori di ricerca. Tabulati telefonici. Fatture, bolle e documenti commerciali e finanziari. Tabulati bancari. Appunti: link, reti, contatti. Alcuni interessanti. Una serie di dati personali. Prima di andare via un ultimo controllo. Una box-mail crittata: c’è posta. 2M ha già risposto. Mail postata alle 03.45: un vero amico ti cambia la vita. Specie se è nottambulo. C’è un allegato. Provenienza: Bulletin Massilien de Résistance et Contre-Information. Una rete informativa francese, area radicale: i referenti politici di J-C. Una scheda d’archivio, a quanto pare. Fascismo>[Neo]Fascismo+Italia>Florio+Morsatti>Meeting+ Centre. Raffaele Florio e Maurizio Morsatti, secondo le loro stesse parole «dichiaratamente fascisti», hanno fondato nel 1997 il movimento italiano Nuova posizione. I due erano fuggiti dall’Italia dopo l’attentato alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980). All’epoca erano i capi dell’organizzazione di estrema destra Terza forza, un’organizzazione paramilitare fortemente sospettata di legami con le logge massoniche, oltre che con ambienti mafiosi palermitani. Dopo essere fuggiti in Libano, Florio e Morsatti ricompaiono a Londra all’inizio degli anni Ottanta. Secondo rivelazioni pubblicate dal quotidiano «The Guardian», i due terroristi neri sarebbero stati reclutati in Libano dai Servizi segreti inglesi del Military Intelligence 6 (mi6). Nella capitale britannica i due frequentano assiduamente gli ambienti dell’estrema destra. A Londra i due fascisti italiani creano differenti società d’affari, tra le quali un’agenzia di viaggio e di servizi piuttosto particolare, denominata Meeting Centre, che ha per compito indirizzare gli italiani in cerca di lavoro o alloggio. Il loro patrimonio immobiliare, gestito attraverso una galassia di strutture sparpagliate in tutta l’Europa, è molto difficile da stimare. Ferodo stampa l’allegato. La ricerca sui link la faranno gli altri: inutile che mi metta a lavorare su questa roba, non ne so abbastanza, conclude Ferodo. È ora di andare a casa. Chiamo Lara più tardi, pensa mentre aspetta che il Cd finisca per estrarlo. Non si interrompe un pezzo di Donald Fagen, diceva Lester. Mai. And we’ll walk between the raindrops back to your door… Località non determinabili, ore 6. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda estera a telefono cellulare clonato con scheda venezuelana. [L’intera conversazione si svolge in lingua francese]. zeta?Hai ricevuto le password? yves?Sì. Quando? zeta?Oggi, a partire dalle 13, ogni due ore. Non so l’ora esatta. yves?Fuso orario italiano? zeta?Be’, sì… Perché, tu dove stai, adesso? yves?Un po’ qua, un po’ là.Tu non preoccuparti, e soprattutto non interessarti. zeta?Non voglio sapere in quale casa stai. Piuttosto, che mi dici del Brabante? yves?Monitorato di recente. Tutto bene. La persona è affidabile, e soprattutto fedele. zeta?Fedele a te… yves?Fedele a noi, spero intendessi dire. Alla causa comune. zeta?Certo. Che ne pensi del ritorno di Ti? yves?Io l’avevo caldeggiato da tempo. Dei vecchi amici mi fido più che dei nuovi alleati. (Silenzio). yves?Tu no? zeta?Non lo so. Io non mi fido di nessuno. Troppi hanno giocato sporco nell’ultimo ventennio. yves?E tu come giocavi, vecchio mio? O forse hai imparato a portare i guanti? zeta?Io ho sempre portato i guanti. Aiutano a non lasciar impronte. yves?Ecco, appunto. A proposito di fiducia: che mi dici di Beta? zeta?Troppo sicuro di sé. Crede di avere il mazzo in mano. Non sa dei tuoi contatti belgi. yves?Meglio così. Lascia pure che sia lui a distribuire le carte. Vuol dire che l’imprevisto si sta rivelando un fortunato contrattempo, se ci è stato utile a mettere in contatto il mio uomo con l’organizzazione di Ti. Chiamami dopo il forum. L’uomo grassottello chiude la comunicazione. Un fortunato contrattempo: forse. Se la cosa non sfugge di mano. È che di mani ce ne sono un po’ troppe, e non è facile controllarle tutte. L’uomo chiamato Yves si affaccia sul terrazzo soleggiato. Il sole è appena alto sull’orizzonte, il colore che dà al mare è bellissimo. La spiaggia di Albufereta dà il meglio di sé quando i chiassosi turisti, mescolati agli alicantini, vanno a dormire seguendo il ciclo della luna. All’uomo chiamato Yves piace recarsi di prima mattina ad Alicante e passeggiare in solitudine lungo la Explanada de España, dal Parque de Canalejas al Castillo, godendosi le palme, i mosaici, i marmi colorati della pavimentazione, ma soprattutto il Castillo de Santa Bárbara, imperitura testimonianza della difesa della Ciudad del Sol contro gli assalti dei pirati fedeli al sultano di Algeri. Algeri: quanti anni sono passati? Quaranta dalle illusioni e dal tradimento di quel magnifico 13 maggio: la sollevazione, il ritorno del Generale, la caduta del governo… poi… la guerra che gli altri chiamano sporca… Non è mai finita, quella guerra: ha solo cambiato aggettivi. Ma la guerra la fanno i soldati, non i grammatici, e per vincerla ci vogliono le armi, non gli aggettivi. L’uomo chiamato Yves guarda ancora la linea del bagnasciuga. Comunque vada bisognerà cambiare nuovamente domicilio: è nell’ordine delle cose. A gestire il villaggio turistico penseranno gli altri.L’uomo chiamato Yves è un soldato, non un amministratore. E sente l’odore della guerra portato dalla brezza salmastra del primo mattino. L’uomo chiamato Yves rientra in casa. La luce del sole bagna l’intera Costa Blanca. Abbagliata, Alicante ridiventa l’antica Akra Leuka: la cittadella bianca. Bologna, rione Santa Rita, ore 9.10. La farmacista guarda sospettosa la ricetta. Soprattutto le quantità non la convincono. Avesse di fronte uno di quei ragazzi coi tatuaggi e gli orecchini al naso… ma questo vecchio un po’ appesantito non corrisponde al profilo dello spacciatore. Però… – Le spiace attendere un minuto? Sono costretta a fare un controllo presso il suo medico curante, sa, noi qui non la conosciamo, e… – Bona lè: brîsa perdere tempo. Mi chiami il responsabile, che ci faccio vedere una carta medica e risolviamo tutto. Alla giovane praticante va bene: se la vedrà il dottore. Il Togliatti fa segno al dottore di appartarsi a lato del bancone, estrae una cartellina trasparente e gliela porge. Il farmacista legge compito, un po’ diffidente. All’inizio. Poi, via via che sfoglia i documenti, la faccia supponente cede il passo al leggero imbarazzo di dover rispondere della poca cortesia, soprattutto dell’improvvida scortesia, della giovane dottoressa. Restituisce la documentazione dopo averla accuratamente rimessa al suo posto, e fa segno di sì alla ragazza. La quale non capisce. Gli dia pure il quantitativo richiesto, signorina, insiste il dottore. E le siringhe monouso, ribadisce il Togliatti. Appunto, rimarca il dottore: tutto quanto richiesto. E ci scusi ancora. All’edicola di fronte, il tamburino del «Mattino di Bologna» sottolinea la retata compiuta al Livello 57 dalla polizia la sera precedente. Al Togliatti interessa poco del locale, anche se la presenza del commissario Valente gli dà comunque fastidio. È qualcos’altro che cerca nel giornale: invano. Del caso Tassone neanche un rigo. Del caso Bignardi zero via zero. Che cazzo stanno facendo? Perdono tempo con quei ragazzini lì, mentre… Va bene: vorrà dire che al destino bisogna darci una spinta, Dio bono. Se vuoi una cosa fatta bene… Occhio, però: che la prudenza non è mai troppa. Ma Andrea Vannini è intelligente: ci arriva da solo, ci arriva. Oggi è lunedì, pensa il Togliatti giocherellando con una figurina uscita dal portafogli: una rana. Già, vedrai che ci arriva da solo. Con la posta prioritaria la riceve domani, che è martedì: sotto la rana ci scrive mercoledì, il Togliatti. Vedrai che Andrea lo capisce, è un buon soldato, il Vannini. Il Togliatti risale sulla Guzzi, si allaccia il casco e parte. Gli avventori mattutini del bar guardano con invidia il guzzone uscire in fretta dal loro campo visivo. Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 12.10. – Andrea, posso? – Certo che puoi, – dice Andrea mentre Chiara è ancora sulla soglia. – Com’è andato il turno di notte? – Qui dentro la solita palla. C’è stata una retata, hai saputo? – Sì. L’ho letto sui tamburini. – C’è la conferenza stampa. Vieni? – Tu? – Muoio dal sonno: sento l’inizio, poi vado a casa. Dài, musone: almeno per tenermi compagnia. Guarda che se non vieni se ne accorgono. Capirai, pensa Andrea alzandosi dalla sedia. La conferenza stampa è già in corso. Il commissario Valente sta dettagliando il vasto quantitativo di sostanze stupefacenti in violazione delle vigenti leggi sequestrate nel corso della perquisizione seguita all’interruzione di un cosiddetto rave party privo di autorizzazione Siae. Al suo fianco De Petris, quasi stupito di aver trovato consenso alla sua intuizione mattutina. I giornalisti sono i soliti di sempre: compreso Diego Dall’Olmo. Il motivo dell’irruzione, commissario? Era un po’ che tenevamo d’occhio le attività illegali che si svolgono al riparo di apparentemente innocue feste notturne, introduce Valente invitando De Petris a illustrare la linea investigativa in corso. Il brivido della notizia da prima pagina dell’edizione locale percorre le schiene dei cronisti all’annuncio del probabile nesso causale tra l’attentato alla discoteca Pagoda e le attività illegali del Livello 57, gli arresti ispettore, gli arresti sono la conseguenza del comportamento dei presenti all’ingresso delle forze dell’ordine, ispettore, resistenza a pubblico ufficiale mediante mezzi atti a offendere, può essere più chiaro ispettore, no, non al momento, perché sono in corso accertamenti per definire le responsabilità individuali, e cosa può dirci dei cinque ragazzi piantonati in stato d’arresto presso l’ospedale Sant’Orsola con fratture multiple, veramente non mi risulta che… guardi ispettore che ho già verificato la mia fonte presso il pronto soccorso dell’ospedale, dove effettivamente risultano cinque ricoveri disposti dal pronto soccorso, uno dei quali d’urgenza a carico di un… Dall’Olmo, è lei? interrompe il commissario Valente. Sì, sono io, Il ragazzo di cui parla era un tossico in crisi d’astinenza, è per questo che è stato ricoverato d’urgenza, Aveva un codice rosso, commissario, che significa pericolo di vita, pericolo di vita per, leggo, pneumotorace in atto causato dallo sfondamento di un polmone e tre costole fratturate, Noi non siamo infermieri, Dall’Olmo, a noi sembrava un tossico e come tale l’abbiamo portato al pronto soccorso, Commissario, un’ora fa l’avvocato dall’Asèn ha reso nota la testimonianza giurata di una sua assistita e ha denunciato la presenza di una squadretta di quattro poliziotti responsabili di pestaggi gratuiti nello spazio Chill Out, Conosciamo quell’avvocato, e sappiamo che genere di individui difende, Però lei non smentisce, Valente, Io non devo rendere conto a lei, Dall’Olmo, io sono qui per rispondere alle domande dei giornalisti, È quello che le ho chiesto, commissario: di rispondere a una domanda fatta da me, che sono un giornalista, No, Dall’Olmo, non credo proprio che lei sia un giornalista, credo che lei sia un agit prop. Fine della conferenza stampa. – Nel mio ufficio, tutti quanti! – tuona Valente.– Anche tu, Vannini! Andrea saluta Chiara con un cenno e segue il commissario. Chiara cerca con lo sguardo Diego Dall’Olmo, che è già andato via. Appoggiato alla parete, Sandro Valle guarda Chiara e aspetta che la sala si sia svuotata. – Allora: chi è la fonte di quel giornalista di merda? Perché lo ha detto lui stesso di avere una fonte.Tu che mi dici, Vannini? È amico tuo quello lì, vero? – Primo, non ho amici agit prop: giornalisti casomai, – gela l’aria Andrea. – Secondo, non ero in servizio ieri sera, e dall’inchiesta mi ha allontanato lei, quindi non potevo sapere della retata. E in ogni caso, visto che non è la mia inchiesta, se permette vado via. – Guarda, Vannini, che dei tuoi atteggiamenti da primadonna qui dentro cominciamo a essere tutti stanchi, – ribatte non richiesto De Petris. – Ecco, appunto, quindi la primadonna toglie il disturbo. E comunque, De Petris, prima di aprire bocca ricordati di controllare la data di scadenza del cervello. L’agente Valle è rimasto in sala: non prova neanche a rimettere a posto le sedie. – Che fai ancora qui, Sandro? – Ti stavo aspettando. Tanto l’ho capito guardandoti in faccia che la riunione durava poco. – Hai da fare? – No, il mio turno è finito. Ero qui per la conferenza. – E ieri sera dov’eri? – In servizio, – risponde elusivo Sergio. In servizio, ripete Andrea, in servizio, reitera Sandro, in servizio: faccio questo lavoro, Andrea, no? Sì, lo so, risponde Andrea: e quindi? E quindi cosa, Andrea? Eri anche tu al Livello 57, vero? Sandro Valle non risponde: però neanche abbassa la testa. Tanto lo sa che Andrea lo ha già capito: infatti. – Guarda che lo so che a Diego la soffiata l’hai fatta tu. Mi sbaglio? – No, non sbagli. – Chi sono i quattro della squadretta? – Sono del giro del bar Prezioso. E hanno avuto licenza di picchiare direttamente da Valente. Brutta storia, vero? – Brutta, sì. Sembra la prova di qualcosa di più ampio. Una prova andata bene, non fosse stato per te. Vieni, accompagnami fuori che ti offro il pranzo. 2. Una notte italiana Bologna, studio dell’avvocato Gastone dall’Asèn. Testo della deposizione giurata consegnata alla stampa: Simone e io ci eravamo assopiti su un divanetto nello spazio Chill Out. Non ricordo se è stato Simone a svegliarmi o se mi sono svegliata per il rumore. In ogni caso mi sono alzata sentendo un forte trambusto e delle grida che provenivano da fuori. C’era caos dappertutto. Il divanetto era dietro un muro, quindi non avevamo la visione diretta dell’ingresso dello spazio Chill Out. La prima cosa che ho notato è stata che la maggior parte dei ragazzi si era inginocchiata e aveva alzato le mani per indicare che erano pacifici e non avrebbero opposto resistenza. Simone e io abbiamo fatto immediatamente la stessa cosa. I quattro poliziotti che avevano fatto irruzione nello spazio Chill Out vestivano di nero e dovevano avere delle protezioni sotto la divisa, perché sembravano eccessivamente massicci. Indossavano caschi con le visiere abbassate. Avevano stivali pesanti, guanti e portavano manganelli. La prima cosa che ricordo è il poliziotto che ha calciato una sedia nel mezzo del gruppo di persone in ginocchio. Per tutto il tempo ho continuato a sentire cose che si rompevano. Due poliziotti hanno attraversato la stanza. Uno è venuto direttamente verso di noi, e mentre ero in ginocchio con le mani alzate mi ha dato un calcio alla tempia buttandomi a terra. Simone e un altro ragazzo che era sul divanetto vicino a noi mi hanno aiutata a rimettermi in ginocchio. Un altro poliziotto si è fatto avanti e ha cominciato a colpirmi con il manganello. Ero schiacciata contro il muro e mi sono rannicchiata sul lato destro cercando di coprirmi la testa con le mani e le braccia. Cercavo di non muovermi, perché pensavo che si sarebbe stufato e avrebbe smesso di picchiarmi. Per un attimo ho sollevato lo sguardo e ho visto che anche Simone veniva colpito. Quando hanno smesso di picchiarci, Simone e io ci siamo accucciati alla parete e siamo rimasti immobili per un tempo di circa cinque minuti. Ho notato che c’era molto sangue attorno a noi e che perfino la parete era sporca di sangue. Penso che fosse nostro, giacché stavamo entrambi sanguinando dalla testa e anche dal collo e dal polso. Dopo cinque minuti la polizia ha radunato tutti contro una parete. A quel punto mi sono accorta che la mia mano destra sembrava morta e il mio mignolo era spezzato. 3. Paranoia omeopatica Località non determinabili, ore 17. Schermo: acquario tropicale. Pesce palla. Alghe. Tostapane con le ali. Tasto F1: interruzione dell’acquario. Modem acceso. Enter. Connessione Internet: attivata. Request: Chat-line riservata. Password request. Insert password: ********. Second password request. Insert password: ******. Connected with: Chat-line riservata. Welcome. alfa?Ci sono. Chi è on line? beta?Io sono qui. alfa?Abbiamo altri invitati? beta?Lambda, ci sei? Lambda? zeta?Era previsto che mancasse? alfa?Arriverà. Garantisco io. beta?Allora cominciamo. Il punto, Alfa. alfa?Controlliamo il flusso di informazioni, ma non possiamo bloccare chi sai tu. Non senza una specifica direttiva. zeta?È un problema di mezzi? alfa?Negativo. Mezzi appropriati e motivati. Chiedo di valutare la situazione alla luce degli ultimi sviluppi. beta?Negativo. Resta tutto in stand by. Non facciamo precipitare gli eventi. alfa?Rischiamo che qualcosa sfugga al nostro controllo. zeta?Dico così anch’io. Comincio a essere preoccupato. beta?Io comincio a essere preoccupato della capacità di controllo del tuo gruppo, Alfa. Non dovevamo arrivare a questo punto. alfa?Non è colpa nostra se la polizza è scaduta. zeta?Sei riuscito a capire chi l’ha messa in scadenza? alfa?Chi, sì. Perché, no. Soprattutto: se ci sia una relazione o no. beta?E la cosa di ieri notte? alfa?Collaterale. zeta?Chiarisci il significato del termine «collaterale». alfa?L’uomo del bar ha fiutato aria di novità. Ha voluto verificare se certe cose sono consentite. beta?Chi c’era durante la verifica? alfa?Due dei nostri. Il gruppo d’intervento d’urgenza. Si sono presi una licenza premio per il lavoro straordinario della settimana scorsa. Lambda era al corrente. lambda?Confermo. Scusate il ritardo. beta?Dicci. lambda?Confermo la pericolosità del soggetto. Lo abbiamo sotto controllo, potrebbe non bastare. Concordo con Beta: consiglio prudenza. Suggerisco intensificazione del controllo. zeta?Che dici del gruppo di intervento? lambda?Ero al corrente. Li ho autorizzati personalmente. beta?Perché hai preso l’iniziativa? lambda?L’uomo del bar sta lavorando per noi. Dovevamo lasciargli corda. alfa?Non solo per noi. Gli farà comodo alle prossime elezioni, questa storia. beta?Le elezioni non sono argomento del forum. Comunque non dovevano esagerare: può essere un boomerang. zeta?Le sue ambizioni politiche ci riguardano? beta?Non direttamente. Ci serve dov’è, ci potrebbe servire dove andrà. In ogni caso resta sempre attaccato al nostro filo. alfa?Giù che succede? beta?Tra il gruppo di Ti e il marinaio c’è tregua. Tregua armata, ma tregua. Garantisco che durerà. Il belga non crea problemi: di lui rispondo personalmente. Manca poco, vediamo di tenere il coperchio sulla pentola del ragù. Autorizzo l’intensificazione del controllo, Lambda. Autorizzo iniziative personali solo a Lambda, limitatamente all’impossibilità di prevedere tempi e modi di intervento: ma chiedo costante informazione, se necessario col cellulare. lambda?Non mancherò. Chat-line: disconnected. L’uomo noto come Beta fissa il monitor. Muove una, due volte la mano, come per riaccendere la macchina. Si ferma: riflette. Era una possibile variante: era previsto. Sta succedendo: Vannini può diventare un problema. Pensare per opzioni simultanee. Usare la memoria: estrarre dal magazzino del passato lo strumento più adatto al presente. Valutare il tempo di preparazione e la prossimità del momento d’impatto. Tempi ristretti: troppo. Opzione non praticabile. Oppure no, opzione praticabile. A condizione che… Un professionista collaudato. L’uomo giusto. Valutazione del grado di affidabilità: accettabile. Valutazione dei costi preventivabili: sopportabili. L’uomo noto come Beta compone un numero telefonico su rete fissa. All’altro capo: Lucca. Lucca, studio notarile Fratelli Zanni, ore 17.30. Il notaio Giorgio Zanni riappende la cornetta del telefono riservato. Guarda l’ora: non è un buon momento per un colloquio. Non è mai un buon momento, del resto. Alza il ricevitore e compone il numero della casa circondariale di Lucca. Parla col direttore. Chiede un colloquio d’urgenza. Il direttore è restio: comprensibile. Pronuncia la parolina magica: il direttore acconsente. Il notaio Zanni chiama la segretaria con l’interfono e chiede la stampa di una procura. Nome del detenuto: Francesco Costante. Il fax comincia a ricevere i documenti da inserire nel fascicolo. Località non determinabili, ore 17.30. L’uomo chiamato Yves scrolla l’intera schermata della chat. File: Print. L’uomo chiamato Yves legge la stampata. Sottolinea alcune parole. Ripone i fogli in un fascicolo. Estrae il telefonino. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda venezuelana a telefono cellulare clonato con scheda estera. [L’intera conversazione si svolge in lingua francese]. zeta?Che ne pensi? yves?Hai l’ok per i contatti con gli altri. A Ti ci penso io. zeta?Il belga? yves?Il belga è cosa mia. Non c’è ragione di allarmare Beta: vogliamo la stessa cosa, lasciamogli credere quello che vuole credere. Rocca Messapica (Taranto), ore 17.45. Invio: da telefono cellulare clonato con scheda venezuelana a telefono cellulare clonato con scheda estera. Drìììn… drììn… (Nessuna risposta). Drìììn… drììn… (Nessuna risposta). Invio: da telefono Nokia schermato a telefono cellulare clonato con scheda venezuelana. yves?Qual buon vento? ti?Tramontana di terra. Polvere calda negli occhi. yves?Preferivi la nebbia del dicembre milanese al caldo clima del Sud? ti?Questa l’ho già sentita, e non mi era piaciuta. Comunque sì, forse preferivo la nebbia. yves?La faremo tornare, non preoccuparti. Tieni la situazione sotto controllo, ma non fare nulla di tua iniziativa. ti?Io non perdo mai il controllo. È quel tale che è stato mandato, che bisognerebbe staffilare. yves?È a lui che mi riferisco. Ci serve, e ci serve che lui creda che tu sia contingente. Metti giù lo staffile: si lavora di cesello. ti?Bene. L’uomo dai capelli bianchi riattacca. Guarda ironico l’altro cellulare. Roma, ore 17.50. – Allora? – Mah: ha ricevuto una chiamata senza invio di numero, ma non ha risposto. – E non ha richiamato? – No. L’uomo grassottello tamburella le dita sul tavolo. Quindi Ti e Yves hanno una linea protetta. E Ti non usa i telefonini che gli abbiamo mandato. Non si fida. Fa bene, pensa sorridendo l’uomo grassottello. Anche Yves e Ti hanno un giro di valzer tutto loro. La corda si sta sfilacciando un po’ troppo, pensa l’uomo grassottello. Non è detto sia un male, dipende da cosa viene intrecciato ai filacci che pendono. Il problema è: quanti sono con precisione i filacci? Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 18.30. – Ferodo? – Arriva più tardi. Sta lavorando sulle linee telefoniche: è un lavoro che può fare da casa. Quando trova qualcosa avverte. – Dove abita Ferodo? – Top secret, baby. Non lo sa quasi nessuno. È un paranoico duro, Ferodo: se devi lavorare con lui sarà meglio che te ne faccia una ragione. – Da quando è morto Lester? – No, no: è sempre stato paranoico. La storia di Lester gli è servita per dare un metodo a una propensione spontanea, tutto qui. Ferodo gira con documenti falsi, le sue linee telefoniche sono schermate, per il collegamento al Web usa piattaforme diverse, clona persino le sue carte di credito personali. E nonostante questo è convinto che siamo tutti controllati. Tipo curioso, questo ragazzo. È nato più o meno quando noi ce ne siamo tornati a casa, eppure qualcosa dell’aria che respiravamo è arrivata, per misteriosi sentieri, fino ai suoi bronchi: la paranoia. Ci credo che ad Andrea piace, nonostante l’approccio non proprio amichevole: Andrea è un cultore della paranoia, un convinto teorico della sua funzione omeopatica. Bologna, enoteca Calzolari, via Petroni, ore 18.40. – No, Diego: sei tu che hai assunto un ottimismo estatico fuori dalle righe. Lo sai meglio di me quanto faccia schifo questo mondo: non puoi andargli incontro senza difese e a braccia aperte. – Invece mandare avanti il volume della Treccani aperto alla voce Paranoia migliora l’approccio con gli altri esseri umani, non è vero? – Io ci lavoro, con la paranoia. I collegamenti che faccio sono paranoici, però ci prendo. Ho bisogno di essere paranoico: mi ci guadagno da vivere. E qualche volta mi ci salvo la vita, con la paranoia. Ed è qualcosa a cui tengo. – La paranoia? – La vita. – D’accordo, Andrea. Fai vedere questo fax, – dice Diego dopo aver rinunciato al tentativo di sgrezzare il rude ispettore Vannini. – Cosa ti dice? – chiede Andrea indicando il fax che Ferodo gli ha mandato in ufficio. – Che mi ricorda qualcosa. Così, a occhio e croce, direi che questa roba francese è più o meno esatta. Sulla Easy Travel ho sentito delle voci, te l’ho già detto: dammi una mezza giornata per vedere cosa riesco a farti sapere sui collegamenti con la Meeting Centre. Ti cerco sul mobile, d’accordo? Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 19. Ricapitolando: Ferodo ha raggruppato una serie di dati in alcune cartelline e ha tirato giù una lista di possibili linee di indagine. La più promettente sembra la lista parallela dei contatti della Easy Travel e delle Assicurazioni Tassone. E infatti… guarda qui, Lara!, dico dopo aver fatto scorrere l’occhio sulle due liste: c’è un solo contatto in comune: una società di trasporti marittimi. – Trasporti marittimi? Cos’ha in comune con le due società? – A dire il vero, niente. Ha assicurato un cargo con la Tassone, e ha effettuato del trasporto merci per conto della Travel. Quindi… – Quindi dobbiamo andare a dare un’occhiata a questa società? – Senza esagerare. Ricorda cos’ha detto Ferodo: rimanere in superficie, senza correre rischi. Lara mi guarda indispettita: cos’è quel tono da paparino, darlin’? – Posso essere un po’ apprensivo? Non è per sfiducia, ma… – Fottiti, stronzetto: guarda che so badare a me stessa, – dice Lara accendendo il computer. Certo: sa badare a se stessa. Magari sono io che non so badare a me stesso, che mi perdo per strada i pezzi migliori della mia vita. Magari ho anche la luna di traverso, stasera: e Lara lo sa, perché. – Guarda che l’ho capito che non ti va giù, – dice Lara senza voltarsi mentre smanetta sulla tastiera. Proprio così.Però non cambia niente. Lucca, casa circondariale, ufficio del direttore, ore 19.30. Il detenuto Costante Francesco ha mani ben curate, camicia di seta, pullover di cotone bianco da tennista. Solleva la copertina del fascicolo rosa e dà un’occhiata ai fogli in carta chimica. Annuisce. – Si può fare. Lo stesso gioco: buona idea. – Di cosa hai bisogno? – chiede premuroso Zanni. Il detenuto Costante indica l’agenda con la copertina nera che Zanni ha appoggiato sul tavolo del direttore: solo di quella, dice Costante. E di un telefono cellulare. – Cosa devo riferire? – Che non resta che aspettare la mossa prevista: il resto seguirà. Mi relaziono io con Alfa. – È tutto? – È tutto. Beta non è stupido, sa qual è il prezzo. – Quindi? – Digli che siamo d’accordo. Ah, Zanni: digli anche che sto scrivendo, per ingannare queste lunghe giornate. Un’autobiografia: per richiamare alla memoria un po’ di vecchie conoscenze. Un po’ tante, digli: praticamente tutte. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 20.30. – Dài, non far cadere il pesce sul pavimento! – Va bene, scusa: ti dispiace se uso delle comuni forchette? Queste bacchette di metallo mi scappano via dalle dita. – Forchette col sashimi? Che barbaro che sei, bello! Oh, il telefono: ti spiace premere quel pulsante rosso? Io veramente non l’ho sentito suonare: solo un leggero ronzio. Pulsante rosso: Ferodo in viva voce. – Trovato qualcosa? – Sì, e tu? – chiede Lara con un filo di chicchi di riso miracolosamente in equilibrio sulle bacchette. – Probabile. Ci si vede? – Dove? – Facciamo da me. Vi aspetto. – Wow! – esclama Lara. – Grande onore. Il principe oscuro ci ospita nelle sue stanze. – Devo preoccuparmi? – No, basta rispettare le sue regole. – Regole? Quali regole? Bologna, quartiere Barca, ore 22. – Regola numero uno: spegnere tutti i cellulari prima di entrare. – Posso chiedere perché? – azzardo timido. – Certo che puoi. Prima però spegni. Interno Ferodo: quattro frigoriferi bombati stile anni Cinquanta dipinti in blu e giallo shocking, tubi di stufe dai quali escono fasci di luci azzurre e verdi, una stuoia grande quanto l’intero pavimento, cuscinoni. Niente mobili, niente sedie, niente tavoli. Due porte: nere. Dal soffitto pendono alcune catene con grucce: pratico appendiabiti, credo, visto che Lara ci mette su il suo spolverino. Ferodo apre la porta a destra e ci fa segno di seguirlo. La mia postazione di lavoro, dice.Il comandante Kirk avrebbe qualche problema a raccapezzarsi tra tutti questi tasti, cavi, congegni. Su una mensoletta quattro manine colorate reggono altrettanti telefoni cellulari.Se devi fare una telefonata usa uno di quelli, mi fa, tanto il conto arriva a qualcun altro. Cos’hanno di particolare, chiedo? Ho fatto qualche piccola modifica, dice. Da quelli non rintracceranno mai la cella di partenza. E quell’accrocco lì?, chiedo indicando la consolle dell’Enterprise. La mia finestra sul mondo, risponde.Computer, televisore, impianto hi-fi, masterizzatori, archivio digitale e macchina del caffè. Macchina del caffè?, faccio l’errore di ribattere. Attento alla mano, che ti scotti, risponde Ferodo premendo un pulsante. La piastra elettrica incassata nel banco a poca distanza dalla mia mano si arroventa in pochi secondi, svelando la vera funzione di quella che credevo una decorativa scultura in acciaio: una moka Alessi. – Sei tu il fanatico del caffè, vero? Dopo il caffè facciamo il punto. C’è una cooperativa marittima, la Cooperativa San Michele, con sede a Venezia, proprietaria di un unico, omonimo cargo, che a quanto sembra abitualmente va e viene tra i porti di Chioggia, Ravenna e Pola. I carichi sono assicurati con la Tassone: nulla da dire. Più o meno un anno fa risulta un trasporto merci per conto della Easy Travel, regolarmente fatturato. Un po’ poco, ma vale la pena di tentare. Ipotesi di lavoro: proviamo a vedere cos’ha fatto il loro cargo nell’ultimo mese. Si può fare, dice Ferodo.Ci provi tu, Lara? Cosa uso? Usa la postazione Spock, dice indicando il monitor con su la statuetta del venusiano. Vado sicura? Vai sicura: se provano a rintracciare il nostro navigatore si ritrovano da qualche parte tra la Malesia e Kyoto. Lara si mette al lavoro. – Qui invece c’è roba per te, – mi fa Ferodo accendendo un altro monitor. – Guarda qui: ho caricato tutte le telefonate effettuate dalla Tassone e dalla Travel, e ho selezionato i numeri comuni. Adesso come procediamo, secondo te? Guardo le colonne di numeri: troppi. Cos’altro hai preso dai loro hard disc?, chiedo. Non dai loro Hd, risponde Ferodo: ho preso e zippato i loro hard disc. Cosa ti serve? Be’, allora facciamo un passo indietro, dico.Dammi tutte le chiamate della Travel a partire dall’inizio di quella pratica di rimborso assicurativo. Detto: fatto. Seleziona l’indirizzario commerciale ed escludi tutti i numeri comuni ai due elenchi: fatto. Più o meno una dozzina: un po’ troppi. Fammi un istogramma delle frequenze delle chiamate: fatto. Altro?, chiede Ferodo. Vediamo un po’… prova a incrociare questi dati con quelli della Tassone. Negativo: nessuno degli utenti ha fatto o ricevuto chiamate da questi numeri. Vedo… Puoi rintracciarmi i titolari delle utenze, tanto per avere un’idea? Poi… aspetta: prova a incrociarli con l’indirizzario della Tassone… Centro. Tre di questi numeri sono nell’indirizzario. Il primo ha un’assicurazione Rca: Ivano Clerico. Il secondo è socio di minoranza della società: Alfonso Righi Aldrovanti. Il terzo è un idraulico. Istogramma delle chiamate di Clerico e Righi Aldrovanti da e per: più o meno regolari sino all’inizio di agosto. Poi più niente. Magari sono in ferie… Magari invece no. Compiti per Ferodo: verificare dalle fatture se l’idraulico ha effettuato lavori nella sede.Se sì, lo escludiamo, per ora. Incrociare le chiamate delle linee telefoniche di Clerico e Righi, e per buona misura anche tra tutti quelli dell’elenco di partenza. – Date un’occhiata qui, – chiama Lara. – Cos’hai trovato? – Il cargo: si chiama San Michele, come la società. Dovrebbe essere attraccato al porto di Ravenna, adesso. – È sospetto, secondo te? – Vedi tu: c’è una documentazione che dice che è partito da Pola con un carico di pesce acquistato al locale mercato ittico e diretto a Ravenna. Però c’è anche un altro documento che dice che il San Michele ha scaricato un carico di pesce nel porto di Taranto. – E allora? – E allora, o ci sono due pescherecci con lo stesso nome, o questo peschereccio è a Ravenna e a Taranto. Contemporaneamente. Allora: me lo merito un bacino dal mio bel musone, o siamo ancora offesi? Ferodo mi guarda interrogativo. Lara si alza e gli lascia il posto, fissandomi negli occhi. Certo che a reggere la parte dell’offeso valgo meno che niente: soprattutto se devo fronteggiare la magia seagreen degli occhi di una pixie. – Fate un bambino qui in sala comandi, o venite a dare un’occhiata? – interrompe Ferodo dopo pochi minuti. – Sei andata un po’ troppo di fretta, Lara: la documentazione dello scarico di Ravenna è nella cartella delle bozze, non in quella della contabilità regolare. Dalla quale è stata tolta e cestinata. Eccola qui, fresca fresca di spazzatura. Che mi dice, dottor Holmes? – Che, a occhio e croce, hanno rimpiazzato questa bolla con un’altra. Sarebbe interessante sapere se a Ravenna questa nave ci è mai arrivata: i documenti dicono di no, ma a questo punto… bisognerebbe dare un’occhiata ai registri del porto di Ravenna per essere sicuri. – E dunque? – Diamo un colpo ad Andrea. Abbiamo un paio di cose da fargli vedere, gli passiamo la palla e vediamo cosa ne cava fuori. Uso uno qualunque di questi telefoni, o posso riaccendere il mio? – Usa quello rosso. Invio: da telefono cellulare color rosso a telefono cellulare. All’altro capo: Andrea Vannini. – Sì? – Andrea? Sono io. Possiamo vederci? – Cos’hai? – Un elenco di nomi da farti vedere. E una strana nave fantasma. A proposito, conosci qualcuno a Ravenna? – Io no. Ma conosco chi. Di che si tratta? – Te lo spiego poi. Da Pierino va bene? – Bene. Tra un’ora. Chiudo, sorrido a Lara e cerco di non pensare che prima o poi dobbiamo fare due chiacchiere. Prima o poi: entro stasera, comunque. Andrea Vannini chiude. Digita un Sms: «Tardo ti raggiungo a casa». Invio: messaggio inviato. Chiara Zanotti riceve l’Sms. Legge: «Tardo ti raggiungo a casa». Di nuovo: il solito stronzo, pensa sbattendo il telefonino sul tavolo. Il solito stronzo. Ma prima o poi la paga. L’uomo in ascolto chiude. Controlla sul monitor la ricerca della fonte. Italia Settentrionale. Nordest. Piemonte. Torino. Individuata cella di provenienza. Trascrizione indirizzo. – Guarda un po’ qui… – Che c’è? – Lo sai da dove lo hanno chiamato? Dalla direzione generale della Fiat. 4. Problemi di comunicazione Bologna, bar Pierino, ore 23.30. – Ehi, guarda chi si vede: ciao, Guglielmo. Non avresti un soldino per il tuo vecchio amico Raffaele? Dài mò, che hai portato pure la morosa. Ma cos’è quest’aria imbronciata? – Problemi di comunicazione, – dice sorridente Lara prendendo sottobraccio il vecchio ex alcolista. – A te non capita mai? Per un biglietto da dieci euro e un paio di chinotti offerti, il professor Raffaele non disdegna di mettere il suo scibile magistrale al servizio della bella studentessa. – Problemi di comunicazione, dici? Perché, comunicare è una cosa naturale? No no no, bella morettina, guarda che non ci siamo proprio. Guarda che la comunicazione è il risultato da raggiungere, non il punto di partenza. Chiaro, no? – No, non proprio, – dice perplessa Lara. – Cosa cambia se dici che non è il punto di partenza? – Non è il presupposto, come dicono all’università i filosofi… no, scusa, quei professori di Filosofia che dicono di essere filosofi, come se un giornalista che scrive di calcio dicesse di essere un calciatore –. Soddisfatto dell’analogia, Raffaele beve il suo chinotto e ricomincia, mentre il bancone si riempie dei nostri pierini. – Allora, dicevamo: guarda che se la comunicazione è il risultato da raggiungere, è evidente che è il problema, e non il contrario. Cioè, guarda che il problema è riuscire a comunicare, non il fatto che non ci si riesca. Guarda che non comunicare è la regola. – Sì, hai ragione, dice Lara. E allora spiegami come posso fare a comunicare col tuo amico là, che mi tiene il muso da oggi pome. – Spiegartelo io? Con quel bel paio di tettine che hai, che bisogno hai dei miei consigli? – Ho paura che il problema sia proprio questo, Raffaele. Le mie tettine. Le mie tettine, e quello che ne faccio. Raffaele guarda voglioso il pierino di Lara ancora sul bancone. No, non si può: ne basterebbe uno per ricominciare. Però certe volte la voglia viene, soprattutto davanti a problemi come questo. Anche un vecchio filosofo militante deve riconoscere, di tanto in tanto, i limiti della filosofia. O della testa dura della gente. Che è poi l’altra faccia della stessa questione: la filosofia ha dei limiti perché gli uomini hanno la testa dura. Andrea legge l’elenco di nomi, quello esteso. I due nomi sotto la luce del riflettore li abbiamo cerchiati. – Cosa ti dicono? – Alfonso Righi Aldrovanti: niente di particolare. A giudicare dal cognome e dal numero di telefono, che è della zona Colli, dev’essere uno di buona famiglia. Il che non vuol dire niente, di per sé. Deve avere una qualche attività economica importante, perché il nome non mi suona nuovo. – E l’altro nome? Andrea guarda il foglietto una seconda volta, poi si rivolge a Sandro Valle, che sta sputando fuoco dalle narici e dalle orbite per aver mandato giù il primo pierino della sua vita come fosse un amaro qualsiasi. Sì, cerca di dire l’agente Valle semisoffocato: più per lo scuotimento della testa che per il rantolo che gli esce dalla bocca, il messaggio di conferma comunque arriva. – È un poliziotto, – dice Andrea a denti stretti. – Un collega? – ringhia Ferodo. – Collega un cazzo! – dice una voce imprevista: Sandro Valle. Sguardo di Ferodo ad Andrea, come dire: anche lui? Sguardo di Andrea a Ferodo, come dire: e allora? Sguardo di Diego ad Andrea, come dire: prima o poi… Sguardo di Raffaele a Lara, come dire: è l’ora, no? Lo sguardo che mi rivolge Lara, invece, non lo capisco. O non lo voglio capire. È per questo che Lara mi prende per mano e mi trascina più in là, avvertendo il resto della banda con un secco: – Scusate, chiarisco una cosa e ve lo riporto come nuovo. Forse. Località non determinabili. Invio: da telefono cellulare a telefono cellulare clonato con scheda estera – Ci sei? Alfa: – Sì. Novità? – Può darsi. Una chiamata ricevuta dopo le dieci di sera. Sembra cerchino qualcosa o qualcuno a Ravenna. Che mi dici? (Silenzio). – Allora? Alfa: – C’è altro? – Sì. La provenienza della chiamata ricevuta. Pare che lo abbiano chiamato dagli uffici direzionali della Fiat. Da Torino, voglio dire. Alfa: – Sì. Lo so dov’è la Fiat. – Che devo fare? Alfa: – Continua a fare quello che stai facendo. Hai avvertito Lambda? – Negativo. Il suo telefono non è al momento raggiungibile. Alfa: – Lascia stare. Contatto Lambda io in chat. Telefono riattaccato. Sherry brandy. Mantenere la calma. Questo Vannini sta diventando un problema. Bisogna parlarne con Beta. 8 settembre, Bologna, bar Pierino, ore 0.20. – Ivano Clerico è uno del giro del bar Prezioso, – spiega Andrea Vannini. Stiamo parlando forse dei vecchi gaybusters?, interviene Diego. Sì, più o meno quella feccia lì. Spiacerebbe spiegare anche a me?, chiede Ferodo piuttosto innervosito. I gaybusters, spiega Diego, erano dei poliziotti che avevano l’abitudine di fare irruzione nei locali gay, con intimidazioni, angherie e in qualche caso anche estorsione. Roba del passato, spazzata sotto lo spesso tappeto della questura di Bologna dopo le denunce dell’Arcigay. Ricordo qualcosa, dice Ferodo. Be’, un paio di loro ha cominciato a fare comunella con un gruppetto di poliziotti con il santino del duce nel portafoglio, prosegue Sandro. Hanno preso l’abitudine di ritrovarsi al bar sotto la questura, il bar Prezioso. Dove andavano a prendere il caffè anche i fratelli Savi. Assieme a molti altri, perché il bar sotto la questura è comodo. Però dopo la storia della Uno bianca c’è chi ha cambiato bar: loro no. Sempre con il santino nel portafogli?, chiede Ferodo. No: adesso hanno Faccetta nera come suoneria del cellulare, fa più trendy, commenta Sandro. E a te non piacciono, vero?, chiede ancora Ferodo. Hai amici al Livello 57?, ribatte Sandro Valle. Ferodo fa segno di sì. Ecco: quelli che hanno massacrato i tuoi amici vengono dal bar Prezioso. E tu? Io queste cose non le faccio!, si scalda Sandro, non entravo in polizia, facevo il carabiniere se credevo in queste cose, cazzo! E loro invece ci credono, no? Loro sì. E voi li lasciate fare, incalza Ferodo. No: non noi. Quell’altro fascista di Valente: è a lui che piacciono tanto le suonerie, i gagliardetti e i manganelli. E ci marcia, anche. Sandro si ferma. Guarda Ferodo. Aspetta una parola da Andrea. In fondo non ha ancora capito perché è qui, davanti a una bettola nel centro di Bologna, con le budella in fiamme a parlare di queste cose: perciò aspetta una parola da Andrea. Che non parla. – No, sono io che non capisco cosa vuol dire cogliere le occasioni! – O forse non ti va di prendere lezioni di vita da una che ha la metà dei tuoi anni! – ribatte a muso duro Lara. – Forse. Forse non mi va di prendere lezioni di vita, tutto qui. – Benissimo! Solo che io non voglio darti alcuna lezione: sei tu che lo pensi. Tu lo pensi, tu ti rispondi, tu te la prendi: fai tutto da te. Io che c’entro? Pausa. Non fa una piega: allora perché mi sembra che ci sia qualcosa che non va? Come funziona la testa di questa ragazza? – Te lo dico io cos’è che non va… Ecco come funziona: una logica implacabile all’interno della sua stramaledetta sfera di cristallo: questa discussione è persa in partenza. – …non va che sei tu a volermi dare lezioni di vita, salvo accusarmi di fare quello che fai tu. Cos’è, vi viene naturale perché avete capito tutto quando noi eravamo ancora alla scuola materna? Guarda che non è colpa mia se quanto c’è di bello e vero è finito prima che io nascessi. Io mi accontento di quello che ho trovato. Sempre che tu me lo permetta. Calma un attimo: com’è che adesso sono passato io sul banco degli imputati? Di cosa siamo finiti a discutere? No: di cosa non stiamo discutendo, invece? – Un momento: guarda che stai cambiando le carte in tavola. Se vuoi una volta o l’altra ci mettiamo a parlare anche delle nostre generazioni. Adesso però stiamo parlando non di vent’anni fa, ma di oggi. Anzi, di domani pomeriggio. Ora è Lara a fermarsi. Siamo tornati al punto di partenza. Anzi, non siamo mai andati via da quel punto. È da lì che dobbiamo andar via, in un modo o nell’altro. Mi guarda. Cambia espressione. Non ha più l’aria di voler provare il filo delle sue laccatissime unghie sul mio collo. Sorriso a mezza bocca. Tenerezza. Mano sulla mia guancia. Mi accarezza con la punta delle dita. Non faccio quello che dovrei: non le tolgo via la mano. – È davvero importante per te? – Sì. È importante. Non quello che fai: è importante capire perché lo fai. – Allora prova a dirmelo, cos’è che faccio, se per te è così importante. (Silenzio). – Ti fai scopare. Dei soldi che ti dànno non me ne importa niente: è che ti fai scopare. Scuote la testa. No, sussurra. Come, no? No, sussurra ancora, non mi faccio scopare. Non mi faccio scopare da nessuno, anche se pagano. Sono io che me li scopo. Non è la stessa cosa. (Silenzio). – Non riesci a capire la differenza, vero? Non mi faccio mettere sotto da nessuno: è questo che conta per davvero. Possibile che non lo capisci, che per me è un lavoro? Non ho la pretesa di cambiare il mondo, non credo neppure che si possa cambiare la testa della gente: mi basta sapere com’è fatto il mondo, senza illusioni e senza favole rosa confetto. Prendo quello che mi serve nel modo che mi riesce meglio, e cerco di vivere meglio di tanti altri: ti sembra così brutto? – Mi sembra cinico. – È cinico. È opportunistico. È com’è la vita. L’alternativa qual è? Stare peggio? Se io invece di star bene sto male, gli altri smettono di soffrire? Mi prende per mano e mi riporta verso il bar. – È lo stesso nel tuo lavoro. Tu ti appassioni a ogni richiesta che ti fanno? Sei entusiasta di riportare i ragazzini alle ville dei loro genitori, di fotografare adultèri, di spulciare bilanci taroccati? No, vero? Però ogni tanto c’è qualcosa che ti piace fare: magari una volta o due hai aiutato un amico, no? Brutto esempio. Bruttissimo. Però ha ragione: come al solito. – Lara, io non so come farti capire che per me il problema è che… – È che ci vado a letto: è questo il tuo problema. Ascolta baby: io ci vado a letto per lavoro, ma con te faccio l’amore. Capisci che non è la stessa cosa? – Non lo so se lo capisco. Però è la tua vita, hai diritto di farne quel che vuoi. – E tu che farai, intanto? – Qualcosa. Qualcosa per ingannare il tempo, in attesa di vederti tornare. Resto ad aspettarti, anche se non so perché: però ti aspetto. Cos’altro potrebbe dirmi, a questo punto, se non un semplice, sommesso, quasi sussurrato: grazie. Grazie, tutto qui. No, non tutto qui. C’è anche un bacio. E un abbraccio. E un altro pierino offerto da Diego, tanto per non esagerare con la melassa che cola giù per via Belle arti. – Come restiamo? – chiede Sandro. – Restiamo che Sandro si occupa di chiamare un tale alla Capitaneria di porto di Ravenna, per vedere se quella San Michele è poi arrivata per davvero, mentre Diego raccoglie notizie sull’agenzia di viaggio. – Noi? – chiedo a Ferodo. – Mi passi a prendere domani a mezzogiorno, – mi risponde. – Andiamo in Santo Stefano a fare surf, così ti faccio vedere qualche cosa che magari ti può venire buona per il futuro. – Cosa? – Entriamo nelle caselle postali dei due che abbiamo individuato. Ci facciamo un giro nella loro posta, poi vediamo dove vanno quando navigano. Ti insegno a trasformare un uomo sconosciuto in un libro bianco. – Dove ci ritroviamo tutti quanti? – chiedo. – Calma, – risponde Andrea. – Domattina passo a trovarti: abbiamo una vecchia conoscenza da rintracciare. Lo guardo incuriosito. – Quella nave è contemporaneamente in due porti. A verificare Ravenna ci abbiamo già pensato. Dobbiamo fare la stessa cosa per Taranto. Pensaci un attimo: chi ti viene in mente? – Dopo tanti anni? – Appunto. Dei nostri vecchi amici su chi scommetteresti, dopo vent’anni? – Vecchi amici? – chiede Lara. Siete stati a Taranto? – Andrea ci ha fatto il servizio militare. E l’estate andammo a trovarlo. Bella vacanza, niente da dire. Partimmo in tre sulla mia Due cavalli, che tirò le cuoia all’arrivo, e ci restammo due mesi. Ma così, su due piedi… – Pensaci, stanotte. Io una mezza idea ce l’ho, – dice Andrea. – Rintraccio qualche recapito prima di passare da te. Non contarci troppo, ribatte Lara. Sul fatto che io sia capace di rintracciare delle vecchie conoscenze?, chiede stupito Andrea. No, caro: sul fatto che il tuo amico abbia del tempo per pensare, stanotte. Andrea sorride a mezza bocca: non spremerlo troppo, che mi serve domattina. Fottiti, stronzetto. E chiama la tua morosa, se non hai di meglio da fare. Ferodo paga il conto: tranquilli, ho ricevuto stamattina il saldo di un lavoro, sono messo bene, dice. Guarda Sandro, fa uno strano gesto, poi gli dice: non credo che tu abbia ragione. Però ti credo. Cosa vuol dire?, chiede Sandro. Che per me l’anomalia non sono i poliziotti del bar: loro sono i regolari. L’anomalia sei tu. Sei convinto?, chiede Sandro. Sono convinto, risponde Ferodo allungando la mano aperta col pollice in alto. Sandro allunga la sua, i pollici si incrociano nella stretta delle mani. Lara si infila il casco, metto in moto la Vespa. Andrea riaccende il cellulare e digita sulla tastiera un «Sei ancora sveglia? Sto arrivando». Invio: messaggio inviato. Messaggio di risposta: «Ti aspetto, vieni presto, baci». – Non te la meriti una così, – commenta Sandro mettendo in moto la macchina. – Sta’ zitto e guida, – risponde Andrea. 5. Scirocco, non s’asciuga niente Taranto, città vecchia, ore 7.30. Apre le imposte scrostate e si affaccia. Respira sul viso l’odore del vento che viene dal mare. I pescherecci beccheggiano abbagliati e tremuli nella luce dorata del sole che si alza di poco sul porto. Voci di uomini al carico e scarico nelle botteghe sottostanti. Gabbiani. Inspira ancora. Si passa le dita callose tra i capelli rossi per ravvivarli. Guarda il bucato lasciato appeso ai fili esterni, lo tocca con una smorfia di disapprovazione. – Tore! Ce tembe face stamatíne? – Sceròcche, – risponde Tore senza voltarsi. – Sté sceròcche: no’ s’assuca níjnde. – Tore: ma n’u sé ca ste addevende proprie ’na vècchie ziláte? – Ma va’ fa’ ’n cape, – risponde Tore sganciando il paniere e calandolo dalla finestra in strada. Il pescivendolo sottostante lo riempie con una piccola grasta di cozze nere che risalendo luccicano nell’aria tersa. Il telefono squilla. Bologna, redazione del «Mattino di Bologna», ore 6.30. Dall’archivio personale di Diego Dall’Olmo. Agenzie che hanno qualcosa di molto sospetto. Il nome di queste agenzie in Italia è Easy Travel. Quest’organizzazione propone in un pacchetto tutto incluso un alloggio e un lavoro ai ragazzi che ignari si rivolgono a loro. Il funzionamento è semplice quanto cupo: ai ragazzi che arrivano nella capitale inglese è chiesto di pagare in loco tutte le spese relative ai servizi che Easy Travel mette loro a disposizione. Easy Travel ha in gestione quindici ostelli che se visti nel loro sito sembrano alloggi confortevoli e dignitosi. Ma la realtà è ben lontana: quello che aspetta i ragazzi sono camere 4x4 dove dormono fino a cinque persone, un bagno e una cucina per piano (dove in un piano vivono anche venti persone). Il tutto gestito in un clima militaresco da decine di ragazzotti con il fascio tatuato sul corpo, tra l’altro non solo italiani. È infatti del quotidiano «Mail» la notizia che Florio (leader terzaforzista) avrebbe fatto arrivare dalla Polonia un esercito di boneheads per meglio gestire i giovani europei che annualmente entrano in contatto con la società. Molti sono i racconti di esperienze dirette che parlano di pestaggi notturni ad affittuari in ritardo o semplicemente non in linea con la gestione. Per quanto riguarda il servizio che si propone di cercare un lavoro ai ragazzi, il suo funzionamento è tutt’altro che agevole: Easy Travel ha un piccolo ufficio di collocamento in contatto diretto con ristoranti, alberghi e altre strutture ricettive, ma l’attesa di un lavoro spesso è molto lunga, tanto che a volte si è costretti a rimpatriare per l’esaurimento dei soldi che ci si era portati dietro. Spesso ci sono casi in cui i ragazzi attendono anche due o tre settimane prima di essere collocati in qualche ristorante o hotel. I lavori inoltre sono quasi sempre sottopagati e in locali-bettole della periferia londinese. Quelli maggiormente svolti sono l’aiuto cameriere, la cameriera ai piani e il lavapiatti. Ma le grosse rendite per la Meeting Centre (o Easy Travel) non si esauriscono nella percentuale sottratta agli stipendi e nella riscossione degli affitti molto alti: tra le molteplici attività della holding troviamo una catena di ristoranti, negozi alimentari di prodotti italiani, una casa discografica e alcune scuole di lingua. Diego Dall’Olmo finisce di battere il riassunto dei reportage trovati in Rete, delle chiacchiere di un paio di vecchi colleghi, e di qualche scheda personalmente compilata su Nuova posizione.L’erba cattiva non muore mai: a quell’ora a Diego non viene in mente nulla di meno banale. Sul tavolo gli hanno già portato la copia dell’edizione del mattino. Diego la snobba in favore di un orrido caffè della macchinetta a gettone della redazione. È ora di chiamare Andrea. Casalecchio sul Reno (Bologna), via Canale, ore 7.10. – Dài, Andrea, vieni su tu, che prendi il caffè. Tanto ora come ora non riesco a scendere, fammi il favore. – Ma il tuo amico non dorme la notte? – chiede Lara con voce impastata riemergendo dal lenzuolo. – Solo quando non ha altro da fare, – rispondo. Cioè mai: per Andrea c’è sempre qualcosa di più importante da fare. Suona alla porta. Vai tu, mi dice Lara, penso io al caffè. Faccio entrare Andrea. Naturalmente non pensa sia il caso di chiedere scusa: sembra che le scuse gliele debba io per essere ancora in mutande e maglietta. Accucciata accanto al tavolino basso, Lara accende la macchina da caffè espresso bar. Ha indosso una maglietta che le si allunga di poco sopra le ginocchia: adorabile. Sin troppo adorabile, perché dalla sottile maglietta, lunga ma non larga, traspare la linea perfetta del fianco destro, senza alcuna interruzione: cioè senza che traspaia il rilievo dello slip. Che infatti non indossa. – Colpa tua, – mi risponde sorridente dopo che glielo faccio notare, – non lo trovo più. Niente male il suo caffè, anche se lo fa con la macchina da bar. Miscela messicana, dice Lara. Già: il viaggio in Messico, la tequila, il mezcal… Allora?, chiede Lara curiosa, mentre si allunga per prendere una scatola di biscotti facendo pericolosamente risalire il bordo della maglietta all’altezza del gluteo destro. Allora, risponde Andrea, Sergio mi ha chiamato stamattina. Dal porto di Ravenna hanno confermato che nessuna nave San Michele è mai attraccata nell’ultimo mese. – Quindi la nave è a Taranto? – chiede Lara. – Quindi forse la nave è attraccata a Taranto. Resta da capire cosa significa la doppia certificazione, – sottolinea Andrea. – E magari cosa trasporta questa nave, – concludo io. – E quindi? – E quindi, – riprende Andrea, – tu te li ricordi gli amici di Taranto? – Vent’anni dopo? – Vent’anni dopo. Noi ci siamo ancora, dopo vent’anni. – Quasi, Andrea. Qualcuno non c’è più. – Ci siamo tutti, – risponde a muso duro Andrea, – ci siamo tutti. Non se ne è andato nessuno. Non se ne va mai via nessuno. Mai. Sotto il tavolo sento la mano di Lara che sfiora la mia. La stringo, forse troppo forte. Lara non dice niente, mi accarezza con lo sguardo. Ha capito. A Taranto Andrea aveva legato con un gruppo di compagni della città vecchia in crisi per lo scioglimento di Lotta continua: compagni della Taranto sottoproletaria, passati senza soluzione di continuità dalla sottoalfabetizzazione all’impegno politico. Per loro l’impegno aveva significato rompere con una vita destinata alla miseria, alla delinquenza, alla galera probabilmente: comunque sfuggire a un destino che aveva già cominciato a segnare le loro carni adolescenti con i suoi artigli avvelenati, e che aveva dovuto accettare la rottura di una regola tacita e ferrea. La rigidità sociale si sbriciolava sotto i colpi di maglio della grande fabbrica, del mito del progresso, della presa di coscienza della non inevitabilità della povertà, dell’ignoranza, dello sfruttamento. Entravano in fabbrica figli di pescatori con lo stesso spirito guascone con cui i loro padri affrontavano il nero della notte e del mare nelle cattive giornate, ma lasciando per terra ai cancelli, accartocciata, la rassegnazione delle pescate andate male. Tore, Giovanni, Totò, Mimmo… ora come ora faccio fatica a focalizzare i loro volti: però so che quell’estate siamo stati bene insieme. Poi, come nelle brutte canzoni di quel periodo, l’estate è finita: in tutti i sensi, è finita. Negli anni a venire non c’è stato più tempo, forse neanche più voglia di condividere, sciogliersi e rifondersi tutti insieme. È lì che devo aver cominciato a invecchiare. E Lara? Cosa c’entra con tutto questo? Lei quelle esperienze non le ha vissute, non credo che qualcuno gliele abbia mai raccontate: e se pure, cosa potrebbe aver capito? La vita non si impara dai racconti degli altri: il solo fatto di raccontarla la tiene a distanza, la allontana, come il pittore che si ritrae nel quadro: la vita la si vive, punto e basta. Cosa c’entra Lara con la mia vita? E cosa c’entro io, con la sua? – Te lo ricordi Tore? Il figlio del pescatore, quello che a sedici anni aveva già subito il primo arresto per aver festeggiato la promozione della squadra in B sparando in aria a due mani. Tore, quello rosso di capelli. Quello che era andato in Spagna col Vespone senza patente. Quello capace di sollevare a due mani una Guzzi per scommessa. Tore. – Ma il vostro amico dopo tanti anni si ricorda ancora di voi? – chiede Lara stupita. – Spero di sì, – dice Andrea. – Aveva messo su una struttura di informazione, anzi, di controinformazione, come la chiamavamo allora. E se le cose sono andate in un certo modo probabilmente se ne occupa ancora: proprio non ce lo vedo a fare altro, il vecchio Tore. Il più è sperare che sia ancora a Taranto. – Scusa, Andrea, ma c’è qualcosa che proprio non riesco a capire, – insiste Lara. – Se hai bisogno di un’informazione non fai prima a rivolgerti alla polizia? Perché devi rivolgerti a uno che non vedi da vent’anni? – Intanto non è che siano proprio vent’anni… ma ne parliamo un’altra volta. Poi… preferisco rivolgermi a qualcuno di cui mi fido. – Tu? Tu ti fidi solo di te stesso, Andrea… – In genere sì: questa volta mi tocca fare un’eccezione, – dice estraendo una rubrica dalla tasca. – Posso usare il tuo telefono? – chiede a Lara. – E quella rubrica? Non sarà quella di vent’anni fa? – Non essere stupido, – risponde Andrea sollevando la cornetta. – In vent’anni i numeri telefonici cambiano. – E tu hai una rubrica con su il numero aggiornato di Tore? – Anche, – risponde Andrea componendo lo 099. Invio: da telefono fisso a telefono fisso. All’altro capo: Taranto. Uno squillo. Due. Tre. Il ricevitore viene sollevato. – Ce j’è? – Tore? Tore Gigante? – Ci è ca stè parle? – Tore: sono Andrea. Andrea Vannini, di Bologna. Ti ricordi? – Andre’… Uhé! Andre’! Ma vide ’nu picche, si nun m’arrècurde... ma addò stè? Ste’ avenute a Tarde? – Tore, guarda che il tuo dialetto non lo capisco più. Ho bisogno di sapere delle cose, Tore: mi puoi aiutare? – Sì… sì. Che è che stai cercando? – Una nave, Tore. Una nave croata di nome San Michele, che ha fatto una consegna di pesce a una cooperativa chiamata Stella Maris. – ’Na nave croata? Pesce croato a Taranto? Ma ce stè strùliche? – No, Tore. Cooperativa Stella Maris. La sede è in via Garibaldi. Dall’altro capo si sente una specie di borbottio: qualcosa non va, è chiaro. – Andre’, vide ca… guarda che non ci sta una cooperativa Stella Maris in via Garibaldi. Se vuoi vado che controllo, ma te lo dico io che non ci sta. – Sei sicuro? – Io ci sto, su via Garibaldi. Non ci sta quella cooperativa. E il pesce croato non l’accatta nessuno qui. Ma da dov’è che stai chiamando? – Da Bologna. Fammi un favore: controlla la nave e la cooperativa, poi ci risentiamo. È importante, Tore. – Quanto importante? – Tanto da averti richiamato: ti basta? Gli basta. Tore mette giù il telefono. Torna alla finestra: torna a guardare le navi immobili all’approdo. Totò esce dal bagno asciugandosi la faccia con l’asciugamano. Caffè, Tore?, chiede. Tore risponde con un cenno della testa. Totò versa dalla moka in un bicchiere. Lo porge. Tore sembra non accorgersene. – Ce jè, Tore? Ce stè tremende? – ’U sceròcche: stoghe tremende ’u sceròcche. Totò lo guarda interrogativo: guardando lo scirocco? quale scirocco?, si chiede. Non lo si sente soffiare, dice. Si sente, risponde Tore, si sente: bisogna avere naso per sentirlo, Totò. Se non lo senti col naso lo senti nella schiena, quando te la spezza ed è troppo tardi. 6. Underground Bologna, redazione del «Mattino di Bologna», ore 9. Andrea si affaccia nell’ufficio di Diego. Al cenno di assenso, entra e chiude la porta a vetri. – Allora? Cos’ha scoperto la tua inchiesta? – Mah… più che un’inchiesta sull’estremismo nero sembra la relazione di un analista finanziario, – risponde Diego sfogliando un taccuino. Senti un po’: un giro d’affari di forse venti miliardi, un patrimonio personale di alcuni miliardi attribuito al segretario politico Raffaele Florio e al leader spirituale Maurizio Morsatti, per cominciare. Agenzie di viaggio in tutta Europa, partecipazioni a diverse società, centinaia di proprietà immobiliari, compreso un villaggio turistico in Spagna destinato a diventare un luogo di svago e relax per i camerati: ti basta? – Mi basta. Secondo te come hanno potuto due latitanti come Florio e Morsatti avviare un business di tali dimensioni? – Tra i camerati rivali corre voce che il capitale iniziale fosse il contante dell’organizzazione neofascista Nuova posizione: diciamo che i due, dopo la strage di Bologna, sono scappati con la cassa. È un’ipotesi, certo: però… C’è un’altra voce: c’è chi parla del sostegno ricevuto dai Servizi inglesi coi quali i due avrebbero collaborato, e forse collaborano ancora. I nostri eroi smentiscono, chiaro: a volte però smentiscono prima di essere accusati… – Tu che idea ti sei fatto? – Per me potrebbe essere vera un’ipotesi più banale: la gestione della Meeting Centre, la società madre, avviene con metodi al limite della legalità, e come ben sai sfuggire alle maglie della legge è spesso redditizio, – dice Diego allungando ad Andrea lo stampato di un articolo. – E i soldi per mettere su la società dove li hanno presi, se non li hanno rubati ai loro stessi camerati? – Be’, per cominciare potrebbe essere bastato il generoso sostegno finanziario di alcuni imprenditori italiani di area. In Rete si fa il nome di Tonino Mandalari, titolare dell’omonima società produttrice di liquori. – La famosa sambuca Mandalari… – Quella porcheria lì: sorpreso? – Di trovarci la sambuca? Neanche per idea. Sarei sorpreso di trovarci solo quella. No, mi pare tutto ragionevole. E ti dirò: le tre ipotesi non sembrano in contraddizione tra loro. Piuttosto: che ne fanno di tutto questo denaro? – Oltre a usarlo per cercare di farsi spazio nell’agone della destra radicale? Un po’ di tutto, senza alcuna sorpresa: elargizioni per spese processuali a vecchi camerati dell’area eversiva neofascista, finanziamento ai gruppi skinhead italiani e inglesi… cose così. Andrea rilegge gli appunti di Diego un paio di volte. Non è convinto. – Cosa c’è? Dài, sputa fuori. – Un gruppo borderline: niente di illegale in superficie, se non si comincia a scavare. Però non siamo qui per loro. Stiamo girando attorno a qualcosa che sembra partire da un versamento di poco più di duecento milioni che si è inceppato per la morte del vecchio Tassone: questi qui hanno i miliardi, e non sembrano particolarmente avari. – Quindi non c’entrano? – Saperlo, in cosa dovrebbero entrare. No, sembrerebbe che abbiamo fornito le strutture: come dire un’agenzia di servizi. Ma se i soldi non li mettono loro, è segno che il gioco non lo dirigono loro. – Non è un po’ contorto? – No. Non è affatto più contorto di tanti altri giochi. È un gioco già visto, vecchio: questo sì. Chi dirige l’orchestra vuole avere le mani libere: e fa bene, se ci pensi. Se tu fossi di quella sponda, ti fideresti di uno come Florio? – Di tutti i doppiogiochisti parolai che abbiamo schedato in tanti anni di lavoro sull’informazione… – Appunto: meglio tenerlo a distanza. Però non tanto da escluderlo dal gioco, viene da dire. Il che qualcosa vorrà significare, no? – Che c’è bisogno anche di lui? – Forse. O forse no. Diego abbozza un mezzo sorriso. Tu un’idea ce l’hai, vero?, chiede sornione. Più di una, risponde Andrea: più di una. È questo il problema: che non riesco a escluderne nessuna. Ho la sensazione di procedere all’incontrario su un tapis roulant: continuo a camminare e rimango sempre nello stesso punto. – Adesso che fai? – Vado a spremere Lercio Giani: metti mai che ne cavi fuori qualcosa. Diego annuisce, malcelando un’anticchia d’invidia: una spremuta a quel limone rinsecchito gliela darebbe volentieri lui, tanto per togliersi lo sfizio. Ci sono dei momenti in cui sporcarsi le mani non è del tutto spiacevole. Bologna, rione Santa Rita, ore 10.30. – Facciamo il numero del poliziotto buono e del poliziotto cattivo? – chiede Sandro spegnendo il motore. – Sandro, mi fai un favore? – chiede Andrea con gentilezza sospetta. – Dimmi. – La smetti di leggere i gialli e passi a qualcosa di meglio, che quella roba lì ti manda in pappa il cervello? Il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, – continua l’ispettore Vannini scendendo dalla macchina. – Ma dove cazzo credi di essere? E si infila nel portone senza dire altro. Sandro Valle sospira. Apre il cruscotto, prende il «Dylan Dog» che aveva previdentemente archiviato e cerca di risollevarsi il morale con Groucho. Certo che a chiamarlo appartamento ce ne vuole. A partire dall’ubicazione, che costringe Andrea per due volte a fare su e giù per le scale, prima di scoprire che il «Guido dottor Giani.Pubblicista» (è scritto proprio così sulla targhetta del citofono) non abita né ai piani alti né all’ammezzato. No, con mirabile coerenza, il Guido dottor Giani pubblicista si sente a casa propria nei bassifondi: ossia nella cantina, che ha trasformato in un monolocale con cucina a bombola, riscaldamento tramite stufetta elettrica e bagno chimico da campeggio in aggiunta a un bucataio di servizio che gli fa da lavandino. Come sia riuscito a farsi installare una presa telefonica là sotto rimane oscuro, mentre il filo volante che sfiora il soffitto delle cantine e si inerpica per la mezza rampa di scale spiega il collegamento al citofono. – Come ti vanno i reumatismi qui sotto, Giani? – Guardi, ispettore, non è come sembra. Il locale è isolato, poi quel bidone di calce là in fondo è un ottimo assorbente di umidità. Mi creda, questa casa è più di quel che sembra. – Sicuro, Giani. Magari anche tu sei più di quel che sembri. Ad esempio, a guardarti non ti si darebbe un soldo per una qualunque delle tue affermazioni: eppure almeno su una cosa hai ragione, Giani. Non è come sembra. Non è mai come sembra, vero? Il leggero tremito della mano destra comincia ad aumentare. Lercio Giani cerca di calmarlo usando la mano per tergersi il sudore dalla fronte. Cosa vuole questo stronzo? Perchè è qui? – Ha freddo, il dottor pubblicista? Eppure la casa è isolata, e quel bidone di calce poi… – No, non è freddo. Ho una leggera indisposizione, una febbriciattola di stagione che… – Guarda che lo so che tipo di febbriciattola ti prende quando sudi freddo e le pupille ti si restringono come due capocchie di spillo, Lercio. E se mi giro intorno vedrai che lo trovo lo schizzetto che non hai ancora avuto il tempo di farti. Magari è nascosto qui, dentro questo fax ultimo modello, eh, Lercio? Che dici, ti spiace se te lo apro? Tanto da là dentro escono solo schifezze. Cazzo, il fax no. Cosa vuol dire? Sa qualcosa, sa qualcosa… cazzo, se arrivava mezz’ora dopo almeno… – E queste siringhe monouso qui, nella cassettina delle medicine? – Sono diabetico, – bela Giano, tentando di fermare i brividi alla schiena appoggiandosi alla sgangherata poltrona trovata in strada e portata nel suo loft da pochi giorni. – E per curarti il diabete usi… vediamo… Roipnol, Valium… Dimmi una cosa, Giani: il tuo medico ha studiato alla stessa università che ha laureato uno come te? A proposito, dottore in cosa? E il tesserino da pubblicista, Giani? Lo sai che è un reato farsi fare un tesserino falso? – Va bene, va bene! – urla Giani. – Giochiamo a carte scoperte. Cosa vuoi da me, sbirro? Guarda che qualche amico ce l’ho anch’io! – Quand’è l’ultima volta che abbiamo mangiato insieme, Lercio? Non lo ricordi, vero? No, certo che no, perché tu e io non abbiamo mai mangiato insieme. Quindi il tu lo dài a qualcun altro. – Va bene, ispettore, le darò del lei: contento? – Per niente, Lercio. Del tuo lei non so che farmene. Sarò contento quando mi darai qualche risposta. Dandomi del lei, naturalmente. – Che cosa vuol sapere? – La tua fonte, Lercio. La provenienza delle tue informazioni sull’omicidio Tassone. Guarda che lo so che ti vengono da Roma: mi basta il nome del mittente, e faccio finta di dimenticarmi della tua bettola. – No, ispettore, un giornalista non può rivelare le sue fonti: è una questione di etica professionale, e… L’ispettore Vannini si ferma il tempo di constatare che, contro ogni aspettativa, i denti marci di Lercio Giani non si sono sgretolati al passaggio del fonema etica, poi decide che è il momento di perdere la calma. – Lercio, sto perdendo la pazienza. Questa cantina è un alloggio abusivo, gli attacchi della luce e probabilmente del telefono sono fuori legge, da qualche parte qui dentro c’è dell’eroina, hai un tesserino da pubblicista falso, hai intralciato delle indagini in corso… Ti basta, Lercio? Come la vedi se ti faccio fermare per accertamenti e ti faccio chiudere alla Dozza senza la tua roba? Dici che con una scimmia come compagna la cella diventa più confortevole? Il cervello di Lercio Giani vibra, sottoposto alla tensione dei neuroni che si scambiano impulsi elettrici a velocità raddoppiata. Deve pensare in fretta. Se questo stronzo fa sul serio, è la rota in carcere: e Giani non la regge, lo sa bene. Ma se mette lo sbirro sulla pista del suo contatto romano, poco ma sicuro che nel bidone di calce ci finisce lui, Lercio Giani: a testa in giù. Quella è gente che non scherza. A chi ho pestato i piedi, porca puttana? Per una roba così… Calmo, devo stare calmo. Non andare in paranoia, Guido, cerca di riflettere. Sembra facile, riflettere senza lo schizzetto del mattino. Potessi almeno bere un caffè… non ce la faccio, non ce la faccio… – Sono qui che aspetto, Lercio. Oltretutto puzzi da far schifo: non è che puoi smettere di sudare? – No, che non posso smettere, porca schifa. Ho bisogno di farmi, lo capisce questo, ispettore? Sto male, non lo vede? O magari ci gode a far star male la gente? Lei è un sadico! Un fascista sadico che se la gode a… Non finisce la frase. Con la mano dell’ispettore Vannini che gli stringe la gola all’altezza del gozzo e la testa sbattuta contro la parete che rimbomba non se lo ricorda neanche che cosa voleva dire, Lercio Giani. – Dammi ancora del fascista e ti appendo al tubo del riscaldamento, Lercio, – sibila Andrea Vannini. Poi si calma. Rifiata. Non se ne cava niente, facendo la faccia feroce. Lercio ha paura, Lercio si difende. Dinamica elementare: istinto animale. – Ascolta bene, topo di fogna. Ti lascio andare in bagno, e faccio finta di non sapere cosa vai a fare. Ti dò cinque minuti. Poi esci, ci sediamo su quelle casse che ti fanno da sedie e facciamo una chiacchierata amichevole. Ti vengo incontro: diciamo che mi accontento di una mezza verità. L’altra mezza ce la metto io di fantasia, così in realtà tu non mi avrai detto niente. Ti sembra ragionevole? Gli sembra. Gli sembra talmente ragionevole che non risponde nemmeno: apre l’armadietto dei medicinali, prende un laccio, una fiala d’acqua distillata, una monouso e va in bagno. Cucchiaio e candela sono già lì, evidentemente. Non chiude nemmeno la porta. – Posso aiutarti? Chessò, vuoi che ti metta il laccio? – No, non serve, – farfuglia Lercio con la bocca serrata che regge l’emostatico. È piuttosto rapido. Esce dal bagno con un gran sospiro, va alla cucina, svita un barattolo e versa il contenuto in un pentolino. – Una tazza di caffè, ispettore? L’ho fatto stamattina, è ancora buono. Non è ancora buono, non lo era neanche appena fatto: ma è con una tazza di caffè in mano che i due si siedono per attuare l’accordo. – La cosa funziona così. Io sono il referente bolognese dell’Abc-Time, un’agenzia di stampa romana. Ha presente? L’ispettore Vannini ha presente. – Be’, loro mi contattano e mi mandano il materiale per fax. Me lo hanno dato loro, il fax. Oh, non è mica l’unica agenzia con cui sono in contatto, chiaro: ma immagino che a lei il resto non interessi. Immagina giusto. – Insomma, anche le notizie sulla morte dell’assicuratore mi sono arrivate così. Il mio contatto diretto non lo conosco personalmente: so solo che è un pezzo grosso della Abc-Time, e che fa il giornalista da quasi quarant’anni. Però a lei questo magari può bastare. Andrea Vannini annuisce. Non gli sta dicendo molto, ma qualcosa c’è. Una mezza idea di chi potrebbe essere questo vecchio giornalista Vannini ce l’ha. Del resto, anche ad avere un nome, non ci si può presentare davanti a un magistrato con in mano la sola testimonianza di un tossico. – Come fai, se hai bisogno di contattarlo? – Non faccio. La linea di comunicazione è a senso unico. – Non prendermi per il culo, Lercio. Dove lo chiami? Lercio Giani inspira. Butta giù il fondo di caffè direttamente dal pentolino. – I fax mi arrivano da un negozio, o qualcosa del genere. A volte chiamo lì, e chiedo del dottore. Quando glielo dicono mi telefona lui. Verosimile, anche se poco probabile. Ma di più non si tira fuori. Quindi basta così, per oggi. Andrea Vannini si alza dalla cassa facendo un rapido bilancio: un mezzo passo avanti, che non cambia di molto le cose. Che avrà da ridere?, pensa Andrea uscendo dal portone e guardando Sandro sghignazzare tutto solo in auto. Ore 11.15. Invio: da telefono fisso a telefono fisso. All’altro capo: bar Trieste, Roma. – Bar Trieste, dica. – Guido Giani, da Bologna. C’è il dottore? – No, er dottore nun c’è. Dice che ha cambiato bar. – Come, cambiato bar? Io ho bisogno di parlargli! – Dice che nun je piace più er cappuccino nostro. Dice puro di nun rompe’ li cojoni ar telefono, bbello: se semo capiti? Lercio Giani guarda la cornetta dalla quale viene fuori il tu tu tu tu tu che segnala l’interruzione della comunicazione. Cazzo, questo non può farmelo. Io gli paro il culo, e lui mi molla così. Non passa, garantito che non passa. Non si tratta così Guido Giani, dice convinto Lercio con la mano dentro il barattolo del caffè. Eccolo qui!, dice trionfante estraendo il cartoncino di un pacchetto di cerini su cui c’è scritto il numero. Calma, mantenere la calma. Non si chiama il romano dal telefono di casa. Va bene, dal bar. Così ci scappa anche un Campari. Invio: da telefono pubblico, bar Santa Rita, a telefono cellulare clonato con scheda estera. Drìììn… drìììn… (Nessuna risposta). Drìììn… drìììn… (Nessuna risposta). Drìììn… drìììn… (Nessuna risposta). Lercio guarda il telefono mentre finisce il Campari. Non può farmi questo. Cristo, non può farmi questo, ripete avviandosi all’uscita. Scusi, lei, il Campari non lo paga?, grida il barista facendo cenno al cassiere. Cosa? Il Campari, ripete il cassiere bloccando la porta con la mano: lei non le paga le consumazioni? Ah, sì, scusi, ero soprappensiero, quant’è? Tremila. E stia più attento, la prossima volta. Sì, certo, è che ero soprappensiero, e allora… ma che fa, lo scontrino non me lo dà? Ah, perché, adesso vogliamo anche lo scontrino fiscale… Guardi, se non vuole finire sulla prima pagina del giornale, io sono un giornalista professionista, cosa crede… Drìììn… drìììn… Il mio telefono, pensa Lercio scendendo la mezza rampa. Drìììn… drìììn… – Sì, pronto. Zeta: – Lercio? – Sì. Sono io. Zeta: – Mi hai chiamato sul cellulare? – Sì, certo. C’è un grosso problema, è per questo… Zeta: – Non ti avevo detto di non chiamarmi mai? – Sì, ma c’è un problema. Un grosso problema. È stato qui quell’ispettore, quel Vannini. Zeta: – Sì, Lercio: ce lo aspettavamo. Adesso ti calmi e mi racconti, poi ti dico cosa devi fare. Lercio racconta quello che è successo, più o meno. Quello che ha detto all’ispettore Vannini, più o meno. Forse più meno che più. L’uomo grassottello ascolta distratto. Lo sa che tipo di uomo è Lercio. Dà istruzioni a Lercio: istruzioni precise. – Sei sicuro? Zeta: – Sono sicuro. Fai quello che ti ho detto e resta in attesa. – Capito. Resto in attesa. Zeta: – Ah, Lercio. – Sì? Zeta: – Ricordi che ti avevo detto di non chiamarmi mai? – Sì… ma vedi, è che… Zeta: – Bene, volevo solo essere sicuro che te lo ricordassi. L’uomo grassottello estrae la scheda dal telefono pubblico e ne inserisce una nuova. Compone un numero. beta?Dimmi. zeta?Tutto come previsto. Il nostro uomo? beta?È già all’opera. zeta?Quale contatto? beta?Il notaio. Vai tranquillo, Alfa garantisce la risoluzione entro ventiquattro ore. zeta?Gli altri? beta?Lambda ha promesso un rapporto in giornata. Dopo averlo avuto ci aggiorniamo. C’è altro? zeta?Sì. Il corrispondente bolognese. Sta diventando poco affidabile. Credo che dovremmo cercare un altro referente. L’uomo noto come Beta tira le somme. Entro domani la situazione dovrebbe essere recuperata. Poi bisognerà pensare a una saggia opera di potatura: ci sono troppi rami, su questo albero. Troppi innesti. Occorre provvedere per tempo: essere pronti prima di San Michele. Il fax, silenziosamente, entra in funzione. Un foglio dattiloscritto. Narrativa italiana, si direbbe. Di genere neorealista. Il banchiere R*****o C***i, sempre ben informato su L***o G***i, ebbe una volta un raro sprazzo di chiarezza, quasi avesse dimenticato il suo abituale gergo cifrato. Fu in quella occasione che ebbe a dirmi: «Il Maestro vale cinquecento milioni di dollari in contanti». A quella somma (parliamo di dollari del 1981) andava aggiunta qualche cassetta di sicurezza e qualche villetta sparse per il mondo. Com’è possibile che G***i sia riuscito ad accantonare un simile patrimonio senza possedere industrie o altre attività imprenditoriali? C’è una sola, possibile risposta: G***i, per mezzo della sua venerabile confraternita, era il punto di incontro e di congiunzione di una vasta rete consociativa nella quale convergevano gruppi, partiti, correnti e singoli uomini politici nominalmente avversi l’uno all’altro, ma in effetti tutti collegati a questo grande mediatore: marciavano divisi per giungere uniti alla meta! E la meta di questo vasto embrassons nous erano gli appalti, il commercio estero, la cooperazione internazionale, i contratti privati e pubblici, e ancora finanziamenti, sovvenzioni, contributi statali, commesse per miliardi nei cinque continenti: insomma, il gran mondo dei portaborse, dei boiardi di Stato, dei mediatori o, per dirla con un termine più elegante, i brasseurs d’affaires. In altre parole, il sottobosco decisionale nel quale ogni torta prodotta dallo Stato, e ovviamente la grande torta rappresentata dall’esercizio del potere, veniva spartita con l’abituale contorno di prebende, mazzette e tangenti che viaggiavano per i quattro angoli del Bel Paese là dove il sì suona. Il giardiniere di questo grande vivaio era G***i: di che lagnarsi se tratteneva per sé il giusto, in vista della pensione? Certo, a volte l’ingordigia lo faceva eccedere: ma c’è mai stato qualcuno che ha avuto la faccia tosta di reclamare una maggiore equità spartitoria? Dopotutto il Maestro si sporcava le mani con fastidiose faccende delle quali i politici non avevano piacere di occuparsi, o che apparivano sgradevoli a uomini tanto raffinati. Poniamo che al politico Tizio, appena insediato nel Tale centro di potere (ministero, banca eccetera), non andasse a genio la presenza del Talaltro boiardo: la soluzione più pratica era invitare il nuovo arrivato all’hotel Excellence, dove G***i, condendo il tutto con qualche cerimoniale un po’ pittoresco e antiquato ma di sicuro effetto scenico, metteva le cose a posto. Un problem solving, direbbero gli anglosassoni. E alla luce dell’attuale dieci per cento, non è buffo che allora ci si sia scandalizzati per un modesto tre per cento di ricarico sulle transazioni? Drìììn… drìììn… L’uomo noto come Beta osserva divertito il telefonino squillare. Un telefono del quale solo pochi hanno il numero: e nessuno di loro, ne è certo, sta chiamando adesso. È proprio vero che l’Italia non è il Paese della segretezza, commenta. Beta: – Posso indovinare? – Prego, ci mancherebbe. Beta: – Il dottor Francesco Costante, dalla sua attuale residenza di Lucca. – Avrei fatto offesa alla sua intelligenza se avessi pensato che non mi avrebbe riconosciuto al primo squillo. Beta: – Posso sapere cosa ha avuto la benevolenza di inviarmi? – Sto scrivendo un romanzo autobiografico: volevo farle gradire un estratto, per sottoporlo alla sua critica. Beta: – Spero che la critica che si attende non sia di genere letterario, dottore, perché potrei essere molto severo con la sua penna. – No, carissimo: tutti sanno la sua avversione per il realismo letterario. Beta: – Più che realismo lo definirei iperrealismo, dottore. Io ho un ricordo, come dire, leggermente diverso del nostro comune amico e Maestro. Mi sembra che lei indulga in un eccesso di benevolenza: sarà forse l’età? – Può darsi. Ma vede, a eccedere nel crudo realismo si fa sempre in tempo durante la correzione delle bozze. Beta: – Sì, direi di sì. Sempre che alle bozze arrivi il testo compiuto, e non un frammento, dottore. Ricorda quel motto di Adorno: il frammento è l’intervento della morte nell’opera? – No: all’epoca facevo altre letture. Beta: – E oggi, dottore? Quali letture riempiono le sue giornate? – Le stesse di ieri: fascicoli, rapporti… carte, insomma. Il mondo è governato dalle carte. In verità, più che di letture, oggi sono in cerca di lettori. Lei mi intende, naturalmente. Beta: – Noi ci siamo sempre intesi, dottore. – Dunque non abbiamo bisogno di dirci altro? Beta: – Direi proprio di no. Non per telefono, in ogni caso. – Infatti. Sono fastidiosi, i telefoni. Meglio de visu, tra gentiluomini. Beta: – Non mancherà l’occasione dottore. Lieto di averla risentita. E mi saluti il caro direttore della casa circondariale, restituendogli il suo ufficio. – Non mancherò. Il detenuto Francesco Costante riattacca. Il direttore della casa circondariale, con discrezione, rientra in ufficio e riprende possesso della sua poltrona. Apre il primo cassetto della scrivania ed estrae la busta gialla che porge al detenuto rimasto seduto sulla sedia di fronte. Il contenuto della busta ha forma e consistenza di un telefono cellulare: il detenuto Costante sorride, rialzandosi. – Il dottor Beta la manda a salutare, direttore. Il direttore ricambia il sorriso e il saluto. Lucca è carina, ma non è il posto in cui ha voglia di trascorrere anni. A lui piacciono le grandi città: quelle con grandi prigioni, per dire. Quelle dalle quali un buon funzionario può essere notato. Quelle con i ministeri, gli uffici dei ministeri e i direttori generali degli uffici dei ministeri: per dire. L’uomo noto come Beta ripone il telefonino. Ah, la riservatezza… come potersi illudere che un segreto rimanga tale nel Paese di Pulcinella e dei suonatori di mandolino? Paese femmina, Lui non si sbagliava di certo: indisciplinato e ribelle come una femmina, e come una femmina servile e serva di lingua. E desideroso del bastone che lo domerà: come una femmina, per l’appunto. Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 12.35. Al diavolo, pensa Andrea Vannini, ho di nuovo dimenticato di mettere in ricarica il cellulare, quindi al diavolo le regole sull’uso privato del telefono di servizio. Gli pago gli scatti, se me lo chiedono. L’umore volge al pessimo: non si procede di un passo, piccoli movimenti insignificanti. Ma non è questo. Andrea si conosce bene, sa quando il suo umore peggiora per una ragione precisa, e non è questo il caso. Il cielo è sereno, quindi anche la meteoropatia è esclusa. No, c’è qualcosa nell’aria che ad Andrea non piacerà, e la sua scorbuticità lo fiuta a distanza. Pace. Sentiamo Tore cosa ha da dire. Telefonata brevissima: non ha niente da dire. Come previsto. Quella cooperativa non esiste, e la nave non è mai attraccata a Taranto. Una nave vera, e due documentazioni false: dove diavolo è finita? E cosa sta facendo tra l’Adriatico e lo Jonio? Una nave fantasma: l’unico punto fermo di questa storia. E Tore? Sembra quello di una volta. Passano gli anni, ma la rete funziona ancora, a quanto pare. O quanto meno gli uomini che la componevano. Gli uomini della rete. Quelli come Tore: vale la pena averlo risvegliato dopo tanto tempo? Qualcosa dice ad Andrea che sì, è necessario. – Andrea? – Vieni, Chiara. Pranziamo insieme? – Ehilà: cosa devi farti perdonare, che ancora non mi hai detto? – No, è solo perché… – Dài, fammi scherzare, una volta tanto. Certo che mangiamo insieme, se hai pazienza di aspettare una mezz’ora. Ah, ti è arrivata questa, con la posta. Chiara gli porge una busta senza mittente: Ispettore Vannini, dice la busta. Lettere grandi, stampatello, grafia sicura: una mano forte. Dentro, una specie di cartolina. Una rana. Dietro c’è scritto solo: «Mercoledì». Una rana… Ma certo, il piatto preferito del Togliatti! – Cos’è, Andrea? – Una rana. – Una rana? Perché ti mandano il disegno di una rana? – Una specie di invito a cena. A te piacciono le rane? – Ma che schifo! Te le mangi tu quelle bestie, e a passi lunghi e ben distesi da me, per favore! Andrea sorride. Poco male: l’invito non è per due. Via Santo Stefano, ore 12.45. – Mi spieghi perché certe cose le facciamo qui, e altre no? – chiedo a Ferodo mentre appoggio in frigo il cartone di birre con cui ci rinfrescheremo durante questo caldo pomeriggio estivo. – Prudenza. Soprattutto in una situazione come questa. Lester non ne ha avuta abbastanza. Non era capace di pensare al mondo come un posto in cui ci sono solo nemici. Hai presente quel film di Frank Capra, La vita è meravigliosa? Be’, a lui quella stronzata dell’angelo piaceva. Si commuoveva quando lo guardava. Non aveva capito che il vero nemico è la vita. Ma a te questo magari non interessa. Mettiamola così: se devo fare un’analisi del suolo rimanendo in superficie, o al limite se devo scavare con la zappetta, allora mi fido di quello che ho a casa, e lavoro nel mio covo. Ma se devo fare un carotaggio bello profondo, allora preferisco pensare che non c’è protezione che tenga, e non uso mai niente che sia riconducibile a me. Se faccio un lavoro la macchina la mette a disposizione il cliente, se non ne ha una gliela assemblo io, ma la linea telefonica è la sua, su questo non c’è pezza. – Quindi oggi andiamo giù in profondità? – Dipende da quello che troviamo: in ogni caso non ci fermiamo finché non gli abbiamo contato i peli sulle gambe uno per uno, a questi due. Poi dipende anche da quello che ci chiedono i tuoi amici sbirri, che tra parentesi… Drìììn… drìììn… – Pronto? Eccoti: si parlava giusto di te. Sì, te lo passo. Ferodo: è Andrea. – Cos’è, ci ascoltava con un microfono nascosto? – No. Solo che se tu gli dici che sei qui alla mezza, lui ti chiama entro un quarto d’ora. Ferodo risponde per mugugni. Si segna qualcosa sul dorso della mano, saluta e mette giù. Ha detto che ci si vede da Sauro per l’aperitivo, mi fa. Ci ha dato i compiti? Sì: spulciare l’agenzia di viaggi. Ma ha già detto che non ci troviamo niente. È sempre così ottimista il tuo amico sbirro? No: è realista. Più o meno come te, aggiungo. Ferodo non fa una piega mentre accende il monitor. 7. Quello che le donne non dicono Bologna, piazza Maggiore, ore 14.40. – Insomma, Andrea, ti rendi conto che non può andare avanti così? Sembra che tutto quello che fai sia qualcosa di trascendentale! – Non dire trascendentale. Non significa niente, qualcosa di trascendentale. – Guarda che la voglia di scherzare mi è passata da un pezzo, a furia di starti appresso. Ma chi me lo fa fare? Mi dài buca un appuntamento dietro l’altro, ti fai vivo con un messaggino come fossi una casella postale, passi il tempo libero a fare chissà quali indagini con cui ti metti nei casini in questura… Ma ti rendi conto? – Nei casini in questura ci sono perché sto sul cazzo a quel fascista di Valente, lo sai bene. – Già, perché per te sono tutti fascisti, in questura. – No, non tutti. Valente e la sua cricca sì. – No, dico, Andrea, ma lo sai che mestiere fai? Sei mica in un collettivo universitario, diamine: sei un poliziotto. Non puoi avere questo atteggiamento negativo verso i tuoi colleghi: ci devi lavorare insieme. – Non ce l’ho verso tutti: solo verso alcuni. Facevo lo stesso quando ero in un collettivo, se è per questo. – Ah, perché stavi anche nei collettivi! Complimenti, questa mi mancava! – Ci sono un sacco di cose che ti mancano, Chiara. Non ti ho mai letto la mia autobiografia, hai ragione: ma si era detto che andava bene così, o sbaglio? Chiara lo guarda: dice sul serio. Il rossore dell’arrabbiatura comincia a scolorire. Chiara abbassa le spalle, si tira su con la mano la frangetta che le ricade sulla faccia. Non ha più voglia di discutere. – È proprio questo, Andrea: non so quasi niente di te. Non è più come all’inizio, non siamo due ragazzini, e la fase del colpo di fulmine dopo un po’ si esaurisce. Se non puoi neanche parlare con me di quello che fai, me lo dici cosa ci sto a fare qui con te? Se devo svegliarmi da sola nel letto ogni mattina, tanto vale restare a dormire a casa mia: almeno non mi sento un’estranea quando apro gli occhi e non trovo né te né le mie cose. Accidenti, a casa ho la mia collezione di peluche, il mio bagnoschiuma e qualche disco di musica italiana, che almeno capisco le parole. Non è che abbia bisogno di te per farmi una scopata, se ne ho voglia! Ha ragione, pensa Andrea mentre la vede asciugarsi gli occhi e tirare fuori della borsa specchietto e matita per rifarsi il trucco. Ha proprio ragione. Io con uno come me non ci starei neanche a pagamento… – Ascolta, Chiara, – comincia Andrea, poi si ferma. Ascolta cosa? Dovrebbe parlare per poter essere ascoltato: è questo il punto. – Allora? – chiede Chiara quando Andrea s’interrompe. – Niente. Non so che dirti. Ci sono cose dalle quali è meglio che tu stia fuori, almeno per il momento. Puoi crederci o no: dipende solo da te. – È perché sono una poliziotta, vero? Ma almeno dimmelo in faccia, che di me ti fidi tanto quanto dei miei colleghi. Cristo, dei nostri colleghi! Adesso comincio anche a parlare come te! – No: non è perché sei una poliziotta, non del tutto. Te l’ho detto, puoi crederci o no, ma non è per sfiducia. Però su certe cose so come la pensi, e per adesso è meglio che tu stia fuori. Cos’altro posso fare, si chiede Chiara? – Andrea, Andrea, – dice tenendogli la testa tra le mani. – Lo sai che parlare con te dà la stessa soddisfazione che provare a piantare un chiodo nel muro a testate? – È così che si entra nell’Arma, dicono. – Cosa c’entrano i carabinieri? – Per entrare nell’Arma bisogna riuscire a piantare un chiodo nel muro con la testa: è una barzelletta che mi raccontavano degli amici calabresi quando ero bambino. Per diventare brigadiere, si deve piantare un chiodo nel muro contro il quale, dall’altra parte, è appoggiato un carabiniere. E per diventare maresciallo bisogna piantarlo nel muro con, dall’altra parte, un brigadiere. Chiara lo guarda incredula. E per diventare generale, chiede? Chi c’è appoggiato al muro? – Per diventare generale il chiodo si pianta a testate con, dall’altra parte, un maresciallo. Calabrese. Chiara scuote la testa. La soddisfazione di ridere non vuole dargliela, anche se non è facile trattenersi. Cosa devo fare con te?, chiede. Quello che vuoi, risponde Andrea. È che non è facile essere tenuta all’oscuro di quello che fai, cerca di capirlo. Intanto perché non ho voglia di addormentarmi con te, svegliarmi una mattina da sola e ritrovarti sotto un altro lenzuolo, sopra un tavolo di marmo. Poi mi sento sempre subordinata ai tuoi amici, accidenti! No, risponde Andrea, non sei subordinata a nessuno. Ah, no?, fa scettica Chiara. No, risponde Andrea: neanche con loro parlo di certe cose. – Tra un po’ devo riprendere servizio, ho il rientro pomeridiano: mi accompagni? – Sì. Certo, – risponde Andrea avviandosi. – Ti spiace se facciamo una piccola deviazione? Passiamo da piazza Roosevelt, devo vedere una cosa. – Cosa? – Non c’è un’agenzia di viaggi lì? – Mah, mi sembra. Non ne sono sicura… ma perché ti interessa? Devi partire? Ti liberi di me col primo aereo? – Dài, non sono così stronzo… Oh, inutile che mi guardi in quel modo: ho detto di non essere così stronzo, non di non esserlo del tutto. No, è che tra un po’ devo prendere delle ferie, lo sai, e volevo vedere se in quest’agenzia hanno delle proposte interessanti. Magari qualcosa che può interessare anche te… – Fammi il favore, Andrea! Ecco, tanto è chiusa per ferie, guarda un po’… così puoi stare tranquillo. Piuttosto, questo Roosevelt non era quello del New Deal? – No: quello era Franklin Delano. Questo Roosevelt è Theodore, quello della politica del Big Stick. – Cioè? – Il grosso bastone. Speak softly and carry a big stick: parla piano e va’ in giro armato, più o meno. Era il suo slogan. – Non aveva tutti i torti, questo tale. Dovrei provarci io, a girare con una mazza da baseball. – Quello femminile si chiama softball, Chiara. – Piantala di fare il saputo: lo so che si chiama softball. Ci ho giocato, da ragazza. Mazza troppo leggera: per certe cose ci vuole quella da baseball. – Per uno come me, ad esempio? – Ad esempio. Bologna, La città del sole, strada Maggiore, ore 15.40. Che belli, i negozi di giochi per adulti! Lara ci si perde, in questo ammasso di oggetti futili. Poi, dopo una sessione di lavoro, un po’ di shopping aiuta a distendere. I giochi di ruolo: le notti passate ad attaccare l’Australia per completare l’obiettivo prima che qualcun altro distruggesse le armate rosse! E quella volta che Ferodo vinse a Talisman trasfigurato in uno zombi che da caotico era diventato buono, a cavallo di un asino? Le scacchiere computerizzate no, non le sono mai piaciute. Gli scacchi, in realtà, non l’hanno mai presa molto. I puzzle, invece… quelli grandi, da tremila pezzi… il brutto dei puzzle è che prima o poi li risolvi, e a quel punto di appenderli alla parete non t’importa più. Bisognerebbe fare come in quel libro che leggevamo la sera tutti e tre: dipingere i paesaggi ad acquerello, incollarli sul cartoncino, ritagliare il cartoncino trasformandolo in tessere di puzzle, risolvere il puzzle, staccare l’acquerello dal cartoncino, riportarlo davanti al paesaggio di origine e sciogliere i colori nell’acqua. Alla fine rimane lo stesso foglio bianco da cui eri partito. Chissà se è così anche la vita: Ferodo diceva che sì, c’è un foglio bianco su cui si scrive, e alla fine ridiventa bianco. Lester invece credeva negli archetipi, nell’eternità dell’anima… perché poi diceva che l’anima è eterna e non immortale? La differenza c’era, ma qual era? Mah… a Lester piacevano un sacco di teorie strane. Ogni tanto Lara ne ritrova una in qualche libro di filosofia: ma Lester non è che ne leggesse tanta, di filosofia. Più che altro era intrippato con i discorsi sull’anima. L’anima è come un carillon che suona per l’eternità, diceva. Ecco, i carillon: la cosa che più le piace di questo negozio. Let It Be… L’Internazionale… Happy Birthday… The Sound of Silence… ma dài! Incredibile: Monkey Gone to Heaven! Un carillon dei Pixies: bellissimo. Il prossimo regalo che gli faccio è questo, si dice Lara mentre lo paga. Prossimo regalo? Accidenti, non gliene ho mai fatto uno… il Cd è rimasto una promessa, il vino è ancora da aprire… No: non è vero che non gli ho mai fatto un regalo, si dice Lara rinfrancandosi. Niente regalini, d’accordo: e Lara, dove la mettiamo? Più regalo di così… Be’, diamoci una mossa, che il maestro thai non ama aspettare. Sms in arrivo: «Sono ancora qui con Ferodo mi manchi ciao». Lara legge e sorride. Che carino, pensa. Bologna, enoteca Calzolari, via Petroni, ore 19.30. – Te l’ho già detto, Andrea: tu una come Chiara non te la meriti. È… è uno spreco, ecco. Come avere una bottiglia di questo fiano, lasciarla fuori del frigo e berla calda. E magari anche nei bicchieri di carta. Oh, a proposito, complimenti, Sauro: il miglior fiano mai bevuto. Sauro abbozza, Diego si serve ancora da solo, mentre Andrea manda giù il suo bicchiere. Hai finito di farmi la morale?, chiede a Sandro Valle dopo aver apprezzato il sentore di terra e sole del vino.Tu su Chiara mica me la conti giusta. In che senso?, dice Sandro. Nel senso che hai un debole per lei. Sandro sospira, chiede se può servirsi ancora e si versa un altro bianco. – Arrivi dopo la puzza, Andrea. Lo sa mezza questura di me e Chiara. È un anno che mi faccio ridere dietro, e adesso arrivi tu col tuo hai un debole per l’agente Zanotti: se ogni tanto uscissi dal tuo guscio e socializzassi col resto del mondo, non ti perderesti le puntate più succose delle soap interne. – Non mi dire… – Se vuoi non ti dico. Anche perché non c’è molto da dirti. Arriva in questura questa nuova collega, la assegnano ai passaporti, e indovina a chi dànno il compito di spiegarle come funziona l’ufficio? Io all’epoca stavo più tra le carte che sulle volanti. E così, tra un complimento e una chiacchiera, una sera usciamo insieme: cena, discoteca, poi prende l’iniziativa e mi porta a casa sua. Tutto qui. – In che senso, tutto qui? – Nel senso che credevo di intortarmela, magari con due o tre appuntamenti, e invece è stata lei a rimorchiarmi alla prima occasione utile. Poi la mattina mi fa: non sarai mica di quelli che dopo la prima sera già pensano di essere l’uomo della mia vita, no? Ecco cosa vuol dire: tutto qui. – E a te non è ancora passata, vero? No: a Sandro non è ancora passata. Non è che pensasse di essere l’uomo della sua vita, non arrivava a tanto. Ma che lei potesse essere la donna della sua vita, questo a volte lo ha pensato, e forse lo pensa ancora, quando la vede entrare sbattendo la porta e sa chi è il responsabile: Andrea Vannini, il suo punto di riferimento. Il suo amico, forse, perché di Andrea Sandro si fida molto più di tanti colleghi con i quali pranza, a volte va al cinema o a ballare, ma con cui conversa come se ciascuno leggesse il copione di una brutta serie televisiva. Che poi ci vorrebbe una serie fatta bene anche per noi poliziotti, conclude Sandro finendo il secondo bicchiere. Poi, con quel suo tempismo da sfera di cristallo, a rompere l’atmosfera da confessioni tra uomini arriva Lara con una pizza già tagliata a spicchi, bella come il sole che ha scaldato paziente quest’uva dell’Irpinia. Il bilancio della giornata non è molto confortante, ma Andrea sembra quello che ha indovinato il terno al Lotto. Intanto i duecento milioni: dopo un giro di rimbalzi tra l’agenzia bolognese e quella londinese, sono arrivati su un conto numerico in una banca di Bruxelles, dove sembrano essersi fermati. Ivano Clerico, il poliziotto su cui volevamo trovare notizie, non usa Internet, quanto meno non sulla sua linea telefonica, e anche a Sandro non sovviene di averlo mai visto pratico di computer: ci contavamo, ma di là non si passa. Nema problema, ha detto Ferodo dopo aver telefonato ad Andrea. Hai un’idea? Ho un’idea.Devo passare da casa e prendere una cosa. Aspettiamo che arrivi e vediamo cosa intende. Alfonso Righi Aldrovanti invece usa Internet, e a quanto pare anche bene. Ferodo ha crackato più d’una protezione, senza peraltro cavar fuori niente di utile. Due palle così a leggere chili di e-mail di nessun interesse, relazioni al consiglio di amministrazione della sua società di servizi, e via dicendo. Ferodo ha tirato giù una lunga lista di siti, ha detto che la screma e prova a vedere cosa ne viene fuori. Ciliegina sulla torta: anche la documentazione tarantina del San Michele è stata cancellata. Il nostro peschereccio non è mai arrivato da nessuna parte, pur essendo arrivato al tempo stesso in due diversi porti, e a questo punto non è mai neanche partito, pur essendo due volte arrivato. Potremmo addirittura dubitare della sua esistenza, se non avessimo trovato la certificazione di quel carico acquistato dalla Easy Travel. – E cosa aveva trasportato dalla Croazia per l’agenzia? – chiede Andrea. – Arredi sacri. Arredi sacri e souvenir, dice questo documento. – Arredi sacri? Per un’agenzia di viaggi? – Guarda pure, Andrea: una cassa di madonnine acquistate a Medjugorje, hai presente quella che piange sangue? Poi altra roba, tipo candele, santini… Vuoi che ti dica, saranno credenti e avranno messo una Madonna in ogni sede. Mentre Ferodo fa il suo ingresso, Andrea silenziosamente inizia a bestemmiare. Gliele leggo negli occhi le rime delle filastrocche oscene dei tempi del liceo. Se ne accorge persino Ferodo, che ridendo si versa l’ultimo, residuo mezzo fiano: non ti facevo un mangiapreti, sbirro. Cosa te ne frega se questi qui vogliono avere la madonnina miracolosa in agenzia? – Ne riparliamo un’altra volta, – chiude il discorso Andrea prima che si apra. – Un’altra volta? Scusa, non stiamo facendo un lavoro di squadra? – chiede Ferodo. – Lasciami fare fino a domani sera, Ferodo. Domani sera ho un appuntamento, e dovrei cominciare a capirci qualcosa. Nel frattempo… – Nel frattempo ti faccio vedere un bagaglio. Sempre che Sandro se la senta. – Me la sento di fare cosa? Ferodo lo prende sottospalla, estrae una scatolina dalla valigetta di plastica nera e spiega a Sandro come si usa. Andrea assentisce. Col senno di poi è l’uovo di Colombo: solo che con quest’uovo si inizia a giocare pesante. Posso pensarci un minuto?, chiede Sandro.Certo che puoi, risponde Andrea. Sandro è giovane, deve ancora uscire dalla fase degli scrupoli di coscienza. – Un appuntamento con chi? – chiedo ad Andrea. – Si è fatto vivo il Togliatti, – dice sorridente mostrandomi la figurina di una rana. – Domani sera sono a cena da lui. A rane?, chiedo. A rane, risponde: cos’altro vuoi che significhi questo biglietto? Ma non c’è scritto dove, osservo. Perché, c’è bisogno? Ci penso su… no, non c’è bisogno: il Togliatti lo sa dov’è che si mangiano le migliori rane della zona. – Quindi domani sera sei a rane? – chiede Lara con fare indifferente. – Sì, perché? Anche a te fanno schifo le rane? – Nonnò, – continua Lara con indifferenza. – Quindi domani sera sei per i fatti tuoi? – Sì, perché? – chiede Andrea sempre più perplesso. – Perché se ieri eri a bere pierini, vero?, e domani sei a mangiare rane, vero?, stasera il tempo di andare da quella povera crista di Chiara non puoi non avercelo! Colpito e affondato. Andrea sorride, paga da bere, saluta ed esce. – Passaggio, Sandro? – No, lascia stare. Faccio due passi a piedi. Chissà cosa c’è al cinema, pensa Sandro. Perché è proprio una di quelle sere in cui l’unica cosa di cui ha voglia è di buttarsi in un cinema e dimenticarsi di tutto il resto. 8. Partita a briscola Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 22.30. Punto rosso.La notte villanoviana, resa buia dalle scarse luci di Borgo Mezzo, è forata dal dischetto di brace ardente. Sigarette americane, arrivate in Italia coi suoi amici macedoni. Originali, non contraffatte: alle case produttrici conviene. Casse e casse cedute sottocosto ai serbi, smistate dai macedoni mentre la Finanza si concentra sui barconi di albanesi. Tra cassa e cassa, qualche carico di eroina, tanto per saggiare il mercato. Differenziare: essere pronti a cambiare merce, se la carne umana non dovesse più essere conveniente. C’è un mare di soldi che scorre tra le due rive dell’Adriatico, altro che lavoro in fabbrica, tomaie, parabrezza. Un altro tiro: la brace continua a far luce. C’è la guerra alle porte. Yakup lo sa, da casa gli amici lo hanno chiamato. Ci sono armi già pronte: ci sarà un sacco di denaro da tirar su in poco tempo. Ci saranno saccheggi, rapine, certo: briciole, in confronto ai traffici che si riapriranno. Poi la grande autostrada da Berlino ad Atene: bisognerà essere pronti quando partirà. Altro che elemosine, pensa Yakup guardandosi intorno. Gli occhi di Yakup sono abituati al buio, di notte vedono meglio degli occhi dei cittadini cresciuti con la luce elettrica accesa anche di notte. Niente neon, insegne luminose, vetrine sfavillanti nel Kosovo, fino a poco tempo fa: non dove è cresciuto Yakup, comunque. Un’auto in lontananza.Gira per la provinciale, va verso Villanova. Dopo le nove a Borgo Mezzo non arriva più nessuno. I ragazzi vanno via prima delle dieci: al bar a Villanova, o al Grattacielo, in città. O magari a ballare.Comunque via. Tornano tardi. Gli anziani sono al centro sociale, o al bar del paese. La sezione del partito apre solo due sere, una per la tombolata e l’altra per la riunione. A quest’ora in strada non c’è più nessuno. Qualche colpo: capitale iniziale. Poi si parte sul serio: basta poco, qui non c’è da accordarsi con la Sacra corona. L’importante è il capitale iniziale. Fruscio alle spalle. Yakup si volta di scatto, pronto al coltello. Il cane vede il movimento brusco, reagisce digrignando i denti: in verità si limita ad accennare, proprio come Yakup. Randagio di merda, pensa Yakup. Ancora un tiro: brace rossa nel buio. La nonnina la sera non torna, sono solo in due. Un vecchio prete e un altro che non esce mai. Sembra robusto, ma si muove con lentezza. Si può fare, si può fare senz’altro: magari il coltello da solo non basta, bisognava pensarci prima, quando il prete era solo. Sfortuna, così imparo a perdere tempo dietro quel coglione albanese di Klodian. Va bene, serve un socio d’appoggio e una pistola. La pistola c’è, il socio si trova. Due-tre case, cambiando paese: la polizia non farà in tempo a capire. Si comincia da questa, conclude Yakup appoggiato all’albero. Ultimo tiro: proprio buone queste americane originali. Scruta ancora le finestre.Tendine scostate, poca luce all’interno. Devono essere nell’altra stanza, giocano a carte in cucina fino a tardi. Magari bevono anche, sarebbe più facile. Già così è facile.Il difficile è quello che c’era a casa, sospira Yakup. Brutta cosa l’infanzia: troppe botte, troppa obbedienza, troppi no. Poi uno cresce e ha l’occasione giusta, basta avere le palle. Mica come quel coglione di Klodian. – Dài mò, metti giù tutto. – Tutto cosa, Dio bono? – Ma dove vuoi andare, che c’ho tre briscole in mano e a te è restato solo al quater. Dai mò qui quei carichi e non bestemmiare, che ti dò due Atti di dolore come penitenza. Il Togliatti abbassa la testa, mette giù il quattro di briscola, l’asso di spade e il tre di bastoni, e si alza. Padre Ricrea lo guarda preoccupato.Tranquillo, gli fa il Togliatti, ancora non fa male. Vado a prendere una cosa, tu rimescola e dài le carte. Padre Ricrea sospira. Il Togliatti esce dalla cucina, passa dalla stanza senza accendere la luce ed entra nello stanzino. Poi rifà lo stesso percorso e torna in cucina, senza niente in mano. – Sempre lì? – Tu hai mai visto un albero fumare? – No, sorride padre Ricrea. Ne ho viste cosa da raccontar, – canticchia, giammai gli elefanti fumar. E neanche gli alberi, – conclude. – Allora è lì anche stasera. Che ne dici? – Dico che è questione di un paio di giorni. Il Togliatti si siede e guarda le carte. La briscola è a bastoni. 9. Disinfestazione 9 settembre, Bologna. Bar Prezioso, piazza Galileo Galilei, ore 8.15. Uno sguardo all’interno: ancora nessuno degli abituali. Bicchiere d’acqua, caffè, pasta salata, caffè: la colazione di Sandro. Un saluto, una stretta di mano, dài che offro io, no, non ti disturbare, no, guarda, ho già i soldi in mano. Novità dalla notte? Niente di che: un paio di ubriachi, una rissa, qualche allarme, una vetrina. Scasso? No, due imbecilli. Gli echi del turno appena finito sovrapposti ai caffè dei turni che stanno iniziando. Ciao, Chiara, dice il barista facendo voltare Sandro. Ohi, Valle, anche tu oggi qui? Valle a chi? Devo chiamarti Zanotti? No, dài, Sandro, ride Chiara, lo sai che non mi piace esser chiamata per cognome. Cos’ha il tuo cognome che non va?, chiede l’agente al banco. Sandro, diglielo tu. Ci sediamo finché c’è posto?, dice Sandro con il caffè e la pasta in mano. Per l’altro caffè aspetto?, chiede il barista. Sì, ti faccio cenno io, risponde Sandro sedendosi. Il cognome della nostra bella archivista ha un’origine plebea, Gianni, spiega Sandro: i cognomi che iniziano per Zan hanno spesso un’origine veneta, e stanno a indicare il servo di casa. Oh, senza offesa, Chiara, ma quando ho fatto il corso c’era un lecchino che non lo si reggeva, non so se te lo ricordi, quel biondino con gli occhiali, davvero insopportabile, e in effetti si chiamava proprio Zanetti.No, non mi ricordo, io sono arrivata un paio d’anni dopo di te, Gianni. Io sì che me lo ricordo, è vero, il peggior leccaculi che si sia mai visto, che fine ha fatto? Mah, andato via di sicuro. Ah, Ivano, tu che ti ricordi di tutti… Sì, ho sentito, ha avuto una promozione e il trasferimento, non ricordo se a Modena o a Reggio, dice Ivano Clerico appena entrato, vi stringete? Sì, certo che ti facciamo posto, dice Sandro.Ciao, Valle, non ti si vede spesso qui al bar.Sì, è vero, è che avevo voglia di fare due chiacchiere, qualcosa di preciso? No, solo sapere cosa ne sapete della storia dell’altra sera, già che c’ero anch’io, tranquillo Sandro, Valente garantisce che non sono stati fatti nomi, quindi la cosa muore lì. Occhei, scusa l’apprensione ma è la prima volta che mi capita.Dài, non stare in campana, poi tu eri all’esterno, ma secondo te chi ha parlato con quel giornalista? Non lo so, Gianni, secondo me non uno che c’era, probabilmente la solita soffiata in cambio di un biglietto da cento, va messo nel conto: se era uno che c’era qualche nome veniva fuori, no? Sì, credo anch’io, dice Sandro, io devo ordinare un altro caffè, poi andare, posso offrire a qualcuno? Un caffè no, ma un succo sì, se ti va, dice Chiara.Certo che mi va, un caffè e un succo d’arancia!, grida Sandro per sovrastare il chiacchiericcio.Ti ricordi che lo prendo all’arancia?, chiede Chiara.Mi ricordo, dice Sandro, mi ricordo. Fine della colazione, saluti e strette di mano, chi entra in ufficio e chi in vettura. Sandro lascia sfilare Chiara per poterla guardare ancora un attimo, poi va via anche lui. L’ultimo ad alzarsi è Ivano, paga il suo ed esce. Restano le tazzine sul banco, le briciole sul tavolino e una cosa poco più spessa di una monetina fissata sotto il tavolo. Ampiezza del campo: più o meno quanto l’intero bar. Bologna, questura, piazza Galileo Galilei, ore 9. Intestazione: Studio legale Calloni e soci. Oggetto: Querela. Io qui presente dottor Giani Guido, di professione giornalista pubblicista, con la presente rendo noto quanto a me accaduto. In data odierna, alle ore 10.30 circa, ricevevo nella mia abitazione in via Massarenti la visita dell’ispettore di polizia Vannini Andrea, il quale si introduceva in casa senza essere in possesso di alcun mandato. Con fare minaccioso il suddetto ispettore mi intimava di rivelare la fonte di alcune notizie giornalistiche relative all’omicidio dell’assicuratore Tassone, da me cedute a una testata giornalistica locale. Al mio rifiuto di violare l’etica professionale rivelando la fonte delle informazioni, il Vannini mi percuoteva violentemente, procurandomi ecchimosi alla gola e alla nuca guaribili in giorni cinque, come da certificato del pronto soccorso che qui si allega. Nulla ottenendo neanche in questo modo, il Vannini estraeva dalla tasca dell’impermeabile un plico contenente, a suo dire, una dose di eroina avvolta in un foglio di carta, proponendomene la cessione gratuita. Il sottoscritto, in cura presso il locale Sert tramite terapia sostitutiva di metadone, come attestato dalla documentazione che qui si allega, riusciva tuttavia a resistere alla tentazione rappresentata dalla dose di eroina a sua disposizione, la cui assunzione avrebbe costituito una grave infrazione della terapia medica seguita, e pregava detto ispettore Vannini di uscire dalla sua abitazione. Il Vannini, visti vanificati i suoi scopi, finalmente si allontanava, non senza avermi di nuovo minacciato, e senza peraltro riprendersi la busta portami, e che io sottoscritto consegno allegata alla presente per i rilievi delle impronte digitali e l’accertamento del suo contenuto, riservandomi di integrare la presente denuncia con ulteriori contestazioni una volta accertato il reale contenuto del plico. Si allegano alla presente querela: a. certificato del pronto soccorso dell’ospedale Sant’Orsola in data odierna; b. certificato del Sert di Bologna; c. busta costituita da un foglio bianco ripiegato contenente una sostanza polverosa al suo interno. Il questore resta in piedi, aspettando che l’ispettore Vannini finisca di rileggere l’esposto. L’ispettore Vannini resta in piedi, aspettando che il questore prenda la parola dopo avergli porto senza proferire verbo la fotocopia. Il questore porge all’ispettore Vannini un pacchetto di sigarette aperto. L’ispettore Vannini ha smesso di fumare. Qualcuno bussa alla porta. L’ispettore Vannini risponde: no. – Vannini? – interloquisce il questore prendendo l’iniziativa. – Dica. – Io credo che questo esposto sia una palata di letame. Glielo dico subito, affinché non ci siano malintesi. Vannini annuisce. Dovrebbe significare: grazie. – Ho fatto fare degli accertamenti non ufficiali, Vannini. Non ho buone notizie: nel pacchetto c’è dell’eroina, e sul foglio ci sono le sue impronte digitali. Lei crede di aver potuto toccare un foglio come questo in casa del Giani? – No. Sono sicuro di non averlo fatto. – Però si è recato dal Giani senza un mandato… – Sì. – Vannini, non mi faccia usare le tenaglie. Quei lividi sul collo sono opera sua o no? Andrea Vannini sospira. Cinque giorni di prognosi, signor questore: poco più che un… – Vannini, perdio: è stato lei? – Sì. Sono stato io. Il questore gioca col tagliacarte che ha trovato sul tavolo per prendere tempo. Tempo sprecato. Da Vannini non viene fuori una sillaba. – Guardi, Vannini, non è un mistero che il suo modo di procedere a me non piace particolarmente, però mi dovrà dare atto che ho sempre apprezzato i risultati del suo lavoro, anche contro certi suoi colleghi. Adesso vorrei che lei capisse la situazione: qui non c’è un tossico pataccaro con una montatura costruita su un segnetto che avrebbe anche potuto farsi da solo. Qui, se la cosa deflagra, c’è un giornalista malmenato in casa sua da un funzionario di polizia che violava la legge già nel sottoporlo a interrogatorio senza difesa. Quindi io sono l’unica speranza che lei ha di evitare come minimo il deferimento e la sospensione dal servizio, per non dire di peggio. Perciò glielo chiedo una sola volta: mi può dire a cosa sta lavorando effettivamente? Perché io e lei sappiamo che se questa è una montatura, e io credo che lo sia, allora ci dev’essere ben altro che una specie di faida tra anziani. Dunque? Andrea cerca di capire. Ha ragione o fa la parte? Gioca la carta dell’amico o vuole evitare di essere travolto come superiore gerarchico? E in ogni caso, cosa può raccontargli? Cos’ha di concreto in mano, Andrea Vannini? – Sarò sincero anch’io, signor questore. Non ho nulla di consistente da mostrarle. Sto seguendo dei fili così sottili da sfiorare il confine tra l’indizio e la sensazione. Anche la visita al Giani si spiega così: le sto provando tutte, detto come va detto. E non riesco a capire chi, e in quale momento, si sia inserito nella mia indagine. – Può almeno dirmi in quale ambito potremmo trovarci, se qualcuna delle sue famose intuizioni dovesse concretizzarsi? – In termini giuridici, direi che c’è la possibilità di una cospirazione politica. Di chi, non sono in grado di dirlo, non per ora. Finalizzata a cosa, non ne ho la minima idea. Ho bisogno di almeno quarantotto ore. Le ho, quarantotto ore? – No, Vannini: non le ha. Io posso al massimo ritardare i tempi degli accertamenti ufficiali, ma oltre non posso andare. Voglio essere franco, ispettore: la cosa migliore che le posso consigliare è di firmare una domanda di un mese di ferie a partire da ieri. Le eviterà di essere sospeso in via cautelativa. Da qui a un mese questo castello dovrebbe crollare, perché il Giani lo faccio mettere sotto pressione io, e le prometto la mia diretta attenzione sul personaggio. Non mi aspetto un rifiuto da parte sua, Vannini. E voglio che si renda conto di una cosa: se lei non avesse l’abitudine di procedere da solo, probabilmente oggi non si troverebbe in questa situazione. Il lavoro di squadra serve anche a mettersi al riparo da faccende come queste, ispettore. Può darsi, pensa Andrea mentre firma la domanda di ferie. Può anche darsi che lavorare da solo sia la via di chi non si fida della squadra, aggiunge ad alta voce. Il questore gli porge la mano, Andrea la stringe distratto, il questore rafforza la stretta per fermarlo: lo sa dov’ero vent’anni fa, Vannini? A Palermo, se ricordo bene il suo curriculum. Esatto: a Palermo, all’inizio della carriera. Al servizio del commissario Boris Giuliano. Lei se lo ricorda il commissario Giuliano? Flash di memoria. La foto di Giuliano riverso ai piedi del banco del bar. Ucciso mentre prendeva un caffè: aveva appena fatto in tempo a metter mano al revolver, dicono. Tiratore di una velocità leggendaria, dicono. Morto ammazzato come un cane: da solo. Il killer era Leoluca Bagarella. Il questore continua a stringere la mano: Andrea non ha ancora capito. Giuliano indagava sui movimenti bancari della mafia. Troppi soldi per investirli solo in case e terreni: dove sono i soldi dell’eroina? Nelle banche.Ecco perché Giuliano è morto, perché aveva capito la via per arrivare al cuore della mafia. Le banche. No, non è per questo che è morto. – Il commissario Giuliano aveva interrogato il direttore di un’agenzia bancaria senza sapere di essere entrato in uno degli sportelli finanziari di Cosa nostra, – dice Andrea guardando il questore. Che apre la stretta. – Proprio così, Vannini. Non c’erano ancora i pool, lavorava da solo, ed era entrato in un gioco molto pericoloso fidandosi troppo del suo intuito. Se lo ricordi, Vannini. – Ormai sono in ferie, signor questore. – Infatti, Vannini. È per questo che mi verrà a trovare a titolo personale, magari durante l’ora di pranzo. Per parlarmi di come trascorre il tempo quando è in ferie. Per raccontarmi di qualche intuizione, magari. Località non determinabile. Tavolo in mogano anticato. Telefono nero a disco. Bottiglia in cristallo boemo: sherry brandy. Sul monitor: acquario in movimento. Invio: telefono cellulare clonato con scheda estera. Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Drìììn… drìììn… Pausa (nessuna risposta). Bicchiere in cristallo boemo riempito per tre dita: una porzione generosa. Fade away: l’acquario cede il posto al desktop. Connessione Internet: attivata. Connect with: Sito Web criptato-Hot line erotica. Libreria fotografica. Accesso vincolato, password required. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Wait, please. Check password ahead. Insert your second password, please. Wait, please. Check password ahead. Welcome. Prima schermata: immagini bondage. Young & oriental women. Scrollare la schermata. Seconda schermata: immagini bondage. Bloody bondage. Scrollare la schermata. Terza schermata: immagini fetish. Stivaletti. Cuoio. Staffili. Una lampada a stelo: evidenziare. Clic sull’icona della lente d’ingrandimento. La lampada scompare. Al suo posto, un dattiloscritto: riproduzione Jpeg. Non rintracciabile da un motore di ricerca per parole chiave. Argomento: profilassi veterinaria. Parassiti sotto osservazione: due. Parassita n. 1: individuato da tempo, pericolosità accertata. Avviata adeguata profilassi: il parassita è stato rimosso dall’animale. Il veterinario consiglia di non interrompere la profilassi sino alla comprovata guarigione dell’animale. Parassita n. 2: individuato di recente, pericolosità probabile. Si consiglia la rimozione cautelativa. Individuato l’ambiente di provenienza: avviata procedura di bonifica. Esito della disinfestazione atteso entro le ventiquattro ore. Possibile presenza di Parassita n. 3 nello stesso ambiente, dall’incerta definizione. Il veterinario sospetta alto livello di nocività. Si consiglia di bonificare l’ambiente con attenzione, e procedere a un esame ulteriore dei parassiti dopo la disinfestazione. 10. Amarcord Borgo Mezzo, frazione di Villanova (Bologna), ore 19. Il Togliatti prende il casco, si annoda il fazzoletto al collo e tira su la lampo del giubbotto. Controlla che le chiavi siano nella tasca destra. Tasta il giubbotto all’altezza della tasca interna: il rigonfiamento conferma che la Walther è lì dove dev’essere. – Occhio, mentre sono fuori, – dice a don Ricrea con la mano sulla porta. – Tranquillo, che tiro il catenaccio. Credi che sia per stasera? – No, non credo. Però con un balordo come quello non c’è da stare sicuri. Padre Ricrea sorride. – Guarda che sono arrivato alla mia età senza che tu mi guardassi le spalle, qualcosa da solo saprò fare, Ruggero. Tu, piuttosto: è proprio necessario andare in giro armato? – Io dico di sì, – la butta lì il Togliatti. – Non è che non mi fidi delle tue preghiere, eh? Però se ci metto qualcosa di mio mi sento più tranquillo.Sono fatto così, che vuoi farci? Già: che può farci, padre Ricrea? Niente. Ma chi ti dice che io preghi per te?, risponde, con tutti i figli del Signore che ne hanno bisogno… Ecco, appunto, dice il Togliatti, pensa a quelli che ne hanno davvero bisogno, delle tue preghiere. Ed esce. Padre Ricrea si versa un mezzo bicchiere di vino, per annegare il sospiro che gli viene fuori. Certo che prego per chi ne ha davvero bisogno, risponde silenziosamente rivolto verso la porta che il Togliatti si è chiuso alle spalle. Per chi ne ha davvero bisogno, si ripete alzandosi per andare a tirare il catenaccio. La Guzzi del Togliatti fa ancora un bel suono: ogni volta c’è chi si gira a sentirla passare, e quando è parcheggiata qualche occhiata d’intenditore la cattura sempre. Oggi poi la musica del motore è davvero bella: accordato come un’orchestra. Il Guzzone. Il Togliatti ci ha smanettato un po’, tanto per essere sicuro che fosse a punto. I ferri del Togliatti sono sempre a punto: oliati, puliti, efficienti. Tutti i ferri del Togliatti. Si ferma davanti al bar del paese, smonta, lascia il casco sul sedile ed entra a prendere il caffè corretto. Un buco da niente, Borgo Mezzo: da quando il cinema parrocchiale ha chiuso, poi… È per questo che devono accontentarsi di due soli bar, quello dell’Arci e questo, davanti al quale di solito il Togliatti passa senza fermarsi. Stasera invece ci si ferma, e fa aggiungere due dita di stravecchio al caffè. Così, intanto che il barista prepara, dà un’occhiata in giro, a studiare la mescolanza di teppa e vecchietti. Più che altro la teppa. Quelli del biliardo, ad esempio: basta vedere come maltrattano le stecche, come offendono il gioco, per farsi un’idea di quel che valgono. Poi quelli del Campari delle sette di sera: seduti ai due tavolini esterni, con un bicchiere già vuoto davanti e il secondo Campari in mano. Quelli del Campari e quelli del biliardo.Riescono a convivere con i vecchietti della briscola senza sfiorarli, come se il bar si dividesse in due ambienti con pareti invisibili: gli antani aspettano che il gruppo del biliardo vada via per prendere in mano le boccette, non c’è bisogno di litigare. Poi un paio al bancone, a cazzeggiare senza scopo. Il Togliatti beve il caffè corretto, gira le spalle di tre quarti ai due del bancone, quanto basta per far finta di non accorgersi dello sguardo di sottecchi che uno dei due gli rivolge. Missione compiuta: si può andare a cena. Bologna, quartiere Bolognina, ore 19.45. Ti ricordi Michel i nostri pantaloni corti? E le tue gambe lunghe magre e forti? Raggomitolata sul divano, Lara sfoglia una carpetta dietro l’altra. C’è un discreto numero di fogli e ritagli sul pavimento: materiale già letto, che lascia cadere ordinatamente per poterlo poi risistemare nello scatolone. Ha la faccia seria, Lara: sta scoprendo un mondo che nelle favole non c’è. Le bombe nelle banche all’ora di massimo affollamento, i treni, le piazze, membra disperse, pozze di sangue, esseri mutilati che vagano storditi ripresi nelle foto scattate: orrore in bianco e nero, che fissa volti, espressioni, mani sulla faccia, lacrime, urla. Le vecchie foto in bianco e nero non si limitano a rappresentare: urlano silenziosamente. Non c’è filmato, non c’è colore, non c’è finzione cinematografica che abbia questa forza espressiva: noi siamo cresciuto nel bianco e nero, la nostra memoria non conosceva ancora il colore. Poi ci sono le parole: le cronache, le schede, i commenti. E i documenti. Le parole dei protagonisti, faticosamente raccolte con un lavoro da formica che a un certo punto ho interrotto, travolto dallo sconforto, persuaso dell’inutilità di questo accumulo: via, negli scatoloni, il nastro da pacchi a sigillare, e giù in cantina. Il coraggio di buttare via tutto però non l’ho avuto: e adesso che vedo Lara impallidita, capisco che ne valeva la pena. La prima fase della nostra attività politica consiste nel creare il caos all’interno delle strutture del regime. Ci sono due forme di terrorismo capaci di provocare questa situazione: il terrorismo cieco (commettere attentati a caso che provochino numerose vittime) e il terrorismo selettivo (eliminare persone individuate con precisione). La distruzione dello Stato democratico deve essere operato il più possibile sotto la copertura di attività comuniste. In una seconda fase è necessario intervenire all’interno dell’esercito, del poter giudiziario e della Chiesa per agire sull’opinione pubblica, proporre una soluzione e far apparire con chiarezza l’impotenza dell’apparato legale esistente. Questo presuppone una fase d’infiltrazione e di pressione sugli organi vitali dello Stato per mezzo dei nostri quadri. La pressione psicologica sui nostri amici e nemici dev’essere tale da formare una corrente di simpatia verso il nostro organo politico e da polarizzare l’opinione pubblica, portandola a intendere la nostra presenza come il solo mezzo capace di salvare la nazione. È altresì evidente che per poter esercitare queste attività dobbiamo disporre di strumenti finanziari considerevoli. – Di chi è questo documento? – chiede mostrandomi il foglio. – Si chiama, o si faceva chiamare, Yves Guérin-Sérac. Uno dei dirigenti di un’organizzazione internazionale mascherata da agenzia stampa, l’Aginter Press di Lisbona. In Portogallo, durante la dittatura militare. – Dittatura militare? – Sì, Lara: dittatura. Fino alla metà degli anni Settanta in Europa c’erano dittature militari fasciste: Grecia, Portogallo, Spagna. Non ve lo insegnano a scuola che il fascismo non è finito nel ’45? A est c’erano i russi, a ovest i fascisti: è così che funzionava. I nostri fascisti andavano ad Atene, Madrid, Lisbona a farsi finanziare le stragi, e ci ritornavano da latitanti. Be’, questo bastardo ha fatto parte dell’Oas, l’organizzazione terroristica dei militari francesi d’Algeria. Poi ha messo su una rete di ex Oas, ex Ss, americani. E naturalmente italiani, quasi sempre coperti da attività giornalistiche. Organizzava l’infiltrazione nei nostri gruppi con l’operazione Mh-Chaos, l’istruzione e l’addestramento dei bombaroli. E mica solo da noi: ha organizzato attentati terroristici in Portogallo dopo la rivoluzione, è stato in Spagna, in Sudamerica, in Belgio… Questo documento è del ’74: ce lo avevano fatto avere dei compagni portoghesi. Era in francese… – Cosa c’è? – C’è che… lasciamo stare. – Scusami. Dovevo capirlo da sola. – Cosa? – Tu le lingue non le sai… è stata Barbara a tradurlo, vero? Ti ricordi Michel? Ti ricordi Michel? Milano, San Vittore, mensa carceraria, ore 19.45. – Dici di no perché, per fare un esempio, tu di Helena Hamburg non hai mai sentito parlare, vero? – No, – risponde Cristiano, – è un nome che proprio non mi dice niente. – Te la racconto io, – dice Vittorio Guerra, – così vedrai che ci sono cose che voi compagni non sapete. Era una funzionaria dell’ambasciata argentina a Parigi. Torna a casa per le vacanze: all’aereoporto di Ezeiza un gruppo di uomini l’aspetta, la preleva e la uccide. Cose che potevano succedere, in Argentina. Però Helena era una brava ragazza, senza grilli per la testa: mai avuto niente a che fare con la izquierda argentina, tantomeno con la guerriglia. È successo che a Parigi aveva avuto la sfortuna di vedere il generale Massera incontrare i capi montoneros. I montoneros per voi erano un mito, vero? Be’, io ti assicuro che Mario Firmenich, il capo dei montoneros, era un uomo di Villareal, il capo dei Servizi argentini. E nel ’78 era allo stadio a vedere le partite dell’Argentina. I militanti dell’Erp sono stati trucidati perché erano incontrollabili, più o meno come i vostri amici dei Nap: l’unico terrorismo rosso ammesso dallo Stato è quello gestito e diretto dallo Stato. – Sicuro che sia andata così? – chiede Cristiano. – Sicuro, – risponde il soldato politico. – Vuoi un altro esempio? I primi manifesti filocinesi in Italia li abbiamo attaccati noi. Se ne occupò Avanguardia nazionale, per conto dell’ufficio Affari riservati: cioè del ministero dell’Interno. Il mondo è un grande teatro dei pupi, e noi sgambettiamo sul palco senza vedere né i fili né i pupari. – Tu vedi troppi complotti, Vittorio. Non c’è niente che mi stupisca in quello che dici: ma non si riducono due generazioni a una battaglia tra marionette. Non sono quei manifesti ad aver fatto la Storia. – Forse no: però sono serviti a indirizzarla dove volevano i signori che la Storia prima la manovrano, poi la scrivono e alla fine la glorificano. E dalla mia parte, stanne certo, al di là dell’onore e dell’ideale dei nostri giovani non c’è che un gran mare di fango. – E della mia parte cosa pensi? Vittorio Guerra tira una lunga boccata. Termina il mozzicone che stringe con i polpastrelli ingialliti. – La tua parte è il mio nemico. L’altro mio nemico, se preferisci. Perché dovrei pensarne qualcosa? Durante l’armistizio ognuno seppellisce i suoi morti. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 20.15. Il Togliatti mangia con gusto gli antipasti. Il salume è buono, fatto in casa. Le cipolline crocchiano sotto i denti. Si versa un altro bicchiere. – Kalispera, comandante, – dice la voce davanti a lui. Il Togliatti alza gli occhi: Kalispera, risponde. Poi si alza e abbraccia Andrea Vannini. Bologna, quartiere Bolognina, ore 20.15. – La struttura si chiamava Stay Behind o, più semplicemente, Gladio. Una rete difensiva istituita a scopo preventivo in accordo con gli americani, nell’ipotesi di un’invasione russa. O di una vittoria elettorale dei comunisti, metti mai i casi della vita. Depositi d’armi, basi paramilitari, uomini reclutati e regolarmente stipendiati. Poi a un certo punto qualcuno si rende conto che la guerra non scoppia perché i russi non arrivano, e in compenso il peso delle sinistre aumenta sempre più. E allora questo qualcuno decide che la guerra la fa scoppiare lui. – A un certo punto quando? – chiede Lara sempre più sconcertata. – Nel 1965. Nell’anno in cui a Roma si svolge un regolare convegno di studi all’istituto Pollio sulle prospettive della guerra rivoluzionaria. Questa roba qui, – le dico mostrandole la raccolta degli atti. Incredula, Lara sfoglia il libro ingiallito. Eh, sì: non siamo nel mondo dello spionaggio romanzesco! La dichiarazione di guerra di una parte dello Stato allo Stato stesso ha luogo in un regolare convegno, tra poltroncine vellutate, microfoni che si accendono e si spengono dopo ogni intervento, bicchieri d’acqua per ristorare i relatori, giacche e cravatte. – Guarda, ti faccio vedere come termina la relazione d’apertura. Leggi qui: La decisione, dunque, dipende molto da noi. Proprio da noi italiani, che viviamo (talvolta senza rilevarlo a pieno) questa insidiosa battaglia. Se sapremo finalmente aprire gli occhi, aprire gli occhi sulla guerra rivoluzionaria, se sapremo reagire in misura adeguata, allora, e soltanto allora, potremo riprenderci e vincere. Ma attenzione: è tardi. Molto tardi. Il est moins cinq, dice in un suo recente libro Suzanne Labin. Siamo arrivati agli ultimi cinque minuti. – La relazione di chiusura invece… aspetta, dev’essere qui... è di quello stronzo che negli anni Cinquanta teorizzava la strategia degli attentati sulle linee ferroviarie nelle sezioni dell’Msi… eccola qui. Leggi solo il finale. Spetterà poi ad altri organi, in senso militare, in senso politico generale, trarre da tutto questo le conseguenze concrete, e far sì che alla scoperta della guerra sovversiva e della guerra rivoluzionaria segua l’elaborazione completa della tattica controrivoluzionaria e della difesa. Mi passi un bicchiere di qualcosa?, chiede Lara. Certo. Prendo qualcosa dal frigo, tipo formaggio e… no, per te solo formaggio, va bene? Non lo so se va bene: tu riesci a mangiare? Io sì, Lara: mi si è fortificato lo stomaco in tutti questi anni. Poi questa roba la so a memoria… Porto del pecorino sardo e una vernaccia di accompagnamento, e qualche gambo di sedano in pinzimonio. Grazie, mi dice Lara. Vai avanti, per favore. – Il resto è quasi facile da immaginare, anche perché i fatti li stai leggendo da oggi pomeriggio. Ci sono armi ed esplosivi che passano dai depositi militari a quelli neofascisti, camion carichi di tritolo che arrivano in Veneto dalle basi Nato tedesche, rifugi che ospitano provvidenzialmente i latitanti… La struttura operativa in atto, insomma. Sempre che si tratti di lei. – Perché dici questo? – Perché quando il Muro di Berlino è venuto giù, i nostri politici hanno fatto a gara per chi arrivava primo nel rivelare l’esistenza della Gladio. E molte delle cose che noi sapevamo per certe, nella Gladio non le abbiamo trovate. – E allora? – Be’, lo sai che il paranoico del gruppo è Andrea. Se fosse qui lui ti direbbe che Gladio è stata bruciata per mantenere coperta la vera struttura. – E voi cosa facevate? Voglio dire, voi queste cose le sapevate già allora, no? – Più o meno. Alla fine riuscivamo a sapere tutto, o quasi. Ci aspettavamo di svegliarci un mattino e trovarci coi carri armati in strada. Qualche volta ci veniva detto di non tornare a dormire a casa, perché poteva essere la notte buona. Un paio di volte abbiamo svuotato le sedi dai documenti, noi come i sindacati, i partiti moderati: tutti quanti. – Ma ci credevate davvero? Insomma, andavate a letto chiedendovi se la mattina dopo ci sarebbe stata ancora la Repubblica piuttosto che un colpo di Stato militare? – Sì. Ci credevamo davvero. Dici che eravamo esagerati? Sto giocando sporco, lo so che risponde di sì. – Be’… un filino di mania di persecuzione magari… – Mania di persecuzione, dici? Leggi questo, allora, – le dico porgendole un ritaglio ingiallito. – Non tutto, che poi ti devo spiegare chi erano Saragat e Fanfani: solo il capitoletto finale. Quello che si intitola Colpo di Stato: è possibile? Se tuttavia la classe politica non riuscisse a risolvere il problema dei rapporti del Pci con lo Stato, se la confusione diventasse drammatica, le Forze armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana. Questo non sarebbe un colpo di Stato ma un atto di volontà politica a tutela della libertà e della democrazia. Così, dopo averli a lungo onorati del nostro disinteresse più completo, potremmo trovarci di colpo a dovere della gratitudine ai militari. Forse è esatto dire che l’unico tentativo di sovversione, quindi, viene da sinistra. Tuttavia il ristabilimento manu militari della legalità repubblicana, possibile in una mezza giornata, potrebbe non essere sufficiente. Sono interrogativi che dovrebbero pesare come piombo sulla coscienza di chi ci governa. E può darsi che di fatto pesino. E che aprano la strada a un esame di coscienza più profondo. Questa Repubblica, così com’è, funziona ancora? La confusione che stiamo vivendo non sarà dovuta al fatto che le sue istituzioni sono ormai insufficienti e superate? Perché i costituenti crearono l’articolo 138, che prevede la possibilità di riformare la carta fondamentale della Repubblica? Chi ci impedisce di utilizzare l’articolo 138 per correggere i difetti ormai evidenti delle nostre istituzioni? Perché non possiamo imparare qualcosa dalle grandi democrazie dell’Occidente? Perché non ci poniamo seriamente il problema della Repubblica presidenziale, l’unica capace di dare forza e stabilità al potere esecutivo? Vi sono giorni in cui la Storia impone riflessioni di questo tipo. – Cos’è questo, «Lotta Continua»? – No. «Epoca». Fa’ mò te. Pochi giorni prima della strage di piazza Fontana. Lara resta in silenzio. Soprappensiero. Poi si scuote. Ma non è la stessa cosa di quel convegno del ’65? Sì, Lara: solo che questo è un settimanale illustrato, il più importante d’Italia, in vendita in tutte le edicole. – E se vi foste svegliati con i carri armati cosa avreste fatto? Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 20.15. – Che giorno era, Andrea? – Era la fine di marzo, comandante. Quando sono venuto a dirti che non mi bastava più soltanto cooperare con la brigata. – Eri convinto che sarebbe andata a finire male… – Abbastanza. Abbastanza da chiedermi chi sarebbe stato in grado di resistere, dopo. E di comportarmi di conseguenza. Le rane fritte sono croccanti, quelle in umido saporite il giusto. Il Togliatti le divora con una strana gioia negli occhi. Andrea è di compagnia. – Dopo quindici anni di lavoro politico, ci vengono a dire che è tutto finito. Tu te lo chiedi mai su quale confine abbiamo fatto la sentinella, comandante? – Io non sono di quelli che si fanno troppe domande, Andrea. – No, tu no. Ma io sì. Io mi sento come uno che ha fatto la sentinella sul niente. E adesso non so più che cosa ho fatto, e che cosa faccio. – Tu hai fatto quello che si doveva fare, dio boja. C’era una guerra, anche se non se n’è accorto nessuno. Valeva la pena di farla, e noi l’abbiamo fatta dalla parte giusta: che cos’altro ti serve di sapere, a te? Milano, San Vittore, ore 20.30. – Come fai a sentirti libero? – Mi ci sento, compagno. Guarda là fuori, dalla finestra della cella. Vedi le luci, le macchine? Vanno di fretta: li aspetta la casetta con le tendine alle finestre, la moglie con la cena pronta, la televisione. Domani si alzeranno, passeranno dal caffè al lavoro, poi la pausa caffè, il giornale, la mensa o il pranzo a casa: è così che loro si sentono liberi. Ognuno ha la libertà che si è saputo meritare. Io so cosa ho perso, entrando in galera: ho perso quel mondo, e anche il mondo di menzogne in cui per anni sono stato imprigionato. Qui, alla fine, i ruoli sono chiari. I traditori che mi erano al fianco sono dall’altra parte: sono i miei nemici, adesso, come avrebbero dovuto essere sin dall’inizio. È qui che io ho ritrovato quello che fuori avevo perso: la mia libertà. Libertà? È questo il sapore della libertà? Non per me, pensa Cristiano. La libertà è il sorriso di una donna, una giornata di primavera, un bicchiere di buon vino o una pizza come quelle che fanno a Napoli: non queste mura, non queste sbarre. Vittorio lo guarda, capisce. Non hai scelto tu di stare qui?, gli fa.Lo so che potresti chiedere di uscire. E dunque? E dunque, risponde Cristiano, hai ragione: è una scelta mia. Ma il fatto di scegliere non significa essere libero: tutto qui. E non è poco. – Per me la libertà è aver raggiunto il posto cui la Storia mi ha destinato, – dice Vittorio, – ho lottato per questo. – Per me la libertà è non avere un posto assegnato. Quello che ho dentro è quello che sono stato, e quello che sono stato è diventato quello che sono: e non si può sfuggire a se stessi. È per questo che non esco.Non mi servirebbe a sfuggire al posto che mi sono assegnato. Quando lo potrò fare uscirò.Quel giorno mi sentirò libero. Non ora, non fino ad allora. – La tua visione del mondo è troppo complicata, e la tua coscienza è un labirinto, Cristiano: ti ci perderai, se non fai attenzione. – No, Vittorio, è il tuo mondo a essere troppo semplice. – A volte il mondo ha bisogno di esser semplificato, compagno. – No: bisogna complicarlo, il mondo. Sempre. Rocca Messapica (Taranto), ore 21. Selige Öde auf sonniger Höh’! Was ruht dort schlummernd im schattigen Tann? Il cammino verso la sommità: l’ascesa di Siegfried. La visione dall’orlo dell’altura: Brünnhilde dormiente sotto l’abete, coperta dallo scudo. Rilucente nella sua armatura. La fine del dominio di Wotan, la fine dell’èra dei patti: la distruzione del vecchio ordine. L’amplesso di Siegfried e Brünnhilde: l’unione di forza e saggezza, la nascita del nuovo ordine. L’uomo dai capelli bianchi mormora le parole del terzo atto del Siegfried. Al nuovo ordine segue la rottura dei patti: ogni accordo verrà violato, dopo la ritirata di Wotan e la frantumazione della sua lancia. Komm, mein Schwert, schneide das Eisen! La rottura del vecchio ordine… L’uomo dai capelli bianchi sfoglia un libro che gli è caro: un libro ingiallito da trent’anni di attesa, dai peregrinaggi nei cattiverî cui lo Stato destina i captivi. Agosto 1969. Occorre, infatti, propiziare e accelerare i tempi di questa distruzione, esasperare l’opera di rottura del presente equilibrio e dell’attuale fase di assestamento politico. Vigilare affinché gli eventuali veicoli, le potenziali forze che debbono determinare il collasso dei centri nervosi del sistema borghese, non vengano assorbiti o integrati in una delle tante possibilità di cristallizzazione che il mondo borghese offre. Inevitabilmente, quindi, dobbiamo trasferire le nostre considerazioni dal piano del riconoscimento dei principî al piano operativo: dal piano di ciò che è valido al piano di ciò che risulta efficace, al fine di adeguare la squallida «realtà» (che più opportunamente dovrebbe qualificarsi «irrealtà») del periodo storico che noi stiamo vivendo alla «realtà» autentica. Il risveglio di Brünnhilde. La notte d’amore conclude il Siegfried e annuncia il Crepuscolo. Dall’ordine degli dèi all’ordine degli eroi: ma solo la volontà, non la saggezza, può redimere il mondo dalla maledizione dell’anello. L’uomo dai capelli bianchi sfoglia ancora l’opuscolo. Ci siamo, pensa l’uomo dai capelli bianchi: è quasi l’ora. Farsi duri, ancor più oggi di ieri. Bandire lo scrupolo: tre decenni di esercizio ascetico per giungere a questo punto. Ne valeva la pena. Di questo, infatti, occorre essere persuasi: che, in un soldato politico, la purezza giustifica ogni durezza, il disinteresse ogni astuzia, mentre il carattere impersonale impresso alla lotta dissolve ogni preoccupazione moralistica. La volontà dell’eroe gioioso… Sie ist mir ewig, ist mir immer, Erb’ und Eigen, ein’ und all’: leuchtende Liebe, lachender Tod! Bologna, quartiere Bolognina, ore 21. – Perché succedeva tutto questo? – chiede Lara con una nota di disperazione.– Che bisogno c’era di massacrare i contadini nella banca il fine settimana, gli operai in piazza, i viaggiatori nei treni? Cerco un foglio, me lo ricordo che gli appunti li avevo ricopiati su un foglio azzurrino, per poterlo ritrovare. L’archivio era già chiuso da tempo, ma questi appunti li ho voluti inserire lo stesso. Eccolo qui. – Vedi, Lara, noi a un perché abbiamo sempre creduto: ma eravamo noi, appunto. E quelli come noi non sono credibili. Quando hanno arrestato Cristiano io quel perché me lo sono ripetuto centinaia di volte, è da lì che le armi hanno cominciato a circolare tra di noi: poi qualcuno aveva rallentato il passo, qualcun altro aveva corso tanto veloce che la gamba gli era rimasta nell’altra via, c’è chi alla ricerca del più rapido scatto aveva dimenticato la meta. Però è da quel perché lì che ricominciava sempre la storia di Cristiano. Finché, un giorno, quel perché l’ho trovato nel linguaggio bigio e ministeriale di uno che non era dei nostri. Ed era il nostro stesso perché. Leggilo. Per quanto riguarda la strategia della tensione, che per anni ha insanguinato l’Italia, pur senza conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dell’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Democrazia cristiana in alcuni suoi settori. […] Certo è un intrigo difficile da districare e le cui chiavi presumibilmente si trovano in qualche organizzazione specializzata probabilmente di là del confine. Si tratta di vedere in quale misura nostri uomini politici possano averne avuto parte e con quale grado di conoscenza e d’iniziativa. […] La cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della «normalità» dopo le vicende del ’68 e il cosiddetto autunno caldo. Si può presumere che Paesi associati a vario titolo alla nostra politica e quindi interessati a un certo indirizzo vi fossero in qualche modo impegnati attraverso i loro Servizi d’informazioni. Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non può esservi dubbio, e lo stesso Servizio italiano per avvenimenti venuti poi largamente in luce e per altri precedenti può essere considerato uno di quegli apparati italiani sui quali grava maggiormente il sospetto di complicità, del resto accennato in una sentenza incidentale del Processo di Catanzaro e in via di accertamento, finalmente serio, a Catanzaro stessa e a Milano. Fautori ne erano in generale coloro che nella nostra Storia si trovano periodicamente, e cioè a ogni buona occasione che si presenti, dalla parte di [chi] respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico. – Chi è che parla in questi fogli? – Aldo Moro. Sono le pagine iniziali del suo Memoriale. È quello che Moro ha detto alle Brigate rosse durante la sua prigionia. C’è molto sangue anche intorno a questi fogli, al loro originale e alle diverse copie. C’è sangue dappertutto, in questa storia. Io però, personalmente e intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi che questi e altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra e avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale proprio la caratteristica della reazione di destra), allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, a una gestione moderata del potere. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 21. – L’hai letta sul giornale la storia di quella ragazzina ebrea, no? Quella che hanno trovato il suo diario. Be’, c’è una cosa che i giornali non hanno scritto. Io però conosco il prete che li aveva aiutati, e che lo ha letto tutto, quel diario. Dice che a prendere quella famiglia è arrivato un giovane vestito elegante, con un cappello bianco e un fiore all’occhiello. Tu le cose te le ricordi bene, è per questo che ti avevo voluto a lavorare nella brigata: be’, se te le ricordi ancora, lo sai bene chi è che andava vestito elegante col cappello bianco, durante la guerra. – Tassone, – dice Andrea. Vendeva le famiglie ebraiche ai tedeschi per cinquemila lire a persona. – Bravo. E tu lo sai chi era quella ragazzina? La morosa del Cioccolata, era quella ragazzina lì. E il Cioccolata era nella Gap, e non ne ha saputo più niente. Fino a questa estate. E così abbiamo deciso che si doveva fare quello che era giusto. Tu il Cioccolata non lo conoscevi: dalla fine della guerra a oggi è vissuto solo per trovare chi gli aveva tolto la morosa. Perché lui se lo sentiva, che quella ragazzina non tornava più. – E tu hai eseguito la sentenza? Il Togliatti scuote la testa. Ma di’, hai visto il casino che aveva combinato, il Cioccolata? È stato lui, dio bono. Dovevamo dargli una lezione, a quel bastardo, e il Cioccolata doveva restare giù a guardare la strada. E invece è partito un’ora prima di come eravamo d’accordo, e ha fatto tutto lui, di testa sua, che ce l’aveva ben dura la testa, il Cioccolata! Di’ mò, ma ti pare che io il lavoro lo facevo così? Andrea versa del vino, e ne ordina un altro mezzo litro. E i volantini, allora? Quelli li ho messi io, chiaro. Quando sono arrivato il Cioccolata non c’era, in strada. Ho capito che aveva combinato qualcosa, sono salito su e ho aperto la porta con i miei ferri: ormai era andata così, che ci vuoi fare? Poi il Tassone se lo meritava, anche se non doveva finire così. I volantini sono tornato il giorno dopo per metterceli, che almeno pensassero che ero stato io. Perché, comandante?, chiede Andrea. Perché ci hai fatto credere che sei stato tu? Il Togliatti sorride amaro, di quell’amaro che afferra qualcosa dentro Andrea e lo fa star male. Gli stringe il cuore, si potrebbe dire: se mai Andrea ne avesse uno, di cuore. Bologna, quartiere Bolognina, ore 21.30. Lara ha rimesso tutto nello scatolone: non ne può più. Sai, mi dice con la testa sulle mie gambe, mi sembra di esser invecchiata. E adesso… di’, ti va di uscire? Chiamiamo tutti, andiamo da qualche parte: non ho voglia di stare in casa. Anche Andrea, anche Chiara, il giornalista: si fa? No, non con Andrea almeno: è a mangiare rane, ricordi? Ah, già, le rane… ma chi è che deve vedere assieme alle rane? Il Togliatti: non ti ricordi? Sì, è vero… dici che poi ce lo spiega come fa a conoscere il tuo vecchio zio partigiano? Chissà… Allora ti faccio un’altra proposta, una che non puoi rifiutare: andiamo a casa mia a vedere Point Break. Da soli? No: io, tu e la bottiglia di bianco che ho conservato apposta per te: ménage à trois, mon amour! Dài, che se solo penso che c’è un altro scatolone di questa merda ancora da aprire mi viene male, conclude tirandosi su e indicando il secondo scatolone, quello più piccolo. – In quello scatolone non ci sono documenti politici. O meglio, non del tipo che hai letto stasera. – Ah, no? E cosa c’è lì dentro, allora? – chiede rianimata da un’ineludibile curiosità. – Un altro genere di letteratura politica degli anni Settanta, diciamo. Diciamo che potrebbe essere la mia controproposta, – le dico sorridendo. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 21.10. – Che tipo di cancro? – sussurra Andrea. – Hai presente quelli che si operano? Quelli che poi c’è la chemio, che ti cadono i capelli che tanto me ne sono rimasti pochi? Quelli che se presi in tempo si vincono, hai presente? – Sì, – dice Andrea. – Bene, il mio è dell’altro tipo, – dice il Togliatti, – di quelli che vincono loro. Silenzio. – Allora, ti è morto il gatto? – infierisce il vecchio. Andrea incassa la durezza del comandante di brigata. Quanto ti resta?, chiede. Un paio di mesi, dice il Togliatti. Due mesi? Sì, dopo la morfina comincia a non bastare più. E io la morte del topo non la faccio, a crepare proprio non ci penso.Mi basta morire in pace, con la coscienza a posto, a me. Chiaro? Chiaro. Mai avuto dubbi, il Togliatti: sempre saputo come stare al mondo, sempre saputo come andarsene. Anche adesso che il momento sta arrivando e dalle parole si passa ai fatti. Bologna, via Santo Stefano, ore 21. Ferodo apre il portone con la sua copia della chiave. Per l’occasione indossa un completo a petto unico in lino nero sfoderato, non sia mai che qualcuno dei signori del palazzo gli dica qualcosa. Porta d’ingresso: il capello è ancora dentro. L’avevo lasciato a quest’altezza?, si chiede Ferodo.Certo che sì, paranoico del cazzo che non sei altro, si risponde. Una roba da fumetti, il capello nella porta: eppure un paio di volte ha funzionato. Accende la macchina, aspetta la scansione antivirus, inserisce la password: tutto come deve andare. Prepara il drive, collega il cavetto alla presa. Ripassa i compiti. Con i dati della scrematura dell’hard disc di Righi Aldrovanti come guida, il programma serale prevede un tour tra i siti frequentati dal nostro. C’è un bel po’ di sesso, a quanto pare. Ma soprattutto: ricerca di community e chat line. Perché il Righi Aldrovanti da più di un mese non usa il telefono fisso: neanche una chiamata in entrata o in uscita, solo connessioni. Va bene non avere il numero sull’elenco, ma neanche un amico, una fidanzata, il lattaio… Niente: questa linea telefonica tace. Quindi usa il cellulare. E, speriamo, anche Internet. Le birre sono in frigo, il Cd è pronto: si può andare. Icona del Navigatore: doppio clic. Insert password. Password inserita: quella modificata, naturalmente. Wait, please. Check password ahead. Sì, certo. La password modificata invia la password originale al sistema: un piccolo giochino di cui Ferodo va molto fiero. Una specie di capello informatico inserito nella serratura del lucchetto, tanto per non esagerare con le precauzioni. Wrong or invalid password, denied access. Insert password. Ferodo guarda lo schermo con la birra sospesa a mezz’aria. Come arrivare davanti alla porta e trovare il capello per terra. Perché il capello è per terra? Perché chiede la password originale? Perché quella modificata si disattiva se qualcuno usa quella originale. Sono entrati qui dentro. Hanno acceso questo computer e lo hanno usato. Ferodo inspira a fondo. Sono qui fuori? Sanno tutto? Calma: mantenere la calma. Resistere alla tentazione di staccare la spina e scappare. Spegnere nell’ordine di accensione, senza fretta. Riporre tutto nella borsa. Il drive. Le birre con su le impronte digitali. Le impronte: Ferodo si guarda i guanti con le dita mozzate. Calma: devo stare calmo. Molto, molto calmo. Ripassare lo straccio sugli oggetti toccati. Prima: togliere i guanti in pelle e infilare i monouso in lattice. Calma: questa casa è un porto di mare. Ci saranno migliaia di impronte, tutta la scena delle posse bolognesi: le vecchie impronte non sono un problema. Potrebbero aver pulito un oggetto per rilevarne una nuova: pulire dove sono passato stasera. Il Cd: recuperare Cd. Fatto. Uscire. Sono fuori? Da dove passo? Dal balcone? No, dal terzo piano in giù ci vuole la ragnatela di Spiderman. Sono fuori: me lo sento che sono fuori. O a casa: è lì che mi aspettano? Calma: devo razionalizzare. Non mi conoscono: sarebbero venuti a prendermi a casa. Sanno di questo computer, ma non di me: punto a mio favore. Il problema è uscire. Il lucernario: salire sino all’ultima rampa, aprire la porta del sottotetto e passare dal lucernario. No: un’idea migliore. Niente gatti sui tetti: si esce dal portone. Passando prima per il sottotetto. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 21.30. – Non lo so, Andrea. Non avevo notato niente, e sì che ci sto attento, io. Il Cioccolata no, era sempre il solito. Comunque avevamo concordato un modo per tenere la porta, per quando andavo via. E quando sono tornato, quel pomeriggio lì, la porta non era messa come doveva essere. E il Cioccolata era morto ammazzato. Una brutta morte. – Già. Lo hanno torturato. Cercavano qualcosa. O qualcuno. Cercavano te, comandante. Hai fatto credere che il Tassone lo hai ucciso tu, e loro ti sono venuti a cercare. E il Cioccolata è morto per salvarti. Il Togliatti scuote la testa. No, dice, non è morto per questo. Lo sapeva che mi restava poco, che non c’era niente da salvare. Il Cioccolata è stato zitto per farsi ammazzare: l’ha fatta finita così. Non gli restava niente per cui vivere, al Cioccolata. Si guardano: il comandante della brigata informazione e il suo migliore soldato. Una vita a raccogliere notizie, quando la parola rete la usavano solo pescatori e uccellatori. La struttura informativa del partito, quella clandestina, quelle dei cinesi: un paziente lavoro di tessitura basato sui rapporti personali. Uno scambio di notizie continuo: questa la diamo noi, questa la passiamo a quegli altri che è meglio se noi ne stiamo fuori, questa ce la passano loro che noi siamo più credibili. E adesso? – E adesso si lavora come si è sempre fatto, Andrea. Fai mò girare quelle rotelline che c’hai nella zucca, e dimmi cosa ne viene fuori. – Hai messo in moto qualcosa, comandante. Tassone era una pedina in un gioco che non conosciamo, e tu lo hai scombussolato. Il Togliatti annuisce: poi? – Poi qui c’è una gran puzza di fantasmi del passato. – Fantasmi un par di balle, Andrea! Altro che fare la guardia al niente: eccoli qui, i tuoi fantasmi! Glielo spieghiamo noi al Cioccolata che è morto di spavento? – Hai ragione, Togliatti: ho sbagliato io a credere che certe persone fossero diventate ombre del passato. E adesso che ritornano non sono sicuro di essere preparato. Ho bisogno di te, comandante. Il Togliatti si passa la mano sulla guancia rugosa, la fa scivolare sul collo, la usa come puntello. – Sono stanco, Andrea: sempre più stanco. Sono arrivato a non più di dodici ore tra una puntura e l’altra, e sto lottando per evitare di aumentare la morfina. Dovrai sbrigartela da solo: devi farlo, bona lè! Io posso solo consigliarti. Annuisce, il soldato di brigata Andrea Vannini: non c’è scelta. Il Togliatti ascolta il racconto di quello che Andrea è riuscito a mettere insieme: non c’è molto su cui lavorare, lo pensa anche lui. E soprattutto, non c’è tempo: è evidente che hanno fretta, dice il Togliatti, la morte del Cioccolata lo dimostra. Questi sono i fatti, dice Andrea. Questi sono i fatti, dice il Togliatti, va bene: e le tue famose intuizioni dove sono? Andrea prende dalla tasca un foglietto scritto a matita: sono qui, Togliatti. Prima intuizione: Medjugorje. Il Togliatti bestemmia. – I preti di Medjugorje: fascisti croati mascherati da baciapile. Hanno menato per il naso anche il Papa, questi qui. Con la loro Madonna piangente finanziavano le armate croate durante la guerra. Li hanno buttati fuori dai francescani, ma loro continuano. Quella cassa di madonnine e santini me pias brîsa, Andrea. – Infatti. Ma c’è qualcosa di più grosso in viaggio, da qualche parte dell’Adriatico. Però a pensar male di Medjugorje ci avevo pensato anch’io. – E dopo la Madonna che piange sangue? – Ho sentito un vecchio compagno di Taranto, uno che stava in una rete: non uno dei nostri, ma uno bravo. Perché anche Taranto mi suona male, Togliatti. C’era una base Gladio a Taranto, no? Quelli di piazza Fontana ci sono passati subito dopo il botto, è stato proprio quel compagno a dircelo. E c’è passato Concutelli, c’è passato quell’altro, il Tuti, che aveva ancora la moto targata ta quando l’hanno preso, c’erano Fioravanti e i suoi mentre li cercavano in Riviera… Ci sono passati persino dei malavitosi amici dei neri, da Taranto: a te cosa fa venire in mente tutto questo? Il Togliatti ci pensa su: c’è una nave, c’è qualcosa che è andato storto, c’è Ravenna che non va più bene… C’è che io quella nave, al posto loro, la imboscherei in un posto sicuro, se qualcosa mi rovina i piani. E se ho bisogno di un posto sicuro… Appunto, lo interrompe Andrea: se Taranto fosse ancora un porto affidabile, per questa gente? Il Togliatti guarda Andrea. Andrea guarda il Togliatti. Dovresti far fare qualche controllo dalla questura di Taranto, già che puoi, dice il Togliatti. Non posso più, dice Andrea: da stamattina non posso più. Cos’è questa storia?, chiede il Togliatti. La mia terza intuizione, risponde Andrea. Bologna, via Santo Stefano, ore 22.20. Due volanti della polizia, ovviamente a sirene spiegate: metti mai che ci sia per davvero un ladro in un appartamento vuoto, vuoi che pensi che la sirena è per lui? Comunque il signor Malagutti sembrava agitatissimo, capirai, solo in casa e sente del frastuono dall’appartamento vuoto. Dev’essere lo stesso colonnello in pensione che ha sentito l’odore del gas che riempiva la tromba delle scale e ha chiamato l’azienda del gas: devo staccare la luce, l’ascensore, cosa devo fare, io resto qui ligio al dovere come sempre, stia calmo e non faccia altro, arriviamo subito, hanno risposto, vediamo di muoverci, che questo vecchio rincoglionito ci combina un casino se lo lasciamo fare. Così poliziotti e tecnici del gas si incontrano davanti al portone, si fanno aprire dal primo inquilino che risponde e cominciano a chiedere dove diamine sta questo colonnello Malagutti.Colonnello Malagutti? Guardi, a me non risulta, però non vorrei dire, ecco, allora non dica, ma per la miseria, ci sarà modo di sapere se esiste un colonnello Malagutti, qui nessuno ha sentito niente… Mi scusi, cosa sta succedendo?, chiede il giovane con la giacca che scende le scale, verrà dall’ultimo piano, sì, infatti, mi sono trasferito lo scorso mese, tu guarda, non mi ero accorto di niente, colpa mia, signora, avrei dovuto farmi vedere, magari adesso va a pensar male, no, si figuri, allora se permette ho il taxi che mi aspetta qui sotto, buonasera e buon lavoro, agente, buonasera anche a lei, a proposito conosce un colonnello Malagutti? No, come le dicevo sono qui da poco, comunque io non sento odor di gas né rumori, infatti, è ben quello, però, buonasera di nuovo, buonasera. Ferodo apre il portone e si infila nel Genova 12 che lo aspetta in strada. Dall’interno si guarda intorno: non gli sembra di vedere facce strane in strada, ma non si può mai dire. Il taxi parte. Ferodo ha bisogno di pensare. Baricella (Bologna), trattoria Venturoli, ore 22. – Non è una cosa da poco quello che hanno fatto, Andrea. Roba raffinata, che sa di vecchio: come al commissario Juliano, quello di Padova che aveva capito tutto già nel ’69. Ti hanno confezionato un bel pacchetto: vuol dire che stai lavorando nella giusta direzione. – Già: però non so qual è, questa direzione. – E ora? Qual è il prossimo passo? – Tu che faresti, comandante? – Io andrei a controllare se quella nave è arrivata. Poi che c’hai da fare: sei in ferie, no? Andrea annuisce: sì, sono in ferie. Ma non si alza. – Cos’altro c’è? – chiede il Togliatti. – Dimmi una cosa, comandante: ma tu hai mai avuto una donna? Una fissa, voglio dire, una che ti aspettava, che sopportava la vita che facevi? Di’, ce l’hai mai avuta? Si gratta dietro la testa, il Togliatti: chiaro che prende tempo. Massì, risponde: ne ho avuta una. Anzi, due: di quelle che sono durate, voglio dire. Ma non è che fosse facile starmi appresso: lo sai che vita ho fatto. Andrea si alza: non voleva sapere altro. – Allora? – chiede il Togliatti alzandosi. – Cosa fai? – Faccio che vado a vedere se quella nave è arrivata. Tanto sono in ferie, no? Heaven There was a guy an underwater guy who controlled the sea got killed by ten million pound of sludge from New York and New Jersey… Lascio il Vespino a terra ricomincio a correre. Non servirà a molto. Arrivano. Sono morto. No. Posso ancora farcela. Basta trovare un portone in cui infilarmi. Se ne trovo uno sono vivo. Dev’essercene uno. Dev’esserci qualcuno che rientra a casa e apre il portone del palazzo. Per forza. Devo avvisare Andrea. Dopo di me uccideranno Andrea. Devo impedirglielo. La milza riprende a battere. Non fa male. Devo ripetermelo: non fa male non fa male. Devo salvare Andrea. Devo salvare me. Devo capire perché io sì e Ferodo no. Devo farcela. Posso farcela. Posso. Devo tirare il fiato. Non è vero che arrivano. Non li vedo più. Respiro. Troppo rapido. Rallentare il respiro appoggiato al muro sotto il portico. C’è troppa luce. Tutti i lampioni accesi: luce. Riescono a vedermi. Nessuno in strada. Neanche loro. Due cimici: diceva proprio così. Gli abbiamo messo due cimici. Una addosso e una nel letto. Due cimici. Perché Ferodo no? Non posso stare fermo. Devo riprendere a correre. Rumore. Motore di moto. Non li vedo. Perché non li vedo? Correre. Devo correre. La milza ricomincia. Non riesco. Ho il cellulare scarico. Non posso avvertire Andrea. È Andrea che cercano. Cosa sa Andrea? Cosa sa Ferodo? Cosa so io? Non fa male. Non fa male non fa male non fa male non fa male non fa male. Non ce la faccio. Il cellulare. Ho il cellulare scarico. Il cellulare scarico. Ecco perché. Ecco perché non arrivano a Ferodo. Gli abbiamo messo due cimici. Gli abbiamo messo. Gli abbiamo. La cimice nel letto. Ecco perché! Sento il rumore. Dove sono? Non riconosco questa strada. Meno lampioni. Non li vedo. Perché non li vedo? Sto cadendo. Sono inciampato? Cado. Mi rialzo. C’è qualcuno là in fondo. Forse apre un portone. Gli corro incontro. Lo conosco. Lo guardo in faccia. Un barbone che conosco: Pantera. Cosa ci fa qui? Ha cambiato zona: ecco perché non lo vedevo più. Sono anni che non vedo Pantera. Mi guarda. Lo sa anche lui. Me lo dice. Ha la chiave. Come ho fatto a non arrivarci? Mi viene da ridere. Ho capito. Ho capito la cimice. Non li vedo. Non sento più il motore. Sono andati via. Sono salvo. Sto bene. Mi sento bene. Ha ragione Pantera. Non sono stato io a essere tradito. Sto bene. La milza non fa più male. Sto bene. Sono vivo. If man is 5 if man is 5 if man is 5 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 then the devil is 6 and if the devil is 6 then god is 7 then god is 7 then god is 7...