11 INCIQUID C copyright NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE le storie liberate da iQuindici INCIQUID 12 # ott 2007 iQuindici: cinque anni di letture! Dodicesimo numero di INCIQUID, per festeggiare 5 anni di intensa attività di lettura! Lo apriamo con un ricordo di Ernesto Che Guevara, di cui ricorre tra poco l'anniversario della morte per mano della CIA. Per commemorarlo abbiamo scelto, tra le tante belle parole che sono state scritte, quelle di Italo Calvino, che ci sembrano le più intense e le più vicine al nostro sentire: Qualsiasi cosa cerchi di scrivere Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono. Sento la sua risata che mi risponde, piena d'ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell'Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d'un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d'una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sé e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori. Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l'avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze. In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. È una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l'estremo rigore della sua lezione. La "linea del Che" esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la "linea del Che" vuol dire ­ una trasformazione radicale non solo della società ma della "natura umana", a cominciare da noi stessi ­ e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica. La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz'abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allagarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d'invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell'Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione. Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione. Italo Calvino, ottobre 1967 Tornando a noi, cinque anni di attività sono davvero tanti! Abbiamo dato un minimo di due pareri di lettura a circa 700 manoscritti, che non sono pochi, ma ce ne restano ancora circa 400, molti dei quali in attesa da un paio d'anni. Se da un lato siamo felici di avere ottenuto una così larga fiducia dai nostri lettori/scrittori, siamo però ovviamente dispiaciuti che sia stato impossibile leggere tutto in tempi più rapidi... Purtroppo (e per fortuna), intorno a maggio- giugno 2004, abbiamo avuto un'impennata di invii dovuta a una serie di articoli usciti su stampa e web "di peso" (Venerdì di Repubblica, Panorama, Repubblica online etc.) che ci hanno dato un'improvvisa notorietà. A questo si è aggiunta la lenta ma continua conoscenza di noi che i lettori/scrittori hanno avuto dai romanzi che abbiamo portato a pubblicazione. È tutto molto bello, ovviamente, anche se lo sarà ancora di più quando avremo smaltito l'arretrato e potremo quindi tornare ai nostri tempi di risposta iniziali, che erano di uno-due mesi. Il nostro obbiettivo è raggiungere il pareggio di letture entro 12 mesi. Ce la stiamo mettendo tutta! È diventato sempre più difficile poi portare a pubblicazione i romanzi promossi su INCIQUID. Dopo un periodo in cui l'editoria pareva essere più ricettiva a nuove proposte, sembra ora che il mercato sia decisamente più cauto, quasi fermo, e persino romanzi che noi sappiamo essere veramente buoni non riescono a trovare carta. È un vero peccato, non solo per gli autori, o per noi, ma per l'editoria italiana, che in questo modo perde grandi occasioni, mentre i frequentatori di librerie si continuano a lamentare che le nuove proposte letterarie che si trovano in giro non sono granché. Peccato, speriamo che la situazione migliori. Ma vieniamo a questo numero 12 di INCIQUID: ve l'abbiamo fatto sospirare, è vero... il problema della lunga attesa è che mentre abbiamo una buona scelta di materiale per quanto riguarda i romanzi (e infatti anche su questo numero ve ne proponiamo 3), sui racconti la scelta è più complessa... Purtroppo scrivere un buon racconto sembra essere più difficile che scrivere un bel romanzo, cosa che dispiace considerando che abbiamo esempi eccelsi nella nostra letteratura, come Buzzati e Pirandello, tanto per toccare gli estremi geografici della Penisola. Piuttosto che scegliere qualcosa di non bello, quindi, abbiamo preferito aspettare e trovare cose che valessero davvero la pena, come i due racconti che vi proponiamo questa volta. "La galleria", di Andrea Gianinazzi, ci ha conquistati per la sua atmosfera claustrofobica ma al contempo struggente, mentre "Pedro Acevedo e il gioco delle carte" di Emanuele Di Giacomo è una novella che si impone per la bellezza delle sue ambientazioni sudamericane, con un finale inatteso. Chiudiamo poi con questo numero la sezione "romanzo a puntate" iniziata nei numeri 10 e 11 con la testimonianza-memoir di Redento Castaldo. La sua "Autobiografia napoletana" conclude qui la sua ricca e densa storia, e sarà presto disponibile nella nostra biblioteca in un file unico. Sarebbe bello INCIQUID 12 # ott 2007 che qualche editore scegliesse di pubblicarla, come pezzo fondamentale della nostra memoria collettiva. Per i romanzi, anche questa volta è stato davvero difficile scegliere cosa lasciare, e alla fine abbiamo deciso di dare spazio a tre proposte, molto diverse tra loro. La prima ci viene da Yari Selvetella, un giovane autore che ha già pubblicato con successo alcuni libri, tra cui due dedicati alle narrazioni di cronaca nera romana (il più famoso "Roma criminale", scritto a quattro mano con Cristiamo Armati, ha venduto oltre trentamila copie). Ci fa piacere che un giovane autore già affermato abbia scelto di mettersi comunque in gioco mandando i suoi manoscritti a iQuindici! "Bel colpo, Cappelli!" è uno splendido romanzo, come leggerete nella presentazione. Altrettanto bello "D.A.M.", un romanzo uscito dalla sapiente penna di Mirco Cittadini che ci fa tuffare in un gaymondo inedito, zuccheroso e avvincente come non mai. Una proposta inedita dal nostro gruppo, che speriamo abbia il seguito che merita. Concludiamo in bellezza con un genere che amiamo da sempre, anche perché è anche quello che ci ha dato fortuna dall'inizio della nostra storia quindicina: il noir/giallo, di ambientazione emiliana. Torniamo alle nostre origini, dunque, per un lavoro a cui non manca davvero nessuno degli ingredienti giusti per tenervi incollati dalla prima all'ultima pagina: "Giallobolognese" di Patrizia Marzocchi scende meglio di un caffé, su questo non c'è dubbio! Buona lettura a tutti iQuindici I contenuti di questa pubblicazione non hanno carattere di periodicità. La partecipazione allo sviluppo dei suoi contenuti, l'inserimento di notizie od iniziative avviene in maniera spontanea dalle persone iscritte al sito www. iquindici.org. Si precisa inoltre che iQuindici non ricevono alcun compenso per le notizie qui pubblicate. Pertanto la presente non puo' essere considerata `prodotto editoriale' ex L.62/2001. L'attività dei partecipanti avviene per adesione e nessuno ha la possibilità di vietare ad alcuno l'espressione delle proprie opinioni e delle proprie idee. L'unico responsabile circa la veridicità, la correttezza ed ogni altra conseguenza derivante dalle idee, dalle opinioni espresse e dalle iniziative proposte è l'autore del singolo intervento o dell'inserimento della notizia o della proposta. L'inserimento delle opere dell'ingegno presenti in questa rivista e della loro comunicazione al pubblico è in ogni caso subordinata all'autorizzazione dell'autore e/o dei legittimi titolari dei diritti di utilizzazione economica protetti ai sensi della vigente disciplina in materia di diritto d'autore. 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INCIQUID 12 # ott 2007 Racconti Pedro Acevedo e il gioco delle carte di Emanuele Di Giacomo...............7 La galleria di Andrea Gianinazzi.................................................................44 Romanzi (incipit) Bel colpo, Capelli di Yari Selvetella..........................................................58 D.A.M. di Mirco Cittadini.............................................................................62 Giallo Bolognese di Patrizia Marzocchi....................................................68 Romanzo a puntate Autobiografia napoletana (ultima parte) di Redento Castaldo...............72 INCIQUID 12 # ott 2007 7 Pedro Acevedo e il gioco delle carte di Emanuele Di Giacomo Trovate un paio d'ore, spegnete il telefono e mettetevi comodi: state per entrare in un mondo fatto di bettole malfamate, partite di poker e alcolici dal nome esotico. Un mondo che ha il profumo del caffè, preparato con ritualità dagli italiani emigrati in sud America. Pedro occhi chiari e sicurezza è l'eroe di questo mondo. Lui sa affrontare la vita con un sorriso a trentadue denti e un coltello in tasca. Non chiede niente di meglio che bere, scopare e fumare sigarette costose. Mettetevi comodi, dicevamo, e godetevi la poesia, l'avventura e la pittoresca umanità di queste pagine. Perché non durerà a lungo. Sullo spot del rhum di Caracas sta per piombare una tragedia, un dramma immane. Vi coglierà inermi e impreparati, come i personaggi del racconto. Comodamente seduti su una poltrona. Ma qualcuno avrà la prontezza di reagire. Indovinate chi. Emanuele Di Giacomo riesce a fondere storia e finzione, reale e onirico. Il suo stile di scrittura ha il fascino e la magia dei grandi romanzi sudamericani: calibrato, efficace, poetico senza essere stucchevole, privo di facili intimismi, ma sempre e comunque lucido. In questo racconto la Storia diventa Mito, e trova un posto adeguato nella memoria. [capitolo uno] Quella fu l'ultima volta che lo vidi. E lui se ne uscì con quella storia del caffè. Aveva sempre la capacità di tirar fuori cazzate nel momento meno adatto e quello senza dubbio non era un momento adatto. Avevo dormito tre ore quella notte, il gin che avevo in corpo mi dava allo stomaco. Nessuno di noi due era lucido. Lui stava peggio di me, parlava a fatica. - Che giorno è oggi? - mi chiese. - E' il venticinque di settembre. Teneva le braccia sotto il tavolo e la testa bassa. Si spostò un poco di lato e tossì con un'espressione sofferente. E poi quella storia del caffè. [capitolo due] Quello che mi dispiace, mi disse, è che nessuno sappia preparare un caffè decente. Io pensai che doveva essere andato del tutto, che diavolo stai dicendo, Pedro?, tu non bevi caffè; cercai di essere gentile, quello che mi dispiace, mi disse di nuovo mentre teneva gli occhi bassi e aveva perso quella gran sicurezza, perché era occhi chiari e sicurezza, lui, nient'altro, quello che mi dispiace è che non sappiano preparare un caffè. Tu non mi conosci, mi disse, il caffè lo prendo anche se mi fa schifo, ogni tanto, per nostalgia, nostalgia di mia madre che era mezza argentina e tu lo sai, non c'è un argentino che non abbia un parente spagnolo o italiano, per nostalgia. Mia nonna veniva da un paese del sud dell'Italia, come si chiama neanche lo so, diceva madonnamìa e gesummìo e preparava il caffè; per lei era come una religione, un rito, se lo faceva spedire dagli altri italiani, sempre lì a sgranare rosari in quei pomeriggi caldi come un cofano di furgone, fra le cipolle e i peperoncini, si metteva lì e se lo macinava, il suo caffè, e lo metteva in un barattolo di latta che mi pareva d'argento, mi spiegava non deve prendere aria, e poi chiudeva il barattolo. Quello che mi dispiace, mi disse, ricordo che lei mi accarezzava la testa e mi parlava col suo accento italiano, ci sono due segreti per fare il caffè, figliomìo, il primo segreto è sciacquare la macchina con l'acqua e basta, non come fanno gli argentini che mettono tutto insieme agli altri piatti col sapone, che non ci capiscono niente, mentre lei la metteva a bollire solo con l'acqua, quello che mi dispiace, mi disse, e poi il secondo segreto, figliomìo, è che non lo devi pigiare il caffè, devi fare una montagnola sopra il filtro, né grossa né piccola, ci si dedicava con cura, metteva le dita intorno e riempiva col cucchiaino, faceva la sua montagnola e poi mi rivelava il terzo segreto, perché c'era un terzo segreto ma non lo diceva a nessuno, il terzo segreto, figliomìo, è usare solo il caffè che viene dall'italia. Fece una pausa. Lo preparava tutte le mattine, mia nonna e i suoi chicchi scuri sul tavolo della cucina, sai quel caffè nero nero che preparano gli italiani? Mi parevano tanti scarafaggi piccoli piccoli, quello che mi dispiace, ripeteva e non mi guardava, mentre teneva le mani sotto il tavolo e il mento incollato sul petto, quello che mi dispiace. Io pensavo che ancora ci fosse un posto per la speranza, lui continuava, la mattina presto metteva su la caffettiera e riempiva l'aria con quel profumo e io mi svegliavo con quel profumo nel naso e pensavo questo è l'odore di mia nonna, e adesso è l'odore della mia nostalgia, quello che mi dispiace è che morì che avevo sei anni, il caffè non piaceva a nessuno a casa, nessuno lo preparò più. Io lo guardavo e pensavo che ci fossero ancora molte parole da dire, me lo ricordo ancora, e adesso mi dispiace, diceva, è l'unico ricordo che ho di lei, il suo profumo di caffè e la sua gonna pesante di panno scuro, per certe cose sono un sentimentale, te l'ho detto, e in questo paese nessuno sa fare un caffè. Era tutto falso, tutto mi sembrava una gran puttanata, ma non me la sentivo di smentirlo, nascondeva sotto al tavolo le mani e diceva mi dispiace, non mi guardava in faccia, forse neanche mi vedeva, io pensavo siamo ancora gli stessi ma aveva la voce stanca, affannata, non sapevo neanche quanto fosse lucido, stai pensando che è tutta una puttanata, disse, mi dispiace, INCIQUID 12 # ott 2007 non è vero, gridai, ma era quello che pensavo, lascia stare lo so, tu non credi a questa storia di mia nonna e del caffè, non credi che se lo facesse spedire apposta dall'Italia, non credi a niente eppure ti giuro è così, te lo giuro sulla tomba di mia madre, tu non li conosci gli italiani, sono un popolo strano, sono tutti cugini fra di loro, hanno questo concetto della famiglia, si scrivevano, caro fratello, visto che parte il cugino Antonio mi raccomando che portasse quattro pacchi di caffè per Don Manuèl, e per sua sorella Carmela, si chiamava così, Carmela, ti giuro che è vero, ora è soltanto nostalgia, faceva uno dei più buoni caffè del mondo, che io neanche l'ho mai assaggiato perché avevo cinque sei anni, il caffè fa male ai ragazzini come te, mi dicevano, però ho sentito il profumo e ti giuro quello era il più buon profumo che ho mai annusato da qui a Buenos Aires. Fuori batteva quella dannata campana. L'avevo sentito giurare il falso sulla tomba della madre troppe volte ma adesso non me ne fregava più niente, vederlo mi faceva male allo stomaco, stavo per vomitare e non me lo potevo permettere, non vomitare, continuavo a ripetermi, non vomitare o è la fine, non vomitare, non ti credo Pedro, non vomitare, non ci posso credere, non vomitare, va bene ti credo Pedro, non vomitare, ti credo basta che smetti con questa storia, io pensavo avessimo ancora cose importanti da dirci, abbiamo cose importanti da dirci, abbiamo parole ancora, lui non alzò lo sguardo, non vomitare, non vedevo i suoi due occhi celesti, estranei a tutto, quegli occhi, non vomitare adesso, quelli occhi da figlio di puttana con cui bluffava al Mojito e mi ci pagava da bere, quegli occhi, qualsiasi cosa volessi al banco del Mojito purché aspettassi fuori, che non ero capace io, non c'ero tagliato per il gioco delle carte, mi eccitavo, sudavo, si capiva subito, e lui invece quegli occhi. Perché sei un bravo ragazzo, mi diceva. E dimentichi il primo comandamento del bravo giocatore: gioca come se non te ne fregasse niente, io quel comandamento non riuscivo a ficcarmelo in testa, e lui rideva, perché non ti sei mai giocato la vita, fratello mio, o impari a bluffare o ti ritrovi un foro di coltello a scucirti la pelle, e fa male, e nel mentre si accarezzava la cicatrice sul braccio e mi guardava con quegli occhi, quegli occhi di cui adesso ho nostalgia. Quegli occhi. Io ci potevo credere a quella storia del caffè, dopotutto, ci credevo davvero, avevamo parole ancora e adesso è solo nostalgia, come un buco di forbici sopra una rivista, pensi che sia tutta una puttanata, questo, e invece è importante, credimi, poi si scostò dal tavolo e tossì, sputando per terra, è una storia di nostalgia, mi disse, lasciò sul pavimento una macchia rossa di catarro e sangue, e allora lo vidi, allora vidi le mani e sentii il gin che ritornava su. Corsi fuori e vomitai in un angolo del cortile. INCIQUID 12 # ott 2007 10 [capitolo tre] Il gioco delle carte era solo uno dei modi in cui Pedro si procurava i soldi per campare. L'avevo conosciuto dodici anni prima e un lavoro onesto non l'avrà mantenuto per più di due mesi, potrei scommetterci. Le carte in realtà non erano tra i suoi passatempi preferiti, però erano uno di quelli che gli permettevano di alzare più grano e per questo le praticava di più. A lui piacevano il backgammon e tutti gli altri giochi di dadi. Ma con loro ci vuole passione, diceva, è difficile bluffare coi dadi. Ci vuole un corteggiamento lungo, te li devi fare amici, devi imparare come vogliono girare sul tavolo, come soffiare dentro il palmo della mano per farli girare. Era capace di tenerti un pomeriggio intero a parlare di dadi. Ci credeva davvero nelle sue superstizioni ed il guaio era che con lui funzionavano davvero. Agguantava quei dannati cubetti di legno e li metteva dentro il suo bicchiere di cuoio, parlava e soffiava. E dopo un po' che ci parlava cominciava a vincere. E' una questione di affiatamento, diceva, tra te e il dado. Per lui erano una passione, una vera passione. Le carte invece le reputava noiose, bisognava mandare a mente i punti e tutto il resto. Giocava al poker, ad altri giochi d'azzardo, ma quasi mai a qualcosa in cui bisognasse ricordare scarti e robe del genere. Si annoiava. Per il resto faceva i lavori che aveva imparato dal padre. In realtà non amava raccontare della famiglia, ma fra tutte le storie che sparava ogni tanto veniva fuori qualcosa di lui e alla fine potevo dire di conoscerlo bene. Prima di arrivare in città era vissuto a Buenos Aires. Il padre faceva il contrabbando sul Rio della Plata, dormivano un mese in Argentina e un mese in Uruguay, a seconda di dove la polizia fosse meno scatenata. Della famiglia della madre invece non ho mai saputo molto, non ne parlava, ma anche loro dovevano avere i loro traffici. Don Manuèl in particolare, uno zio materno a cui sembrava molto affezionato, doveva essere uno che aveva le mani in pasta, gli altri italiani lo rispettavano, questo diceva sempre Pedro. Vivevano dalle parti di Buenos Aires ed erano una famiglia rispettata. Io ci misi del tempo a capire la differenza tra rispettata e rispettabile. Il secondo comandamento del giocatore è: intuire l'avversario. Questo diceva Pedro. Devi capire quando sta bluffando lui e soprattutto devi capire se verrà o no al tuo bluff. Certi polli è difficile fregarli, vengono a vederti sempre. A volte è meglio un professionista, è più divertente. Comunque l'importante è rispettare il primo comandamento, sempre. Continuava a darmi lezioni su come deve comportarsi un bravo giocatore d'azzardo ma non avrei mai imparato. La madre morì quando lui aveva sedici anni o giù di lì, mi pare di polmonite, se la portò via in un paio di settimane. La nonna aveva circondato il letto di corone d'aglio, ma era stato INCIQUID 12 # ott 2007 11 tutto inutile. Penso fosse l'unica donna che Pedro avesse amato veramente. A quel punto il padre decise di rimpatriare. Così, quando lo incontrai, aveva una valigia piena di storie su Buenos Aires, Montevideo, contrabbandieri e sesso. Soprattutto sesso. Quello che serviva a far innamorare un ragazzino come me. Devo ammetterlo, all'inizio ero proprio cotto di lui: avevo quindici anni, poche esperienze e molta voglia di imparare. La cosa più rivoluzionaria che avessi fatto era fumare di nascosto e rubare un po' di frutta sui banchi del mercato. Lui già fumava e beveva come un adulto, mi parlava di come bluffare a carte e corteggiare i dadi. E le donne. Pedro ci ha sempre saputo fare con le donne. Già allora era sicurezza e occhi chiari, nient'altro. Bisogna affrontare la vita con un sorriso a trentadue denti, diceva, e un coltello in tasca. Il coltello serve per farti venir voglia di sorridere. Della sua famiglia il padre è l'unica persona che abbia conosciuto, sputato al figlio, solo con gli occhi neri come il catrame, e un po' più basso e robusto. E più Pedro cresceva, più gli somigliava. La rispettata famiglia della madre non venne mai a fargli visita dall'Argentina, non doveva correre buon sangue tra loro. [capitolo quattro] I miei non erano contenti che lo frequentassi. Mio padre era un militare, leggeva El Mercurio e giocava a scacchi nello studio. La sua unica preoccupazione era che fossimo una famiglia rispettabile. Pedro invece era un farabutto, un farabutto pieno di occhi chiari e sicurezza, da sempre. Perfino quando l'avevo visto la settimana prima di quell'ultima volta, nonostante tutto il casino che fosse già successo, la sicurezza e quei suoi occhi chiari non lo avevano ancora abbandonato. Parlava come se stesse al tavolo del Mojito con me e col vecchio Juan Pablo. Parlava come se non fosse successo niente. Mi chiese una sigaretta, la prese e fece uno dei suoi commenti sarcastici. - Continui a fumare porcherie, te lo avrò detto mille volte, così non va per niente bene. A volte sapeva essere frustrante. - Lascia stare la sigaretta e ringrazia che te ne offro una. Come stai? Allora sfoderò i suoi trentadue denti gialli. - Benone fratello, smettila di preoccuparti. Benone per lui era meno di bene. Aveva una sua scala speciale di stati d'animo: Pedro poteva stare bene, benone e alla grande, diminuendo di felicità. Quando stava alla grande di solito doveva tirarsi fuori da qualche pasticcio in cui si era cacciato. Gli accesi la sigaretta, iniziò a fumare lentamente. Mi sputava il fumo in faccia e mi guardava ridendo. Ma porco mondo, pensavo, possibile che se non era preoccupato lui dovevo esserlo io al suo posto?! Mi innervosiva, non si rendeva conto della situazione, come al solito. Continuava a dire stai calmo e non preoccuparti. Mi mandava in bestia e lo sapeva, quasi lo INCIQUID 12 # ott 2007 12 faceva apposta. Era il suo modo di tranquillizzarmi. Ed era un modo che non funzionava. - Non preoccuparti, altrimenti i comandamenti del giocatore di carte non li imparerai mai. Tu non ci sei abituato, lo capisco. Ma fidati, il segreto è rimanere calmi. Mi sono già trovato in situazioni del genere. Sembrava proprio che lo facesse apposta. - Pedro, lo capisci che questa non è una situazione del genere? E'un cazzo di casino più grande di te e di me! Non lo capisci che rischi grosso? Possibile che non riesci a ficcartelo in testa?! - Lascia che ti racconti una storia. Pedro e le sue storie. [capitolo cinque] Racconta, Pedro, non potevo che arrendermi, racconta le tue storie; lui raccontava con quegli occhi da figlio di puttana e ti arrendevi, ti ho spiegato perché non bisogna fumare queste schifezze? almeno un miliardo di volte, Pedro. Una volta, avrò avuto quindici anni, forse anche meno, a Montevideo, io mio padre e un altro paio di amici suoi, El Chino e Mr Mexico, dicevano che avremmo trovato un bel po' di merce facile, era un periodo che il lavoro non ingranava e bisognava spostarsi, bisognava farsi scivolare la terra sotto i piedi, se non ti muovi sei morto, diceva mio padre; devi smettere di fumare queste sigarette, amico mio, quella volta c'era uno che lavorava in un grosso magazzino, si trattava di caricare un camion in fretta e poi sparire, si trattava di trovare un camion e partire per Montevideo. Usava la parola trovare, Pedro, per i suoi lavori, lui e il padre trovavano le cose, noi siamo due trovarobe, e rideva, così trovammo il camion, era un inferno di viaggio, sai, quel camion era un ferro vecchio e dietro ballava tutto, dopo un paio d'ore le cominci a sentire tutte sul culo, le buche; fermati Pedro, poi entrammo in una bettola per aspettare la notte, poteva andare avanti per giorni, fermati, che successe quella notte, Pedro? Taglia corto, e invece lui rideva, non successe niente, non è questo che ti volevo raccontare, mi disse. Fu prima, nella bettola. Ce ne stavamo lì ad aspettare la notte, mio padre e gli altri si presero una bottiglia, a me davano solo un paio di bicchieri, mi dicevano marmocchio, hai tredici anni e già credi di essere un uomo?, solo un altro bicchiere; e c'era un tizio lì dentro, un vecchio di quelli curvi e ruvidi dalle mani alla faccia e la faccia rossa e grassa, con la barba di fuoco, aveva una cartellina con tutti fogli sgualciti, da lì ne tira fuori uno e comincia a disegnare con la matita, aveva gli occhi pieni di vene, malati, io pensavo neanche ci vedrà quel vecchio rugoso, allora mi avvicino per curiosare e pure se era mezzo cieco disegnava da dio, non che non ne avessi mai vista gente che viveva di INCIQUID 12 # ott 2007 13 matita, le strade sono piene di tipi che si fanno pagare per farti un ritratto, te ne stai lì una mezz'oretta e ti fanno un bel ritratto da portarti a casa, lo metti dentro una cornice, tu sei contento, loro hanno preso i tuoi soldi, è un lavoro, un modo per guadagnarsi da vivere, e invece lui era bravo, non ci vedo niente di strano, Pedro, non c'è niente di strano. Però vedi, se fai questo lavoro e ti capita uno con una faccia che non ti piace, uno con una faccia da figlio di puttana come la mia, non è che gli puoi dire, scusami, amico, ma io il ritratto ad uno con la faccia come la tua non lo voglio fare. Capisci? Ci devi campare, e il bello di questo vecchio è che invece era bravo, e non disegnava per lavoro, prese il foglio e si mise a fare schizzi di certi che stavano a un tavolo, senza dire niente, neanche se ne accorsero quelli ed io non lo so, erano ubriachi, io non lo so se a un figlio di puttana come me lo avrebbe fatto un ritratto, ridevano a voce alta e battevano i pugni sul tavolo, ma sono sicuro che se lo avesse fatto era perché ne aveva voglia, disegnava tre volte meglio degli altri, avrebbe potuto tirarci su una bella cifra coi disegni, e invece non lo faceva per mestiere ed era bravo, e io pensavo che ne sai, Pedro, che non fosse lì di passaggio, lo so, non lo faceva per mestiere, si vedeva e poi aveva le mani grosse come la mia testa, mani ruvide e spaccate di contadino, di carpentiere, di minatore, non di chi passa i giorni a disegnare per strada, no, non uno come lui, non era un pittore, te lo giuro sulla tomba di mia madre, disegnava per disegnare, e basta, e alla fine ha preso quel foglio e sai cosa ha fatto alla fine? Non lo so, e intanto lui rideva, sai cosa ha fatto? Non lo so, dimmelo te, Pedro, io non lo so, alla fine me l'ha regalato, si è scolato un altro bicchiere di vino e se ne è andato. Pedro e le sue storie. Dovrei scoprirci un senso? Dimmelo Pedro, perché io non lo so, ho sempre pensato di doverci trovare un senso nelle storie, che tutto avesse un significato profondo, e intanto rideva, allora ci credevo ancora alle storie, allora sì, lascia stare, e rideva, tu sei fissato con questa storia del senso, no, non c'è un senso, non c'è nessun diavolo di senso. Era una storia che mi piaceva raccontare e basta, perché voi nelle storie dovete sempre andare a cercarci un senso? Ma tu pensi che la tua vita abbia un senso? Le storie, il mondo, le vite delle persone la maggior parte delle volte non significano un cazzo. Il significato è solo un caso. Si raccontano storie perché è bello raccontarle, e questa era una bella storia. Sì. E' una bella storia. [capitolo sei] Era di martedì, saranno state più o meno le nove. Io ero al lavoro e stavo riparando una vecchia e maledetta radio. Era di un signore alto e calvo che INCIQUID 12 # ott 2007 14 aveva insistito perché gliela mettessi a posto. Non ne valeva la pena, io gli avevo consigliato di comprarne una nuova ma il vecchio aveva insistito perché aggiustassi quella. Era affezionato a quell'arnese, per trovare i pezzi di ricambio mi ci erano volute più di due settimane. Era una di quelle grosse radio di legno chiaro, anni trenta, con le manopole scure e in alto gli intagli che formavano una specie di fiore, e dietro la rete che copriva l'altoparlante. L'accesi per vedere se la mia riparazione fosse andata a buon fine. Funzionava. Sentii tutto il comunicato di radio Magallanes e fu così che seppi quello che era successo. Al negozio c'ero solo io. Abbassai la serranda di fretta e me ne corsi a casa. [capitolo sette] Diceva che lavorava per conoscere le donne, e forse era vero; come quella volta che arrivò con un portafogli appena "trovato", secondo la sua versione dei fatti. Mi faceva incazzare quella storia del trovare, la consideravo una cosa ipocrita. Non è ipocrita, precisava lui, io cerco dentro le tasche della gente, e prendo quello che trovo. Quello in particolare l'aveva trovato dentro un cappotto marrone. Da lì dentro tirò fuori la piccola foto di una bella bimba. Insisteva che fosse la più bella faccina che avesse mai visto e che dovevo aiutarlo, prestandogli la casa. In realtà non voleva che lo beccasse Rebeca. Rebeca è una gran donna, capirebbe. Era vero, ma non lo so se avrebbe capito. Allora io avevo più o meno vent'anni e vivevo ancora con i miei, da mio padre avevo preso così tante legnate per quella storia di Pedro che alla fine si era arreso. Non tollerava, ma davanti alla mia cocciutaggine faceva finta di non sapere che continuassimo a vederci. Mio padre e mia madre spesso se ne andavano al mare a prendere un po' d'aria buona. Pedro prontamente se ne approfittava, lui abitava in una specie di soffitta ammobiliata ed ogni tanto passava da quelle parti Rebeca, che era più o meno la sua ragazza. A dire il vero ragazza era una parola grossa per due come loro. Lei era veramente una gran donna, forse la più simpatica fra le sue tante donne, ma aveva il brutto vizio di presentarsi a casa sua senza preavviso. Beh, diciamo che Pedro non era molto fedele e questo gli causava qualche problema, perché ci teneva ad essere galante con le donne. Le tradiva, ma con discrezione. Così quella sera lui si scopava la ragazzina della foto a casa mia e io mi scolavo la mezza bottiglia di pisco sour che mi aveva lasciata pagata al Mojito. Certi giorni invece facevamo finta di essere due fratelli e ce la spassavamo, se riuscivamo a rimorchiarne un paio. Qualcuna tornava pure a cercare di noi a casa ma avevo escogitato un rimedio perfetto: mandavo ad aprire mio padre. Con quel carattere nessuna ebbe mai il coraggio di tornare una seconda volta. Credevo che la vita fosse bere, scopare e fumare sigarette scadenti. Pedro mi fece capire che non era così: bisogna fumare sigarette costose. Se ti INCIQUID 12 # ott 2007 15 ingolfano i polmoni di petrolio, che almeno siano pregiate. Questa storia me la ripeteva ogni volta che tiravo fuori un pacchetto. Io ero di un altro avviso: meglio buttarci sopra il meno possibile, tanto alla fine si crepa lo stesso. Poi accadde che mia madre si ammalò gravemente e allora addio gite al mare, addio casa libera, addio orge notturne. Lui continuava a fare la vita nella soffitta, stando attento alle Rebeche del momento. Aveva una faccia da figlio di puttana che alle donne piaceva un casino. Io più spesso rimanevo al Mojito con mezza bottiglia di gin, di pisco non sour o di rum, quando casa mia era ancora disponibile per le sue avventure. Passavo la serata ad ubriacarmi e a chiacchierare col vecchio Juan Pablo mentre lo guardavo asciugare i bicchieri. Aveva una faccia da re di bastoni con in più un sigaro in bocca. Fumava solo sigari cubani e se ne faceva un vanto. Juan Pablo amava dare consigli. Era una specie di versione stanca di Pedro, indispettita dalla vita. E così mi beccavo le sue prediche di vecchio scorbutico seduto al tavolo del Mojito, mentre aspettavo che Pedro tornasse da casa mia. Io nonostante la sua compagnia ero pur sempre un bravo ragazzo di buona famiglia. E si sa, i bravi ragazzi scopano con moderazione. Questo per dire che le donne erano una cosa importante per lui, ma le donne come concetto, non una singola donna. Quando diventavano esigenti le scaricava. Di solito cominciava a fare lo stronzo in modo che fossero loro a lasciarlo, e in questo era dannatamente bravo. Lo mollavano tutte, puntualmente. L'unica che resistette per un bel pezzo fu Rebeca, ma a lei Pedro permetteva cose che alle altre non lasciava passare lisce. Arrivai persino a pensare che se ne sarebbe innamorato, e che avrebbe durato. E invece niente, la scaricò come tutte le altre, in modo più amichevole forse, ma la scaricò. Era quindi escluso che provasse più di un semplice interesse sessuale per questa Teresa, una ragazzotta bassa che nelle linee del volto rivelava contemporaneamente le sue origini mapuche ed una scarsa intelligenza. Si erano visti forse una decina di volte in tutto, non capivo che stesse succedendo tra quei due. - Pedro, possibile che tu sia innamorato di lei fino a questo punto? In fondo era lei che stava in mezzo agli impicci, la poteva scaricare facilmente, poteva mentire, giurare il falso sulla tomba della madre. Lo aveva fatto per molto meno. Insomma, Pedro era un dannato figlio di puttana e se non fosse stato perché mi era simpatico, era il più gran bastardo che conoscessi. Perché ci teneva cosi tanto a lei? - Tu mi conosci. - Era calmo, con gli occhi e i sorrisi al posto giusto. Rideva. - Pensi davvero che sia innamorato? - No, Pedro, non penso che tu possa innamorarti. E sai che lo dico con affetto. - Mi sottovaluti, amico mio. Ti ricordi di quando partii per Puerto Montt con mio padre? Stava per iniziare un'altra delle sue storie. - Pedro... INCIQUID 12 # ott 2007 16 - Lasciami raccontare, giuro che sarò breve. [capitolo otto] Racconta, Pedro, dannato tu e quei tuoi occhi celesti, tanto racconteresti lo stesso, gli si illuminarono gli occhi, partimmo per Puerto Montt e stemmo via cinque mesi, ti giuro, lo giuro su mia madre morta, in quei cinque mesi incontrai la donna più bella, la più bella del mondo, aiutava il padre in una specie di spaccio quasi fuori città, noi dormivano poco lontano, aspettando la notte, giravamo di notte, di giorno non c'era mai niente da fare e così dormivo ed aspettavo che arrivasse la sera, dormivo e poi me ne andavo allo spaccio a comprare qualcosa, lì c'era lei, era bella, non so se lo fosse veramente né quanto lo fosse, ma so che era bella perché io la vedevo così, come mai ho visto nessuno, te lo giuro su mia madre morta, ho sofferto per lei, come per nessun altra. Tu non soffri per una donna. Te lo giuro, per lei ho sofferto da starci male, di quei mali strani che non ti saprei spiegare, non avevo sentito mai le budella annodarsi, quelli che gli altri chiamano dolori del cuore, mi vergogno un po' adesso, avevamo entrambi ventidue anni, io soffrivo per lei, lei era una bambina seria, mi ha fatto penare, soffrivo perché, mi vergogno a dirlo, era un amore del tipo non guardo le altre, del tipo voglio restare per sempre con te, mi vergogno un po' adesso ma sai, ero innamorato, dormivo tre ore per notte, non ero più Pedro, non ero più e basta, sono passati otto anni e ancora adesso mi dico che non ero più Pedro, che lei era bella e che io la vedevo bella perché lo era davvero. Otto anni. Tu sei un romantico, perdonami se non te l'ho mai raccontato, questa è una storia di rose e di miele, non una storia di Pedro, di vino e sesso, una storia che chiamano innamoramento, ti ci saresti perduto dentro, a sposarti dietro alla prima che ti scioglieva con gli occhi, sbandato per tutta la vita, e poi non lo sai, io ho una fama da mantenere, io non sono né rose né miele, eppure ti giuro, lei stava lì, il suo profumo di rose, e a me bastava anche solo restare a guardarla per ore o sentirla parlare. E poi finì. Come tutto finisce, le dissi una sera io parto, e non era vero, le dissi ti scrivo e penso stia ancora aspettando, non dirmi bastardo, ero innamorato sul serio, e sì l'ho lasciata, ma non come le altre che ho costrette ad odiarmi, di lei volevo restasse un ricordo felice, e lo stesso volevo per lei, che avesse un ricordo felice di me, eppure una sera le dissi io parto, ero innamorato, lo feci perché lo sapevo che presto o tardi sarebbe passato, come tutto INCIQUID 12 # ott 2007 17 finisce anche questo sarebbe passato, e l'avrei fatta soffrire, invece ero io che soffrivo e volevo restasse per sempre, è rimasto un ricordo di rose e di miele, e forse va bene così. Teresa. Lei si chiamava Isabel, Cecilia Isabel; Teresa è una cosa diversa, mi spiace, è una cara ragazza ma è fatta di vino e di carne, non ha profumi di rose, le budella mi fanno dei nodi solo dopo un litro di vino e mai per un suo bacio, è una cara ragazza a cui voglio bene ma non c'entra l'amore, con lei passo del tempo, perché finché ballo è perché sono vivo, diceva mio padre, e così anche quando faccio l'amore. A volte ti sembra di poter morire, e ti serve una dama per poter ballare, per sentirti vivo. Ma una dama si chiama Teresa, e non Isabel, ha due braccia e due gambe di carne, di lei questo mi basta, e adesso vorrei solamente sapere dov'è. La sua era solo una faccia in quel quadro di facce sperdute allo stadio, come la faccia di Pedro, e forse rideva anche lei, ho saputo di quelle riunioni e del partito, se è vero allora lei è fottuta, amico, e intanto lui rideva ed io mi incazzavo. Salvati Pedro, ti prego, se lei è fottuta lasciala andare, falla cadere, sai, ho perfino rivisto mio padre per questa storia, era quasi felice di tenermi in pugno, te ne rendi conto? Lui guardava, cercava la faccia di Teresa in quel quadro di facce come si cerca un amico a una festa, e rideva, io me la sono sempre cavata, facciamo così, che ci vediamo più tardi al Mojito; io continuavo a parlare e sembravo il ritratto della tragedia, lui invece calmo, avresti potuto fare l'attore, mi disse, ora vai, dieci giorni al massimo e ci vediamo al Mojito. Era un po' sicurezza e un po' di occhi chiari, ma un poco di meno. [capitolo nove] Quella frase sul Mojito mi aveva colpito come un pugno allo stomaco. Mi fece un effetto strano, si capiva che non ci credeva, eppure rideva lo stesso. Non avevo avuto le palle per dirglielo ma il Mojito era chiuso, anche il vecchio Juan Pablo era stato arrestato. Il paese non era più lo stesso dopo l'undici settembre, il terrore si tagliava col coltello, chiunque poteva essere colpevole, chiunque poteva essere arrestato. Quella data cambiò per sempre ogni cosa, si ruppe tutto, ogni sogno, anche i sogni che io e Pedro non avevamo. Prima era solo un numero e un mese, dopo quella data non poteva essere nient'altro, dopo l'undici settembre le cose non sarebbero mai più state le stesse, non potevano essere le stesse, non poteva significare altro. Quelle due parole insieme sarebbero state per sempre la memoria di tutto quello che era accaduto dal quel fottuto giorno in poi. La mia famiglia godeva ancora dei suoi privilegi, grazie a mio padre. Era ricco, era un militare andato in pensione un paio d'anni prima, e aveva un INCIQUID 12 # ott 2007 18 bel po' di conoscenze. Il suo nome era famoso in città, era molto amico di un tizio, uno che pare fosse intimo di Iturriaga. Allora io neanche sapevo chi fosse questo Iturriaga, però grazie al buon nome di mio padre ero riuscito ad entrare allo stadio e a parlare con Pedro. Di questo lui non sapeva niente, altrimenti mi avrebbe ostacolato in ogni modo. Davanti a Pedro avevo bluffato e pareva che ci fosse caduto. Stava bene, era ancora tutto occhi chiari e sicurezza, tranne che in quell'ultima frase sul Mojito. Nel frattempo io mi ero informato di come stessero le cose. A quanto pareva, Teresa faceva parte di un circolo comunista, l'avevano arrestata a casa di Pedro e insieme avevano arrestato anche lui. Io lo conoscevo, la politica non gli era mai interessava. Avevamo quasi trent'anni ormai, ma per noi la vita era rimasta bere, scopare e fumare sigarette, costose o non che fossero. Io non vivevo più con i miei, avevo tagliato i ponti con mio padre, mi mantenevo da solo ed ero iscritto all'Università, con risultati scarsi. Pedro aveva abbandonato la soffitta per una casa un po' più dignitosa ma continuava a fare la vita da scapestrato di sempre. Lui con le riunioni marxiste di sicuro non c'entrava niente, aveva conosciuto Teresa un paio di mesi prima, in una libreria. Doveva trovare un libro per una tipa intellettuale che voleva portarsi a letto. Invece incappò in Teresa e quella sera si scopò lei. Ed anche la sera dopo. Teresa era una ragazza simpatica, aveva venticinque anni, era tosta, ma non era gelosa. Così lui se la spassava con lei e con l'intellettuale del libro. Poi arrivò l'undici settembre. Avevo cercato di spiegare questo al capitano con cui ero riuscito a mettermi in contatto, alla Comisaria, ma la vita di Pedro non deponeva certo a suo favore. Il capitano mi aveva fatto aspettare per due ore e mezzo, e con tutti i soldati che andavano avanti e indietro per i corridoi non era una cosa piacevole. Era un tipo basso, con due baffi piccoli e precisi e il naso rincagnato; se non fosse stato per quei baffetti neri sarebbe sembrato il muso di un cane. Mi portò in una specie di ufficio, zeppo di carte e di militari. Mi ricordavo vagamente di lui perché anni prima era stato un paio di volte a cena a casa nostra. Naturalmente non aveva idea di chi fossero Pedro e Teresa. - Ragazzo, ti rendi conto di quante persone sono state arrestate in questi giorni? Non me ne rendevo conto. Ci mise un bel po' a trovare una qualche informazione su di lui. Si sistemò sulla sedia ed assunse un tono da buon padre di famiglia: - Io capisco, vorrei venirti incontro ragazzo, per la stima che nutro verso tuo padre, ma qui si parla del partito comunista, di riunioni di cospiratori e di altre accuse gravi! - Pedro non c'entra niente col partito comunista! Se ha partecipato a una qualche riunione politica lo ha fatto per scoparsi questa Teresa, lui è fatto così. - Mi dispiace ragazzo, ma se prima non lo interrogano non può essere scarcerato. INCIQUID 12 # ott 2007 19 Sembrava grugnire da quel muso di mastino, con un'aria di ostile saccenteria. - Va bene, ma mio padre non ne sarà molto contento, forse telefonerà a qualcuno che sia in grado di aiutarci. Feci per andarmene. Il capitano rimase spiazzato. Mi richiamò appena varcai la soglia e assunse un tono ossequioso. In quel momento capii che da famiglia rispettabile eravamo diventati una famiglia rispettata. Ottenni che scrivesse una lettera per un militare all'Estadio Nacional. Il ragazzo in uniforme che incontrai allo stadio aveva più o meno la mia età, i capelli ricci tagliati cortissimi e due folte sopracciglia. Gli consegnai la lettera speciale scritta di pugno dal capitano coi baffetti. Parlottò con un altro e andò a cercare un suo superiore. Mi fecero aspettare da una parte. Per un attimo pensai che erano loro che stessero facendo il doppio gioco e che mi avrebbero arrestato. Poi arrivò Pedro. L'incontro con lui mi aveva tranquillizzato e preoccupato allo stesso tempo. Se aveva ancora voglia di parlare di cazzate come quella storia dell'innamoramento e del vecchio che disegnava voleva dire che stava bene. Voleva dire che era lo stesso Pedro di sempre ed era proprio questo che mi impensieriva. Lo stesso Pedro di sempre non si rendeva conto che quella non era la solita ragazzata ma una roba da libro di storia. Sembrava che non se ne ricordasse più. Oppure quella cazzo di Teresa lo aveva intortato al punto che si era messo in testa una qualche idea politica. Non era da Pedro, ma poteva sempre darsi, in fondo negli ultimi tempi l'avevo un po' perso di vista. Comunque uscii dallo stadio ottimista, quel giorno ero riuscito a bluffare due volte, una con l'ufficiale e una con Pedro. Sarei riuscito a fargli cambiare idea e sarebbe uscito di lì in qualche giorno. Forse stavo diventando un bravo giocatore. [capitolo dieci] Pedro Bernabe Acevedo Sànchez. Mi ero procurato il suo nome per intero per andare a parlare con il capitano. Era strano, lo conoscevo da dodici anni e non lo avevo mai saputo il suo nome completo. Per me era stato sempre e soltanto Pedro, e come lui aveva solo amici con un nome solo, tipo Felipito il venezuelano, Jo, el Cabrito o Chirimoya. Passati un paio di giorni cercai di nuovo il capitano coi baffetti, mi dissero che non c'era. Il giorno dopo mi presentai alla Comisaria, e così il giorno dopo ancora. Riuscii a parlargli, ma mi trattò con la stessa freddezza e supponenza che aveva usato all'inizio. Gli chiesi un'altra lettera speciale per l'Estadio Nacional, gli dissi che Pedro era pronto a collaborare, anche se non era vero; mi rispose che non era possibile. Già quella dell'altra volta era stata un'eccezione, aggiunse. Ritentai la farsa del figlio di papà, ma non ottenne successo. Quel bastardo doveva aver preso informazioni sul mio conto; probabilmente aveva telefonato a casa. Accennò al fatto che Pedro INCIQUID 12 # ott 2007 20 Acevedo e Teresa Vargas erano stati trasferiti in altra sede. Non volle darmi altre informazioni. Tornai all'Estadio Nacional e neanche lì riuscii a sapere dove fossero stati trasferiti. [capitolo undici] Abbassai le serrande del negozio e me ne scappai verso casa. Ripensavo alle parole che avevo sentito alla radio: "Estas son mis últimas palabras y tengo la certeza de que mi sacrificio no será en vano, tengo la certeza de que, por lo menos, será una lección moral que castigará la felonía, la cobardía y la traición." La casa in cui vivevo era lontana dal centro, ma sentii lo stesso gli aerei che passavano bassi. Bombardava il centro. Bombardavano la Moneda. Rimasi sdraiato sul letto fino al pomeriggio, atterrito, poi cercai di mettermi in contatto con qualcuno. Il telefono era isolato, la mia radio dovevo ancora ripararla, ironia del destino. Ottenni qualche informazione soltanto la sera tardi, dai vicini: girava la voce che il presidente Allende si fosse suicidato. Il quattordici venni a sapere di Pedro e mi inventai quella storia davanti al capitano coi baffetti per andare all'Estadio Nacional. Le carceri erano strapiene e gli stadi li usavano come prigioni. Mio padre non lo avevo neanche sentito. Non mi interessava. Lui era troppo orgoglioso per cercarmi. Il ventidue settembre ci dissero che dovevamo considerarci in stato di guerra. [capitolo dodici] Due giorni dopo mi telefonò Rebeca. La maggior parte del tempo lo passavo chiuso in casa. Dormivo e mi ubriacavo e stavo diventando paranoico. Sapevano che a mio padre non fregava niente di Pedro, e magari neanche di me. In fondo se avevano arrestato lui per quella storia delle riunioni, io avevo fatto di peggio: avevo usato il nome di mio padre per ottenere informazioni su due sovversivi e parlare con loro all'Estadio Nacional, questo era un comportamento più che sospetto. Venni a sapere quello che succedeva allo stadio ed iniziai ad avere paura, non sapevo fino a quando il mio nome mi avrebbe protetto. Di Rebeca potevo fidarmi anche se erano più di cinque anni che non la vedevo, non mi avrebbe certo tradito. Non potevo dire che fosse invecchiata ma era molto diversa da come me la ricordavo: quando stava con Pedro aveva i capelli lunghi fin quasi al sedere. Ora li portava tagliati corti e indossava un paio di occhiali con la montatura leggera. Sembrava quasi una ragazza europea. Ero un po' imbarazzato, non ero abituato a ricevere ospiti. Di solito quando mi portavo a casa una ragazza non passavamo molto tempo a parlare. INCIQUID 12 # ott 2007 21 - Scegli, ho solo gin, mate e pisco sour. Da mangiare quasi niente. - Vada per il gin. Lo mandò giù in fretta. Io ero già mezzo ubriaco. - Ho saputo di Pedro. Cercava di essere allegra, ma aveva la voce che le tremava. - Sta insieme a una mezza mapuche che fa parte del partito comunista. - Che hai contro i mapuche? - Non ce l'ho con lei perché è mapuche. Ce l'ho con lei perché l'ha ficcato in questo casino. Lo hanno arrestato insieme a lei. Se riuscissi a farlo ragionare sarebbe già uscito! Mi guardò piena di speranza: - Tu puoi vederlo? - Sono riuscito ad entrare all'Estadio sfruttando le conoscenze di mio padre. Naturalmente lui è all'oscuro di tutto. Ma mi sa qualche fottuto bastardo glielo ha fatto sapere. Adesso ho le mani legate. Pedro è il figlio di puttana di sempre, ora l'hanno trasferito non so dove, ma quando l'ho visto stava bene. Ha cominciato a raccontarmi certe storie delle sue. Mi ha parlato perfino dell'innamoramento. Anch'io cercavo di sembrare allegro. Visti da fuori dovevamo essere patetici. Versai altro gin nei bicchieri. - Ti ha raccontato di Isabel? - Non sembrava stupita di quella storia. - E tu che cazzo ne sai di Isabel? - Ehi, io era la sua amica! Di questa cosa ero geloso. - Ehi, io sono stato il suo miglior amico per dodici anni e non me l'ha mai raccontato! Tu da quanto tempo lo conoscevi, quando ti ha spifferato tutto?! - Sei mesi. - Lo sapevo, quel bastardo. Me ne ha raccontata un'altra delle sue. Rebeca sorrise. - No. E' una storia vera, si vedeva da come la raccontava. A te non poteva raccontarla una storia come quella, si sarebbe screditato ai tuoi occhi. A certe cose ci tiene. Non dissi niente. - Per lui sei come un fratello minore. Ci tiene a fare il duro con te. - Non lo so. Certe volte non riesco a capirlo. Come adesso con questa storia dell'arresto. - Pensi di riuscire a rivederlo? Quella speranza negli occhi mi fece pensare per un attimo che fosse ancora innamorata di lui. - Non credo. - Peccato, avrei voluto mandargli una cosa. Ingoiai un altro po' di gin. Dovevo dire qualcosa per tirarla su ma non ero bravo in certe situazioni. - Dai, vedrai che ce la farà. Lui se l'è sempre cavata. Te l'ho detto che stava INCIQUID 12 # ott 2007 22 bene, si è pure inventato questa grande storia d'amore. - Era vera. - Secondo me ci ha presi per il culo tutti e due. - No, gli si illuminavano gli occhi quando raccontava quella storia. Era come quando giocava a dadi. Hai mai fatto caso a come gli si illuminano gli occhi? - Sì, ce l'ho presente. Ma quante cazzo di volte te l'ha raccontata questa storia? - Non importa. Per me non gli sono mai brillati gli occhi in quel modo. - Beh, se è per questo neanche per me. Scoppiamo tutti e due a ridere. Cominciammo a parlare di quello che era successo in quegli ultimi cinque anni continuando a bere gin, a raccontarci delle nostre vite, lei studiava Filosofia, cominciò a spiegarmi la situazione politica, mi parlò del caso Schneider e dell'assassinio di Arturo Araya e delle multinazionali, capii che era molto al dentro della situazione, io potevo parlare soltanto di come si aggiusta una radio e di brandelli di letteratura, o rubare le storie di Pedro, poi cominciò a parlarmi di un gruppo di amici, operai e sindacalisti del CUT che si stavano organizzando, capii che era troppo al dentro della situazione, cazzo! c'ero finito con tutte le scarpe, l'avrei dovuta cacciare di casa, continuava a parlare delle riforme del presidente, degli scioperi e degli interessi degli stati uniti, ma era Rebeca, la lasciavo parlare, io inserivo frammenti di letteratura moderna e scadente nella discussione, ero ubriaco, eravamo troppo ubriachi per ragionare, le dissi che ero stato a casa di Pedro, le raccontai tutto quello che avevo visto e tutti i miei dubbi, le raccontai il rumore dei vetri, quella grande macchia scura, e scoppiò in lacrime. Ho paura, disse. Alcuni dei suoi amici li avevano arrestati, sentiva che avrebbero preso anche lei, mi prenderanno, diceva, se hanno preso Pedro che non c'entrava niente prenderanno anche me, stanno arrestando tutti quelli dei MIR, non è vero Rebeca, non te, c'erano un sacco di miei amici fra loro, non te, mi arresteranno e mi porteranno allo stadio, non te, per Teresa è diverso, Teresa faceva parte del circolo comunista, ma lei insisteva prenderanno anche me, mi si gettò al collo piangendo, io ci stavo finendo dentro con tutte le scarpe e soprattutto stavo perdendo la calma del giocatore di carte, ci ero finito dentro, se vuoi puoi restare qui, mi rimase abbracciata addosso singhiozzando, senza dire niente, io sentivo tutto il suo corpo che mi premeva addosso, senti il suo cuore che mi batteva sopra la camicia, sentivo i suoi seni che mi soffocavano il petto. La baciai. E per tutta la notte scopammo, la volevo da sempre, io era quasi dieci anni che volevo scoparmela, da quando stava con Pedro, lei penso soltanto INCIQUID 12 # ott 2007 23 che avesse bisogno di non stare da sola, io sentivo il suo corpo che mi si muoveva sopra, sentivo le sue gambe che mi stringevano ai fianchi, e tutto il resto del mondo scivolare nel sonno, feci un sogno tremendo e mi svegliai all'improvviso, mi sentivo in colpa, lei non c'era più, non c'erano più le sue gambe, non c'era più la sua testa da europea e le lacrime e i suoi "mi prenderanno", aveva lasciato una chiave spezzata sul tavolo, pieghe tra le lenzuola e nient'altro. Avevo sempre pensato che Rebeca fosse una gran donna, e nient'altro. [capitolo tredici] Il terzo comandamento del giocatore è: ascolta le carte. Se sei capace di ascoltare le carte puoi fregartene di tutto il resto, saranno loro a dirti quello che devi fare. Il problema è soltanto che quando sei seduto al tavolo ti ritrovi accanto altri tre stronzi che ti parlano: sono il gin, il tuo avversario e il tuo stomaco. E a questo punto è meglio mandare tutti al diavolo e affidarsi al primo comandamento. Una volta che hai imparato a fregartene di quello che sta succedendo sopra al tavolo, ti accorgi che rimangono a parlarti solo loro, le carte. Io avevo grossi problemi con quel comandamento, e anche con il primo. [capitolo quattordici] Certe volte Pedro mi veniva a prendere con una macchina. Le prime volte gli chiedevo perfino dove l'avesse presa. - L'ho trovata davanti a una bella casa col giardino! - Porca troia, Pedro, tu l'hai rubata questa macchina... - Non essere fiscale, ti ho detto che l'ho trovata. Ero nel posto giusto al momento giusto, come si usa dire. Non fare storie e salta su. Ci facciamo solamente un giro e poi la riportiamo a posto. Lui aveva una gran passione per le auto, ma doveva accontentarsi di "trovare" solo macchine che non dessero nell'occhio, quindi di solito erano vecchi scassoni. - Le macchine sono belle quasi quanto le donne ­ diceva ­ Hanno di buono che non sono gelose. Ma le donne sono meglio. Ci facevamo un paio di giri, poi io mi cagavo sotto ad andare a spasso con una macchina rubata sotto al culo e lo costringevo a lasciarla da qualche parte, purché non fosse davanti alla villetta dove l'aveva trovata! A volte pensavo fosse pazzo. Poi ce ne andavamo a bere gin al Mojito. Li ci trovavamo Jo, Felicito il venezuelano e gli altri. Jo era un omone biondo, uno yankee che era partito da Chicago con l'idea di campare suonando la chitarra. Nel frattempo aveva fatto duecento lavori non propriamente artistici, INCIQUID 12 # ott 2007 24 come il guardiano notturno, il taglialegna e l'idraulico. Nel frattempo aveva attraversato il Messico, la Colombia e la Bolivia, ed era arrivato a Santiago. Nel frattempo che suonava la chitarra aveva trovato la donna della sua vita, Leonor, ed aveva messo su famiglia: due figli e un cane, King. Felipito non arrivava al metro e mezzo, era magro come un chiodo e aveva due baffoni da mariachi. Non era più venezuelano di me o di Pedro, ma parlava sempre di un zio ricco che viveva a Maracaibo e che lo avrebbe aiutato a mettere su un ristorante. Nessuno lo aveva mai visto, questo zio. Pedro in quel periodo litigava spesso coi dadi. Non che perdesse molto, faceva un paio di giri, poi tornava al tavolo dicendo frasi del tipo stasera ce l'hanno con me!, e lasciava perdere. Così era costretto a giocare di più a carte e bluffare e qualche volta a tenere a mente i punti. E si innervosiva. - Prendi il poker - diceva - Se tu hai una scala reale, che fai? Lo sai che qui da noi al massimo con due scale reali nella stessa mano si divide? E' una regola del cazzo, così tutto il mestiere del bluff se ne va a quel paese. - Pedro, non puoi bluffare e vincere contro uno che ha una scala reale. Quello verrebbe pure se ti giocassi la casa. - Per questo il poker è un gioco di merda. Uno con una scala reale non lo puoi fregare. Prendi ad esempio la morra cinese. - Che roba è la morra cinese?! - E' un gioco cinese dove ci sono tre simboli. Forbici, sasso e carta, e ognuno vince uno degli altri due e perde con l'altro. Così non sei mai sicuro di vincere. E' ciclico. - E questo che c'entra con il bluff? - Niente, alla morra cinese non puoi bluffare. C'entra con il fatto che è ciclica. Il poker è un po' ciclico. Pensa alle scale. La minima batte la massima. Quella è la grande idea del poker. Ora, qual è il punteggio più basso? - La coppia. - Non capisci un cazzo. Il punteggio più basso sono cinque carte diverse. Mi segui? Tu hai una scala reale e uno che non ha niente in mano ti frega il piatto. Sarebbe il gioco più bello del mondo! E poi scusa, uno che ha il coraggio di andare a vedere una scala reale senza niente in mano se lo merita il piatto. - E tu saresti quello senza niente in mano... - Io a carte sono sfortunato. Devo fare tutto da solo, le regole dovrebbero essermi più amichevoli. Finiva che erano le tre e mezza, eravamo tutti ubriachi e Juan Pablo ci cacciava con i suoi modi gentili. - Ma non ce l'avete una casa, voi? Pedro sorrideva. - Ce ne andiamo, tranquillo. Poi si girava verso di me: - Vai a piedi o preferisci un passaggio in macchina? Ci metto cinque minuti a trovarne una. - Pedro vaffanculo, vado a piedi. INCIQUID 12 # ott 2007 25 [capitolo quindici] Avevo dormito poco e male, il gin ce l'avevo ancora tutto in circolo e mi girava la testa. Mi feci una tazza di mate e cercai di pensare. Il panico si stava impadronendo di me. Avevo due possibilità: la prima era cercare Rebeca e dirle ti amo scappiamo insieme da questo posto di merda, e finire per farmi arrestare. La seconda era tornare dal capitano con i baffetti e prenderlo a sberle fino a quando non fossi riuscito a sapere qualcosa di Pedro, e finire per farmi arrestare. Così mi lavai la faccia nel lavandino della cucina, presi una camicia pulita e mi infilai in tasca la chiave spezzata. E andai da mio padre. [capitolo sedici] Avevo fatto un sogno quella mattina. Avevo fatto un sogno, brutto, il generale delle Forze Aeree aveva la faccia severa di mio padre ed aveva ordinato il mio arresto, io ero fuggito e c'erano squadre e squadre e squadre di militari che sembravano cercare solo me, mi bombardavano la casa ma io ero fuggito, mi ero travestito da operaio e ce le avevo tutte alle calcagna, ma funzionava, ero fuggito e li stavo fregando tutti, sentivo che funzionava e mi avvicinavo alla piazza dove stava mio padre, mio padre che aveva arrestato Rebeca ed ora lei stava lì legata a un palo, al centro della piazza, sembrava una scena di film sull'antica Roma, con la martire cristiana al centro dell'anfiteatro, che gridava mi prenderanno e ti prego salvami, la piazza piena di sabbia, ogni momento sembrava dovessero venir fuori i leoni, e c'era la sua voce ti prego salvami e mio padre-Leigh sorrideva, la daremo in pasto ai leoni se non si presenta entro il calar del sole, e la sua voce ti prego salvami, e mio padre che sembrava Nerone. E la sua voce. Ed io stavo in mezzo ad una folla di operai, li stavo fregando tutti ma la tuta mi stava stretta e mi premeva su tutto il corpo ma li stavo fregando, mi stringeva sui fianchi, e uno degli operai si avvicinò e mi offrì una bottiglia di gin, poi mi disse Rebeca è incinta, io la guardai e mi accorsi che aveva un pancione grosso e piangeva legata a quel palo perché stava per partorire mio figlio, e diceva ti prego salvami legata a quel palo, seduta per terra, la tunica bianca che le lasciava nude le braccia e le gambe, e intorno c'era quel film dell'antica Roma e i leoni che aspettavano mio figlio per mangiarselo, e mio padre-Leigh-Nerone rideva divertito. E le sue gambe. Poi avevo un fucile e salii su un camion militare, dietro nel camion c'era INCIQUID 12 # ott 2007 26 Pedro. Era morto. Morto. Gli avevano strappato gli occhi e il militare che stava alla guida li aveva appesi allo specchietto retrovisore, e il camion era diventato una jeep, con un colpo di fucile buttai fuori il soldato e cominciai a guidare come un pazzo verso mio padre e il centro della piazza, sparavo con la mitragliatrice, mio padre aveva gli stessi occhi chiari di Pedro, sembrava che le squadre e squadre di militari fossero tornate tutte al centro della piazza, e tutte sparavano contro di me, gli aerei scendevano rapidi come falchi e sganciavano bombe ad un passo dalla macchina, in mezzo al frastuono chiaramente riuscivo a sentire il riso crudele di mio padre-Leigh- Nerone-Pedro e il pianto di Rebeca e i suoi ti prego salvami e le sue gambe. Sentivo le sue gambe. Poi un soldato mi stava di fronte. Prese la mira. E sparò. Mi svegliai all'improvviso e lei non c'era. Quella mattina pensai che avevo fatto solamente un brutto sogno. [capitolo diciassette] Il vecchio calvo non tornò più a ritirare la radio. Quando si calmò un poco il caos dei primi giorni si presentò al negozio suo figlio. Era passata una settimana dall'ultima volta che l'avevo acceso, quel dannato aggeggio. Tutto era cominciato da lì. Il padre era morto di infarto il giorno del bombardamento, si trovava per caso vicino alla Moneda. Non fu ferito, se ne andò all'altro mondo dallo spavento. Teneva a quella radio in modo particolare, l'aveva comprata il giorno che era nato suo figlio. Cioè l'uomo che avevo adesso di fronte. - Quanto le devo per la riparazione? Il padrone era uscito, era ora di pranzo. Ero solo. - Lasci stare. Basta che se la porti via. [capitolo diciotto] L'uomo uscì dal negozio ringraziandomi. Chiusi per la pausa e decisi di fare un salto a casa di Pedro. Sapevo che lo avevano arrestato lì, che avevano fatto tutto a pezzi, ma volevo tornare a casa sua. Avevo una sua chiave d'emergenza, allungai il giro per passare a casa a prenderla. In città giravo ancora da privilegiato. Quasi a passo d'uomo, ma senza grane. Capitava che i militari mi fermassero; non avevo mai cambiato la residenza, bastava che tirassi fuori i documenti. Mettevano insieme il nome e l'indirizzo e mi chiedevano col solito tono ossequioso: - Ma lei è parente di...? - Si. sono il figlio. - Prosegua pure. Ma faccia attenzione. Ed eviti di andare in giro se non per INCIQUID 12 # ott 2007 27 motivi urgenti. - Non si preoccupi. Lo farò. Mi rispettavano, e questo mi dava sui nervi. Pedro abitava nelle poblaciones a sud di Santiago. Nei giorni precedenti c'erano stati scontri in quella zona e arresti indiscriminati. Sui bordi delle strade se ne vedevano ancora i segni, auto bruciate e resti di barricate. Qua e là sulla strada delle macchie più scure. Anche il Mapocho era più scuro. Di notte radunavano gli uomini e li caricavano sui camion, queste erano le voci che giravano. Tagliavano i fili della corrente e del telefono per costringerli ad uscire dalle case. La gente iniziava a raccontare quello che vedeva: i camion carichi di cadaveri, i militari che fucilavano gli uomini per strada e li scaricavano nel fiume o nella spazzatura. Poi pulivano le strade prima che facesse giorno. Altri avevano paura e andavano a denunciare quelli che parlavano o quelli che pensavano potessero parlare o quelli che semplicemente pensavano simpatizzanti di Unidad Popolar. Erano iniziate le delazioni. Anche di giorno alcuni edifici erano presidiati e c'erano dei posti di blocco. Fui costretto a tornare indietro più volte e cercare altre strade, ma lo spettacolo non cambiava di molto. Speravo solo che la mia vecchia Ford non mi abbandonasse, ero quasi a secco di carburante. Tornare a piedi da lì non sarebbe stato semplice, per usare un eufemismo. [capitolo diciannove] La chiave non servì, avevano sfondato la porta. C'erano vetri dappertutto, a camminarci sopra facevano un rumore strano, un misto di ghiaia e di biscotti secchi. Avevano fracassato le finestre, buttato all'aria i mobili, svuotato i cassetti. Cercavano forse atti segreti delle riunioni di un circolo marxista, di sindacalisti sovversivi, di operai comunisti. Non avevano trovato niente. Sul pavimento erano rimaste le custodie di alcuni dischi di musica leggera, un calendario e una foto di Ava Gardner. Non c'erano altri fogli, solo vestiti e piatti e bicchieri in frantumi. A camminarci sopra facevano quello strano rumore di biscotti. Passai nell'altra stanza, al centro c'era una grossa macchia scura che qualcuno aveva cercato di lavare alla meglio. Intorno la stessa baraonda di abiti. Alcuni erano sporchi di sangue. Trovai in una angolo la sua chitarra, sotto il materasso. Come musicista era un disastro, ma si divertiva a strimpellare. Qualche anno prima se la portava sempre dietro, dovunque andasse, e dedicava serenate alle ragazze per le strade di Santiago, mentre io guidavo la sua MG 1100 scassata. Oppure veniva a suonare al Mojito, con Juan Pablo che sacramentava. Pedro faceva solo rumore, poi arrivava Jo, gli strappava la chitarra dalle mani, lo insultava in inglese e cominciava a suonare e cantare blues. Il genere non raccoglieva consensi ma era decisamente meglio di Pedro. Col passare degli anni ne INCIQUID 12 # ott 2007 28 perse la passione. Diceva che stava imparando a suonare l'armonica, era meno ingombrante e si poteva suonare anche guidando. Juan Pablo ne fu molto contento. Nella cornice della porta apparve un uomo, lo riconobbi come il Mancino. Era un operaio che abitava lì vicino, Pedro lo aveva soprannominato così perché aveva perso tre dita in una pressa, e faceva tutto con la sinistra. Indicò la macchia scura. - Lo abbiamo portato via. - Chi era? - Non lo sappiamo, forse un amico di Pedro. Pare che avesse un coltello e abbia fatto resistenza. Gli hanno sparato e lo hanno lasciato crepare sul pavimento. Pare che avesse un coltello. - Pedro lo sa? - No, lui e la ragazza li avevano già arrestati e portati di sotto. Poi lui deve aver fatto resistenza, ma è successo dopo. Aveva un'espressione concentrata sulla faccia, le mani in tasca e un tic sul sopracciglio, che gli faceva strabuzzare l'occhio sinistro. - Dov'è adesso? - L'abbiamo portato all'obitorio, aveva un coltello. Non sapevamo che fare. Mia moglie ha cercato di dare una pulita perché il sangue cominciava a puzzare. Per il resto c'è poco da fare. La porta è aperta e continua a venire gente a rubare. Ormai ci sono rimasti solo i vestiti. Accarezzai la vecchia chitarra di Pedro. Nessuno l'aveva presa perché aveva il manico spaccato in due. La lasciai in quell'angolo e me ne andai. [capitolo venti] Era Felipe. L'uomo ammazzato a casa di Pedro era Felipe, Felipito il venezuelano, quell'uomo basso se ne stava nella cornice della porta con le mani in tasca e diceva forse, aveva un coltello, io non lo sapevo allora, ripeteva forse era un suo amico con quell'espressione ebete sulla faccia, ero corso all'Istituto di Medicina Legale per cercare una traccia, un indizio di volto che me lo raccontasse per l'ultima volta, da morto, ma quell'uomo sulla porta con le mani in tasca aveva detto solamente forse, con le mani in tasca, ossessivo, ha fatto resistenza, solo più tardi, non gli chiesi com'era, non pensavo che fosse Felipe, lì c'erano cadaveri che raccoglievano per le strade e li portavano all'obitorio, nessuno aveva idea di chi fossero e restavano accatastati nell'Istituto in attesa che qualcuno li riconoscesse, la gente andava a chiedere notizie degli scomparsi, in una quasi processione, degli arrestati, quell'uomo diceva forse era un amico di Pedro, balbettava con l'occhio sinistro, io non lo sapevo che fosse Felipe, alcuni cadaveri erano solo un corpo di carne, non avevano quasi la testa, non avevano un viso, solamente più tardi lo seppi, non trovai nessuna faccia, pensavo il Mancino si sbaglia, non era un amico, INCIQUID 12 # ott 2007 29 non un nostro amico comune, quel suo corpo piccolo e magro non lo vidi tra gli altri, non so come feci eppure non lo riconobbi, o forse non c'era, non quei baffi neri da mariachi, solamente più tardi lo seppi da Cabrito, sei mesi più tardi, quando ci rincontrammo per caso in una strada di Valdivia. Era Felipe, nascosto in bagno, io sono saltato dalla finestra della stanza da letto, mi disse Cabrito, ho ancora un piede che mi fa male, lui era rimasto in bagno, io ero saltato appena ho sentito battere sulla porta, poi quel rumore, l'avevo capito che erano loro dal tono della voce, ero scivolato rapido sotto una macchina, non so di Pedro e Teresa, diceva, neanche sapeva che lei fosse del partito, son solo saltato di sotto, poi quel rumore, prima che se ne accorgessero ero già sparito, nascosto immobile sotto quell'auto, Felipe era in bagno, non ci pensai neanche, ho pensato soltanto a saltare, poi quel rumore. Uno sparo. Lo giustiziarono con un solo colpo, a sangue freddo, un colpo alla testa e lo lasciarono lì, diceva il Mancino, a morire, e Cabrito da sotto la macchina intuì ma non volle capire, che potevo fare?, io saltai e ti rivedo adesso e adesso risento tutto quel rumore, ma già lo sapevo, El Cabrito, lo zuccone di sempre, quel naso da toro e la testa di pietra, sia dentro che fuori, il giorno dopo tornai al negozio e dissi al vecchio sto male, ho bisogno di tempo, almeno una settimana, volevo solo sparire, volevo dormire per sempre, tornai a casa e sistemai la radio ma volevo soltanto dormire, era un modo di dormire anche quello, un modo di non pensare, ma non valse la pena aggiustarla, ormai passavano solo marce militari e comunicati dell'esercito, in radio, sul pavimento si ammucchiavano bottiglie e cenere di sigarette, ed io pensavo che volevo dormire. Poi c'era stato il comunicato del ventidue settembre sullo stato di guerra. Poi c'era stata l'incontro con Rebeca che mi aveva riportato nel mondo dei vivi. Poi venne l'ora di affrontare mio padre. [capitolo ventuno] Ero rimasto a vivere con i miei fino alla morte di mia madre. Avevo già deciso di andarmene quando accadde che lei si ammalò gravemente. Il suo cuore non avrebbe retto ad emozioni troppo forti, diceva il medico. Così aspettai che migliorasse. Tirò avanti per un anno, poi morì. Avevo ventiquattro anni, da allora non avevo più messo piede in casa di mio padre. Suonai il campanello. Venne ad aprire Pilar, per poco non svenne. - Mio padre è in casa? - Non aspettai che mi rispondesse, entrai e mi diressi verso lo studio. Se mio padre era in casa, era lì. Stava leggendo la sua copia INCIQUID 12 # ott 2007 30 de El Mercurio, fece finta di non vedermi. Era invecchiato. Erano passati solo tre anni, ma era molto cambiato. Non come Rebeca, lui era proprio vecchio, capelli grigi e rughe sulla fronte. Non lo avevo mai considerato un vecchio, neanche quando lo odiavo. Ora aveva messo su pancia, si era lasciato andare parecchio dalla morte della mamma. Io lo avevo abbandonato, la vecchia Pilar era l'unica che continuasse ad occuparsene. Eppure non provai nessuna compassione. - Hai saputo di Pedro? - Ha avuto quel che si meritava. - Pedro non c'entra un cazzo con quello che stanno combinando i tuoi amici e nemici lì fuori. Lo sai che non si è mai occupato di politica. Alzò la testa dal giornale e mi guardò. - Perché mi vieni a dire queste cose? - Lo sai il perché. - Continuo a non capire. Era lo stesso bastardo di sempre. Solo più grasso e più vecchio. Voleva che strisciassi a suoi piedi, voleva che implorassi il suo aiuto. - Ho parlato con un capitano dei carabinieri, gli ho detto che ero tuo figlio. E' stato molto disponibile. Penso che qualcuno ti abbia informato di questo incontro, perché la seconda volta non era più così disponibile. - Continuo a non capire di cosa stai parlando. - Chi cazzo te l'ha detto che avevano arrestato Pedro? - Non usare questo linguaggio in casa mia, non lo tollero. Santiago non è una città così grande, le voci girano in fretta. Non muoveva un muscolo. Sarebbe stato un gran giocatore di carte. Era stato un gran giocatore. Non so quanto mio padre fosse coinvolto in quello che accadde in Cile in quegli anni. Era un militare in pensione, forse le sue vecchie amicizie gli servirono semplicemente ad evitare sospetti da parte del nuovo governo. Forse semplicemente non aveva niente a che fare con tutto quello che stava succedendo ma non era certo stato un simpatizzante di Allende. Non lo so, quella fu l'ultima volta che lo vidi. Tornai a Santiago, molti anni dopo, e venni a sapere che era morto. Nella vecchia casa di famiglia era rimasta solo la povera Pilar, non avevamo altri parenti. Solo uno zio, morto in motocicletta quando io avevo dodici anni. Si sarebbe dovuto sposare due mesi dopo, ed io avrei avuto nei suoi figli i fratelli che mia madre non era riuscita a partorire. Ma la storia non va sempre come dovrebbe, a volte basta un sasso sulla strada e la motocicletta se ne va per conto suo. A volte i sassi sono così tanti che la storia non può non andare altrimenti. Avrei voluto riparlare con mio padre, quando tornai a Santiago, ma trovai solo la vecchia Pilar che piangeva e diceva oh figlio mio pensavo fossi morto. Forse sarei stato più comprensivo. Ma quel giorno ero convinto che lui fosse colpevole tanto quanto i quattro generali che avevano ordinato INCIQUID 12 # ott 2007 31 l'arresto di Pedro e degli amici di Rebeca. Era un odio viscerale che non voleva spiegazioni, lui poteva aiutarmi e si rifiutava di farlo, per questo lo odiavo. Lo capii molto tempo dopo che l'odio che provavo per mio padre era lo stesso che provavo per me. Lui in fondo pensava che la vita fosse avere una casa grande e una famiglia felice, come io pensavo che la vita fosse bere, scopare e fumare sigarette scadenti. Avrebbe potuto fare di più per questo paese, anch'io avrei potuto fare di più, è quello che continuai a ripetermi per molti anni. Ma quel giorno non lo sapevo e lo odiavo e basta. Non provavo nessuna compassione per lui che mi stava davanti scontroso come un cielo di agosto. - Dimenticati di Pedro, è tanto che sia riuscito a farla franca fino ad ora. - Sei solo un servo di questi generali del cazzo, Pedro è innocente, lo vuoi capire o no? - Pedro è colpevole di molti crimini, e tu lo sai benissimo. Se lo hanno arrestato per un altro motivo, non mi riguarda. Sta avendo quello che merita. - Mi fai schifo, sei solo un vigliacco che vuole vendicarsi di me. In realtà hai solo paura. Non ricordo cos'altro gli vomitai addosso, fu una lite violenta, da parte mia. Lui rimase pressoché impassibile. Alla fine riuscii a fargli confessare che l'ufficiale coi baffetti lo aveva chiamato, che Pedro era stato effettivamente trasferito e che per lui ormai non c'era più niente da fare. L'avrei ammazzato, eppure ero paralizzato davanti alla sua calma; riuscivo solo a sudare e sputare veleno... Lui si alzò dalla scrivania, dove era rimasto seduto fino ad allora. - Esco, ho delle faccende da sbrigare. Quando torno non voglio trovarti qui. [capitolo ventidue] Il quarto comandamento del giocatore è: fermati. Se senti che puoi portargli via anche le mutande, fermati. Era l'unico che riuscissi a rispettare. Perché mi sentivo sempre che potevo portargli via anche la casa, a quel bastardo che avevo di fronte. Non è una buona sensazione, diceva Pedro, in questo modo ti entusiasmi e dimentichi gli altri comandamenti. In questi casi è meglio lasciar perdere. Tanto finiresti per rovinarti. Era l'unico comandamento che Pedro si permetteva di trasgredire. - Ci sono delle eccezioni. Io non sento di vincere. Io so che vincerò. E' diverso! Il Mojito era chiuso. Molti altri negozi non avevano riaperto dopo il golpe. Tornai a casa. Avevo bisogno di bere e di ragionare e a casa avevo ancora un'abbondante scorta di gin. L'ultima volta che giocai insieme a Pedro gli feci perdere dodici bottiglie di rhum scuro, invecchiato sette anni, e due bicchieri di whisky. Una dietro l'altra, e poi i due bicchieri. Non era decisamente la mia serata, avevo ventun anni e Pedro non mi aveva ancora insegnato ancora nulla sulle carte. Stavamo in coppia e per gli altri giocatori io ero un libro INCIQUID 12 # ott 2007 32 aperto. Mi sudavano le mani e quelli mi facevano bere. Pedro continuava a dire fratello vacci piano, non mi ricordo più neanche a che gioco giocassi, ma solo che commentavo le carte ad alta voce, con frasi del tipo Era ora!, Che mano di merda! e simili. Cercavo di bluffare come un bambino di sei anni. El Cabrito rideva come una iena. Da allora Pedro mi proibì di stargli accanto quando giocava: - Se vuoi rovinarti, fallo lontano da me. Se vuoi giocare con me, prima devi imparare le regole. Così iniziò quella storia dei comandamenti del bravo giocatore. Entrai in casa e posai tutto sul tavolo: le chiavi dell'auto, la chiave spezzata, la lettera dattiloscritta e l'uniforme. Quante possibilità avevo? Io non ero mai stato un bravo giocatore. Non ero né come Pedro, né come mio padre. Aprii un'altra bottiglia. [capitolo ventitré] Guardavamo il Mapocho scorrere e ogni tanto ci tiravamo dentro qualche sasso. Non era troppo sicuro starsene lì, ma noi amavano il rischio. Pedro era insolitamente silenzioso. Guardava le stelle. - Come va? - Alla grande. Quella mattina aveva saputo che suo padre era morto. Lo avevano beccato due anni prima mentre "trovava" dell'argenteria dentro una bella casa dalle parti del Cerro San Cristobal. Gli ultimi due anni li aveva passati in carcere. - Mio padre aveva una passione per le stelle. Quando ero ragazzo e dormivamo all'aperto si metteva lì e mi diceva tutti i nomi: quella è la croce del sud, quella è l'uccello del paradiso, quella è il sagittario. Poi c'erano quelle con i nomi strani, come pompa pneumatica e bulino. A lui non piacevano e allora se ne inventava altri tutti suoi. Mi annoiava perché non riuscivo mai ad impararli. Io con le stelle avevo qualche dimestichezza in più, reminiscenze di un'infanzia solitaria da ragazzo di buona famiglia, precedente all'incontro con Pedro. Allora ricordavo solo quel poco che bastava a stupire una ragazza. - Per me è più semplice unire i puntini e inventarmene di nuove. Così non devo sforzarmi e se è brutto tempo posso sempre tracciare la costellazione del due di quadri. Fece una pausa. - Insegnami i nomi delle stelle. Gliene indicai qualcuna, per quel che riuscii a ritrovare nel cielo. Andammo avanti per un po', poi tornò a parlare del padre. - Sarebbe stato un gran bel periodo questo, per lui. Lui era fatto per il contrabbando, ce l'aveva nel sangue. Stava nel contrabbando da quando aveva sei anni. Povero vecchio. Si sarebbe riempito le tasche; oggi su una INCIQUID 12 # ott 2007 stecca di sigarette ci puoi guadagnare fino a quattro volte quello che la paghi. C'è gente che ha ancora i soldi per permettersi certa roba, gente come il tuo vecchio; la povertà di questo paese è solo un abbaglio. Non lo avevo mai visto piangere. Eppure era felice. Era ancora occhi chiari e sicurezza. Occhi chiari bagnati dalle lacrime. - Mi dispiace per quel testone ma non poteva andare altrimenti. Uno come lui non poteva resistere in galera. Lo diceva sempre: meglio morto, che in galera. Ci sono certi animali che non riescono a vivere in gabbia, si lasciano morire. Lui era uno di quegli animali. Continuammo a tirare sassi nel fiume, era luglio. Una settimana prima i militari erano scesi in piazza con i carri armati. Erano arrivati al centro di Santiago e avevano sparato sulla Moneda e sul Ministero della Difesa. Uno dei carri era salito per lo scalone del Ministero e aveva aperto il fuoco. Una quindicina di persone erano rimaste ferite, un paio i morti. Da quel giorno non ci eravamo rivisti, poi quella sera mi aveva chiamato e chiesto d'uscire. E m'aveva detto di suo padre. Fu l'unica volta che parlammo di politica, a modo nostro. Alla radio il presidente aveva esortato i lavoratori ad occupare le fabbriche di Santiago; poi aggiunse queste parole: siate pronti, in caso di necessità, a combattere accanto ai soldati del Cile! - Io c'ho pensato Pedro. Secondo te saremmo pronti a combattere per il Cile? - Io combatto ogni giorno. Ieri ho penato tre ore dietro al motore di un camion. - Ma non sai essere serio una volta?! - Guarda che sono serio. Ce n'è una carovana abbandonata sulla statale, questo cazzo di sciopero ha anche i suoi lati positivi. Voglio smontare un camion e ricostruirmelo per intero, pezzo per pezzo. - Io parlavo della guerra civile. Io, te, Felipito, gli altri. Saremmo pronti a rischiare la vita? - Ad andarsene in giro a quest'ora già rischi la vita ad ogni metro, di notte per Santiago ci sono più bande di briganti che gatti. Le hai viste le scritte Djakarta sui muri? Sono bande che non mi piacciono ma non mi fanno paura. Io ho trent'anni e non c'è stato giorno che non ho pensato che potesse essere l'ultimo, te lo giuro sulla tomba di mia madre. E dovrei preoccuparmi di un colpo di stato? Sai che ti dico: Hanno bluffato, ma il presidente è un tipo con le palle e non c'è cascato. Lasciatelo dire da un giocatore, non ci sarà nessuna guerra civile in questo paese. Pedro aveva questa mania delle carte. Diceva di amare i dadi e parlava sempre di carte e di bluff. Diceva che i dadi erano la sua grande passione e poi passava la maggior parte a giocare a carte. Gli chiesi il perché. - Non si parla delle cose che si amano. Per questo non parlo dei dadi, per rispetto. Quando si parla si dicono un sacco di cazzate, per le cose veramente importanti non resta che il silenzio. E poi il problema è che io, amico mio, sono nato per il bluff. Io amo i dadi ma il mio è un amore non INCIQUID 12 # ott 2007 corrisposto. Sono nato per giocare a carte, così come tu eri nato per fare il militare. Tu ti sei ribellato, io no. Io non so essere altro che questo. E adesso basta con questi discorsi. - Chi te li ha insegnati i comandamenti del giocatore? - Don Manuèl. In quei due mesi ci vedemmo poco. Pedro conobbe Teresa e l'intellettuale del libro e si dedicò molto di più a loro che a me. Santiago non era la città che ci vedeva ubriachi tutte le sere fino a qualche tempo prima. Uscire di notte aveva i suoi rischi; solo qualche volta mi vedevo con Jo e Felipito. Fino ad allora non mi ero mai interessato di politica, non mi rendevo conto di quello che stava succedendo intorno. Sentivo la gente che parlava delle riforme di Unidad Popular, vedevo quelle che scendevano con le pentole in piazza a far finta di patire la fame, la povertà non era un abbaglio, era piuttosto un complotto, ma anche questo lo capii molto tempo dopo. La mia vita era rimasta bere, fumare e scopare, con qualche difficoltà in più. Le sigarette al mercato nero costavano parecchio e Pedro mi vendeva solo le più costose. Erano i sacrifici della democrazia, era il socialismo. Questo pensavo allora. E credo che lui non la pensasse diversamente da me. Mi guadagnavo da vivere facendo l'aiuto in un negozietto che riparava radio ed altri elettrodomestici, ero iscritto all'Università, vivevo per conto mio, mi ero comprato una vecchia Ford Fairlane del '56, azzurra. Mi bastava. [capitolo ventiquattro] Mi versai due dita di gin e presi in mano la chiave spezzata. Sapevo che c'era una storia dietro quella chiave e che riguardava Pedro e Rebeca, ma non sapevo quale dannata storia fosse. Molti anni dopo incontrai una sorella di Rebeca, quando tornai a Santiago. Lei mi raccontò quella storia. Era una storia dolce, capii perché lui non me l'avesse mai raccontata. Ma allora sapevo solo che era una storia e che riguardava Pedro. Presi l'uniforme, sembrava della mia taglia. Ero ubriaco ma dovevo pensare in fretta. Mio padre, freddo come una granita, era uscito di casa e mi aveva lasciato nello studio. Quello che ero riuscito ad ottenere da lui era tutto quello in cui potevo sperare. In più potevo aspettarmi solo grane. Non avevo nessuna possibilità. Allora avevo fatto la prima cosa che m'era venuta in mente. Era il tempo di giocare la mia partita. O imparavo a bluffare, oppure... Oppure non lo sapevo, non avevo un'idea precisa dell'alternativa. Avrei imparato a bluffare. Mi misi alla sua macchina da scrivere, inventai una lettera del tipo La prego di condurre mio figlio alla presenza del sig. Pedro Bernabe Acevedo Sànchez allo scopo di ottenere importanti informazioni riguardo ai fatti accaduti eccetera eccetera. Pilar piangeva e mi spiava da un angolo della cucina, facendo finta di preparare le empanadas per il pranzo. La firma di mio padre me la ricordavo dai tempi della scuola e comunque INCIQUID 12 # ott 2007 non credevo che qualcuno avrebbe fatto delle verifiche. Se qualcuno avesse fatto delle verifiche sarei stato fottuto. Rubai la sua uniforme e scappai di corsa. Prima di uscire avevo dato un bacio sulla fronte alla vecchia Pilar. Misi l'acqua sul fuoco, avevo bisogno di qualcosa che non fosse gin. Cominciai a radermi. Non mi facevo la barba da una settimana, sembravo più uno zingaro che un soldato. Nel frattempo ripassavo tutte le cose che avevo imparato sui militari durante la mia adolescenza e il servizio militare. Magari tornavano utili. Cercai di ficcarmi in testa i nomi e le facce degli amici di mio padre, casomai ne avessi incontrato qualcuno. Staccai qualche lustrino di troppo, doveva sembrare la mia uniforme. Mio padre aveva troppi gradi su quella giacca ed io non volevo attirare l'attenzione su di me. I gradi me li ricordavo ancora bene, con un'infanzia come la mia certe cose fanno parte di te, non c'è pericolo che te le dimentichi. La infilai. Era della mia taglia. Misi il mate nella tazza e mentre aspettavo che andasse in infusione mi feci un altro sorso di gin. Presi la chiave spezzata e la lettera, misi degli abiti civili dentro una borsa e uscii di casa. Non avevo preso il mio mate. [ capitolo venticinque] Continuavamo a lanciare sassi nel Mapocho. - Don Manuèl, prima di crepare, mi insegnò il quinto ed ultimo comandamento. - E cosa dice? - Il quinto comandamento dice: va' fino in fondo. Una volta, magari una sola nella vita, sentirai che le carte ti chiedono di andare fino in fondo, di giocarti tutto. E allora devi andare. Si stava preparando ad un'altra storia. Non quella sera. - Senti, Pedro, a me tutta questa storia dei comandamenti mi sembra una delle tue trovate, tanto per perdere tempo. A carte è solo una questione di culo. Tu vinci perché sei un dannato figlio di puttana, e io perdo perché sudo e non so tenere la lingua a posto. Va bene? Non ci sono comandamenti, sono cinque anni che cerco di rispettare i tuoi comandamenti, ho solo smesso di perdere molti soldi. Ora ne perdo pochi per volta perché sento che posso vincere e mi dico di smettere! Tu come fai? Come fai a sapere quando devi andare fino in fondo, eh? Le hai mai sentite le carte che ti dicevano di andare fino in fondo? Le hai mai sentite? Tirò un altro sasso nel fiume, e mi guardò. Si accese una sigaretta delle sue, costose, e me ne offrì una. Era occhi chiari e sicurezza. Pedro il figlio di puttana. - No. mai. INCIQUID 12 # ott 2007 [capitolo ventisei] Avevo scritto l'indirizzo estorto a mio padre su un foglio, per paura di dimenticarlo. Arrivare fino a lì, nel centro di Santiago, era stato piuttosto semplice: vestito da militare nessuno mi aveva fatto particolari storie. Raccontai che mi muovevo con la mia Ford perché avevo avuto problemi e dovevo sbrigare degli ordini urgenti. Stava funzionando. Non me ne fregava niente, forse era merito della mia ubriachezza, comunque stava funzionando. Dovevano essere più o meno le cinque di pomeriggio. Puzzavo di gin a dieci metri. Mi fumai un pacchetto di sigarette per cercare di mandar via l'odore, mentre mi spostavo in macchina. Quella puzza di gin non se ne andava, non volevo passare per un soldato alcolizzato, mi avrebbero fatto storie. Mi riempii la bocca della cenere e delle cicche. Stavo per vomitare, ma l'alito sembrava migliorato. Parcheggiai la macchina sull'Alameda, vicino all'Università. Davanti al grosso portone di legno scuro c'erano due militari. La lettera funzionò. Chiamarono un loro superiore che mi fece strada all'interno del palazzo. Mostrai la lettera un altro paio di volte, mi fecero aspettare, rimasi calmo. Poi mi chiamò un uomo in borghese che teneva in mano la mia lettera e mi disse di seguirlo. Salii delle scale, da fuori si sentivano i rintocchi lugubri di una campana. Lungo le pareti vedevo i segni più chiari di quadri e manifesti che erano stati strappati dai muri. Feci un paio di saluti militari, in alcune stanze piene di fogli vidi impiegati e militari che discutevano tra di loro. Alcuni prendevano appunti. Aveva una camicia bianca, a righe. Lo riconobbi subito, era uno dei vecchi amici di mio padre. Passavano i pomeriggi a giocare a scacchi nello studio. Il suo nome per intero non lo conoscevo, mio padre lo chiamava Lucio, erano passati quasi dieci anni. Allora aveva due figlie piccole, che chiamavano mio padre zio; se non avessi avuto diciassett'anni l'avrei chiamato anch'io zio Lucio. Non era cambiato di una virgola. I nostri sguardi si incrociarono per qualche secondo. Non sapevo se mi aveva riconosciuto. Io in dieci anni ero cambiato parecchio. Passammo per una specie di cortile, non pensavo a niente. Le persone che erano state arrestate stavano dentro una grossa sala, bendati ed legati, così mi parve quando aprì la porta. Per terra era sporco di sangue e di escrementi. Mi fece un segno con la mano e mi indicò una stanza sulla destra. Entrai lì dentro ed aspettai. Pedro arrivò poco dopo. Non lo riconoscevo più. Si sedette al tavolo, teneva le mani nascoste e il capo basso, era bendato. Chiesi all'uomo con la lettera di lasciarci soli. Non sapeva. Gli ripetei di lasciarci soli, se ne andò. Mi riconobbe dalla voce. Gli tolsi piano la benda, gli si era attaccata alla pelle, aveva il volto tumefatto e non riusciva ad aprire gli occhi. I suoi occhi chiari. Non si era accorto che ero vestito come un militare; meglio così, pensai, mi INCIQUID 12 # ott 2007 37 avrebbe preso per il culo. Quel posto puzzava di vomito e sangue. Avevo lo stomaco sottosopra, sentivo che avrei vomitato anch'io da un momento all'altro. Non devi farlo, pensai, non devi farlo. Un soldato non vomita. Ti fucileranno, se vomiti. - Come stai, Pedro? - Alla grande. Non era decisamente un momento adatto, quello. Non era un cazzo di momento adatto. Fu allora che se ne uscì con la storia del caffè. Parlava a fatica, eppure si sforzava di fare il verso al Pedro di sempre. Dannato figlio di puttana, pensai, lo capisci che ti stanno ammazzando? Lo capisci, adesso? Poi si scostò un po' dal tavolo e tossì, sputando per terra. Lasciò una macchia rossa di catarro e sangue. Solo allora riuscii a vederlo per intero. Riuscii a vedere le sue mani, se le nascondeva sotto il tavolo dalla vergogna. Si vergognava di me. Quando tossì si scostò un poco dal tavolo e le mani le portò vicine alla faccia. Allora le vidi. Gli avevano strappato le unghie. Sentii il gin che tornava su. Corsi nel cortile e vomitai in un angolo. L'uomo della lettera mi guardava sorpreso. Dovevo darmi un contegno. Stai bluffando male, pensai, ti fucileranno. Mi pulii la bocca con la manica dell'uniforme e rassicurai l'uomo della lettera. Zio Lucio mi guardava da una finestra. Ma non me ne fregava più niente. Fuori batteva quella dannata campana. [capitolo ventisette] Che giorno è oggi? E' il venticinque settembre, Pedro me lo hai già chiesto, ma lui sembrava non sentirmi, quei bastardi mi bendano e mi tengono in piedi per giorni; è il venticinque settembre, non so più neanche che cazzo di ora è, non lo so più, non lo so, c'è solo quella campana che batte, è il venticinque settembre, li senti i rintocchi?, non lo so, non aveva più occhi, più sicurezza, più mani. L'ho sentito cantare. Non avevo tempo, ero entrato lì dentro senza un piano, sapevo che dovevo convincerlo a ritrattare qualsiasi cosa, a denunciare chi volessero loro, purché uscisse di là, dagli la loro versione dei fatti, ti prego salvati, pensavo di trovare il Pedro dell'Estadio Nacional, quello dell'innamoramento e del vecchio pittore, quel Pedro avrebbe potuto ancora salvarsi, parlerò con qualcuno degli ufficiali, avremmo firmato qualche pezzo carta e saremmo usciti di lì a testa alta, alla faccia di mio padre; e invece non stava andando così, cazzo, stava andando dannatamente male. INCIQUID 12 # ott 2007 L'ho sentito cantare. Pensai che stesse delirando, fece un'altra pausa, chi sei tu? sei ancora quello che ho conosciuto? o sei solo queste mani storpiate, l'ho sentito cantare, ripeteva, sei solo questa testa piegata, l'ho sentito cantare, questi occhi di sangue, l'ho sentito cantare, questo vuoto che mi è rimasto dentro, l'ho sentito, era Victor Jara, all'Estadio, c'era un sacco di gente all'Estadio e c'era pure lui, e cantava ed io l'ho sentito, sputò per terra di nuovo, quelli gli spezzavano le mani e lui cantava, e loro si incazzavano, sai? Questa cosa l'ho imparata da solo, col tempo, don Manuèl non la sapeva, puoi chiamarlo il sesto comandamento, o il comandamento di Pedro: Ridi. Se stai perdendo, ridi. Ridi della tua sconfitta e gli toglierai il gusto della vittoria, e cercava di ridere, di aprire la bocca al sorriso di sempre, ma in mezzo c'erano troppi tagli e troppe croste viola, era un'altra delle sue storie, quella, ma non me ne fregava niente se Victor Jara fosse morto cantando o pregando la vergine o piangendo come un vitello, mi fregava di lui, che stava lì davanti, e continuava a sparare idiozie come una settimana prima, lascia perdere questa storia, lascia stare Jara, ascolta, è importante, è importante che tu lo dica in giro, devi dire in giro che Victor Jara è morto cantando. Hai capito? Ho capito, lo farò, lo faremo quando usciremo di qui, insieme, ma adesso dobbiamo pensare a te, lui sembrava svenire, poi si riprendeva, ascolta, è importante, teneva le mani sul tavolo adesso, sulle braccia aveva i segni rotondi delle bruciature di sigaretta, sto alla grande, non fosse per quei figli di un cane, guarda, ma sto alla grande, io non avevo più niente da vomitare, guarda che mi hanno fatto alle mani, guarda, come faccio a giocare a dadi con queste mani?, sono dei bastardi, e poi piangendo, con la voce che veniva dal fondo della disperazione: Mi hanno fucilato. Mi hanno fucilato stanotte, mi hanno portato nel cortile, ci deve essere un cortile in questo posto, anche se mi hanno sempre spostato bendato so che c'è un cortile, sotto i piedi ho sentito che c'era l'erba, ci deve essere un cortile da qualche parte, mi dicevano sei stato condannato, compagno, ti andiamo a fucilare, io cercavo di ridere, ma loro mi riempivano di calci ed io avevo il cappuccio, quella campana batteva, cadevo per terra e loro mi davano addosso con gli stivali ed io avevo il cappuccio, mi trascinarono sopra dei cartoni, mi rialzarono, sei stato condannato, compagno Pedro, la tua pena è la morte, c'era uno che dava gli ordini, la sua faccia non l'ho mai vista, ma la sua voce l'ho sentita, non me la dimentico quella voce, era la sua voce, avrei voluto ridere ma avevo il cappuccio, non mi avrebbero visto, INCIQUID 12 # ott 2007 a che cazzo serve ridere se nessuno ti vede? C'era solo la sua voce e il mio sorriso non andava oltre quel cappuccio e quella voce parlava e ho avuto paura e c'era quella campana che batteva. Poi ho sentito gli spari. Sei morto, Pedro. Ho pensato che ero morto, avevo così tanti dolori nelle costole, nella schiena, sulle braccia, sulle mani, che non lo capii subito che non mi avevano sparato, ho pensato sei morto, Pedro, questa è la tua fine, poi mi hanno rialzato e hanno ricominciato a picchiarmi a calci e pugni. Mi trascinavano sull'erba, e sentivo che c'era un giardino, e ho pensato che ero vivo, e piangevo, come non ho pianto mai in vita mia, ero come un bambino, indifeso, ero come una fine, la mia fine, e poi calci e pugni, e svenni, abbracciami, lo conoscevo da dodici anni e non lo avevo mai abbracciato, era strano, non piangere Pedro, noi due ce la faremo, svenne, fuori dalla stanza non c'era nessuno, non era più il mio cazzo di piano, non c'era più nessun piano, non c'era mai stato, ma adesso era ugualmente lontano, cercai di farlo rinvenire, bisbigliava, la testa fra le gambe, un'espressione assente sulla faccia. ...La sonrisa ancha, la lluvia en el pelo, no importaba nada, ibas a encontrarte con el... Che giorno è oggi? E' il venticinque di settembre, Pedro me lo hai già chiesto, e inciampò sui gradi della mia uniforme; tu sei uno di loro! sei uno di loro, bastardo! Tu sei un traditore! sono io Pedro, sono solo io, alzò le mani per coprirsi la testa, si rannicchiò contro il muro, spaventato, lo abbracciai di nuovo, sono io Pedro, poi lo aiutai a tornare al tavolo, ascoltami, non mi guardava, questi ci vanno con la mano pesante, non gliene frega niente se sei innocente oppure o no, ci sono morti per la strada, lui bisbigliava, trovano nuovi cadaveri ogni giorno, devi assecondarli, digli quello che vogliono sentire, inventati una storia delle tue, io posso cercare di parlare con qualcuno, qui sopra, gli dirò Pedro è un tipo a posto, pensano che sia un degno figlio di mio padre, potrebbero aiutarti, lui bisbigliava, ce la possiamo fare ma inventati una qualche cazzo di storia delle tue, una qualche cazzo di storia ma lui bisbigliava e dondolava col capo, forse non mi stava neanche ascoltando, seguiva il rintocco di quella dannata campana, ascoltami Pedro, ho parlato con un capitano, prima che ci incontrassimo all'Estadio Nacional, era vero, mi ha detto che Teresa faceva parte del partito comunista, per lei non c'è speranza, quello che mi dispiace, fratello, lui bisbigliava, è difficile dirlo, ma se è così per lei non c'è nessuna speranza. Quello che mi dispiace è che per loro è così, l'hanno già condannata, forse è già morta, non vale la pena che ti sacrifichi per lei. Inventati una storia qualunque e dammi una mano a farti uscire di qui, ti prego salvati, fra noi c'era un tavolo e i suoi capelli e rivi INCIQUID 12 # ott 2007 40 di sangue secco dalla fronte al mento, e lui che bisbigliava. ...Te recuerdo Amanda, la calle mojada, corriendo a la fabrica, donde trabajaba Manuel... Tu pensi che io sia innamorato di lei, non lo so Pedro, non lo so più, a questo punto penso di sì, se stai facendo tutto questo penso di sì, cercò di guardarmi, alzò la faccia ma non mi vedeva, puntava verso la mia voce, quello che mi dispiace, mi disse, tu pensi che io, non lo so Pedro, non sono innamorato di lei, e allora? chiedevo, e allora sta zitto e lasciami parlare, non so se ce la faccio, tossì, lo sai che ho fatto mille assurdità per le donne, sempre, ho fatto cose contrarie alla morale e alla legge, quello che mi dispiace è che una roba del genere non la farei per nessuna donna, amico mio, mi dispiace, ma non lo farei neanche per te, in fondo io ho sempre usato le persone come scatole, l'ho capito in questo giorni, mentre stavo all'Estadio. Io ho bisogno di amare, di bere, ho bisogno di scopare e di parlare con qualcuno, di queste cose qui ho bisogno, ho bisogno dei loro baciami e dei loro dimmi che mi ami, della loro pelle, di quelle gambe morbide, di quelle bocche, ma non di loro, loro mi servono per riempire di carne questi desideri; ho voglia di parlare, mi serve che dall'altra parte ci sia qualcuno che possa capire questo, qualcuno come te, ma non è necessario che sia tu, amico mio, tu sei solo un caso, potrebbe essere Jo, o Felipito, o el Cabrito, e quella voglia non se ne andrebbe, è chiaro?, le facce delle persone si dimenticano in fretta, gli affetti rimangono, si spostano su qualcun altro, per questo mi è così facile dimenticare tutto e tutti, perché non mi affeziono alle persone, ma ai sentimenti, quelli sono importanti, il sentimento è importante, io non potrei mai smettere di amare, non smetterò mai di amare, ma le persone cambiano, col tempo, col tempo tutto finisce e loro finiscono per non capire. Che io ho solo i miei bisogni, e il più grande è quello di sentirmi libero e sento, in mezzo a tutti questi bisogni, che se cercassi di salvarmi adesso, con la menzogna, non lo sarei più, perché questo non è più un paese libero, non lo so perché, non considerarmi un eroe, un martire, appena posso scapperò da questo posto, ma alla mia maniera, non me frega niente di testimoniare fedeltà a un ideale, non me ne frega niente neanche di questa guerra civile, fatta da una parte sola; è solo che voglio essere libero, e adesso non significa più inversi una cazzata qualunque per scappare, adesso è stare qui e ridergli in faccia, è solo che voglio ridergli in faccia una volta, una volta sola. Ma sento che posso vincerli, che posso fregarli. Credono di mettermi paura, loro ci hanno puntato tutto sul tuo terrore, ma adesso non è il momento di avere paura. Se non hai paura sono loro ad essere fottuti. Se non riescono a metterti in ginocchio, capisci... Sento che posso fregarli. E questa non è una cosa come portargli via anche le mutande. Sento che devo andare fino in fondo, e questo, almeno questo, penso che puoi capirlo. Non lo so. INCIQUID 12 # ott 2007 41 Non lo so se capivo, ero ubriaco, ero disperato, e capivo solo che Pedro non sarebbe uscito di là insieme a me, non c'era più niente da fare, tutta insieme vidi l'assurdità del mio piano, ero uno stupido che cercava di salvare un altro stupido, e tutto quello si chiamava disperazione, non sono un eroe, sta tranquillo, ripeteva Pedro, me ne devo andare da questo posto, mi ammazzeranno, non gliene frega niente di quello che ho da dire, è solo un pretesto per la tortura, ne inventano ogni giorno una nuova, non c'è mai fine, oggi hanno inventato il sottomarino, ti legano e ti buttano in un barile di piscio, fino a quando non parli, ogni tanto vieni su, parla bastardo, dove tenete le armi?, tu e i tuoi compagni comunisti, e poi giù di nuovo, non invocare Dio, bastardo, tu sei un comunista, tu non ci credi a Dio, siamo noi quelli che credono in Dio, e di nuovo dentro al barile, e poi quell'orrore, che ormai ha il suono trionfante della musica, la stanno usando con tutti, lo faranno anche a me, mettono la radio a tutto volume e tu sai che lo stanno facendo con qualcuno, e senti solo la radio e questa dannata campana che batte e lo sai, senti quelle marce militari che ti si infilano nel cervello e lo sai che stanno usando l'elettricità, non senti nient'altro che un rumore trionfante nella testa che non vuol dire nulla e lo sai, ti portano sul potro e ti legano nudo, ti stirano fino a romperti i polsi e le caviglie, con quelle placche ti friggono le orecchie e le tempie, ti fissano una placca alle palle e se ne vanno in giro per il corpo a cercare dove ti fa più male, sulla lingua, negli occhi, te lo infilano anche su per il buco del culo quel loro cazzo di elettrodo, non è un modo di dire, lo fanno davvero, e tu senti solo una musica di marce militari e la campana che batte, e lo sai, il resto, devo uscire da questo posto, non lo so se resisterei all'elettricità, cominci a tremare, pensi che ti brucerà il cervello, te la senti che ti entra fino alla spina dorsale e sei legato e le corde ti segano i polsi, il resto posso sopportarlo, mi urlano non fai più parte di nessun partito, compagno, il partito socialista non esiste più, vuoi bere?, hai sete?, mi dispiace, amico mio, non puoi bere, il resto sì, avanti fino a quando riesci a parlare, viene qualche soldato ogni tanto e mi piscia addosso, mi dice me la sono scopata la tua Teresa, la tua Teresa è una gran troia, se l'è scopata tutto il reggimento, come godeva quando gliel'ho messo in bocca, e come strillava quando le ho messo in bocca l'elettrodo, o quando le ho infilato dentro un topo, tutto il resto posso sopportarlo, pensano che me ne freghi qualcosa, non lo sanno che non me ne frega niente di niente, questo posso sopportarlo, ci sono passato altre volte, a Buenos Aires ho dormito in mezzo alla merda delle vacche, sai cosa me ne frega del loro piscio?, gli porterei via anche le mutande se avessi un mazzo di carte. Tutto il resto posso sopportarlo ma non l'elettricità. Se avessi un mazzo di carte, guarda che mi hanno fatto alle mani, quei figli di puttana. Che giorno è oggi? E' il venticinque di settembre, no, non mi hanno arrestato, fratello mio, sono INCIQUID 12 # ott 2007 42 qui per te, lui scuoteva la testa da una parte all'altra, te l'ho detto che l'ho sentito cantare?, sì, me l'hai detto, adesso cerca di stare calmo, ricorda il primo comandamento, gli altri dicevano che non era vero, ma io l'ho sentito che cantava, è importante che cantasse, allora mi frugai nelle tasche, tu devi dirlo in giro, è importante, te lo prometto, è importante, ti ho portato una cosa Pedro; lui la guardò: è rotta, che ci devo fare? dovresti ricordare questa chiave spezzata, speravo che ricordasse quella storia, che sapeva e teneva nascosta in qualche parte del cervello, dovresti ricordare, Pedro, spero che un giorno abbia avuto la forza e il tempo di ricordare, continuava a dire è rotta, tienila, è un portafortuna, senti la campana? grazie. ...Suena la sirena, de vuela al trabajo, muchos no volvieron, tampoco Manuel... Rimasi a guardarlo, senza dire niente. Dopo qualche minuto ricomparve l'uomo con la lettera. - Mi dispiace, ma dobbiamo riportarlo di là. Stavo per seguirli ma quell'uomo mi fece un cenno con la mano. Dovevo aspettare lì. [capitolo ventotto] Quando mi svegliai era notte fonda. Ero steso sull'erba, sopra di me c'era un cielo sereno, senza luna, sentivo odore di acqua. Intorno c'erano poche luci, vedevo le stelle che mi ballavano negli occhi, vedevo le linee che le univano una all'altra. Vidi una grande stella luminosa in mezzo al cielo, era Giove, non poteva essere altro che Giove. Riuscii a stento a riconoscere la croce e un'altra stella luminosa lì accanto. Poteva essere qualsiasi cosa, poteva essere Eridano, quel punto luminoso poteva essere Achernar la splendente. Poi le stelle cominciarono a girare e chiusi gli occhi per paura di cadere. C'era erba intorno a me, ma non era un giardino. Mi chiesi se ero vivo. Ero sdraiato su un prato, vicino scorreva il Mapocho. L'ultima cosa che ricordavo era un dolore caldo dietro la testa. [capitolo ventinove] Forse avrei potuto fare di più per Pedro, forse avrei potuto fare di più per questo paese. Continuai a ripetermelo per molti anni. Quella notte, mentre camminavo senza coscienza di me verso il centro, verso la mia vecchia Fairlane azzurra del `56, non sapevo ancora che sarei stato anni lontano da Santiago. Intuivo vagamente che non avevo voglia di vedere mio padre, che non sarei tornato a casa, che non avrei più usato i miei veri documenti. Non INCIQUID 12 # ott 2007 sapevo ancora che avrei girato per anni come un vagabondo, senza nome. Non sapevo che non avrei più rivisto Pedro, Rebeca, mio padre. Continuavo a ripetermi che avrei potuto fare di più, e basta. Continuavo a dirmi che avevo giocato la mia partita, e avevo perso. L'ultima cosa che ricordavo era un dolore caldo dietro la testa. Erano entrati due uomini, due militari, e mi avevano preso e sbattuto sopra il tavolo. Uno mi teneva fermo e l'altro mi riempiva di pugni. Poi prese un bastone e cominciò a colpirmi e ad infilzarmi il torace, mi tenevano fermo, bastardo, stai fermo, mi sbattevano la faccia sul tavolo, e mi riempivano le costole di gomiti e di legno, pensavi di fregarci, ragazzo, sentivo le mie ossa cedere. Non riuscivo a vedere niente, ma la sua voce, distante, la riconobbi. - Ringrazia Dio che tuo padre per me è come un fratello, altrimenti ti avrei fatto fucilare. Sentii altre tre o quattro colpi sulla schiena e poi il dolore caldo alla testa. [capitolo trenta] Mi svegliai che era mattina. Ero troppo stanco per guidare. Mi tolsi l'uniforme e indossai i miei vestiti, poi chiusi la macchina. Mi avviai verso il centro a piedi. Camminavo come se fossi morto. Sentivo dolore alle gambe, sentivo dolore in ogni parte del corpo. Avevo un paio di costole rotte. Nello specchietto retrovisore dell'auto la mia faccia l'avevo a malapena riconosciuta. Percepivo lo spazio, ma era come se non vedessi e non sentissi. Non me ne fregava di niente, se mi avessero arrestato e portato all'Estadio Nacional non avrei fatto resistenza. Ero vivo, grazie a mio padre, e mi sentivo in colpa. C'era un corteo, una manifestazione. Tutt'intorno le guardie formavano un cordone di mitra. Era poca gente, mi avvicinai, mi accorsi che era un corteo funebre. Chiesi ad una donna di chi fosse quel funerale. Solo allora seppi che Neruda era morto. Ascoltai, la gente gridava il suo nome, poi cominciò a gridare il nome del presidente. Tutti gridavano il nome di Allende e il nome di Neruda. Io sentivo la gente che ripeteva i suoi versi, e capii molte cose, e capii perché Pedro insistesse tanto con quella storia della canzone. E sentii questi versi, giuro che li sentii: Questa è l'ora delle foglie cadute, triturate sopra la terra, quando d'essere e non essere tornano al fondo spogliandosi d'oro e di verzura fino a che son radici nuovamente e di nuovo, demolendosi e nascendo, salgono a conoscere la primavera. INCIQUID 12 # ott 2007 La galleria di Andrea Gianinazzi La Galleria è un luogo fisico concreto in un posto che potrebbe essere perfino un buco nell'universo. È una galleria come tutte le altre, dove passano i treni, dove si trovano oggetti, dove la gente va a morire, dove gli addetti alle ferrovie lavorano e camminano e controllano. Un luogo claustrofobico, che mette ansia col buio e i rumori e il treno che si avvicina sempre più, con i suoi occhi "di bragia", rossi, infuocati, sempre più vicini che ti spingono in una nicchia; entri nella nicchia, il treno passa, esci dalla nicchia e ricomincia l'avventura, ricomincia la ricerca nel buio dell'antro. La Galleria è un luogo dell'anima, angusto, claustrofobico, dove stanno le liti in famiglia, il pensiero e la percezione della povertà, del dolore, della sofferenza. Un luogo da cui a volte si riesce a uscire, ma con il buio che ti è rimasto dentro. Anche stamattina mi sono alzato cinque minuti prima della sveglia. Sono anni che riesco a non farla più suonare. Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è grigio. Minaccia acqua da un momento all'altro. Inizio il turno fra un'ora. La caffettiera mi annuncia con un sibilo e uno sbuffo che il caffè è salito. Apro il termos e vi verso il liquido nero, vi aggiungo un po' di zucchero e un goccio di kirsch. Chiudo accuratamente il tappo e metto il bicchiere. Controllo tutto: pane, il pacchetto con la bologna, un salametto, un paio di mele, un pezzo di formaggio, una tavoletta di cioccolata alle nocciole, un pacchetto di biscotti, una bottiglia di quelle con la macchinetta dove metto mezzo litro di barbera. E il termos, appunto. Controllo la lampadina tascabile, si accende senza problemi. Do un'occhiata alle batterie di riserva. Sono al loro posto. Chiudo lo zaino dopo avervi messo il maglione grosso. Mia moglie, dorme ancora. Ieri abbiamo litigato forte per via di non ricordo più che cosa. Le nostre litigate cominciano da niente, poi crescono fino a diventare una cosa enorme. Ho dormito sul divano del salotto. E' andata a letto senza nemmeno salutarmi, alle otto. Neanche il telegiornale e lo sceneggiato che non manca mai. Ho mal di testa e ho male dappertutto. Butto giù una pastiglia con un bicchiere d'acqua, poi ne prendo un'altra. Non posso iniziare con un mal di testa. Getto uno sguardo nella stanza dei ragazzi. Abitudine, visto che da anni se ne sono andati per la loro strada. Guardo la porta dove dorme lei. Esito un momento, poi tiro avanti. Metto il giaccone pesante ed esco in strada. Fa freddo, ma la neve non è ancora arrivata fino a qui. La si vede appena, sopra la pineta. Il profumo della montagna mi raggiunge e mi inebria. Mi avvio verso la stazione. Sono quindici minuti scendendo e venti salendo. Respiro a pieni polmoni. Faccio sempre così ogni mercoledì e, per compensare il mercoledì, lo faccio tutte le volte che scendo alla stazione, anche gli altri giorni. Oggi è mercoledì e respiro a fondo, come gli altri mercoledì e gli altri giorni. Respiro sempre a fondo. Devo fare una buona riserva. Arrivo in quattordici minuti. Non c'è ancora nessuno. Scendendo sento passare due merci e un treno passeggeri: hanno un modo di sferragliare tutto diverso i merci e i passeggeri. Le merci non si lamentano e allora si lamentano i vagoni. Ho sempre preferito i merci. Appoggio lo zaino vicino al locale del personale e vi entro. La stufa a nafta è spenta. Quello del turno di notte è nella sala comando, davanti alla consolle degli scambi e dei binari. Lo vedo attraverso la porta comunicante lasciata aperta. Ciao Franz, novità? Mi saluta con gli occhi di chi ha passato tutta la notte a vedere treni ed è passato anche lui. Ciao, novità? chiedo. Niente di importante. Solo che il 996 si è fermato in galleria al chilometro 11. Qualcuno ha azionato il segnale di allarme. Dopo un controllo è però ripartito subito. Dà un'occhiata visto che ci passi. Dice. Già che ci passo..., faccio io con un po' di risentimento. E' come quando vai in città, già che ci passi. Compilo il documento di ispezione fissato su un supporto di metallo: data, orario di partenza, nome e cognome dell'ispettore, cioè il mio. Apro l'armadietto, prendo e indosso gli stivali, la cerata nera con le strisce arancioni. Metto il casco con la lampada e infilo la batteria in tasca; afferro il bastone, mi carico lo zaino, saluto il collega e mi avvio verso l'entrata della galleria. Vedo qualcuno nella sala d'aspetto. L'ho già veduto altre volte. Uno che vive sui treni. Ha una cicatrice sulla fronte. Un buon diavolo. Cammino per una cinquantina di metri fin dove dura il cemento della piattaforma, poi scendo lungo lo stretto passaggio tra la doppia fila di binari. I sassi della massicciata scricchiolano sotto la pesante gomma degli stivali. Mi fanno compagnia. Faccio ancora qualche centinaio di metri e sono ai portali della galleria.1 Questa volta tocca al binario di destra. Do ancora un'occhiata al rapporto di ispezione. Accendo la lampada del casco e mi volto nuovamente verso il giorno e il mondo. Alcune gocce d'acqua iniziano a cadere. Guardo l'orologio. Mancano ancora due minuti. Aspetto un po' accanto al muro che riunisce a terra l'arco delle due volte. Il treno è puntuale. Vedo lontano, nel buio, i tre fanali della locomotiva. Diventano sempre più grandi fino a diventare assordanti poi lo spostamento d'aria mi solleva il casco. La prima locomotiva i vagoni dei passeggeri di prima classe, il vagone ristorante, i vagoni di seconda, il vagone postale. Non si lamentano i vagoni dei passeggeri. Intravedo un uomo addormentato con E' inutile cercare la galleria. Sta sul confine e potrebbe essere il Sempione, ma potrebbe essere quella del Gottardo, anche se questa è a un solo tubo mentre quella del racconto è a due. Ogni galleria sta su un confine e unisce due parti come i passi, i ponti, i traghetti, le navi. Gli aerei non uniscono niente. Non mi piacciono gli aerei, non mi piac- ciono gli aeroporti. Non c'è anima. L'aeroporto è il simbolo dell'ateismo e del riduzionismo dell'uomo a cosa. L'anima è divorata dalla velocità, dal tempo. Non c'è volo nuziale, solo sterilità. INCIQUID 12 # ott 2007 la testa appoggiata al finestrino. Ho un senso di invidia. Quando vedo la lanterna di coda mi muovo. Adesso ho cinque minuti per arrivare alla prima sosta. Respiro ancora profondamente, poi mi faccio inghiottire dal nero della galleria. Sono le sette. Quando uscirò, se tutto va bene, saranno le prime ore del pomeriggio. La lampada sul casco getta una luce che più entro, più si fa utile. Mi volto. Il semicerchio di luce è ancora enorme. Lo guardo con nostalgia. Vorrei averlo di fronte, non di spalle. Sento i primi odori forti del di dentro della montagna. Accendo anche la torcia tascabile per poter veder meglio i binari e le pareti e la linea aerea. Si può trovare di tutto: animali in putrefazione, giacche, cappelli, preservativi. Le lattine hanno preso il posto delle bottiglie di vetro, adesso vi sono anche quelle in PVC o in PET. Meglio così. Qualche volta mi è capitato di trovarvi il corpo di persone che avevano deciso di uscire di scena al buio di una galleria oppure, semplicemente, avevano preso lo sportello del vagone per quello della toilette. Non trovi un granché. Gli abitanti della galleria fanno un buon lavoro nel ripulire quello che in qualche modo è attaccato all'osso. Mi volto ancora. L'entrata della galleria si è rimpicciolita. Avverto la vibrazione forte proprio dieci metri più avanti vi è un vano nella parete, mi affretto e vi entro. Ormai l'avvicinarsi di un treno lo sento nel sangue. Aspetto. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Sono tre punti che ingrandiscono e ingrandiscono e poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e quindici vagoni, poi il lampeggiare rosso dell'ultima carrozza. E' ancora un viaggiatori. Passano anche treni sull'altro binario: quelli li sento solo, non li guardo, fanno parte del mondo della settimana prossima. Esco dal mio angolo. Il senso del treno, dà senso al mio andare. Lontano un punto rosso al quale do le spalle. Mi viene in mente lei. Ieri sera era particolarmente bella con quel vestito blu e il filo di perle che le aveva lasciato sua madre. Adesso è buio pesto. Sono dentro, quasi un chilometro. Riconosco ogni sasso, ogni increspatura. L'umidità aumenta. Scende a rivoli lungo la volta e si raccoglie in piccoli rigagnoli lungo i lati. Ci cammino in mezzo. La luce inserita sul casco illumina qualche metro davanti a me. Sui binari non c'è niente. Solo qualche pezzo di carta e qualche bisogno fisiologico che, messo lì tra i binari, non puoi neanche sapere se viene dalla prima o dalla seconda classe: i treni merci si contengono; si lamentano, ma si contengono. Vedo la nicchia e mi ci metto. La solita vibrazione. Aspetto. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Sono tre puntini che ingrandiscono e ingrandiscono e poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva, poi un'altra poi dieci vagoni. E' un merci, poi il lampeggiare rosso dell'ultimo vagone, piccolo, quello di scorta. Vedo una luce attraverso i finestrini. So che lì fa caldo. L'odore della galleria diventa sempre più pesante. Nessuna ventilazione per le gallerie ferroviarie. L'aria i treni se la portano da sé: la prendono di là e la traghettano di qua. A me però non la danno. Mi viene voglia di una INCIQUID 12 # ott 2007 47 sigaretta, ma non posso. E' più o meno sempre qui che mi viene voglia di una sigaretta. Poi mi verrà voglia di un po' di caffè. Faccio passare accuratamente tutta la massicciata. Qualche sacchetto di plastica che sposto con il bastone. Controllo anche la volta per vedere se vi sono danni alla linea e alla muratura. Ci sono dovuti stare anni, quelli che l'hanno costruita. In fondo io ci devo rimanere per poche ore. Ripenso a casa. E' strano, ma come entro in questo budello nero, là tutto si fa luce, si rischiara. Adesso mi sto già dando dello stupido per via della mia donna. Penso a lei come alla mia donna e non più come a mia moglie. E' già un progresso. Mi dispiace di non averla salutata stamani. C'è gente che non se lo è più perdonato. Caccio via `sti pensieri negativi che qui ti buttano a terra. Al chilometro 2,5 registro un leggero danno al binario di destra; la giuntura si è aperta in maniera eccessiva. Avvertirò appena possibile. Prendo nota su un calepino: c'è un telefono al chilometro 10. Penso al collega che faceva questo stesso lavoro prima dell'elettrificazione della linea. Doveva essere un incubo. Anche i passeggeri sicuramente ne risentivano. Le merci no, quelle non si lamentano mai. Devo orinare. Mi capita sempre di dover pisciare al chilometro 3, subito dopo il passeggeri. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Mi metto dentro alla nicchia più vicina Sono tre punti che ingrandiscono e ingrandiscono ancora. Poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e tutti i suoi vagoni. E' il passeggeri. Quindi il lampeggiare rosso della coda. La faccio nel cono di luce che giunge dal casco, direttamente sui binari ancora caldi. Riprendo il cammino. Come esco telefono a casa e le propongo di andare a cena da qualche parte, o le prendo dei fiori, o semplicemente le chiedo scusa. Forse le darò solo un bacio. Meglio di cento parole. Io non le trovo mai le parole. Non mi hanno dato le parole per queste cose: quello che dico ha a che fare con le rotaie, con i treni, con le gallerie, con le cose materiali. Quelle altre non le so dire. Sì, quando ero piccolo il prete ci ha insegnato a pregare; ci ha insegnato le parole che hanno a che fare con Dio. Quelle le so a memoria.Pater noster quiesi in cielo, santi ficetum nomem tuum... fiat voluntas tua... Ave Maria materdei orapronobis peccatoribus... Requiem aeternam donaeis domine... libera nos amalo o qualcosa del genere. Poi le hanno cambiate e adesso anche con Dio faccio fatica a parlare. Il latino mi sembrava la lingua giusta per parlare con Dio. Se prego in italiano mi sembra di dire delle stronzate. Vi è da dire che Dio dovrebbe essere abituato a tutte le stronzate che gli diciamo tutti i giorni perché abbiamo una fifa boia di andarcene di qua. E' come il tiro alla fune, solo che noi lo preghiamo di tirare di meno, di lasciarci vincere qualche volta. Amen Nessuno ci ha insegnato le parole da usare con le donne. Mi sento strano quando parlo con lei. Preferisco accarezzarle il seno pesante poi la schiena e poi... Forse le parole non servono. Me lo dice che non dico niente. Ma cosa posso dire senza sentirmi strano. Quello che dicono al cinema non INCIQUID 12 # ott 2007 funziona. Sembri un idiota Sento il vento del treno che sta arrivando e l'odore forte della terra, sotto terra... e quello fetido dei binari. Chissà se la ruggine sparsa tutt'intorno ha un odore? Eppure dipinge tutto di rosso-bruno. Deve per forza avere anche un odore: l'odore della ferrovia, delle stazioni, della gente fermentata negli scompartimenti surriscaldati. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Mi metto dentro alla nicchia più vicina Sono tre punti che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e tutti i suoi vagoni. E' ancora un passeggeri. Poi il lampeggiare rosso della coda. Guardo l'orologio. Sono le nove passate da poco. Vedo qualcosa che luccica dall'altra parte. Punto la torcia elettrica. Sembra un braccialetto o qualcosa di simile. Mi avvicino. Si tratta di uno di quei bracciali di rame che la gente mette per far passare i dolori reumatici. Lo metto in tasca. Finirà con gli oggetti smarriti e fra un anno, se non reclamato, sarà messo all'asta con centinaia di altri oggetti dimenticati o persi: macchine fotografiche, biciclette, ombrelli, borse, valige, orologi, accendini, orecchini scompagnati, cappelli, sacchi da montagna, occhiali da sole e da vista, astucci, portafogli vuoti (chissà poi perché i portafogli sono sempre vuoti), libri, scialli, cappotti, giacche, guanti, calcolatrici, binocoli, lavori a maglia appena avviati, penne, foulard, bastoni, stampelle, radioline, lettori CD, mangianastri, pupazzi di stoffa, giocattoli e braccialetti di rame che servono per i reumatismi. Controllo la linea aerea. A ogni chilometro segno nel calepino il risultato della mia ispezione. Vedo l'indicazione del chilometro 6. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Mi metto dentro alla nicchia. Sono tre punti che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore per poco. E' una locomotiva in trasferimento. Sono le più pericolose perché fuori programma. E il rosso della coda. Al chilometro 6,8 noto che l'acqua è più abbondante e scorre lungo i binari per poi sparire in uno dei buchi laterali. Segno la posizione esatta di questa infiltrazione. Trovo più avanti la fessura da dove proviene tutta quell'acqua. Occorrerà fare un sopralluogo con l'ingegnere responsabile. Può essere una vena che si è spostata, ma potrebbe essere anche qualcosa di più serio. Segno anche questo tra i miei appunti. Infilo la luce della torcia e quella del casco in ogni buco. La conosco tutta la galleria. Due settimane fa l'acqua non c'era in questo punto. Non è la prima volta che l'acqua scompare da una parte e sbuca da un'altra per poi sparire di nuovo. Qui sopra vi sono ghiacciai, nevi eterne, vi nascono torrenti che diventano fiumi e poi laghi e poi ancora fiumi e vanno poi a diluire la salsedine marina. I minatori che hanno lavorato in questa galleria il secolo scorso, si beccavano un parassita le cui larve nuotavano in quell'acqua gelida2: entravano dai piedi Nel 1880, mentre si stava scavando la galleria ferroviaria del San Gottardo, si diffuse tra i minatori una misteriosa anemia che provocò centinaia di morti. Fu chiamata anemia dei minatori e si pensò che la montagna violentata si ribellasse all'uomo trasfor- mando il suo sangue in acqua. Si scoprì invece che l'epidemia era provocata da un paras- sita, l'ankilostoma duodenale, portato in galleria dall'uomo stesso. Le larve si sviluppano al INCIQUID 12 # ott 2007 e poi andavano nell'intestino e mandavano tutto a puttane. Guardo ancora quest'acqua chiara che qualcuno direbbe anche pura. Non mi azzarderei a berla. Una galleria non è una grotta di montagna. Ci passano i treni, gli uomini e questa galleria dura un'eternità e gli uomini e le donne non sempre possono aspettare... I vermi forse ci sono ancora. Ho gli stivali: i miei piedi sono al riparo. Fra una decina di minuti farò una sosta. Vi è un locale in mezzo alla galleria dove ti puoi fermare un po'. C'è anche una lampada e un tavolo di sasso. Ti metti seduto a un paio di metri dalla linea, mangi pane e companatico, bevi un po' di vino e finisci con il caffè del termos. C'è anche un telefono a circuito chiuso. Ci arrivi, in questo locale, sia che tu scenda da nord, come nel mio caso, sia che tu salga da sud, come sarà il mio caso la settimana ventura. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Mi metto al riparo. Sono tre punti che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e tutti i suoi vagoni. E' ancora un passeggeri. Vedo la carrozza ristorante dalla mia nicchia. Se fosse una navata gotica, sarei un santo. Ma è una galleria e sono un poro diavolo. Poi il lampeggiare rosso della coda. Resto voltato per un lungo momento, fino a quando il punto rosso si spegne nel rumore. Manca ancora pochissimo e poi sarò in pausa. La metà dell'opera sarà alle mie spalle, l'altra metà l'avrò ancora tutta davanti. Ho calcolato che mi restano 142 escursioni se non vi sono inconvenienti o se qualcuno non mi sostituirà prima. Mi avevano detto che sarebbe stato solo un lavoro temporaneo, poi avrei ripreso il mio compito alla stazione. E invece mi hanno chiesto di continuare. E sto continuando questo su e giù, solo con me stesso, lontano dai problemi del mondo fuori: per un solo giorno alla settimana il mondo cessa di esistere, diventa un lungo buco nero, senza finestre, senza aria, senza pioggia né vento. Una notte senza luna né stelle; una notte senza giorno; una notte senza di lei. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Sono tre puntini che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore, polvere della locomotiva e dei vagoni. Non è né passeggeri né merci. Chiudo gli occhi e vedo il rosso lampeggiare della coda, li riapro e vedo il soffitto della nostra camera da letto. Lei si è girata verso di me; mi tiene la mano. E' ancora nuda. Mi piace guardarla. Mi viene da ridere, le do un bacio. Si sarà già alzata adesso. Forse sta ancora facendo colazione. Avrà cercato il solito biglietto di scusa. Questa volta non ho lasciato niente. Mi dispiace, però. Devo smetterla con questo lavoro, altrimenti finirà che va male anche con lei. I tre fanali poi aria, rumore, polvere. Una delle ruote è incandescente. Il freno non si è allentato a dovere. Poi il rosso. Arrivo al locale centrale. E' il chilometro 8. E' il momento della pausa. Si tratta di una nicchia più grande con un tavolo di pietra e una panca. Si suolo a partire dalle uova contenute nelle feci umane. Una volta giunte allo stadio adulto penetrano nell'organismo attraverso la pelle, in particolare, dei piedi. Dopo un lungo giro arrivano nell'intestino dove si fissano sulle pareti e iniziano a succhiare il sangue. INCIQUID 12 # ott 2007 50 può accendere anche la luce. Spengo le torce elettriche, tolgo il casco e lo zaino dalle spalle. Apro la scatola di metallo grigio che contiene il telefono di servizio. Chiamo la stazione. Mi risponde quello del turno successivo. Dico dove sono e che tutto va bene. Segnalo l'inconveniente della ruota al merci appena passato."Capito", mi dice l'altro e aggiunge: «Sta attento, il macchinista del diretto delle 08.06 ha visto qualcosa sui binari.» «Farò attenzione, Grazie!». Succede di frequente che un animale si infili nel buco e poi vada a sbattere contro un treno. Quelli che arrivano più lontano sono quelli che entrano dopo la mezzanotte, quando non ci sono più treni. Di solito vanno a sbattere contro il diretto delle 6.56, ma i più fortunati arrivano anche a quello delle 08.06. Il prossimo appuntamento è con la luce del giorno. Fuori, mi ha detto, piove. C'era da aspettarselo. Per qualche ora ancora, per me fa lo stesso: "sole" è una parola che non vuol dire niente qua dentro, se non te lo sei portato appresso tra i ricordi. Non riusciresti mai a spiegarlo a un abitante di qui dentro, in mezzo alla montagna. L'acqua, sì, quella non avresti difficoltà a spiegare che cos'è. Apro lo zaino e tolgo il sacchetto di stoffa bianca, il termos e la fiasca con il vino. Me ne verso un po' nel bicchiere che poi userò per il caffè. Inizio dal panino alla bologna. Inizio sempre con quello. Non ho molta fame. Bevo un po' di vino e un po' di caffè. Finisco con un paio di righe di cioccolato. Metto una mela nella tasca della cerata e chiudo il sacco. Aspetto il passaggio del treno. E' come essere al casello dell'autostrada: dieci vagoni di automobili tutte disciplinate, tutte allineate, tutte rigorosamente in colonna che è lo stato più probabile in cui si può trovare un'automobile. Rimetto il casco, riaccendo la torcia e sono subito tra i binari. Vedo più oltre qualcosa allungato lungo i binari dall'altra parte. Potrebbe essere uno straccio o un sacco o qualcosa del genere. La luce delle torce elettriche non arriva fin là. Mi avvicino. Devo fare attenzione perché dovrebbe essere in arrivo un treno. Eccolo coi tre che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore. Non ci bado nemmeno. Aspetto solo che passi per vedere di che cosa si tratta. Mi avvicino. Sembra... sì sembra proprio un uomo... no è solo una giacca. C'è anche una borsa lì vicino. Raccolgo il tutto e mi infilo in una nicchia laterale. Frugo le tasche e non trovo niente. Nella borsa, di plastica - di quelle che danno in pubblicità - vi è l'immagine di una bibita, vi sono alcune fotocopie. E' arabo per me. Forse è arabo davvero. Sembrano documenti personali poiché vi sono anche delle fotografie. Due donne e bambini. Sembrano orientali o qualcosa del genere. Io non conosco gli orientali. So distinguere a malapena uno del sud da uno del nord anche perché il nord e il sud passano in treno. Gli orientali li ho visti in qualche film americano Non c'è altro nella borsa. Infilo tutto nel mio sacco. Anche questo andrà all'asta della ferrovia, salvo le fotocopie. Passano i tre con aria e rumore e la lampada rossa in coda. Riprendo il cammino. Mi chiedo continuamente come possa essere arrivata lì quella roba. Forse l'hanno buttata dal finestrino. Mah... C'è ancora molta umidità. Vi è sempre un rigagnolo che scorre lungo la linea. Prima scorreva INCIQUID 12 # ott 2007 51 da sud a nord, ora il senso è il mio, da nord a sud. Ho passato il crinale. Adesso sto scendendo. Sento che il passo è più agile. Mancano ancora pochi chilometri. "Sei fuori, fra un po'". Continuo con nuova lena. Quell'aria mi opprime. Penso ancora alla mia donna. Guardo l'orologio automatico. Me lo hanno regalato i figli per i miei cinquant'anni. Starà facendo la spesa. Avrà trovato qualcuno per fare due chiacchiere. Dov'è tuo marito? E' in galleria. Il marito dell'altra sicuramente se ne sta dietro a qualche scrivania. Arriva a casa la sera bello, pulito, pronto per una passeggiata e per una sosta sulla terrazza di un ristorante. Non come il suo, cioè io, sempre distrutto. Dopo la galleria mi ci vogliono due giorni per rimettermi in sesto e, appena sto meglio, mi tocca ricominciare. E tutte le volte è un po' peggio. «Possibile che non trovino qualcuno che possa fare questo lavoro al tuo posto? Ti sei fatto il giro del mondo in galleria!» Quante volte l'ha sentito dire. Non ce la fa più a vedere i suoi occhi che gli chiedono una vita che sia una vita. «Ne ho parlato con il mio capo.» «Sì, vedrai che ti cambio. » Ma poi... Vedo i tre poi, accodato il rosso; in mezzo aria e polvere e fracasso. Entro in un vano. Tolgo il thermos e bevo un bicchierone di caffè. Ne è rimasto poco meno della metà e lo finisco. Ha un gusto di ferrovia e di grappa. Si sente anche il caffè in mezzo, lontano; quasi un ricordo. Mangio una riga di cioccolata e metto via tutto. Dai, ancora una sforzo! Poi avrò qualche giorno di tregua. Si fa per dire. Ma fuori dal buco c'è sempre tregua. Passo accanto alla porta di ferro che blocca l'accesso agli infiniti cunicoli scavati nella montagna. Si dice che via sia l'universo, lì dentro. Vi è anche chi c'è stato, ma non se ne può parlare. Si può solo immaginare. Una porta di ferro per immaginare. Tutte le volte penso che sarebbe bello poter entrare. Il fascino delle porte chiuse. Ogni volta la curiosità aumenta e con essa la tentazione di trovare qualcosa che mi consenta di aprire anche dal di fuori. Non c'è però un punto debole che consenta un'effrazione. E poi, che cosa sto pensando? Potrei perdere il posto. C'è gente disposta a farsi la galleria tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi dell'anno, pur di avere un lavoro sicuro e io sto pensando alla porta chiusa. Anche se di ferro. Eppure anche questa volta la luce della pila indugia sulla parete liscia, grigia, bullonata e rivettata... Tiro innanzi, che manca ancora poco. Mi pare di sentire un rumore strano più avanti, come di sassi che rotolano. Mi fermo e tendo le orecchie. Non sento più nulla, poi sento il rumore familiare dei tre fanali, prima piccoli poi più grandi e poi tutto il resto, un passeggeri di polvere, stridii, aria. Mi volto, tanto, così, perché lo faccio sempre. La lampada rossa non funziona. E' come se il treno in qualche modo non fosse finito; fosse stato troncato come una lucertola, persa la coda. Esco dalla nicchia e continuo. Gli altri giorni percorro la linea all'esterno. Faccio venti chilometri ogni giorno. Mi portano al punto dove sono rimasto il giorno prima e giù altri venti chilometri. Ma lì non mi pesa. C'è sempre qualcuno sulla linea con cui fare due chiacchiere. Capita anche il tratto con le gallerie elicoidali, ma non è come questa che mi tocca sempre di mercoledì: una volta in su e una volta in INCIQUID 12 # ott 2007 52 giù. Conosco tutta la linea dall'inizio della rampa alla fine dall'altra parte che poi inizio e fine li decido io di volta in volta. L'inizio è da dove inizio e la fine è dove finisco. E' ovvio!, avrebbe detto il mio maestro di scuola elementare, ma quando sei sulla linea non c'è niente di ovvio. Il buco sembra non finire mai. Vedo il treno mi tiro dentro nella nicchia. Passa. Questa volta la lampada funziona. Sento un respiro dietro di me. Mi volto spaventato. Forse è un animale. E' un bambino. Un bambino? Non ci credo. Mi avvicino. Sì, è un bambino. Se ne sta in un angolo, intimorito e intirizzito, la testa rientrata tra le spalle. Le scarpe bagnate. I miei occhi sgranati dallo stupore devono spaventarlo. Mi metto a urlare al suo posto: «Che cazzo ci fai qui?» Poi vedo che sta per piangere. Mi calmo. Gli chiedo come si chiama e dove sono i suoi genitori. Non risponde. La testa rientra ancora di più tra le due spalle. Mi chino su di lui. Ma da dove è saltato fuori? Che cosa ci fa tutto solo in questa galleria, come ha fatto ad arrivare fin qui? Che cosa fai in questa galleria? «Come hai fatto ad arrivare fin qui? E' pericoloso!» dico. Non mi risponde, non dice niente. Stringe una piccola borsa. E' tutto quello che ha. Tolgo dal sacco il resto della tavoletta di cioccolato. Vedo negli occhi un baluginio. Come glielo porgo, se lo prende e lo mangia avido. Dice due o tre parole che non capisco. Provo a dire qualcosa in tedesco, in italiano, in francese. Tento anche con l'inglese, quelle due o tre parole che si sanno, tanto in ferrovia non serve. Mangia il cioccolato, poi gli do anche un po' di pane. Apre la sua borsa e ne toglie un pezzo di carta. E' la fotocopia di un documento. Vi è la fotografia di un uomo con i baffi. Il nome mi sembra slavo: finisce con vic. Conoscevo un calciatore arrivato da noi che aveva il cognome che finiva in cic. Anche lui slavo o forse croato o forse serbo. Ma chi ne capisce qualcosa. Però aveva il cognome che finiva in cic. Passa un treno. E' la prima volta che non vedo i tre fanali della locomotiva; sento solo aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e tutti i suoi vagoni. Non so se è un merci o un passeggeri. Se solo avessi ascoltato bene avrei capito che si trattava di un merci, ma non stavo ascoltando bene. Mi perdo anche il lampeggiare rosso della coda. Per la prima volta, da quando faccio la galleria. Chiedo dov'è l'uomo della fotografia. Non dice niente, ma con un segno lascia capire che non lo sa. Almeno, a me pare di capire che abbia detto così. Tolgo le fotocopie che avevo trovato nella borsa abbandonata sui binari. Gli mostro le fotografie, ma non sembra riconoscere nessuno. Quelli erano orientali, questo un vic. Ma che differenza fa, dentro a una galleria. Dai vieni che cerchiamo di uscire! Mi alzo e faccio per prenderlo per mano. Non vuole. Mi fa capire che deve restare qui. Forse gli hanno detto di aspettare. Ma non posso lasciarlo qui. E' da disgraziati dare un appuntamento in un luogo come questo. «E poi è anche proibito entrare nelle gallerie.» La legge... già belle stronzate. «Se ci sono entrati è segno che stanno fuggendo da qualcosa, dalla legge, forse!» Lo afferro per un braccio e lo trascino fuori dalla nicchia. Grida per un po', poi mi segue senza più fare storie. La mano è fredda; è tutto freddo. Gli metto il mio maglione. Mancano ancora pochi chilometri, INCIQUID 12 # ott 2007 ma doverli fare con un bambino non è come dirlo. Prima riuscivo ad arrivare sempre a una nicchia quando vedevo arrivare treno. Avevo il ritmo. Adesso sono in ritardo. Come avverto la vibrazione, mi devo dare da fare per trovare riparo. Il bambino ogni tanto mi guarda e si guarda attorno. Spesso si volta come se temesse di aver dimenticato o forse perso qualcosa. Ormai ho lasciato perdere il mio lavoro. L'importante è uscire il più presto possibile. Ma come ha fatto ad entrare in galleria? Perché? Era solo? E di chi erano quella giacca e quella borsa che avevo raccolto qualche chilometro prima? Il bambino trema dal freddo, forse anche dalla paura. Non dev'essere facile restare solo in una galleria e poi incontrare uno che ti prende con sé, con tutto quello che gli avranno detto sui brutti incontri. E come si possono fare incontri buoni in un buco, fatto dentro a una montagna dove ogni cinque minuti passa un treno? Sta arrivando. Vedo i tre. Appena in tempo per tirarmi dentro con attaccato quell'infreddolita cosa che si volta a guardare la lanterna rossa della coda. Poi di nuovo in cammino. Sento la manina che si sta scaldando, a poco a poco. Ogni tanto si stringe attorno alla mia mano, come per chiedere più calore e sicurezza. Gliela stringo anch'io come per infonderglieli calore e sicurezza sebbene anch'io non sappia bene che cosa siano in definitiva calore e sicurezza dentro a quest'inferno freddo. Penso che fra poco uscirò e salirò sul primo treno che mi riporterà dall'altra parte. Salirò la strada fino a casa, toglierò le scarpe, entrerò in casa. Mi preparerò un caffè e aprirò il frigorifero. C'è sempre qualcosa nel frigorifero di casa. Poi mi metterò ad aspettarla. Va sempre in città quando faccio la galleria. La vedo già scendere dall'auto, aprire il portellone del baule e togliere una, due, tre borse a appoggiarle sulla panca di pietra. Poi cercare le chiavi per entrare di casa. Già, perché io non dovrei già essere lì. La vedo stupirsi. L'abbraccio e la bacio sul collo. Ma non sono ancora lì. Il bambino è stanco. Ogni tanto alza gli occhi verso di me. Non so se è incuriosito dalla mia faccia o dal casco con la pila incorporata. Forse da entrambe le cose: il mio volto sotto quel casco illuminato deve apparire una cosa ben strana per un bambino che è finito in una galleria. C'è entrato da solo? c'era qualcuno con lui? Il macchinista del treno delle 08.00 aveva segnalato di aver visto qualcosa di strano. Forse il bambino. Durante la notte il 996 si era fermato in galleria perché era stato azionato il segnale di allarme. E la giacca con i documenti più avanti; pressappoco dove il treno si era fermato. Arriverò a casa... se ci arriverò a casa, oggi. Dovrò fare un rapporto alle autorità per via del bambino, dovrò chiamare la polizia, avvisare di qua e di là. Ma questo non è il mio lavoro. Io faccio su e giù per la galleria, la guardo, controllo che tutti sia in ordine: i muri, i binari, la linea aerea. Ma bambini. Sì nel formulario esiste uno spazio con indicato "altro (specificare)". Vuol dire che ci devi mettere ciò che gli autori del formulario non sono riusciti a immaginare. E' con questo "altro" che esci dalla norma e finisci nei pasticci. Mi chiederanno: «sei sicuro che non ce n'erano altri?»« E come faccio a saperlo! Conosco tutti i rumori dei treni, tutte le nicchie, gli angoli, gli odori INCIQUID 12 # ott 2007 di questo maledetto tunnel, ma non riesco ancora a percepire l'odore delle persone e soprattutto quello dei bambini.`» Altro (specificare): trovato in una nicchia al chilometro 8 un bambino, età apparente 6-8 anni. Era solo. Nazionalità?. Questo me lo chiederanno subito. Mi diranno, perché non glielo hai chiesto? Ma come facevo a chiederglielo che non parla una parola di quelle che so io. Si faranno delle ricerche accurate. Forse a me toccherà entrare ancora nella galleria. Fa che non sia così. Dovrò telefonare a casa a dire che farò tardi. «Bella novità, possibile che tocchi sempre a te» mi dirà! Questa sera non potrò baciarla sul collo. Forse la storia del bambino la interesserà. Un bambino dentro a un posto così orribile. Già e io ci devo andare tutte le settimane. I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Mi metto dentro alla nicchia più vicina Sono tre puntini che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore, polvere che dura una locomotiva e tutti i suoi vagoni. E' un passeggeri. Chissà se quelle persone potessero vedere un ferroviere con un bambino dentro a questa galleria! Ne penserebbero di cose. Eppure ce l'ho trovato così questo bambino. Sento una voce. Il bambino si volta e grida qualcosa che non capisco e si stacca dalla mia mano e corre verso quella voce. Accendo l'altra lampada per fare più luce perché non riesco a crederci. C'è un paese dentro a quella nicchia. Tre donne e quattro piccoli. Uno ancora in fasce. Vi sono delle bisacce e dei bagagli appoggiati alle pareti utilizzate a mo' di panca. Una delle donne abbraccia il ragazzino che stava con me. Si mette a piangere e dice cose che non capisco. Ma che cosa diavolo è successo? Cosa ci fa tutta questa gente qui dentro. E via alle solite domande che già mi sono fatto prima. Da dove venite? chiedo. Mi risponde una che sembra conoscere qualche parola della mia lingua. «Siete lei che ci deve portare dall'altra parte? Dobbiamo arrivare dai nostri uomini.» «Come devo portarvi dall'altra parte?» «L'unica cosa che posso fare, che devo fare, è cercare di portarvi fuori di qui il più presto possibile che è da quella parte.» Faccio segno con il dito la direzione del portale sud. Ma non è la parte giusta... obietta. Non esistono parti giuste in questa galleria..., dico. Avanti, non potete restare qui, è pericoloso! «Ma ci avevano promesso di farci passare il confine.» Dice. «Qui non c'è nessun confine» Questa è una galleria lunga un mucchio di chilometri e quando uscite dall'altra parte siete ancora nello stesso paese che sta di qua. Capito? Mi sembra di essere arrabbiato. Sento che la voce è salita di tono. Mi capita spesso quando sono sotto pressione. Anche per questo dicono che ho un pessimo carattere. Hanno fatto credere a questa gente che li avrebbero fatti passare dalla galleria verso una terra promessa, li hanno fatti entrare e li piantano lì. Mi piacerebbe averne uno tra le mani poi gli farei vedere io la parte giusta... I tre fanali della locomotiva appaiono in fondo. Li spingo tutti dentro alla nicchia. Sono tre puntini che ingrandiscono e ingrandiscono ancora e poi aria, rumore, polvere e venti vagoni di merci. Un bambino si mette a piangere, svegliato dallo sferragliare di quella tecnologia del secolo scorso dentro le tragedie del nostro. La luce rossa della coda INCIQUID 12 # ott 2007 spegne il rumore e calma il pianto. Già che sono dentro tolgo quello che mi è restato nel sacco e lo do alla donna più anziana, che è anche quella che ha parlato prima, perché ne faccia buon uso. Mancano ancora quattro chilometri e cinquecento metri prima di uscire. Un'eternità in quelle condizioni. «Forza, andiamo!» dico. La donna aveva già dato a tutti qualcosa di quel poco pane e formaggio e biscotti che erano rimasti. Per lei non s'era serbata niente. Mi guarda con insistenza come se trovasse in me qualcosa di strano. Li avrei aiutati a uscire dalla galleria e questo era un bene da una parte e un male dall'altra. Lo sapeva bene anche lei. Non ho però altre soluzioni. Quel tale durante la guerra aveva disobbedito agli ordini a aveva fatto entrare dei profughi. Già, ma non siamo in guerra e qui non c'è confine, non c'è terra di nessuno: questa è una galleria interna; unisce due parti interne: è l'interno dell'interno; non c'è speranza. La donna mi guarda ancora poi mi si avvicina e mi stringe la mano, quasi come aveva fatto il bambino prima. Ci avviamo. Camminiamo adagio. Ci sono i bambini più piccoli. Le scarpe delle donne e dei bambini sono inzuppate d'acqua e le suole fanno fatica a resistere al ghiaione della massicciata: è quasi come andare a piedi nudi. Mi sento come il nocchiero della livida palude. Me l'ero dovuta studiare a memoria quella cantica. In parte l'avevano studiata anche gli altri, ma a me era toccata per castigo tutta. Che poi adesso ogni tanto mi viene ancora buona. Non siamo mai arrivati al paradiso. Sempre e solo l'inferno e quel Caronte dagli occhi di bragia. Forse agli occhi di quei bambini, con quella lampada infissa nel casco devo sembrare anch'io una specie di diavolo. E più non dimandare. E io continuo ad andare avanti e indietro, ogni mercoledì da questo buco che poco ci manca per essere un vero inferno. Scorgo la trinità in fondo. Appena in tempo per spingere i pellegrini dentro a una nicchia di quelle piccole che neanche ci stiamo tutti. Sto fuori io. Mi appiattisco contro la parete. Sento i vagoni che mi passano a pochi centimetri. Tengo stretta la cerata nera con le strisce arancioni per evitare di venire risucchiato dal treno. Ho paura. Vedo la donna anziana che mi guarda. Sembra bella. Mi perdo dentro quello sguardo. Poi il treno passa. Il rosso del fanalino dà il verde. Ci rimettiamo in viaggio. Il bambino di prima si è riattaccato alla mia mano. Chiedo agli altri di far presto. Non vorrei restare fuori anche la prossima volta. Continuiamo così per altri due chilometri. Sono stanchi di quel dentro e fuori dalle nicchie, eppure non v'è alternativa. Hanno male ai piedi, hanno i piedi infreddoliti dall'acqua gelida. Come mi giro a guardare se il gruppo segue, trovo lo sguardo della donna che mi osserva come per cercare sicurezza o forse il lampo della disonestà. Ma se non se s'è accorta nemmeno prima, quando l'hanno infilata in questo buco con le sue amiche e tutti quei bambini. Eppure anch'io se fossi in lei, come potrei sapere che sono dalla parte dei buoni e non da quella che li vorrebbe perdere? Mi viene in mente la storia del passerotto che cade dal nido e finisce in mezzo al sentiero e ci mette a cinguettare, forse per chiedere aiuto. E' tutto intirizzito. Passa di lì una vacca che, giunta a misura, gliela fa addosso. Il passerotto INCIQUID 12 # ott 2007 sente caldo, ma sente anche puzza e si libera adagio dalla coltre e, una volta fuori, attacca a cantare. E lo sente una volpe che si avvicina lo guarda, lo toglie delicatamente dalla situazione in cui si trova, lo pulisce per benino e se lo mangia. C'è anche la morale e mi metto a sorridere. La donna mi guarda un po' perplessa. Forse preoccupata perché non capisce che cosa mi faccia ridere. Eppure la morale è tutt'altro che scontata. Non tutti quelli che ti mettono nella merda lo fanno perché ti vogliono male e non tutti quelli che ti ci tolgono lo fanno per il tuo bene, ma soprattutto, quando sei nella merda taci! La donna mi guarda che sorrido. Forse intuisce che i miei pensieri sono molto remissivi, sono votati al riconoscimento di quello che c'è, sono poco sindacali. Ma a lei che gliene frega. L'importante è che la tolga di qui, anche se poi cominceranno i casini per lei e per i figli. Forse sono più volpe che mucca in questo caso o forse ora l'una ora l'altra. Ma devo toglierla da questa merda. La metafora si compie proprio poco avanti: deve avercela lasciato il passeggeri appena passato. La indico perché non la schiaccino: con quelle scarpe sarebbe un disastro La donna mi sorride ancora, quasi ironica nei confronti della mia cura per i dettagli: ci siamo dentro fino al collo, sembra pensare, e tu stai a impensierirti per i nostri piedi. Li caccio dentro nella nicchia più vicina. Da solo è un attimo, ma con tutte queste persone diventa un'impresa. Il tempo di entrarci anch'io (si fa per dire dal momento che sono più fuori che dentro) e arrivano i tre della locomotiva, poi i vagoni: è un passeggeri. Vedo bene i finestrini del primo vagone. Vi è uno che cerca di chiuderne uno rimasto aperto dall'imbocco. Dalla metà del treno qualcuno butta un bottiglia di vetro. Finisce poco lontano. Maledetto cretino, dico. Bisognerebbe metterli in galera. Poi vi sono quelli contro la plastica. Vorrei vederceli in galleria se preferiscono il vetro alla plastica, in galleria. Penso. Il bambino mi vede preoccupato e mi stringe la mano. La donna sorride ancora. Ci mettiamo in cammino. Non facciamo due passi che la donna più giovane, quella con il bimbo in fasce, lancia un urlo e sarebbe caduta se la compagna non l'avesse sorretta e se l'altra non le avesse tenuto il bambino. Si rialza zoppicando. Ci mancava anche questa. Lascio la mano del bambino e mi avvicino per controllare. Può camminare, ma bisogna che l'aiuti. Faccio il gesto di dare il mio zaino alla donna più anziana. Vedo che il bambino che avevo per meno quasi si offende. Lo vuole lui il sacco. Già, per lui è un gioco, un'avventura. Come per me quella notte che venni svegliato dai miei genitori. Fuori nevicava forte. Era giorni che nevicava forte. Era arrivato uno dal paese a dirci che dovevamo sgombrare la casa per via del pericolo di valanghe. Avevamo preso tre o quattro cose ed eravamo saliti sulla slitta. Nemmeno gli animali avevamo potuto prendere. La slitta l'avevano tirata giù come un mulo il pa' e il mio fratello più grande. Sulla slitta c'eravamo io e la mamma e le quattro cose. Avevo guardato la casa e la stalla per l'ultima volta. La valanga era scesa la mattina e la primavera successiva c'era ancora neve dove avevamo gli animali. Ma quella notte mi era sembrato di essere un eroe, forse perché il pa' mi aveva dato il suo fucile da caccia che era di INCIQUID 12 # ott 2007 57 suo padre e prima ancora di suo nonno. Ho sempre pensato che prima di quel fucile ci dovevano essere stati solo archi e frecce. Passo il sacco al ragazzino che se lo mette in spalla. I miei occhi incontrano quelli della donna. Forse si è offesa, mi sorride. Lei prende il bambino che piange. Manca solo un chilometro. I binari e la massicciata sono più umidi. Il treno che passa è bagnato, i tergicristalli della locomotiva sono ancora in funzione. Fuori, dall'altra parte, sta piovendo o, forse nevicando. Sarebbe un po' presto, ma è già capitato di questa stagione. La donna ferita mi mette il braccio sulle spalle, io la sorreggo come posso. Camminiamo adagio. Entro nelle nicchie ancora prima di vedere il treno. Non ce la faremo ad arrivare in tempo. Poi, in fondo, vedo una chiarore, il chiarore del giorno.«Ci siamo, ancora uno sforzo e poi ci siamo!» dico. Ma nessuno capisce. Indico la luce. Non vedo gioia sul loro volto per quella luce. L'uscita diventa sempre più grande, le pareti sono ora ben visibili, l'odore forte diminuisce, sento l'odore della massicciata bagnata il rumore della pioggia. Vedo la stazione poco più lontana. C'è un treno fermo con i tre fanali accesi e il tergicristallo in movimento. Chiamo un collega che passa poco più lontano. Mi guarda sbigottito, guarda la donna che si appoggia a me, stanca. Guarda i bambini poi guarda ancora me. Non capisce, ma si avvicina e mi aiuta. «Da dove vengono?» mi chiede. «Non lo so nemmeno io, li ho trovati dentro.»Non chiede altro, ma avverte con la radio l'ufficio della stazione. Prende per mano il bambino con il mio zaino. Ci avviamo verso la stazione. Quando sotto gli stivali ho il cemento del marciapiedi mi sento meglio. Ci sono delle persone che stanno arrivando. «Abbiamo avvertito un medico e la polizia,»dice uno dei responsabili della manovra. Non ho nemmeno la forza di riconoscerlo. Li fanno accomodare in una saletta, portano del tè in un termos e dei biscotti. Arriva la polizia. Mi fa un sacco di domande e io do tutte le risposte che posso dare. Li fanno poi salire sul pulmino. Il ragazzino si tiene stretto la zaino che gli ho dato. Mi guarda quasi per sfidarmi a volerglielo togliere. La donna ferita, probabilmente è suo figlio, gli dice qualcosa. Lui si alza si toglie lo zaino e fa per darmelo. Gli dico di tenerlo con quello che c'è dentro. La più anziana mi viene vicino e mi abbraccia. Sento il forte odore della stoffa bagnata e il suo profumo; sento il suo corpo pieno. Mi dice qualcosa che non capisco; mi sorride ancora. Trovo in tasca il braccialetto di rame. Glielo porgo. Vorrà dire che quest'anno all'asta mancherà un oggetto di rame. Non le dico che è contro i reumatismi anche perché non mi capirebbe. Mi dà un bacio veloce sulla guancia. Mi guardano, mentre se ne vanno verso il paese lì vicino, seguiti dall'auto del medico e dalle altre, giunte nel frattempo. Salgo sul primo treno. Dopo un po' si avvia verso la galleria, la imbocca. C'è un finestrino aperto nel corridoio. Sento l'odore forte e mi ci perdo. Un passeggero si alza indispettito e fa per chiuderlo. Lo lasci aperto, dico. Mi guarda e vede che sono della ferrovia. Ci dev'essere una ragione, avrà pensato. Eppure non c'era alcuna ragione. INCIQUID 12 # ott 2007 Bel colpo, Capelli di Yari Selvetella Questo è uno di quei romanzi che un editore accorto e intelligente non si farebbe scappare. Con uno stile semplice, ma nello stesso tempo pensato, "di mestiere", Yari Selvetella racconta le storie intrecciate di alcuni personaggi nella Roma di oggi. Racconta di lavori malpagati, di truffatori e furbacchioni, di ragazze disilluse che sembrano aver capito fin troppo bene come gira il mondo. La storia ­ le storie di Cappelli, Colasanti, Tanya, Berardo­ appassionano, si sviluppano, si incastrano senza fare mai perdere l'orientamento al lettore. L'incipit è avvolgente, incuriosisce, ti spinge a buttarti dentro il romanzo e rimanerci fino alla fine; come ogni buon incipit dovrebbe essere. E il resto non tradisce le aspettative.Tanya è un personaggio sorprendente per quanto è "umana"; cresce, matura, pur con tutte le sue fragilità; si impone sulle situazioni quando meno te lo aspetti, "manovra" le persone, volente o nolente, da protagonista agente o come sogno e illusione di altri. E in ultimo, la grande protagonista del romanzo che si affaccia dall'inizio con una delle cose più caratteristiche e forse meno note (il matto della piazza) ai turisti: Roma. Il linguaggio, le strade, la vita della Roma "vera", non quella dei pullman scoperti che girano come topi impazziti. La Roma del centro e quella delle periferie, i suoi quartieri, le borgate, le sue strade, i palazzi, l'umanità che viene fuori con grande nitidezza dalle sue pagine. Come nella miglior tradizione letteraria, degli scrittori innamorati della propria città, Yari Selvetella ci fa entrare nelle sue trame più affascinanti e veraci. Sa che non c'è bisogno di trattati sociologici per descrivere un posto e la sua gente, basta raccontare di un ragazzo che si fa chilometri e chilometri in motorino, una sera, per raggiungere la sua ragazza dall'altra parte della città. Domina l'amarezza, il mondo di Cappelli è un mondo alla Blade Runner, dove la speranza è una vincita alla lotteria o l'emigrazione nei mondi esterni. Capitolo 1 Che fa il matto di Piazza Barberini, quando non è tra il cinema e la fontana, con uno stereo a forma di paraorecchi in testa, strillando ai passanti? Di lui si dice che sia un nobile decaduto. Questo particolare dà alla sua fama una nota di simpatia. C'è sempre un posto nel cuore della gente per le disgrazie capitate a quelli nati con la camicia. Ora eccola la sua, stropicciata, memore appena della vetrina di Via del Tritone, che la custodì linda, su un manichino con la testa di legno a forma di uovo, fino a quando il conte o marchese o duca vi posò lo sguardo. - Eccellenza -gli avrà detto il commesso dell'epoca- preferisce quella, già confezionata, o gliene facciamo una su misura? - Ma no -avrà risposto il nobiluomo- mi dia pure quella in vetrina, che sia della mia misura, ho fretta, devo partire, mi occorre oggi stesso. Chissà quali stazioni, vagoni di prima classe, alberghi con lampadari dalle migliaia di gocce, femmine fatali e tavoli da gioco, bottiglioni di mumm con l'etichetta bianca e rossa e polveri esotiche su uno specchietto. Non come ora che i militari in licenza passando gli strillano: -ah matto!, e quello più forte di loro, grida solo la A, a chi la tira fuori più acuta e fastidiosa. Chi ci si mette a competere, perde sempre. Qualche giapponese coi capelli tinti prugna, fa una foto e si compiace che gli italiani non siano tutti eleganti come sul catalogo di Gucci, aaah -strilla- che soddisfazione. Qualche coatto che oramai la sfida l'ha accettata, mica può farsi prendere in giro dagli amici per via del Corso, avanti e indietro tutto il pomeriggio: -aaah, li mortacci tua, e quasi gli si appannano gli occhialoni da sole celesti. Poi un giorno, due, niente. Niente camicia zozza, niente balletti tirati fuori a memoria dal repertorio che vecchie nutrici tedesche utilizzavano per fargli mandar giù la pappa, niente strillacci sconclusionati, niente matto di Piazza Barberini. Si dice che una volta, qualche anno fa, il Presidente della Repubblica si decise a fare due passi, giù da Via Veneto, verso il Quirinale. Che glien'è importato qualcosa, al matto, di chi era quello col cappotto blu e la vitiligine? No, figurarsi. Tanto più che un nobile è sempre un nobile, mica ha chiesto mai niente a nessuno. Anzi, per lui quella posizione era pure un impiccio, e si sa che il vero uomo di potere è chi può vivere nell'innata spavalderia a privarsene. Quindi via a gridare, a vedere se quel tale era tanto scemo da mettersi in testa di avere più voce di lui. Le guardie del corpo un altro po' e te lo lasciano sdraiato lì. La faccenda del potere, e della magnanimità che ne è il simbolo più vistoso, è nota anche a chi lo assapora per conquista. Quindi il Presidente disse che no, non c'era bisogno, lo lasciassero sfogare. Era divertente, anzi. Non è forse quello che farebbe ogni sovrano illuminato? Farlo da Presidente eletto dev'essere ancora più gustoso: compiere un'azione moralmente ineccepibile, per egoismo e per il gusto di potersela permettere. Comunque, a seguito dell'accaduto, il matto sparì per un po'. Dopo qualche mese riapparve regolarmente sul palcoscenico che lo ha reso noto, un giorno intero, una notte, mezz'ora e poi via, chissà, forse in qualche ostello delle monache. Di certo nessuno si è mai chiesto dove và. Chissà se in quelle cuffie c'è davvero musica, o se la inventa. Mentre il matto di Piazza Barberini sta per puntarmi, cercando lo sprovveduto che gli dia spago, una voce si propone, dritta sulla mia nuca: - Cappelli? - Eh? - Signor Cappelli? - Oh, sì salve, vi stavo aspettando -dico voltandomi immediatamente. E il matto che si agita, coprendo con la sua A lo scroscio della fontana, non mi interessa più. Mi interessa invece quest'uomo sulla cinquantina che indossa un loden immortale e un paio di clark's originali, nuove nuove, che ancora devono prendere la forma del piede e, per quanto leggere, impacciano ogni minimo tentativo delle dita dei piedi INCIQUID 12 # ott 2007 60 di sgranchirsi e aderire alla suola. Un professore, direi, un giornalista, qualcosa del genere. Mi interessa sua moglie, con i capelli disperatamente lunghi, a memoria della giovinezza che permetteva agli occhi verdi di essere solo un particolare poco interessante in mezzo agli altri più appetitosi. Coppia cinquantenne, arresa all'impossibilità di essere innamorati vita natural durante e ormai votati alla tirannia delle cose concrete. Una casa, per esempio, in centro, forse a futuro beneficio del cocco di mamma e papà. Mi hanno riconosciuto, in mezzo alla folla della gente che esce dal cinema, in mezzo a quella dei sommersi della metropolitana, che imprecano ad alta voce sui disguidi insopportabili di oggi. Certo, non sarà la prima casa in vendita che vanno a visionare, e il look degli agenti immobiliari è altamente standardizzato: completo nero, scarpe di cuoio con punta quadrata e lacci di corda, camicia con quadretti a collo alto e cravatta con nodo spesso, braccialetto d'oro, stemma del franchisee all'occhiello. Se avessi in mano un tazebao con su scritto "vendo case" mi si riconoscerebbe meno. - L'appartamento che state per vedere è un vero spettacolo, centralissimo, piuttosto ampio, luminoso, bagno con finestra e una vista incredibile. - E' un attico, vero? - Sì. - Hai visto? Mi ricordavo bene. Neanche ci siamo incamminati e la signora già puntualizza. La manderei subito a quel paese. Non sopporto le donne consapevoli di essersi sposate con un uomo che non è alla loro altezza. Il lavoro è lavoro, però. Convinta lei, convinti tutti. Tanto vale non filarselo per niente il moscio maritino. - Signora, lei è pratica della zona? - Be', sono una storica dell'arte, questa parte di Roma la devo conoscere, almeno per mestiere. E poi a chi è che non piace? Il marito non lo so, lei però è sicuramente un'insegnante. I professori sono quelli che ci tengono di più a mostrare gli studi fatti. Hanno sempre l'impressione che siano stati sottovalutati, schiaffati in mezzo a un branco di giovanotti con l'uccello sempre dritto e ragazzine che alternano versi di Kipling a liriche dei Lunapop. Perciò ci tengono a precisare, alla prima cosa che dicono. Lui no, è mite, si riassetta gli occhiali sul naso col dito medio, tra un po' si accenderà una sigaretta o tirerà fuori una pip, la caramella del fumatore, offrendola anche a me e dicendomi che è un po' che prova a smettere. Magari a lui non gliene importa proprio niente di acquistare una casa. Per lui le cose starebbero a posto già così, un libro, il cinema, una cena ogni tanto, il mare, e poi il lavoro, di lui non so quale, la scuola, credo, o il giornale. Mentre scendiamo per Via degli Avignonesi, che io imbocco al posto della ampia Via del Tritone perché le strade strette e i tetti vicini favoriscono il senso d'appartenenza, provo a raffigurarmi la loro vita. Immagino lei sveglia da poco, che sbraita perché i INCIQUID 12 # ott 2007 61 calzini sono sempre in mezzo, mi sento disgustato e lascio stare. - All'agenzia ci ha risposto una ragazza- dice lui. - Ah, sì, la segretaria. Tutto qui. Non ha nient'altro da aggiungere. Le strade sono piene di gente. Devo sbrigarmi a raggiungere fontana di Trevi prima del tramonto, in tempo per il raggio di tutte le cartoline. A quel punto diventa possibile qualsiasi esborso di liquidi. Il sole, tuttavia, non si occupa di affari, o almeno non per me. Quando da Via in Arcione si comincia a intravedere il camper della polizia che presidia la piazza tutto il giorno, la notte è già calata sulle impalcature e sul travertino. Sulla piazza ci sono comitive con flash fulminanti, pacchetti di monetine, militari napoletani che schiamazzano con svedesi alte due metri, un chiosco di frutta che vende mandarini a 40 mila lire al chilo, bengalesi che distribuiscono volantini pubblicitari di trattorie. Sono disorientati i miei due. Tutto va per il meglio. Chi non viene spesso in questa piazza finisce per rimanere stordito dal rumore dell'acqua, dal vociare, dal bianco ristrutturato delle sculture, dall'odore bruciato delle cocce di castagne. E' troppo poca l'aria per poter contenere tutte queste cose. Guardano i tetti, guardano per terra, fanno attenzione a non camminare tra il fotografo e gli sposini, a non farsi accalappiare dal venditore di rose, dal venditore di pupazzi di plastilina, dal venditore di cd. Fanno attenzione a molte cose, tranne che a quello che vanno a fare. Io non mi distraggo. Lei è la più seccata. Non ha occasione di dirci papa, architetto, nome dell'acqua celebrata dalla fontana, riferimenti cinematografici. Ci si mettono perfino i cinesi, che stanno ristrutturando il ristorante e litigano su come e dove buttare i vecchi cassettoni. Ormai litigano anche in italiano. O quasi. INCIQUID 12 # ott 2007 62 D.A.M. di Mirco Cittadini Mettete nel lettore cd un disco di Clayderman. Dalle casse lente e avvolgenti escono le note di un pianoforte. Riempite a metà una coppa di champagne. Dalla terrazza aperta entrano gli umori di una primavera perenne. L'atmosfera è irreale, un'immagine retorica abusata, da soap opera sudamericana. Questo è D.A.M di Mirco Cittadini, un harmony post-moderno, la ricerca melodrammatica di un attimo "sublime". Ma questa è solo la vellutata superficie esterna. D.A.M è una metonimia sull'amore. Anzi sulla ricerca dell'amore. La sue metafore sono finestre sulla storia, sono labirinti per gli occhi, sono incanti di un mago "raffinato". Osservate attentamente la coppa. Nel riflesso che vi rimanda voi siete biondi. Tutto intorno a voi è biondo. In questo romanzo essere biondi non è un accidente, una componente esterna, ma dono, virtù, missione. A questo punto vi chiederete che ci faccio qui, in questa frivola pantomima, in questo decadente romanzetto gay. Il protagonista di D.A.M. è gay, così come lo sono molti dei suoi personaggi. In questo romanzo degli uomini amano degli altri uomini. Questo rende D.A.M. un romanzo gay? Forse no. Secondo noi Mirco è un romanziere a tutto tondo, capace di parlare d'amore senza declinarne il genere, senza costringerlo in una gabbia del pensiero. Uscite sulla terrazza. Respirate a pieni polmoni l'aria della sera mentre aspettate qualcuno o qualcosa. Finalmente un braccio vi cinge il fianco. Questo è D.A.M.. Il dolce brivido d'attesa dell'amore. PRELUDIO IDEOLOGICO Io amo i biondi. Senza alcuna distinzione di sorta: amo i modelli di razza ariana, i figli dei coloranti, i dorian gray, i tadzio, le preziose ridicole, le desdemone dolenti, le stelle patinate (e platinate) del cinema, i vichinghi, i burgundi, i normanni, i tancredi, i manfredi, i surfisti californiani, , i Wiener Sangerkna-ben, gli angeli algidi e perfetti che popolano l'immaginario stereotipato (e quindi legittimo) del decadentismo omosessuale. Io amo i biondi. Amo anche le bionde, s'intende, mia madre in testa (un caschetto ossigenato, vaporoso e un po' liberty) e Petra, la mia adorata sorella, tutta rigorosamente biodegradabile e Clodette, l'utero prenotato per la mia gloriosa discendenza. Amo il Biondo, così, come concetto, come archetipo, così come amo la levigatezza, la superficie apollinea, la verginità (quella immacolata che si rinnova e rifiorisce all'alba, tra i gelsomini). Questo perché i biondi sono i fogli che devo macchiare con l'inchiostro del mio desiderio (se pareba boves), i bianchi campi dove incidere la mia storia (alba pratalia araba), il mio principio di delicatezza. Questa è una storia d'amore abbagliante, tragicomica, dove il Destino entra in gioco antagonista e profonde a piene mani il suo sense of humor. Il titolo potrebbe anche sembrare un verso da meditazione ayurvedica, qualcosa da far ronzare nella testa al primo sole, su qualche parete rocciosa, gambe incrociate e scomodità varie. Una parola guida verso la pace. In realtà, si tratta di una sigla, che poi c'entra col latino (Tibullo? Virgilio?). Un modo come un altro (ovvero il mio) di dire: AMORE. Io (narratore incosciente) sono Demetrio Farnese, per tutti ­ madre compresa ­ Demi. Che detto così, sembra quasi la metà di qualcosa. Più o meno la trama di questo libro. PARTE PRIMA FARFALLE A SINGAPORE (Yassim) 1 (ufficio del Boss) A prescindere che questo sia un romanzo di fantasia (o di fantasie), devo in ogni modo assicurarvi che il punto di partenza inequivocabile delle mie avventure è l'ufficio\Quartier Generale, al secondo piano di Via Magellano, della dott.ssa Sannazzaro, il boss dei Servizi Sociali, (Ufficio Minori, Terzo Distretto), della quale io sono fidato luogotenente, nell'immeritata qualifica di educatore. E' sempre andata così: lei è l'Orchessa (anche per alcune affinità somatiche) che vuole strappare ogni bambino alla sua famiglia ed io sono il luminoso paladino che le impedisce di compiere qualsivoglia misfatto, risvegliando in lei un mai sopito istinto materno. Siamo le due facce dell'Assistenza: lei la burocrate, io il missionario, lei la dipendente comunale, io il libero professionista, lei il Duro, io il Cuore. Anche a vederci, quelle rare volte che issa il suo pesante sedere per un qualche sopralluogo, diamo una palese dimostrazione della nostra complementarietà: lei irsuta, trasandata, burbera nei modi, affatto diplomatica, la Venere di Willendorf, o semplicemente Colei Che non Deve Chiedere INCIQUID 12 # ott 2007 Mai; io il damerino, il Mago Zurlì, l'occhio propenso alla commozione, il mielosissimo Lasciate Che I Bimbi Vengano A Me. E (detto tra noi) ci divertiamo un mondo a giocare in questo modo. Una maestra non dà disponibilità? Un genitore non la smette di menare il figliolo? Un impiegato si mostra scortese? Niente paura, sguinzaglio il molosso, faccio la pantomima che non sarei mai voluto arrivare a tanto e mentre lei tira fuori gli incartamenti e minaccia ogni possibile ritorsione a norma di legge, io da dietro faccio intravedere una possibilità meno drastica, incarno la Conciliazione. Allora la maestra diventa più comprensiva, il padre un francescano, l'impiegato mi offre pure il caffè. La storia inizia così, dunque, con la dott.ssa Sannazzaro che si liscia il pizzetto e mi dice: - Ho un caso per te. Sì, perché io sono l'Agente 007 dei Servizi Sociali, l'uomo delle missioni impossibili. Ne ho recuperati più io di bimbi che Don Milani; lavori puliti puliti, rigorosamente laici e la Sannazzaro ne gode, perché poi il suo distretto funziona alla grande e la sera può strafogarsi di Nutella davanti alla TV, senza dover pensare al lavoro. - Ho un caso per te. E' il suo modo di fare, a me piace, mi stimola, è il biscottino morale, è il suo modo per sedurmi. - Una famiglia di marocchini. Vengono da Casablanca. - Affascinante. - Il bimbo si chiama Badr, ha dodici anni, non sa né leggere, né scrivere, deve andare alle medie, perché le maestre non lo vogliono più. Tu lo devi preparare per l'esame, hai quattro mesi, devi riuscire dove le altre hanno sbagliato. Faccio un ghigno. - Dottoressa, mi delude, speravo che lei mi proponesse qualcosa di più interessante. Le lampeggiano gli occhi, mostra una zanna; lo sapevo, ha qualche asso nella manica. - Dovrai andare in casa loro e tenere sotto controllo la situazione. - Padre violento? - No, una pasta d'uomo. Si massacra di lavoro. - Madre alcolizzata? - Ciccio, sono musulmani quelli, la madre ha il velo. - Denutrizione? - Fatti un mese e mi torni obeso. Il suo sguardo è inequivocabile: nasconde qualcosa. - Dottoressa, qual è il vero problema? Si tiene le mani sul ventre soddisfatto. INCIQUID 12 # ott 2007 - C'è un fratello, diciott'anni, a dire il vero non riguarderebbe più il nostro ufficio... diciamo una scommessina con la Spaliviero dell'Ufficio Immigrazione. - Continui. - Ragazzo sospetto, non è tutto chiaro. Dagli un'occhio (lei lo dice così, con l'apostrofo), magari fagli qualche moina delle tue e convincilo a frequentare un corso per metalmeccanici. Fagli fir-mare l'iscrizione ed io ti porto a cena. - E' tutto? - Tutto. - Siamo sicuri? - Sicuri. - Non so... Inizio a tirarmela, per regalarle un surplus di godimento. E' il suo giochettino erotico, lo so, la fa sentire meno sola la sera. - Non avrai mica paura. - Mi sembra così poco allettante. - Vedremo tra una settimana. - Ma non so... lavoro sempre con i moretti... - Dai, il prossimo, te lo prometto, sarà un bel bimbo biondo. (Ah, diavolo d'una Sannazzaro, mi legge dentro!) - E la cena? - Promesso, giapponese. - E lei mangerà con le bacchette? - Smamma, non ti sto chiedendo una liposuzione. - OK, accetto. - Mary (lo dice così, con la a) ti comunicherà tutte le informazioni del caso. - Un'ultima cosa. - Seee? - Il nome del fratello? Tamburella sul ventre. - Iassim (ovviamente così, con la i) 2 (interno fumoso) La scena si sposta pigramente dalla Nanni. La Nanni è una metonimia per indicare un bar, gestito appunto da tal Nanni (diminutivo di Gennaro? Ennaddio? mah!); ma dire bar è solo una metonimia per indicare il nido, il luogo dove tutti approdiamo, il porto delle Vedove Disperate, lo sbarco degli Argonauti, il luogo geometrico dell'Incontro. Di giorno localino per gli universitari, pochi panini buoni, prezzi sindacali, la TV col telegiornale; la sera, localino da guida gay, cocktail dai colori assurdi e Nina Simone di sottofondo che celebra la sofferenza degli Amori Inconsolabili. INCIQUID 12 # ott 2007 Qui vengono tutti: vecchi insospettabili, regine decadute, carrozze decadenti, transessuali tailande-si, lesbiche delle caverne, soprammobilini griffati da pre-discoteca, simpatizzanti di sinistra, frociarole, giovani curiosi, aspiranti artisti (categoria: ballerinecantantiattrici), complessati anonimi, mostri di varia natura e noi, la Comunità, il gruppetino in apparenza innocuo, ma che nasconde le dinamiche più malate della storia dell'uomo. Qui, faticosamente, con l'ausilio pietoso della Nanni, compitiamo le Regole Auree dell'Amore, un lavoro immane che comporta aggiunte, revisioni, malumori, nostalgie, ricordi tristi (ma che ci fanno tanto crescere), ricordi belli (che sono sempre più lontani nel passato), punti di vista, diatribe alessandrine, cabale e quant'altro. (Potete immaginarvelo anche voi: sera, un piccolo ambiente chiuso e fumoso, varia umanità ad alto contenuto isterico, alcool, varie esperienze endogamiche covate nel gruppo, ovvero, uno studio antropologico niente male.) Qualche punto fisso lo abbiamo nel nostro Regolamento: 1) Se il tuo uomo ti lascia, tieni la tavola apparecchiata che prima o poi torna. (Regola della Nanni) 2) Quando amore non c'è più, uccidi! (Regola della Liù, la più ricca transessuale del Quartiere) 3) Se chi ti piace non ci sta, passa al suo amico. (Regola del Ricambio) 4) Se qualcuno ci prova con il tuo partner, la miglior vendetta è lasciarglielo. (Prima Regola del Comitato delle Prime Mogli) 5) Se vuoi lasciare il tuo partner, non dirglielo, vallo a trovare con un altro. (Seconda Regola del Comitato delle Prime Mogli) E amenità varie. - Ho un nuovo lavoro. Lo dico, perché sento il dovere di tenere aggiornata la Comunità. - Ganese? - No... da Casablanca. - Però. - Fatti invitare nel loro paese che ci facciamo un restauro. - Mica ho detto Lourdes. - Questa è vecchia come il tuo contorno occhi. - Ma quando si accorgeranno che è un crimine affidarti dei ragazzini? - State parlando all'Educatore dell'Anno. - Sì, dell'Ano. Impongo un limite. - Signori, vi prego, possiamo evitare il remake di battute frocie dell'ultimo millennio?. - Quanti bimbi hai? - Uno, forse due. - Perché non mi presenti il padre? Questo è Ornello (maschile di Ornella), la mia ossessione rovesciata, il più INCIQUID 12 # ott 2007 67 grande benefattore del Terzo Mondo, tra le sue gambe sono passati i Bantu, i Dogon, i Maori, i Pigmei, I Vatussi... Raramente abbiamo litigato per un uomo. - Perché è un buon padre di famiglia che si sbatte, sbatte la moglie, mette al mondo i figli, dà loro un sostentamento e non ha tempo per le travestite come te. - Capirai, sai di quanti pargoli sono stata madrina? - Ma i musulmani non sono omofobi? - Sì, come per il Ramadan... dall'alba al tramonto. - Comunque, Demi, mica è colpa mia se a te piacciono biondi, pallidi e slavati... - Ricominciamo? - ... se io facessi il tuo lavoro, morirei. Tutte quelle meraviglie dalla pelle nera e i sorrisi raggian-ti... - Per questo ho rifiutato di insegnare nei collegi svizzeri e preferisco i moretti. Almeno non entro in conflitto. - Perché, scusa, i biondi non hanno bisogno dell'assistente sociale? Faccio una pausa drammatica. - Ma come ve lo devo dire che non basta essere biondi? Si tratta di un'aristocrazia dello Spirito, un Forte Sentire... - Come Rudy? Delle unghie graffiano l'ardesia delle nostre orecchie. Quel nome mi fa capitombolare lo stomaco. - Prego? - Che cazzo, Ornello, dovevi proprio nominarglielo? Ornello sostiene il mio sguardo. - Nulla, volevo capire in quale parte anatomica, oltre a quella che sappiamo tutti, si colloca il "Forte Sentire" del tuo Rudy. Ferito senza pietà, sparano alle ambulanze, ai paracadutisti, agli orfanotrofi, al Vaticano, l'urlo nero di una madre, la Corazzata Potömkin. Allora, per vendicarmi, ripercorro con loro tutte le dolorose tappe della mia storia con Rudy, senza lesinare in particolari e infarcendo di gustosa aneddotica. Dopo tre quarti d'ora, appaiono le prime bandiere bianche ed oltre a decretare lo smeretriciamento di Ornello al pubblico battuage, si stabilisce una nuova Regola Aurea: 6) Mai più nominare gli ex, se la separazione non è stata fisiologicamente assorbita. (Regola del Quieto Vivere) INCIQUID 12 # ott 2007 Giallo Bolognese di Patrizia Marzocchi Giallobolognese è proprio ciò che sembra: un romanzo sviluppato attorno a un omicidio ­ avvenuto naturalmente in circostanze misteriose ­ che afferra il lettore trascinandolo per le strade della città emiliana. Un perfetto romanzo di genere che contiene tutti gli elementi del più classico poliziesco, privo delle venature del noir. Giallobolognese infatti è un giallo vecchio stile: nei suoi personaggi non si celano doppie e triple personalità, non si svelano retroscena dietrologici, non ci sono diatribe politiche. L'intreccio delle storie e le indagini condotte per svelare il mistero dettano il ritmo del romanzo, che scorre velocemente verso il finale. La trama viene svelata poco a poco tanto al lettore che agli investigatori, mantenendo così aperte fino alla fine molte possibili conclusioni; alla fine la direzione sarà quella più amara. Se la vera arte di un giallista è nascondere la realtà e mettere in evidenza i fatti in una maniera che vengano svelati dalle scoperte dei personaggi, allora in Giallobolognese questo è stato fatto perfettamente: niente è come sembra. 10 novembre 2002, domenica GIORDANA Si alza di buon'ora e dà da mangiare a Giustina. Un po' di crocchette, manzo alle verdure, il latte. Poi si prepara il caffè. Sorride. E' domenica, niente ufficio, niente corsa nel traffico, niente conti, niente tensioni. Normalmente farebbe le pulizie di casa, pranzerebbe, andrebbe a fare un giro ai Giardini di Villa Angeletti. Ma oggi sarà tutto diverso. Intanto niente pulizie. E se Lui chiedesse di venire a casa sua? In fondo è probabile, quando un uomo ti invita...No, non accetterà, non la sera del primo appuntamento ufficiale. Giustina le salta in grembo, vogliosa di carezze. Giordana gliele concede distrattamente. Questa gatta, facendo le proporzioni fra la vita umana e quella felina(sette a uno, almeno così si dice), è più vecchia di lei. È una gatta cinquantenne, mentre lei è un'impiegata quasi quarantaseienne. Però si assomigliano in tante cose, pensa Giordana. Intanto sono brutte. Giustina ha uno strano pelo maculato ed è orba in un occhio. Lei l' ha trovata così al canile municipale: una gattina spelacchiata che la fissava con l'unico occhio giallo e che aveva perso ogni speranza, al punto da non ritenere produttivo nemmeno miagolare. Ecco, si assomigliano anche in questo. Ciascuna sopporta il suo dolore in silenzio. Ha disdegnato gattini molto più graziosi e se l'è portata a casa. Lei, Giordana non è meno brutta, con i suoi capelli dritti color topo, gli occhi piccoli, stesso colore, la figura goffa e larga. Ma Lui lo sa, da tempo. Il loro primo e vero incontro ufficiale. L'ha proprio invitata : "Sei libera domani sera?" (come se esistesse un giorno in cui non è libera) "Andiamo a mangiare una pizza. Che ne dici, ti va?" Le va? E' una domanda da farsi? Ma Lui è un po' strano. Attraversa la camera da letto, si sofferma davanti allo scaffale che contiene tutti i suoi libri. Li accarezza: vi ho letto con attenzione e fatica, forse alla fine mi avete aiutato. Mi avete insegnato la pazienza. E' emozionata come una quindicenne, e non riesce a rallentare il battito del cuore. Sì, l'ultima volta che ha provato questa gioia è stato proprio quando aveva quindici anni. Poi solo amarezza e delusione. Ma adesso è tutto finito, adesso forse è al capolinea. Non sa come occupare il tempo che la divide dall'incontro. Un tempo inutile. Deve costringersi a non uscire prima delle sette e mezzo: lui le ha dato appuntamento davanti al parco. Chissà perché poi, poteva suonare a casa sua. Scende le scale, attraversa Via della Beverara, si avvicina all'entrata del parco di Villa Angeletti. Lo vede di spalle, si avvicina a piccoli passi. Tossisce. Lui si volta e le sorride. "Conosco un bel posticino, ma è un po' distante, ti va?" Lei annuisce, commossa. Nessuno si è mai scomodato a trovarle un "bel posticino" e a portarcela. In effetti è un po' lontano, nella Bassa, verso Ferrara. Come fa lui a vedere dove sono? La nebbia li avvolge completamente. Ma lei si abbandona, si fida completamente di lui. Entrano in pizzeria, è un posto strano, con una luce bassa. Lui la guida verso un angolo appartato, è galante, le chiede cosa vuole, la incita a prendere anche un antipasto. Mangiano, parlano, lui la accarezza con lo sguardo. E paga il conto, alla fine. Da quanto non succedeva? In realtà non è mai successo che un uomo le offrisse una cena. Sì, solo quel pranzo, alcuni mesi fa, un secolo fa, ma per altri motivi. Escono, riprendono la macchina, si rituffano nella nebbia. Dopo una mezz'ora sono di nuovo in Via della Beverara, davanti alla stradina che porta al suo condominio. Tutto qui? "Andiamo a fare un giro?" la proposta improvvisa le scalda il cuore. Arrivano all'entrata del parco. Non c'è nessuno lì ai giardini, solo loro due che sembrano galleggiare nell'aria grigia assieme alle gocce di umidità. Non lo vede bene, tra di loro c'è il velo di nebbia e poi lei è miope. Però intuisce il sorriso triste. Si aiuteranno a vicenda a scaldare i loro sorrisi. Entrano nei giardini, gli spiega che possono arrivare solo al ponte sul Navile, perché da lì in poi il parco è chiuso, di sera... Lui la abbraccia, lei gli porge il viso. Accarezzami, resuscita questo corpo di femmina. Un bacio, oddio dammi un bacio, è tanto tempo che aspetto. Non arrivano le labbra calde sulle sue. Tardano. Apre gli occhi: lui parla, le spiega qualcosa, ma lei non sente, vede solo le labbra che si aprono e si chiudono. Perché non la baciano? II 11 novembre, lunedì MARTA INCIQUID 12 # ott 2007 70 È lunedì: due terapie alla mattina, corso di yoga, una terapia al pomeriggio. Un tè con due colleghe, poi andranno insieme alla presentazione del libro di una loro compagna di corso alla Feltrinelli. Guarda l'agenda: nient'altro. La sera? Accende la radio, si prepara il caffè, seleziona i biscotti. Bisogna fare attenzione alla linea. Dopo i quaranta è aumentata la tendenza a ingrassare. Magari potrebbe chiedere a Giordana di andare al cinema insieme, oppure a Giovanni, o a tutti e due. Li incontrerà al corso di yoga. Giordana non ha mai impegni, ma non è detto che accetti: preferisce rimanere a casa con la sua gatta. Beata lei che non teme la solitudine. Giovanni è spesso impegnato, ma è più disponibile. Forse con uno dei due ce la farà. Al limite può scegliersi un bel film e andare da sola. Assapora con gusto i biscotti, ne mangia due in più di quelli che aveva deciso. Forse oltre allo yoga dovrebbe fare un corso di nuoto. Oppure qualche corsetta ai giardini di Villa Angeletti, almeno la domenica. Accidenti alla sua pigrizia. La domenica è stata tremenda. Da quando Matteo se ne è andato il problema più incombente è diventato la gestione del tempo libero. Il giornalaio le ha consigliato di utilizzare internet per fare nuove conoscenze, ma lei se ne guarda bene. Forse dovrebbe prendere un gatto, come Giordana, ma teme di non riuscire a sopportare nemmeno quello. Certamente non reggerebbe a lungo la gatta spelacchiata di Giordana. Indossa il camice bianco e si dirige verso il suo studio, in attesa della prima coppia di pazienti e pensa con gratitudine al suo lavoro che per un po' le permette di immergersi nei problemi degli altri. 13.30. Prepara la sacca dello yoga ed esce dalla sua villetta. E' troppo grande per lei, sola, questa casa. D'altra parte è un'eredità di famiglia, mica può venderla e per comprare cosa poi? Un appartamento asfittico, di quelli dove si sente anche quando cade una monetina per terra al piano di sopra? Via della Beverara una volta attraversava la campagna. I suoi nonni avevano un piccolo appezzamento di terreno. Troppo piccolo. Avevano allora avuto l'idea di mettere su un negozietto di pasta fresca. La nonna preparava i tortellini e i tortelloni, il nonno li consegnava a domicilio. Per quel che potevano, usavano i prodotti della loro terra o di quella dei loro parenti che lavoravano giù, verso la Bassa. Tortellini con uova ruspanti, pasta fatta interamente a mano. Un successone, la possibilità di comprarsi la casa dove erano in affitto e rimetterla a nuovo. Sarebbe dovuta bastare per figli e nipoti con le sue tre camere da letto, la sala grande col camino, la cucina abitabile, l'enorme granaio su in cima che poteva diventare un piccolo appartamento, la terrazza spaziosa per stendere il bucato, il fienile nel cortile che sarebbe potuto diventare una nuova casa. E' rimasta solo lei. Ha venduto il fienile e metà del cortile, ha trasformato il granaio nella mansarda-pensatoio, il suo spazio personale, con tutti i libri e il baule dei ricordi dove sono accatastate le carte della mamma e della nonna. Degli uomini non è rimasto nulla se non qualche foto, chissà perché. In una delle tre grandi camere da letto riceve i suoi pazienti. Anche qui ci sono i libri, ma quelli professionali, quelli della INCIQUID 12 # ott 2007 71 facciata. In un'altra camera dorme, mentre la terza è vuota. Prima era lo studio di Matteo. Una casa colonica in città, una perla preziosa. È una casa troppo grande per lei, ma va bene così. Non appena entra nella palestra, si rende conto che qualcosa non va. È in ritardo, come sempre, e gli altri sono già sistemati sui tappetini. Ma invece di essere impegnati nel saluto al sole guardano tutti nella direzione di Giovanni. In silenzio. Marta attraversa la palestra e si sistema al solito posto, fra Giovanni e Giordana. Ma Giordana non c'è. Strano! Non è mai mancata. E Giovanni è come impietrito e ora la fissa con gli occhi sbarrati, pallido. E, come in un rimando di specchi, ora tutti fissano lei. Cosa diavolo sta succedendo? Non formula la domanda ad alta voce, tuttavia, Giovanni le risponde. "Giordana è stata assassinata. Il suo corpo è stato trovato all'entrata di Villa Angeletti, questa mattina..."