Wu Ming Manituana A Piermario A Maria 1a edizione : 2007 Questo libro è stato stampato su carta ecosostenibile CyclusOffset, prodotta dalla cartiera danese Dalum Papir A/S con fibre riciclate e sbiancate senza uso di cloro. Per maggiori informazioni: www.greenpeace.it/scrittori. Si consentono riproduzione parziale o totale dell'opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta. L'autore difende la gratuità del prestito bibliotecario ed è contrario a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l'accesso alla cultura. L'autore e l'editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest'opera. (c) 2007 by Wu Ming, Published by arrangement with Agenzia letteraria Roberto Santachiara (c) 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.manituana.com www.wumingfoundation.com www.einaudi.it Prologo Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755. I raggi del sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco. L’uomo sulla barella strinse i denti, il fianco bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita. Hendrick era morto e con lui molti guerrieri. Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui. Gli indiani non combattevano mai a cavallo, ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull’arcione. Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme. Era morto combattendo il nemico. Una fine nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli sepoltura cristiana. William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini, mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il primogenito, ancora troppo giovane per la guerra. Suo figlio avrebbe ereditato la pace. Voci e schiamazzi segnalarono l’accampamento. Le donne strillavano e inveivano, domandavano di figli e mariti. Lo deposero dentro la tenda. – Come vi sentite? Riconobbe il viso arcigno e gli occhi grigi del capitano Butler. Tentò di sorridere, ottenne solo una smorfia. – Ho l’inferno nel fianco destro. – Segno che siete vivo. Il dottore sarà qui a momenti. – I guerrieri di Hendrick? – Li ho incontrati mentre tornavo qui. Scalpavano cadaveri e feriti, senza distinzione. William reclinò il capo sul giaciglio e prese fiato. Aveva dato la sua parola a Dieskau: nessuno avrebbe infierito sui prigionieri francesi. Hendrick aveva strappato la promessa ai guerrieri, ma Hendrick era morto. Un uomo basso entrò nella tenda, paonazzo, chiazze di sudore sulla giacca. William Johnson sollevò la testa. – Dottore. Ho qui una rogna per voi. Il medico gli sfilò la giubba, aiutato dal capitano Butler. Tagliò le brache con le forbici e prese a lavare e tamponare la ferita. – Siete fortunato. La pallottola ha toccato l’osso ed è rimbalzata via. – Sentito, Butler? Respingo i proiettili. Il capitano borbottò un ringraziamento a Dio e offrì uno straccio a William, perché potesse morderlo mentre il medico cauterizzava la ferita. – Non alzatevi. Avete perso molto sangue. – Dottore… – William aveva il volto teso e slavato, la voce era un rantolo. – I nostri uomini stanno conducendo al campo i prigionieri francesi. Tra loro c’è un ufficiale, il generale Dieskau. È ferito, forse privo di sensi. Vorrei che gli prestaste le vostre cure. Capitano, accompagnate il dottore. Butler e il medico fecero per dire qualcosa, ma William li anticipò: – Posso restare da solo. Non morirò, ve l’assicuro. Butler annuì senza dire nulla. I due si congedarono. Per impedirsi di svenire, William tese le orecchie e concentrò il pensiero sui rumori. Vento a scrollare i rami. Richiami di corvi. Grida lontane. Grida più vicine. Grida di donne. Un trambusto improvviso attraversò il campo. William pensò fosse Butler di ritorno con i prigionieri. Guardò fuori dalla tenda. Un gruppo di guerrieri Mohawk: urlavano e piangevano, i tomahawk alti sopra le teste. Trascinavano i Caughnawaga con una corda al collo, le mani legate dietro la schiena. Le donne del campo li vessavano con calci, pugni e lanci di pietre. Il drappello si fermò a non più di trenta iarde. Nessuno dei guerrieri guardò verso la tenda: erano dimentichi di tutto, ogni senso teso alla vendetta. Il più agitato si muoveva avanti e indietro. – Non siete uomini. Siete cani, amici dei Francesi! Hendrick vi aveva detto di non alzare le armi contro i vostri fratelli! Vi aveva avvertiti! Afferrò un prigioniero per i capelli, lo trascinò in ginocchio e recise lo scalpo. Quello cadde nella polvere, prese a urlare e contorcersi. Le donne lo finirono a bastonate. William sentì il sudore gelare la pelle. Un secondo prigioniero venne scotennato, le donne lo presero a calci prima di pugnalarlo a morte. William pregò che tra i morituri non vi fossero bianchi. Finché rimaneva una questione tra indiani, poteva risparmiarsi di intervenire. Hendrick era morto. Figli e fratelli erano morti. I Mohawk avevano diritto alla vendetta, purché non toccassero i Francesi: servivano per gli scambi di ostaggi. Il terzo Caughnawaga crollò a terra con il cranio sfondato. Al quartier generale di Albany i caporioni mandati dall’Inghilterra non volevano capire. Non si poteva combattere come in Europa. I Francesi scatenavano le tribù contro i coloni inglesi. Incursioni, incendi e saccheggi. Petite guerre, la chiamavano. I Francesi avevano un nome per ogni cosa. All’alto comando britannico serviva lo stomaco di reagire con la stessa moneta. Era in gioco il dominio su un intero continente. L’arrivo di nuovi prigionieri interruppe le riflessioni. Civili bianchi, furieri, maniscalchi e soldati con la divisa lacera. Uno dei guerrieri trascinò fuori dal gruppo un ragazzo. Indossava l’uniforme da tamburino del reggimento. William era spossato. Coglieva a fatica le parole, ma la sorte del ragazzino era chiara. Un altro guerriero affrontò il primo, che già mostrava il coltello. Con le penne sul capo e il corpo dipinto, ricordavano due galli in un’arena. – Porta la divisa dei francesi. Non puoi prendere il suo scalpo! – L’ho sentito parlare caughnawaga. – Hendrick ha detto che i prigionieri bianchi spettano ai padri inglesi. – Guardalo in faccia, ti sembra un bianco? – Se Hendrick fosse qui ti scaccerebbe. – Io voglio vendicarlo. – Tu lo disonori. – Vuoi aspettare che cresca e diventi un guerriero? Meglio ucciderlo subito, ora che i traditori Caughnawaga sono in fuga e ci temono. – Stupido! Warraghiyagey si infurierà con te. William Johnson sentì scandire il proprio nome indiano. Warraghiyagey, «Conduce Grandi Affari». Fece leva sui gomiti, doveva intervenire. Vide il coltello calare sulla chioma del tamburino. Riempì i polmoni per gridare. Qualcosa colpì il guerriero al volto. La pietra rimbalzò per terra. L’uomo lasciò la presa, portò la mano alla bocca, tossì, sputò sangue. Una sagoma piccola e veloce gli fu addosso e lo spinse via. Un guizzo di pelle di cervo e capelli corvini. Ruggiva contro i guerrieri, che arretravano interdetti. – Siete senza onore, – gridò la giovane donna. – Dite di voler vendicare Hendrick, ma è il denaro degli Inglesi che volete, dieci scellini per ogni scalpo indiano! Si avvicinò al guerriero che ancora stringeva il pugnale e gli sputò addosso. L’uomo avrebbe voluto colpirla, ma lei lo incalzò. – È poco più di un bambino. Non ha sparato un colpo. Potrebbe avere l’età di mio fratello –. Indicò un ragazzo dall’aria attenta, al margine del cerchio di donne che si era radunato intorno alla scena. – Quando avrete incassato la paga, la spenderete per comprarvi il rum. Quelli che oggi si dànno arie da grandi guerrieri, domani rotoleranno nel fango come porci. Il guerriero le indirizzò un gesto di sdegno prima di ritirarsi. La donna si rivolse agli altri. – Non pensate che agli scalpi, ma gli scalpi non vanno a caccia, non portano a casa il cibo, non coltivano gli orti. Siete tanto ubriachi di sangue da calpestare le nostre usanze? Oggi molte donne hanno perso figli e mariti. Vanno risarcite con nuove braccia –. Guardò il giovane tamburino dall’alto in basso. – Dobbiamo adottare i prigionieri come nuovi figli e fratelli, secondo la tradizione. La madre di mia madre fu adottata, veniva dai Grandi Laghi. Lo stesso Hendrick divenne un Mohawk in questo modo. Voi lo avreste ucciso! Le donne si spostarono alle spalle della giovane. Insieme fronteggiarono i guerrieri. Gli uomini scambiarono occhiate incerte, poi si allontanarono con finta indifferenza e molti borbottii. William Johnson si abbandonò sulla branda. Conosceva quella furia, l’aveva vista bambina. Molly, figlia del sachem Brant Canagaraduncka. Da sola teneva testa ai guerrieri. Decideva la sorte di un prigioniero. Parlava come avrebbe fatto Hendrick. Prima parte Irochirlanda 1775 1. Avevano portato anche i bambini, perché un giorno lo raccontassero a figli e nipoti. Dopo molti tentativi, l’asta finì per mettersi dritta. Il Palo della Libertà. Un tronco di betulla, pulito e levigato alla buona. Un groviglio di corda. Un rettangolo di stoffa rossa tagliato da una coperta. La bandiera del Congresso continentale. Il comitato di sicurezza di German Flatts approvava il suo primo documento: l’adesione alle rimostranze che l’Assemblea di Albany aveva inviato al Parlamento inglese. Il pastore Bauer ne diede lettura. Il testo si concludeva con l’impegno solenne a «stare uniti, nei valori della religione, dell’onore, della giustizia e dell’amore per la Patria, allo scopo di non essere mai schiavi e difendere la propria libertà a costo della vita». Il vessillo si preparava a salire, salutato da canti e preghiere, quando un rumore di zoccoli interruppe la cerimonia. Una squadra di cavalieri apparve sul sagrato. Brandivano sciabole, fucili e pistole. Qualcuno sparò in aria, mentre la piccola folla cercava riparo tra le case. Restarono sullo spiazzo pochi coraggiosi. Teste impaurite facevano capolino da dietro i muri, negli spiragli delle porte e alle finestre della taverna. Un nome volò da una bocca all’altra, in un girotondo di voci. Il nome dell’uomo che aveva fatto fuoco contro il cielo. Sir John Johnson. Intorno a lui, gli uomini del Dipartimento per gli Affari indiani. I suoi cognati Guy Johnson e Daniel Claus. Subito dietro, il capitano John Butler e Cormac McLeod, scherano dei Johnson e capo dei fittavoli scozzesi che lavoravano la terra del baronetto. Mancava soltanto il vecchio patriarca del clan, Sir William, eroe della guerra contro i Francesi, signore della valle del Mohawk, morto l’anno prima. Sir John montava un purosangue baio dal pelo lucido, fremente sotto la stretta del morso. Si sfilò dal gruppo e prese a cavalcare lungo il perimetro dello spiazzo, mentre fissava i membri del comitato con aria sprezzante, uno dopo l’altro. Guy Johnson portò il cavallo a ridosso di una tettoia e si arrampicò là sopra con difficoltà, per via della stazza. – Forza, siamo qui per discutere, – disse alle case. – È questo che volete, no? Nessuno fiatava. Sir John diede uno strattone alle briglie, il cavallo arretrò e ruotò su se stesso, fino a cedere alla volontà del padrone. Allora qualcuno si fece coraggio. Il gruppo che fronteggiava gli uomini a cavallo si infoltì. Guy Johnson lanciò un’occhiata severa. – Indirizzare una petizione al Parlamento è lecito, ma issare una bandiera che non sia quella del re è sedizione. Una cosa vi copre di ridicolo, l’altra manda sulla forca. Ancora silenzio. I membri del comitato evitavano di guardarsi per timore di cogliere un cedimento negli occhi dei compagni. – Volete seguire l’esempio dei Bostoniani? – riprese Guy Johnson. – Due fucilate all’esercito del re e si sono montati la testa. Sua Maestà possiede la flotta più potente del mondo. È buon amico degli indiani. Controlla tutti i forti dal Canada alla Florida. Credete che i ribelli del Massachusetts otterranno molto più di un cappio al collo? Fece una pausa, quasi volesse sentire il sangue ribollire nelle vene dei tedeschi. – La famiglia Johnson, – proseguì calmo, – possiede terra e commercia più di tutti voi messi assieme. Saremmo i primi a stare dalla vostra parte, se davvero Sua Maestà minacciasse il diritto di fare affari. Una voce risuonò forte: – I vostri affari non li minaccia di certo. Voi siete ricco e ammanicato. Le tasse del re strozzano noialtri. Un coro d’assensi accolse quelle parole. Dalla cima della tettoia Guy Johnson individuò Paul Rynard, il bottaio. Una testa calda. Lo stallone di Sir John scrollò il capo e sbuffò nervoso, rimediando un altro strattone. Il frustino del baronetto colpì il cuoio dello stivale. – Le tasse servono a mantenere l’esercito, – ribatté Guy Johnson. – L’esercito mantiene l’ordine nella colonia. – L’esercito serve a voialtri per continuare a tenerci sotto! – sbottò Rynard. Gli animi si accesero, qualcuno dei cavalieri alzò d’istinto le armi, ma un cenno di Sir John li trattenne. – Non ancora, – sibilò il baronetto. Guy Johnson, rosso in volto, strillò dall’alto: – Quando i Francesi e i loro indiani minacciavano le vostre terre, l’esercito lo chiedevate a gran voce! La pace vi ha reso arroganti e stupidi al punto da desiderare un’altra guerra. Fate molta attenzione, ai morti la libertà non serve. – Ci state minacciando! – gridò Rynard. – Tornatene in Irlanda dai tuoi amici papisti! – urlò qualcuno. Un sasso scagliato verso Guy Johnson lo mancò di poco. Una smorfia di compiaciuto disprezzo segnò la faccia di Sir John: – Adesso. I cavalli mossero in avanti, il comitato di sicurezza si sciolse seduta stante. Gli uomini corsero in tutte le direzioni. Il cavallo di John Butler travolse Rynard e lo fece rotolare nel fango. Il bottaio si rialzò, cercò scampo verso la chiesa, ma Sir John gli sbarrò il passo. Il baronetto lo frustò con quanta forza aveva. Rynard si accucciò a terra, le mani sulla faccia. Tra le dita, vide McLeod sguainare la sciabola e partire al galoppo. Strisciò via, invocando la misericordia di Dio. Quando ricevette il colpo di piatto sul fondoschiena, urlò forte, tra le risate roche dei cavalieri. Mentre Rynard si scopriva ancora vivo, gli uomini del Dipartimento si radunarono al centro dello spiazzo. Guy Johnson rimontò in sella e li raggiunse. Un leggero colpo di speroni e Sir John fu sotto il Palo della Libertà. Parlò in modo che tutti lo sentissero, dovunque fossero rintanati. – Ascoltate bene! Chiunque in questa contea voglia sfidare l’autorità del re, dovrà vedersela con la mia famiglia e con il Dipartimento indiano –. I suoi occhi maligni parvero scovare gli abitanti uno a uno, oltre le finestre buie. – Lo giuro sul nome di mio padre, Sir William Johnson. Sfilò un piede dalla staffa. Dopo un paio di calci, il Palo rovinò nel fango. 2. Seduto in poltrona, Jonas Klug ridacchiava nella penombra. Una lama di bagliore lunare colpiva l’ingiunzione di sfratto che teneva tra le mani. Estasiato la rimirava, benché al buio non potesse leggerla né distinguere le righe. La accarezzava, passando i polpastrelli sulla grana del foglio, la annusava come la lettera di un’amante intrisa di profumo. Profumo di ricchezza, profumo di terra, di futuro. Gli indiani, invece, puzzavano di passato. Jonas Klug era alticcio, aveva festeggiato. La pendola del soggiorno segnava le undici meno cinque. La moglie già a letto e anche i domestici. Ubriacare i Mohawk era stato facile. Scorrevano torrenti di rum in quella che chiamavano la Lunga Casa, la terra delle Sei Nazioni irochesi. Uomini e donne sguazzavano in pozzanghere d’alcol. Come e più dei bianchi, i selvaggi ubriachi perdevano ogni ritegno, ridevano fino a slogare le mandibole, si piegavano in due perdendo l’equilibrio, cadevano e rotolavano nella polvere, oppure schiumavano di rabbia, attaccavano brighe che diventavano pestaggi che diventavano ammassi di corpi furenti. Uno dei loro capi era morto così, da sbronzo, cadendo nel fuoco. Se il rum stava mandando in rovina le Sei Nazioni, perché non trarne vantaggio? Klug era un uomo d’affari. Aveva visto una distesa di terra buona a est del villaggio, cinquemila acri di bosco e radure pianeggianti, con sparse baracche indiane e campicelli di fittavoli bianchi – irlandesi o scozzesi papisti, che pagavano i Mohawk in natura. Klug era tedesco. Vent’anni prima era sbarcato a New York con le pezze al culo. Anni di servitù a contratto, a spalare la merda degli altri, poi il riscatto, la libertà, il viaggio verso l’interno, e infine la terra. Quanta non ne aveva mai immaginata. Si era spaccato la schiena, aveva dissodato e costruito, nella speranza di scacciare la miseria per sempre. Poi era venuta la guerra tra Inghilterra e Francia. Una stagione di terrore, barricati in casa per paura delle scorribande indiane. Alla fine pace e prosperità erano arrivate. Jonas Klug aveva persino acquistato una famiglia di schiavi che zappava la terra al posto suo. Adesso anche quei cinquemila acri erano suoi. Coi soldi che aveva da parte poteva costruirci un mulino, una seconda fattoria, vendere il legname, seminare orzo e segale, produrre birra e whiskey, allevare bestiame. Oppure poteva rivenderla. La legge – quel poco di legge che c’era – stava dalla sua parte. La parte giusta. Dio non proteggeva i selvaggi: Gesù era bianco, non indiano. Gli indiani volevano solo altro rum. I sachem più sobri si erano pronunciati spesso contro l’acqua del diavolo, e anche il Vecchio, prima di crepare, si era occupato del problema. Come dire che si erano pronunciati contro il respirare, e William Johnson, baronetto protettore degli indiani, s’era occupato dell’aria. Il rum era dappertutto ed era lì per rimanere. Semplice come bere un cicchetto: tre anni addietro, Klug aveva fatto sbronzare l’indiano giusto, il più stupido e sbruffone, Lemuel, Lemuel qualcosa, e altri suoi compari, idioti quanto lui. Mentre erano sbronzi, prima che vomitassero anche le tonsille, avevano firmato la cessione. Con una bella «X» da analfabeti, tanto valeva lo stesso. Non che Klug fosse uomo di lettere, ma sul poco che sapeva, molto aveva costruito. Nel contratto, Lemuel e compagnia si dichiaravano rappresentanti legali degli abitanti di Canajoharie, proprietari della terra. Una specie di consiglio di tribù, roba da selvaggi. In virtù di questo, cedevano quattromila acri, per il controvalore di due casse di rum. «X», «X» e «X», di fronte a testimoni. Beneficiario: Jonas Klug. Poco tempo dopo, in una notte di luna piena, aveva mandato un agrimensore amico suo, che era andato largo coi rilievi. Mille acri in più rispetto al contratto. Quindi aveva spedito il tutto ad Albany e in capo a un anno era arrivato l’atto di proprietà. Brutto risveglio per i selvaggi di Capo Sbornia. I Mohawk avevano fatto ricorso, dicendo che Jonas Klug aveva agito in malafede, che solo i sachem potevano firmare un contratto del genere e che la trattativa s’era svolta senza un interprete ufficiale. Avevano smosso mari e monti, si erano appellati al loro baronetto, al governatore Tryon, alla Corona d’Inghilterra. E petizioni in tribunale, e altre proteste, e minacce di scendere sul sentiero di guerra. Figurarsi se un tribunale poteva dar torto a un onesto coltivatore contro una torma di pellerossa. Klug non era solo, aveva chi poteva proteggerlo e gli indiani lo sapevano. Per questo parlavano e parlavano, presentavano appelli come tanti avvocaticchi unti di grasso d’orso, ma non passavano all’azione. Molti coloni ammiravano Klug per quel che aveva fatto. C’era chi non vedeva l’ora di regolare i conti coi selvaggi, gentaglia fetida che quando aveva fame ti entrava nel granaio, o ti coglieva le mele dall’albero neanche fosse roba loro, e se non stavi attento, ti vomitava pure addosso. Dio non poteva aver concesso a primitivi miscredenti un diritto su quelle terre. Klug li odiava. Ancor più odiava chi li proteggeva: il Dipartimento indiano e il clan dei Johnson, con la loro corte di pizzi, merletti e porcellane. Soprattutto quella strega, Molly Brant, la puttana del vecchio Sir William, coi suoi figli mezzosangue: un giorno cipria e cappelli piumati, il giorno dopo conchiglie e pitture di guerra. I loro feudi si estendevano per centinaia di migliaia di acri, a Onondaga, Sacondaga, Schenectady, Kingsborough, Albany, Schoharie. In combutta con le Sei Nazioni e re Giorgio d’Inghilterra. Klug conosceva bene i latifondisti arroganti e intrallazzoni. Suo padre aveva consumato la vita a coltivare i campi di signori come quelli. Klug era emigrato per non trovarseli più sulla groppa, invece comparivano anche lì. Una maledizione in terra. Lemuel e i suoi amici chissà dov’erano finiti, non li aveva più incrociati. Probabile che i loro fratelli li avessero pestati a sangue, forse ammazzati, o cacciati dal villaggio. Chissà, magari erano scappati a ovest, erano diventati vagabondi, maledicevano ogni giorno la volta che s’erano sbronzati, e per dimenticare tornavano a bere. La terra sarebbe stata sua per sempre, finché avesse voluto. La notifica di sfratto che teneva in mano, convalidata dalle autorità competenti, era l’ultimo passaggio, il più atteso. Un calcio nel culo a Joseph Brant e all’anima di William Johnson che bruciava all’inferno. Per questo Jonas Klug ridacchiava nella penombra. Poi la pendola batté le undici. Di nuovo silenzio. Klug sentì un rumore. Joseph Brant l’aveva detto al governatore: la pazienza dei Mohawk era al limite. La sua, a dire il vero, era esaurita da un pezzo. C’era anche la sua tenuta, su quei cinquemila acri. Al villaggio gli animi erano esasperati. Quello di Klug era soltanto l’ultimo di una lunga serie di raggiri messi in atto dai coloni per rubare le terre ai Mohawk. Thayendanega, «Lega Due Bastoni», battezzato col nome di Joseph Brant, non era di quelli che si lasciavano ubriacare. Era un reduce della guerra franco-indiana, un uomo rispettato, l’interprete del Dipartimento indiano. Il governatore Tryon aveva promesso di fare il possibile, ma la situazione non era cambiata. Anzi, le cose volgevano al peggio, un avvenire orfano e nero colpiva alle spalle la nazione. I guerrieri scalpitavano, obbedivano ancora ai sachem ma li ritenevano troppo cauti. Non era roba da tribunali, quella. Sir William non c’era più e molti volevano risolvere la faccenda alla vecchia maniera: esporre lo scalpo di Klug fra i trofei di guerra. Joseph aveva proposto un’alternativa. Non voleva finire i propri giorni da povero, la terra e quello che c’era sopra appartenevano a lui e alla sua gente, da sempre alleata del re. Ma non voleva nemmeno che il colpevole passasse per vittima. Con la dovuta pressione, avrebbe ottenuto giustizia per sé e gli altri, nel rispetto della legge inglese. Il concilio del villaggio gli aveva dato carta bianca. Intorno alla casa di Jonas Klug erano una dozzina. Joseph scivolò sul lato. I compagni, alle spalle, fremevano. Si erano avvicinati sottovento e avevano avvelenato i cani. Due guerrieri erano rimasti a tenere a bada gli schiavi africani che dormivano nella casupola in fondo alla tenuta. Una mezza dozzina di derelitti, che Klug teneva peggio delle bestie. Non avrebbero dato problemi. Joseph guardò la propria immagine riflessa nel vetro della finestra. Due ore di marcia non sembravano aver compromesso l’effetto dell’abbigliamento: giacca da cacciatore con bottoni di corno, pantaloni di pelle e stivali da cavallerizzo. Alla luce della luna la figura non era più di un instabile profilo tracciato nel vetro: un’ombra con il proprio seguito d’ombre. Sarebbe apparso di fronte al tedesco come uno spirito dei boschi. Prima di mettersi in marcia, Joseph aveva passato in rassegna il drappello. David Royathakariyo e due giovani del clan dell’Orso si erano dipinti il volto. Joseph si era limitato a mormorare qualcosa a bassa voce, scuotendo il capo: impossibile capire cosa passasse per la testa dei giovani. Del resto, finché non combinava idiozie, ognuno aveva diritto di acconciarsi come credeva giusto. Certo le pitture testimoniavano una cosa: voglia di guerra. Jacob Bowman Kanatawakhon, August Sakihenakenta e un altro paio del clan del Lupo erano i più fidati. Tutti sembravano abbastanza sobri, a parte l’ultimo convenuto, Johannes Tekarihoga. L’uomo più nobile di Canajoharie si era presentato alticcio. Puzzava di rum e tirava lunghi sorsi dalla borraccia, offrendone anche agli altri. Joseph aveva impiegato un intero pomeriggio per convincerlo a partecipare. La presenza di un personaggio del suo rango dava legittimità alla spedizione. Se il vecchio sachem si fosse addormentato lungo la strada, l’avrebbero raccolto sulla via del ritorno. Joseph si erse in tutta la figura, fece cenno alla fila di guerrieri di scostarsi dalla parete e a grandi passi coprì la distanza che lo separava dall’ingresso. Si fermò davanti alla porta, inspirò. L’aria notturna gli riempì i polmoni. Il petto si allargò sotto la giacca. Provò una sensazione fredda e profonda: compiacimento. Il suo aspetto era elegante e marziale. All’interno, un lume acceso. Klug era sveglio. Meglio così. Joseph batté sulla porta con la testa d’avorio del bastone da passeggio, antico regalo di Sir William. – Jonas Klug, apri la porta! Apri o la sfondiamo! I guerrieri rumoreggiavano. Qualcuno emise grida di battaglia. Joseph immaginò il tedesco spalancare la porta e sparare alla cieca. Impossibile: Klug teneva alla pelle, avrebbe cercato di tergiversare. La porta si socchiuse. Joseph spinse le assi di legno con la suola dello stivale. Klug, terreo, si offrì alla vista degli indiani. – Che fate qui? Che volete? Per tutta risposta, Royathakariyo scostò Joseph e si avventò sul tedesco digrignando i denti. – Che facciamo qui, eh? Tu cosa credi? Le mani dell’indiano serrarono la gola di Klug. Il tedesco annaspò. Emise un grido stentato, mentre Joseph cercava di liberarlo dalla stretta dell’aggressore. Quando ci riuscì, Klug si accasciò tra i colpi di tosse. La moglie scese le scale con in braccio un fucile. Provò a puntarlo, ma Kanatawakhon afferrò la canna e la spinse in alto. Il colpo centrò il soffitto. La signora iniziò a urlare come un’ossessa, imitata dagli indiani. Per un momento sembrò che facessero a gara a chi lanciava le strida più acute. Poi la donna si ritirò al piano di sopra, tra le braccia delle domestiche. Klug intanto provava a sottrarsi al suo destino sgattaiolando via a quattro zampe. Gli indiani gli furono addosso. – Non in testa! – ordinò Joseph. Sulla schiena e sulle gambe del tedesco grandinarono colpi. Quando ritenne che ne avesse prese a sufficienza, Joseph strattonò via i guerrieri. – Basta così! Basta così, ho detto! Si chinò su Klug e gli sventolò un foglio davanti al naso. – Questa è una dichiarazione scritta in cui voi, signor Klug, ammettete di aver sottratto con l’inganno la terra alla mia gente –. Con l’altra mano agitò il bastone. – Questo è solo un assaggio. Vedrete cosa vi tocca se non firmate. Si era preparato il discorso nei giorni precedenti. Suonava bene. 3. Al mattino poteva sentire la terra respirare. A mezzogiorno, poteva sentire l’erba crescere. La sera, poteva vedere dove i venti andavano a riposare. Molte cose invisibili erano limpide per Molly Brant, chiare come una calligrafia, nitide come il profilo degli alberi in una giornata tersa. Dalla nonna materna aveva imparato a vedere dove altri occhi erano ciechi, a sentire dove altre orecchie erano sorde. Aveva imparato a cattivarsi gli oyaron, spiriti che guidano attraverso i sogni. E aveva appreso il modo corretto di svegliarsi. Aprire le palpebre, ringraziare il Padrone della Vita, contare tre respiri e alzarsi subito, prima che la pigrizia del corpo intorbidi i pensieri: così la testa rimane limpida, i sogni non sfuggono, i mali dell’anima possono essere curati. La luce dalla finestra tagliò l’oscurità. La parte inferiore del letto rimase in penombra, ma dalla vita in su le lenzuola erano inondate di sole. Molly si levò con scioltezza. I capelli neri ricaddero sulla veste di lino. Versò il contenuto di una brocca nella bacinella, lavò il volto. Si asciugò con una pezza di cotone e alzò il capo. Nello specchio un reticolo di lievi cicatrici, pelle che il vaiolo aveva scalfito appena. Un’altra battaglia vinta al fianco di Sir William. Il solletico dei tuoi capelli mi infiamma di passione, arrossa le mie guance. La voce giunse su un alito di vento. Molly scrutò il riflesso delle pupille. Poteva sostenere lo sguardo di chiunque, anche quello di Molly Brant. Arendiwanen, donna di potere. Ricca di roba, di terre, di figli. Capace di sognare con forza, come accadeva al tempo dei nonni, quando Hendrick era giovane e la nazione prosperava. Nel sogno di quella notte la chiesa era gremita. Occhi e teste sfioravano il soffitto, come sacchi di mais ammucchiati per l’inverno. Proprietari irlandesi, fittavoli scozzesi, guerrieri mohawk. Orsi e lupi accovacciati sul pavimento di terra. Enormi tartarughe reggevano l’altare sul dorso. Il pastore, in piedi sul pulpito, sfogliava il libro delle preghiere. Peter si alzava in piedi. Imbracciava il violino: la vecchia marcia irlandese che suo padre faceva intonare alle cornamuse prima di dare battaglia. Due sachem in guanti neri e mantello da lutto si avvicinavano alla bara per calarla sotto l’altare, ma la fossa non era ancora scavata. I fedeli si facevano avanti, uno per volta. Raccoglievano una vanga e provavano ad affondarla. Invano. La terra era più dura del ferro. Il manico del badile si spezzava. Joseph impugnava il tomahawk per usarlo come piccone. Un guerriero lo affiancava, il volto in ombra. Scavava con le unghie finché le dita non buttavano sangue. Molly si accostò alla finestra. Capannelli di uomini e donne affollavano lo spiazzo davanti all’emporio. Un cacciatore indiano carico di pellicce e un mercante di pentole volevano ingaggiarla come interprete e concludere i loro scambi. A un barcaiolo servivano provviste per il viaggio e la pece per rattoppare un battello. Coloni dalle fattorie vicine erano venuti per una proroga sui debiti di famiglia. C’erano due signore tedesche di Palatine, quelle che la chiamavano strega ma poi attraversavano il fiume fino al suo negozio, per via di un infuso miracoloso contro il mal di denti. C’erano cani e bambini, anziani e guerrieri, sachem e perdigiorno in attesa della dose di rum. Le donne, giovani e anziane, erano lì per scambiarsi i sogni, discutere le novità e con l’occasione comprare carne salata. Anche oltre i vetri spessi, scuri e pieni di bolle, Molly percepì eccitazione. Il volume delle voci era più alto del solito. Il tono concitato. Non la chiacchiera ordinaria che inganna l’attesa, ma una valanga di frasi. Tutti parlavano, nessuno sembrava ascoltare. 4. Ogni volta che Canajoharie si apriva alla vista, Joseph Brant pensava al destino della sua gente. Ai piedi della collina, il fiume Mohawk faceva un’ansa e chiudeva i campi e le abitazioni di legno, costruite sul modello delle lunghe case. Quando la nazione era ancora numerosa, le dimore tradizionali avevano tenuto fede al nome: potevano ospitare fino a trecento persone. Ora l’intero villaggio non ne contava altrettante. Le dimensioni delle case si erano molto ridotte. Non c’erano uomini per riempirle e i Mohawk si erano abituati a vivere come i bianchi. Quelli di condizione più elevata avevano i vetri alle finestre, e i coloni più poveri li guardavano con invidia. Solo il territorio delle Sei Nazioni continuava a essere una Lunga Casa, per quanto simbolica: i Seneca difendevano la porta occidentale, i Mohawk quella orientale. Al centro gli Onondaga custodivano il fuoco. Cayuga, Oneida e Tuscarora aiutavano i tre fratelli maggiori nei loro compiti ancestrali. Sul sentiero che saliva dal villaggio, Joseph scorse una sagoma che gli correva incontro. Dopo la visita alla tenuta dei Klug, mezza spedizione aveva sbagliato sentiero, persa nelle nebbie del rum. Le urla alcoliche avevano svegliato i cani nel raggio di un miglio. Braccati dalle bestie, i guerrieri s’erano sparpagliati nei dintorni. Qualcuno era crollato a terra, vinto dal sonno. C’erano volute ore per radunarli tutti e rimettersi in strada. Chi s’era dipinto il volto esibiva una maschera sfatta e poco dignitosa. – Fort Ticonderoga! – urlò Peter Johnson appena lo zio fu a portata di voce. Quando lo ebbe raggiunto, proseguì: – I ribelli. Hanno preso Fort Ticonderoga senza sparare un colpo. Joseph guardò il nipote. Negli ultimi mesi si erano visti di rado. Dopo la morte del padre, Peter era tornato da Philadelphia solo un paio di volte. – Li comanda un certo Ethan Allen, sai chi è, zio Joseph? – È un bandito delle Green Mountains. Da anni combatte contro il governatore. Vieni, andiamo da tua madre. Joseph sentì un brivido attraversare gli uomini dietro di sé. I guerrieri avrebbero preferito cento frustate, piuttosto che mostrarsi a Molly in quella condizione. Con diverse scuse, si dispersero ognuno per la sua strada. Zio e nipote si incamminarono da soli. Lungo il sentiero uomini e donne affrettavano il passo, come alle prime gocce di un temporale, poi si fermavano di colpo, risucchiati dal primo assembramento. Le porte delle case erano spalancate, per non sbarrare il passo alle notizie. Non c’era ragazzo che non si improvvisasse messaggero, di corsa dalla chiesa al molo dei battelli fino alle fattorie più distanti. La stanza principale dell’emporio si sviluppava in lunghezza. Tra volute di polvere e fumo, le merci occupavano ogni anfratto, mensola o scaffale, quando non pendevano dalle travi del soffitto. Corde di canapa, scatole di legno per chiodi, stoppini, acciarini. Casse di pigmenti per guerrieri, marcate da ideogrammi cinesi. Specchi per dipingersi il volto, candele, attrezzi, pietre focaie, vernici; e poi coperte, incerate, pelli, vestiti di varia foggia e taglio; alimenti freschi e secchi, affumicati e sotto sale. Infine, dentro piccole botti, l’indiscusso sovrano di ogni emporio, spaccio o stazione di cambio nel raggio di centinaia di miglia: il rum. Joseph salutò la sorella, intenta a convincere un cliente che i suoi scellini erano falsi, buoni giusto per un’elemosina da spilorci. Peter si offrì subito per una perizia, garantita e infallibile. La madre lo benedisse e con un cenno invitò Joseph a seguirla. Dietro una tenda di lino grezzo si nascondeva un ambiente raccolto, riservato alle trattative e agli ospiti di riguardo. Il tavolino basso e le sedie a dondolo poggiavano su un tappeto di seta orientale. Sulla parete di fondo gradini di legno portavano agli appartamenti privati. Molly si affacciò sulla scala e ordinò che qualcuno portasse del tè. Poi sistemò un cuscino sulla poltrona, sedette e prese a scacciare le mosche con un ventaglio di pizzo. Joseph la guardava. Era più vecchia di lui di otto anni. Nella lunga treccia spiccavano capelli bianchi. Una giovane serva nera scese nella stanza con un vassoio d’argento e porcellane cinesi. Joseph riconobbe il servizio. Arrivava dal salotto di Johnson Hall. – Ti manca ancora la vecchia casa? – le domandò. Molly scrollò appena le spalle. – Mi mancano le mie cose, i mobili che avevo scelto, le stoviglie comprate con William ai magazzini di New York. La governante di Sir John mi ha detto che stanno fondendo l’argenteria, per paura che i ribelli possano requisirla. L’atmosfera ovattata avvolgeva Joseph. Odore di cuoio, granaglie e zucchero di canna. Ogni cosa era a portata di mano. Chiarore filtrava dall’unico lucernario. Soffiò l’aria tra i denti e deglutì il tè. – I coloni sono sempre più arroganti. Da quando tuo marito è morto, la legge dei bianchi ci difende a stento. – Per la legge dei bianchi, Sir William non era nemmeno mio marito. Joseph sfilò da sotto la giacca un foglio ripiegato. – Questo non potranno ignorarlo –. Porse la carta a Molly, che la aprì e la scorse con gli occhi. – La firma di Klug è autentica, – precisò il fratello. – Bisogna mandare ad Albany una persona fidata. Va consegnato al tribunale della colonia. Molly accennò un sorriso e ripose il documento sul vassoio. – Il postale di questa mattina ha portato notizie dal Nord. I Bostoniani hanno preso Ticonderoga e puntano sul Canada. – La ribellione si allarga, – annuì Joseph, – e la Lunga Casa deve scegliere la sua guerra, prima che la guerra scelga la Lunga Casa. Seguì un silenzio sporcato solo dal vociare che giungeva da oltre la tenda. Molly si dondolava appena sulla sedia. – Molti dicono che è una faccenda tra inglesi, ma la terra è nostra e i patti li abbiamo siglati con re Giorgio. Joseph si alzò e scostò la tenda. Peter aveva convinto il cliente e gli porgeva il libro dei crediti per una firma. Il ragazzo era in gamba. Viveva in una grande città, da solo e senza timori, fiero delle sue origini e del suo nuovo sapere. Parlava e scriveva in tre lingue: inglese, francese e mohawk. Leggeva la musica, suonava il violino, si impratichiva nel commercio. Presto avrebbe dimostrato ai guerrieri anche il suo coraggio. Sir William e Molly avevano immaginato un grande avvenire per il loro primogenito. Il ragazzo non li avrebbe delusi. A suo agio tra i bianchi e nella Lunga Casa, già a sedici anni incarnava il futuro della nazione. Joseph fece un passo indietro, si voltò e riprese il filo dei pensieri. – Che avrebbe fatto Sir William? Molly scrutò la superficie scura nella tazza. Le parve di rivedere le acque del sogno e la canoa che navigava controcorrente verso la terra dove dorme il sole. – Glielo chiederò nei sogni. Di sicuro avrebbe difeso la valle. Il mondo costruito insieme a Hendrick. 5. Era ancora la fattoria più bella della zona. Mura solide, vetri alle finestre, terreno fino al fiume. Margaret, la madre di Joseph, l’aveva ereditata dal terzo marito, il sachem Brant Canagaraduncka. Sull’aia, una famiglia di fittavoli irlandesi sollevava un carro per rimettere sul perno una delle ruote. I cavalli da tiro si abbeveravano, accuditi da un ragazzino. Un paio di cacciatori mohawk rattoppava la chiglia di una canoa, mentre le mogli mercanteggiavano con le donne delle fattorie vicine, intorno a una pila di coperte. Di solito Joseph si fermava a scambiare chiacchiere e commenti, ma non quel giorno. Susanna lo accolse sull’uscio. Christina sbirciava da dietro la gonna. Quando riconobbe il padre gli indirizzò un sorriso timido. Lui le sfiorò la guancia col dito e la bimba tornò a nascondersi. Prima di entrare, guardò negli occhi la moglie e lasciò che intuisse la sua preoccupazione. Nella penombra scorse i commensali, che scattarono in piedi. Herr Lorenz, armaiolo di Albany, gli rivolse un saluto e presentò la guida indiana che mangiava alla sua destra. Gli altri due ospiti fecero un inchino. Il più anziano poteva avere sedici anni, parlò a nome di entrambi. Erano maestri itineranti, di nazionalità Shawnee. Avevano studiato a Lebanon per portare Cristo e l’alfabeto nei villaggi di frontiera. Ogni notte facevano tappa da un vecchio allievo della scuola. Ringraziarono per l’ospitalità, avrebbero pregato per lui. Joseph sedette insieme a loro, ma una sagoma nell’angolo attirò la sua attenzione. Piccoli occhi riflettevano i bagliori del fuoco. – Isaac, vieni a salutare tuo padre. Il ragazzino si avvicinò. Aveva nove anni, non abbastanza per combattere. Joseph non era certo che fosse un bene: in tempo di guerra i deboli soccombono. Gli strinse la spalla, come volesse saggiarne la robustezza e al contempo trasmettergli forza. Si accorse che aveva le guance dipinte di rosso e di nero. La presa si fece più stretta, Isaac cercò di divincolarsi, ma dovette arrendersi alla forza dell’adulto. – Questi sono colori di guerra, – disse Joseph mentre gli puliva il viso con gesti energici. – Non servono per giocare e non si portano in casa. Lo liberò e il ragazzo sgattaiolò verso l’uscita. I figli non avevano più rispetto per le cose importanti. – Tuo figlio non ha colpa del peso che hai nella mente, – mormorò Susanna. Joseph ignorò il rimprovero e allungò la mano verso la piccola Christina, ma la bimba si ritrasse e seguì il fratello fuori di casa. Susanna gli servì il pranzo. Joseph mangiò senza alzare la faccia dal piatto, ogni rumore amplificato dal silenzio. Quando ebbe finito, sedette di fronte al camino a fumare la pipa, mentre i commensali si congedavano uno dopo l’altro. L’ultimo fu Lorenz, che si avvicinò cauto, con l’evidente intenzione di dire qualcosa. Ottenne un’occhiata indifferente. – Mi chiedono fucili, signor Brant. – Bene per i vostri affari. Lorenz scosse la testa. – Non capite. Mi chiedono fucili. Tanti fucili. Più di quelli che posso fabbricare. – Diventerete ricco. – Da Albany a qui sono incappato in tre posti di blocco della Milizia. Mi hanno puntato le armi addosso, hanno frugato nel carro, rivoltato tutto. Che diavolo succede, signor Brant? Sono impazziti? Vogliono fare come a Boston? Joseph lasciò che le fiamme catturassero il suo sguardo, mentre tirava ampie boccate dalla pipa. – In quel caso, noi non ci faremo assediare. L’armaiolo tentennò, poi capì che l’indiano non avrebbe aggiunto altro e si accomiatò. Joseph continuò a fissare il fuoco. Susanna chiamò i bambini. Era sorella di Peggie, la prima moglie. Erano Oneida della Susquehannah Valley. Dopo essere rimasto vedovo, Joseph l’aveva sposata, come volevano le usanze. Isaac e Christina le si erano affezionati nel volgere di un’estate. Se le cose fossero precipitate, avrebbe dovuto pensare a lei e ai figli. E a Margaret. – Dov’è mia madre? – A letto. – È malata? – No. A volte confonde il giorno con la notte. La vecchia madre comparve attaccata al braccio di Susanna. Sedette di fronte a Joseph, su una poltroncina logora che sembrava tagliata su di lei come un vestito. Ossa, carne, legno e stoffa si erano modellati in un incastro perfetto. – Come stai, Margaret? La vecchia strinse gli occhi per riconoscerlo. – Prima di coricarmi ho chiesto a Dio di prendermi con sé durante il sonno. Ora che mi avete svegliata non potrà più esaudirmi. – Sarà per un’altra volta, allora. – Già. Dammi da fumare. Joseph le offrì la pipa. – Ho visto Molly, giù all’emporio. Ti manda i suoi saluti. – Dille di venire a trovarmi, prima che muoio. Devo dirle delle cose. – Certo, Margaret. La vecchia assaporò l’aroma del tabacco con soddisfazione. – Ricordi quando William Johnson venne qui la prima volta? – Sì. – Tua sorella era bellissima. La ragazza più bella della vallata. Joseph conservava immagini nitide. Aveva undici anni quando il patrigno aveva ospitato quel gentiluomo irlandese dai capelli rossi. Molly era giovane e in età da marito. Joseph ricordava che gli adulti avevano discusso della guerra contro la Francia e i suoi alleati Huron, Abenaki e Caughnawaga. Accarezzò i capelli candidi della madre. – La guerra c’è ancora? – chiese lei. – È finita dodici anni fa. La vecchia scosse il capo tenendo la pipa tra le labbra grinzose. – Joseph? – Sì, Margaret. – Quanti nipoti ho? – Dieci. Hai dieci nipoti. – Già. Margaret annuì ai propri pensieri. Joseph la osservò a lungo. Riveriva il passato contenuto in quel viso, memore di stagioni antiche trascorse una dopo l’altra, insieme alla corrente del fiume. Si chiese se un giorno Isaac e Christina lo avrebbero accudito come lui accudiva Margaret. Forse l’avrebbero guardato con la stessa compassione. Forse non sarebbe vissuto abbastanza. La vecchia protese un dito ossuto verso il fuoco. – Guarda. Le fiamme diventano verdi. Stanno arrivando. – Chi? Margaret sputò nel fuoco e non rispose. Susanna lo chiamò alla finestra. Lui sbirciò fuori. Una canoa avanzava sul sentiero, portata da tre uomini. 6. Appoggiarono l’imbarcazione al muro del fienile e sedettero sotto la tettoia a riprendere fiato. Joseph riconobbe le facce sporche di molta strada. Corpi fasciati in strati di pelliccia, coltelli da caccia alla cintura, Kentucky Jaeger a canna allungata: fucili da orsi. – Ricorda che tua madre non li vuole in casa, – disse Susanna. Joseph uscì senza replicare. Quando lo videro gli rivolsero secchi cenni di saluto. Masticavano tabacco, o carne salata. Il più anziano parlò per primo. Lo fece in lingua mohawk. – Salute a te, Thayendanega. La testa ossuta e calva, con le grandi orecchie a sventola, spuntava dalla pelliccia di castoro come quella di una tartaruga dal guscio. Da molti giorni non si radeva. Sul volto cotto dal sole e dalle intemperie la barba cresceva ispida e grigia. – Benvenuto a casa mia, Henry Hough. – Ricordi mio fratello John? Il giovane grugnì un saluto incomprensibile. Aveva un occhio strabico. Henry Hough indicò l’altro uomo: – Anche Daniel Secord è dei nostri. – Dio ti guardi, Joseph Brant, e protegga la tua casa. Secord dimostrava la stessa età del più giovane dei due fratelli, al massimo trent’anni. Gli amuleti seneca al collo e ai polsi erano segno di vanità e superstizione. Hough sollevò un gancio di ferro, mostrando le pellicce che vi erano appese. – Tua moglie potrà farti una giacca per l’inverno. Joseph accettò il dono e sedette con loro. – Cosa vi porta a Canajoharie? – Daniel ha preso un lavoro. Una ricognizione delle sorgenti salate intorno al lago Onondaga. Per conto di un tizio che vuole farci i soldi. Noi lo accompagniamo. Joseph passò una mano sulle pelli, soffici e lucide. – Non avete scelto la via più breve. – Siamo passati per sentire le novità. Girano strane voci. Che la colonia è in subbuglio. Che i Bostoniani vogliono attaccare il Canada. – Hanno preso Fort Ticonderoga. Hough annuì senza mutare espressione. I due compari si limitarono a fissare l’indiano, gli sguardi neutri di chi riesce a dare poco peso alle sventure. – La faccenda si fa seria, – commentò Hough. – Giù ad Albany che intenzioni hanno? Joseph ebbe voglia di andarsene. Parlò a fatica. – La Milizia si è messa agli ordini dei ribelli. Hough sembrò studiare quelle parole come fossero uscite dalle Scritture. – Potete dormire nel fienile, – disse Joseph. – Non fatevi vedere in casa o mia madre vi maledirà di nuovo. Il più giovane spalancò gli occhi. – La vecchia campa ancora! Il fratello maggiore gli rifilò una pedata che sollevò una nuvola di polvere. – Un po’ di rispetto, figlio di cane, – si rivolse a Joseph. – Sei un uomo generoso, Joseph Brant. Tornò da loro al tramonto, con una lampada a olio, rum, birra e un tegame di carne stufata. Li osservò mangiare in silenzio, stravaccati sulla paglia, e bere a grandi sorsate, mentre gli occhi si arrossavano e l’alcol scaldava le viscere. Henry Hough aveva indossato un tricorno consunto, per proteggere la pelata dal freddo della notte. Il lungo collo scarnito si protendeva verso il cibo. Aveva un’aria ridicola e nondimeno inquietante. – I guerrieri cosa pensano? – Sanno che i coloni vogliono la nostra terra, – rispose Joseph. – Se ci attaccano dovremo combattere. – Bella gatta da pelare, per i tuoi amici del Dipartimento. Il fratello più giovane ruttò, asciugando le gocce che colavano dalla bocca. – Se c’è da fare secco un bifolco contate sul mio fucile. Il maggiore gli lanciò un’occhiata truce. – Johnny voleva dire che noi siamo fedeli sudditi di re Giorgio. – Non sai nemmeno chi è, re Giorgio, – sbottò il fratello minore, cercando di issarsi dal pagliericcio. – Dici così solo perché quel bastardo di tuo cognato sta coi ribelli. Ricevette una scodella in fronte e si accucciò come un cane bastonato. – In un certo senso Johnny ha ragione, – intervenne Secord. Era rimasto in silenzio fino a quel momento. Aveva l’aria meno sbronza e più compassata degli altri due. I ciondoli contro il malocchio tintinnarono quando accese il grosso sigaro che coccolava tra le dita. – Con tutto il rispetto, il re chi l’ha mai visto? – riprese. – Se ne sta di là dall’oceano e ci lascia vivere. Invece i furbi, giù ad Albany, sono migliaia. Se si mettono a comandare vorranno prendersi tutta la terra. Prima quella dei Mohawk, poi quella dei Johnson, alla fine anche la nostra. Henry Hough fece un gesto in direzione del socio e si rivolse a Joseph. – Ecco una testa che funziona. C’è parecchia gente giù da noi che la pensa allo stesso modo. Tienilo a mente, Joseph Brant. L’indiano rimase in silenzio. La notte era scesa sulla fattoria e sulla valle, un buio greve senza luna soffocava la terra degli antenati. Guardò oltre il fiume. Nuovi fuochi luccicavano in lontananza, avamposti del futuro imminente. 7. Il volto di Johannes Tekarihoga, sachem del clan della Tartaruga, era roccia millenaria, le fessure degli occhi incise da uno scalpello sapiente. L’anziano guerriero procedeva impassibile lungo il sentiero nella foresta. Joseph camminava al suo fianco alla volta di Johnson Hall. Senza farci caso passò il palmo su una guancia. Si chiese se il tempo avrebbe lavorato allo stesso modo sulla sua faccia. A Joseph il vecchio sachem piaceva. Era stato un combattente di grande valore e un’autorità giusta e affidabile nelle controversie interne alla nazione Mohawk. Inoltre era tra i sostenitori più convinti dell’alleanza con i Johnson e la Corona inglese. Uomo di poche parole, fargli da interprete era sciogliere un oracolo. Servivano immaginazione e intraprendenza, doti che a Joseph non facevano difetto. Da mesi non tornava alla roccaforte dei Johnson. Quasi un anno era trascorso dal funerale di Sir William. Non era facile abituarsi all’assenza del commissario, il grande patriarca, Warraghiyagey. Più che mai ora che i tempi si facevano difficili e le decisioni pesanti. Il Dipartimento indiano aveva invitato Tekarihoga per discutere della ribellione. Sarebbe arrivato anche Piccolo Abramo, sachem dei Mohawk di Fort Hunter. La mente tornò alla strada. Non mancava molto, poche miglia di cammino nella foresta. Dopo ore di silenzio Joseph sentì il bisogno di una voce umana. Si rivolse al sachem: – Cosa dobbiamo aspettarci da questa convocazione? Johannes Tekarihoga proseguì, passo ampio e cadenzato. Trascorsero minuti. La risposta arrivò con un soffio. – Regali. Joseph riuscì a scorgere un sorriso nell’immobilità del volto. Il lungo viale d’accesso a Johnson Hall brulicava di attività. Servi e operai trasportavano terra, tronchi, sacchi. Indiani e Highlander montavano la guardia all’imbocco del viale. Più avanti, gli alloggiamenti degli schiavi, inondati dal sole. Creature poco più che neonate si rotolavano in mezzo a cani e pollame. Donne nere cucinavano cibo, inseguivano bambini, sgobbavano bucato. Verso il fondo del viale, altri indiani e scozzesi montavano una seconda e più nutrita guardia, fino all’ingresso dell’edificio principale. Dopo tanti anni, Joseph restava ancora impressionato dalla grande facciata, dal numero di finestre, dal colpo d’occhio del legno che sembrava pietra bianca. A lungo quella era stata la casa di sua sorella Molly, per quasi vent’anni governante e compagna di William Johnson, madre dei suoi ultimi otto figli. Nel testamento Sir William non li aveva dimenticati: aveva lasciato terra e beni in abbondanza. Anche Joseph doveva molto al baronetto irlandese: si era occupato di lui fin da ragazzo, l’aveva fatto studiare, lo aveva assunto come interprete del Dipartimento. Sulle scale dell’ingresso principale attendeva un nero, anziano, vestito di una vecchia livrea di panno. Con un cenno del capo indicò l’edificio adiacente, quello che Sir William, anni prima, aveva ribattezzato «l’Ufficio». Prima di entrare Joseph si voltò verso Tekarihoga, che ricambiò fissandolo, muto come durante il viaggio. Joseph pensò che la Tartaruga non poteva avere miglior rappresentante. 8. La messe di regali era copiosa. Tekarihoga poteva ritenersi soddisfatto, a maggior ragione in un periodo difficile per scambi e commerci. Innanzitutto i colori per il volto e il corpo. Specchi di ogni foggia e misura, intarsiati o con pietre incastonate di varie tinte. Un barile di melassa e uno di carne secca, ché lo stomaco andava onorato altrettanto. Giacche di lana, calde, resistenti e di buon taglio, molto migliori di quelle di pelliccia. Tabacco da masticare di ottima qualità. Collane di wampum. Un grande corno di bue pieno di polvere da sparo. La sala principale dell’ufficio era molto ampia. Arredamento sobrio: un grande camino centrale, panche e sedie a ridosso delle pareti, un imponente tavolo sul fondo dove era uso accomodarsi Sir William. Appesi al muro ritratti dei Johnson insieme a carte geografiche, antica passione del Vecchio. Il Dipartimento era al completo. Sir John Johnson, figlio della prima moglie di Sir William, stava appoggiato al lungo tavolo, senza occupare il posto del padre. Alla sua sinistra, pancia che sporgeva da una sedia con larghi braccioli di legno, Guy Johnson, genero di Sir William e scelto da lui come successore alla carica di commissario per gli Affari indiani. Pochi passi più a destra Daniel Claus, aria corrucciata e braccia conserte. Il tedesco aveva fatto fortuna sposando anch’egli una figlia del patriarca e diventando commissario per gli Indiani del Canada. Di fronte a loro sedeva il capitano Butler, concorrente dei Johnson nel commercio di pellicce, ma fedele alleato in politica. Vecchio compagno d’armi di Sir William, grande conoscitore dei territori del Nordovest. Un nodo importante nella ragnatela di potere che William Johnson aveva intessuto con pazienza e strategia. Piccolo Abramo, sfinge seduta accanto alla propria catasta di doni, dava al quadro una pennellata diversa. Joseph e Tekarihoga presero posto al suo fianco, su comode sedie. Con un gesto della mano Sir John invitò Guy Johnson a fare gli onori di casa. Il commissario si schiarì la voce. – Fratelli, – disse rivolto ai sachem, – grazie di essere qui, in un momento così delicato per la nostra comunità. Quando le decisioni si fanno urgenti, il parere di uomini saggi ed esperti è come pioggia su un terreno riarso. Lasciò che Joseph traducesse, poi riprese in tono più concitato. – Abbiamo notizie sicure che la Milizia coloniale intende sequestrarmi e chiedere in cambio concessioni, infliggendo a tutti noi un insopportabile smacco. Le strade della contea sono diventate pericolose, per noi che abbiamo sempre dichiarato lealtà a re Giorgio. Tutto ci dice che la ribellione non è più soltanto una faccenda bostoniana. Dopo la presa di Fort Ticonderoga, le milizie whig controllano la navigazione interna da New York a Montreal. Rischiamo di rimanere isolati. Joseph concluse la traduzione, mentre Piccolo Abramo e Tekarihoga scambiavano un’occhiata d’intesa. Il sachem di Fort Hunter era considerato uno dei migliori oratori della Lunga Casa e le sue parole erano molto attese. Anche perché, sulla faccenda della ribellione, non s’era ancora capito come la pensasse. – Le preoccupazioni dei fratelli inglesi sono anche le nostre, – cominciò. – Nessuno può entrare nella Lunga Casa, minacciare un amico del mio popolo e uscire dalla porta come un ospite qualunque. Al mio arrivo qui, venti guerrieri del nostro villaggio mi hanno accolto mostrando i fucili. La dimora di Warraghiyagey è un luogo molto caro ai Mohawk, secondo soltanto al sacro fuoco di Onondaga, e come tale intendiamo difenderla. Altri venti guerrieri sono già in viaggio verso Guy Park, poiché Guy Johnson Uraghquadirah è il nostro commissario e abbiamo promesso di onorarlo sempre. Finita la traduzione, tutti si aspettavano che Piccolo Abramo continuasse a parlare. Invece si lasciò andare sullo schienale, segno che aveva terminato, e toccò ancora a Guy Johnson spezzare il silenzio. Ringraziò il sachem per le sue parole, per la stima e la fedeltà. Poi, con la dovuta cautela, cercò di fargli capire che non erano abbastanza. – Le notizie che mi riguardano sono la foglia che brucia dentro una foresta in fiamme. Spruzzare acqua sulla foglia non spegnerà l’incendio. Se si trattasse soltanto di Guy Johnson, la sua famiglia basterebbe a difenderlo, senza bisogno di scomodare uomini come Tekarihoga e Piccolo Abramo. Piccolo Abramo capiva l’inglese e intervenne senza aspettare l’interprete. – Fratelli, noi parliamo di una foglia che brucia, ma nessuno ha visto le fiamme. Per questo ho domandato a Philip Schuyler di poterlo incontrare. È il nipote dell’uomo che portò a Londra Hendrick e la sua parola ha molto valore per il mio popolo. Se ci prometterà che nessuno intende nuocere al nostro commissario, quella promessa può essere vento che scaccia dalla valle l’odore del fuoco. Le parole del sachem volevano rassicurare e Joseph cercò di tradurre l’intenzione, ma il vento che soffiava tra i bianchi sapeva di temporale. Un incontro tra Piccolo Abramo e il generale dei ribelli non era certo una buona notizia. Il capitano Butler chiese la parola. Quando una discussione rischiava di perdere la bussola, era sempre lui a rimetterla in rotta. – Piccolo Abramo ha ragione, – disse. – È sempre opportuno verificare le voci portate dal fiume e nessuno di noi avrebbe convocato qui i sachem senza prima averlo fatto. Allo stesso modo, nessuno dubitava che ci avreste aiutato a difendere Johnson Hall e il commissario Johnson. Tuttavia vi sono altri incendi. Più lontani, ma non tanto da lasciarci tranquilli. Il fumo e le fiamme di Lexington e Boston sono ben visibili anche da qui. Le parole pronunciate da Ethan Allen alla presa di Ticonderoga corrono di bocca in bocca. Parlare con Philip Schuyler può essere una buona idea, ma le sue promesse non possono spegnere fuochi tanto grandi. Occorre che i Mohawk decidano come arginare la minaccia, prima che le fiamme arrivino a scottarli. – In altre parole, fratelli, – intervenne brusco Sir John, che fino a quel momento aveva ascoltato in silenzio, – quello che vogliamo dirvi è che le guerre hanno il brutto vizio di costringere a scegliere da che parte stare. Nella stanza calò il silenzio. Guy Johnson arrossì d’imbarazzo. Joseph non tradusse le parole di Sir John, consapevole che i due sachem avevano capito benissimo. Senza muovere un muscolo, Tekarihoga cominciò a parlare nella lingua dei padri, con tono basso e cantilenante. Una manciata di secondi, poi si interruppe. Piccolo Abramo chiuse gli occhi. Era il cenno del suo assenso. La stanza si riempì di silenzio, mentre tutti, uno dopo l’altro, rivolgevano a Joseph lo sguardo, in attesa della traduzione. Lasciò che il silenzio si facesse solido, materia frapposta a tenere uniti e dividere ciascuno di loro. Cosa aveva detto Tekarihoga? «Se la mia casa brucia, il mio vicino è in pericolo». Troppo poco per i bianchi. Il significato era: se il mio problema rischia di coinvolgere anche altre persone, non è bene risolverlo da solo. Occorre consultare tutti, a partire dai più vicini, informarli del pericolo, sentire il loro punto di vista. Capire se sono disposti ad aiutarti. Un carico notevole per poche parole. Joseph parlò con voce grave e ferma. – Fratelli, il nobile e saggio Tekarihoga saluta e ringrazia tutti voi. Egli condivide le preoccupazioni per le notizie raccolte e per le nubi che si vanno addensando. Le terre e i beni che condividiamo fanno gola a molti. Conosciamo per esperienza l’avidità di certi coloni. Il fatto che alcuni dei figli abbiano deciso di ribellarsi al padre inglese è una sventura. Quando i fratelli si minacciano con le armi e le puntano contro i padri ciò è sempre un male e va scongiurato. Per questo Johannes Tekarihoga dice che è molto importante avvertire gli Oneida, fratelli minori dei Mohawk, nostri vicini nel custodire la porta orientale della Lunga Casa, prima che il fuoco raggiunga tutti di sorpresa. Se la minaccia contro Guy Johnson è la foglia che brucia in una foresta in fiamme, allora quella minaccia non è soltanto affar nostro. Che le Sei Nazioni sappiano cosa sta rischiando il loro commissario. Joseph lasciò galleggiare le parole nella stanza, mentre Piccolo Abramo e Tekarihoga sorridevano appena, mostrando di aver gradito la traduzione. I bianchi si scambiarono occhiate. Joseph annusò diffidenza. Dall’inizio della ribellione, gli Oneida erano un enigma. Il loro predicatore, Samuel Kirkland, parteggiava per i whig. Joseph lo conosceva bene: avevano studiato insieme al collegio di Lebanon, quand’erano ragazzi. Sir William lo aveva sempre considerato un sobillatore. Toccò a Guy Johnson fare buon viso a cattivo gioco. – Le sagge parole dei sachem sono sempre benvenute presso di noi. Ciò che dice Tekarihoga è molto giusto, contatteremo le altre nazioni, per primi gli Oneida. Se mio fratello Joseph avrà cura di scrivere in mohawk il messaggio, gli onorevoli sachem potranno apporvi le firme. Joseph si congratulò con se stesso. Di fronte ai bianchi anche il più nobile dei sachem contava poco senza un buon interprete. Scritto presso Guy Johnson nel maggio del 1775. Questa lettera è per voi, o grandi uomini e sachem. Guy Johnson dice che sarà lieto se voi Oneida riceverete questo dispaccio sulla sua attuale condizione. Egli è sempre più certo delle intenzioni dei ribelli. Guy Johnson ha grande paura che i Bostoniani lo facciano prigioniero. Noi Mohawk siamo costretti a una continua sorveglianza. Dunque vi mandiamo questo dispaccio, affinché ne siate informati. Guy Johnson confida che verrete a dargli assistenza, e si dice sicuro che anche voi, senza sbagliare, sarete di quell’idea. Egli ha fede che non consentirete a lasciarlo soffrire. Perciò vi aspettiamo. Per ora è tutto. Ci rivolgiamo solo a voi Oneida, ma più avanti forse chiameremo tutte le altre nazioni. Concludiamo, e ci attendiamo che vi preoccuperete per la sorte del nostro amministratore, Guy Johnson, poiché siamo tutti una cosa sola. Johannes Tekarihoga Piccolo Abramo Joseph Brant (interprete di Guy Johnson) Joseph lesse ad alta voce. Tradusse il testo della missiva, cercando di riprodurre formalità e convenevoli. L’inglese era una lingua più rozza e stringata: nel passaggio dagli occhi alla bocca le parole si accorciarono, persero risonanze, abbandonarono sul foglio parte del loro significato. Nella lingua dell’Impero, a ogni causa seguiva una conseguenza, a ogni azione corrispondeva un solo scopo, a ogni situazione la condotta più adeguata. Al contrario, la lingua dei Mohawk era piena di dettagli, attraversata da dubbi, rifinita da continui aggiustamenti. Ciascuna parola si protendeva e allungava per catturare ogni possibile senso e tintinnare nelle orecchie nel modo più consono. Nella lettera, i sachem e Joseph si rivolgevano agli Oneida da fratelli maggiori; le parole erano scelte in modo da conciliare le posizioni dei Mohawk di Canajoharie e Fort Hunter; aspettative e certezze di Guy Johnson erano descritte in modo da ribadire l’amicizia tra lui e i Mohawk senza ingenerare dubbi sull’indipendenza di questi ultimi. Guy era chiamato soltanto col suo nome, senza aggiungere altro, nessuna frase benevola a ornare la sua reputazione. Benché Sir William non fosse mai menzionato, gli Oneida avrebbero capito che si chiedeva loro un favore in suo ricordo. Da qui l’ultima frase: Joseph l’aveva scritta e riscritta, fino a ottenere il tono giusto, gradito anche a Piccolo Abramo. I fratelli minori erano messi alla prova: cosa avrebbero deciso? Avrebbero seguito le inclinazioni del loro reverendo presbiteriano o prestato aiuto ai Mohawk che proteggevano l’erede di Warraghiyagey? Il richiamo all’unità delle Sei Nazioni stava in equilibrio su un’ordinata catasta di sfumature. L’inglese ne disperse otto su dieci. Quel che rimase convinse i bianchi. Venne chiamato un messaggero. 9. Il Delaware si fermò e annusò l’aria. – Il cane è vicino. Il bianco sorrise. Fece un cenno agli altri e avanzò, gli occhi puntati nel fitto della foresta. Ora che ci faceva caso poteva avvertire l’odore di grasso d’orso. I selvaggi ne facevano una disgustosa pomata per proteggersi dagli insetti. La loro guida, invece, per non inquinare l’olfatto, aveva adottato il rimedio in voga tra i coloni: spalmarsi di fango. Il bosco si aprì in una radura, la luce colpì il suolo. Gli uomini rimasero abbagliati. Un’ombra sfrecciò attraverso le frasche, un centinaio di iarde avanti al gruppo di cacciatori. I bianchi la intravidero: il Delaware correva già in quella direzione. Qualcuno urlò. Si gettarono all’inseguimento. La preda scavalcò cespugli e rami abbattuti, lanciata attraverso la radura. Addentrarsi nel bosco era l’unico modo per salvare la pelle. Fendette la vegetazione con l’agilità del cervo, ma erba alta e terreno sconnesso disturbavano la corsa. Il Delaware corse fin dove gli alberi diradavano, imbracciò il fucile e prese la mira. Un tuono percosse l’aria. Il selvaggio guizzò fuori dalla nuvola di fumo. Il drappello di cacciatori lo vide sparire tra gli alberi. Avanzarono fin dove la foresta l’aveva inghiottito e lo trovarono in piedi, fermo accanto a un grosso tronco. La guida alzò il fucile al cielo e lanciò un grido di trionfo. Alla base dell’albero giaceva la preda. Il Mohawk, nudo fino alla cintola, stringeva i denti. Comprimeva il polpaccio con mani rosse di sangue. Le membra sudate fremevano. I bianchi esultarono e legarono l’indiano ferito. Il capocaccia lo perquisì e trovò quello che cercava: un foglio piegato dentro la fondina del coltello. Dopo una rapida occhiata si rivolse agli altri. – Dannazione, è scritto in mohawk! Nathaniel Gordon scosse il capo. Ecco cosa accade a forza di educare i selvaggi, pensò. Si chiese quale sarebbe stata la prossima novità. Una scimmia che recita i Salmi? Si accucciò e tenne il foglio davanti agli occhi del ferito. Tra le dita colava sangue fresco. Le mosche avevano preso a sciamare. – Leggi che c’è scritto, cane! Il Mohawk tacque. Gordon fece un cenno al Delaware, che estrasse il coltello e praticò un taglio sul braccio del prigioniero. Sollevò un lembo di pelle, lo staccò, lo mise da parte. Il Mohawk vibrò, scosso da tremiti, ma non emise un lamento. Il bianco ruggì di rabbia. Sventolò ancora il foglio davanti al naso dell’indiano. – È un ordine dei Johnson, lo sappiamo. Cosa c’è scritto? Silenzio. Il Delaware praticò un nuovo taglio. Un altro pezzo di pelle si staccò, stavolta dal petto. Lo ripose accanto al primo. Ne avrebbe ricavato un sacchetto per il tabacco. Il Mohawk emise un sibilo tra i denti. – Parla! – ringhiò il bianco. Uno degli altri lo fermò, mano sulla spalla. – Non c’è fretta, Nat. Lasciamo fare all’indiano. I bianchi sedettero a poca distanza, per bere da una borraccia, mentre la guida completava il lavoro. Alla fine, Gordon si alzò con aria spazientita. – Tempo sprecato, per la miseria. Fece un fischio al Delaware. – Basta così. Quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto. Il Delaware si pulì le mani con una manciata di foglie e indicò il suppliziato. – Grande uomo, – disse. Il capo dei cacciatori guardò prima il Delaware, poi il Mohawk appeso per i piedi. Era ancora vivo. Rantolava, soffocato dal sangue che gli colava dentro le narici da ogni parte del corpo scuoiato. Non rimaneva più un solo lembo di pelle. Il viso capovolto, gli occhi più in basso del naso, era alieno quanto quello d’un animale. – Grande uomo, eh? Il bianco si avvicinò e sputò sul volto straziato. 10. È lo stesso sogno, sempre. La chiesa, la bara. Peter suona il violino, Joseph impugna il tomahawk. Un guerriero lo aiuta a scavare. Ora lo riconosco. Ronaterihonte. La terra è dura. Le unghie spezzate buttano sangue, la terra si bagna. Ogni goccia è una foglia scarlatta. La chiesa scompare. Al suo posto, una foresta d’aceri in pieno autunno. Seduto su un masso, William benedice con un sorriso gli sforzi di Joseph e del guerriero. Ha il volto dipinto e un sonaglio di tartaruga. Mi avvicino, siedo sulle sue ginocchia, gli accarezzo le labbra. – Chi c’è nella bara, William? Lui risponde, ma è una lingua sconosciuta. Un vento di tramontana porta via le parole. Sul fiume appare una canoa. A bordo, una ragazza. William sale e mi porge la mano. – Accompagnami nel Giardino, amore mio, al centro dell’Acqua. Joseph e il guerriero caricano la bara, la canoa risale la corrente. Di colpo, mi ritrovo nella casa di Canajoharie, sopra l’emporio. Stringo la mano della ragazza. Gli occhi hanno il colore del fiume. I figli dormono. Io mi sto per svegliare. 11. Una preda rara, nella valle del Mohawk. I cacciatori ringraziarono la buona sorte. Il pelo rossastro brillava al sole, imperlato di gocce. La bestia, nell’acqua fino alle costole, sollevò il capo. Il muso grondò acqua. Orecchie enormi, narici cadenti: aveva l’espressione attonita di un gigantesco mulo. Sulla fronte si apriva un trofeo impressionante, largo quanto le braccia aperte di un uomo. L’alce maschio si guardò attorno, fiutò l’aria. Uno dei cacciatori bagnò l’indice di saliva e saggiò il vento. La brezza aveva appena cambiato direzione. L’animale si scosse, voltò le terga e fuggì. Gli anziani dicevano che l’alce corre più veloce di qualsiasi cacciatore, più forte di un cavallo, ma l’uomo corre più a lungo di qualsiasi animale. L’alce galoppa finché il cuore regge, ma ogni tanto deve fermarsi, riposare. L’istinto avverte che i cacciatori sono ancora sulla pista, e allora l’alce riprende a correre, ma deve fermarsi ancora, e poi ancora, sempre più spesso. A ogni sosta i cacciatori si fanno da presso. Ogni volta che l’alce riprende la corsa, è sempre più lento. Sempre più incerto. Non è facile per un animale così grosso far perdere le tracce. L’uomo può tenere lo stesso passo per una giornata intera. L’alce, sfiancato, attenderà il coltello come una liberazione. Nel pomeriggio le tracce divennero più frequenti. L’alce cercava il fitto del sottobosco, lasciava segni visibili. I giovani lupi allungarono il passo. Più avanti, ancora nascosta alla vista, la preda arrestò la corsa. Sollevò il muso verso il cielo e mandò un cupo richiamo, pronta all’ultima battaglia. I cacciatori si fermarono al limitare dello slargo. L’alce apparve a non più di quaranta passi. Protetto dall’ombra, Paul Oronhyateka tirò il grilletto. Oltre la nube di fumo, l’animale crollò. I cacciatori corsero verso la preda. Circondarono il corpo, piccola folla che attende a un funerale. – Ringraziamo il Signore che ha concesso una caccia fortunata. Diamo il sangue dell’alce, nostro fratello, agli spiriti della terra, così che il Padrone della Vita abbia sempre a compiacersi di noi. Lo spirito dell’alce sia placato: la sua carne terrà in vita la nostra gente. Amen. Il guerriero più anziano si chinò, il coltello in mano. Dalla gola recisa un fiotto di sangue bagnò la terra e le gambe degli uomini. – Cerca un posto per macellare, Kanenonte, – disse al più giovane del gruppo. Gli altri si accucciarono, reggendosi ai lunghi fucili. Qualcuno bevve sangue fresco. Qualcuno caricò la pipa. Passò del tempo. Oronhyateka si levò in piedi. In quel momento Kanenonte comparve al suo fianco. Aveva gli occhi sbarrati. Schiumava rabbia. Tremava. Nella stanza le donne formavano un cerchio. Al centro Molly Brant e una donna più anziana, vestita di una gonna e una coperta rosso fuoco. Tra le due, un fascio di rametti di cedro bruciava su un vassoio. Ciò che era stato albero diveniva fumo, volute sottili si alzavano verso il soffitto senza incontrare correnti. La donna vestita di rosso raccolse i ramoscelli, con la mano destra descrisse un cerchio, mormorò qualcosa. Molly diede voce alla domanda più importante. – Chi c’è dentro la bara? – Ti ripeto quel che ho già detto, Molly Brant. Credo che Warraghiyagey non sia soddisfatto del suo rito funebre. Risale la corrente per tornare all’isola dei padri. Ora è nel mondo vero, vede cose che noi non vediamo. Molly si accorse che il fumo si rifletteva nello specchio. Portò gli occhi sul riflesso del vetro, poi sulla cima incandescente dei rametti. Il fumo oscillò, come investito da una folata di vento. La donna dei ramoscelli chiuse le palpebre. Molly annuì. – Manda il tuo oyaron a interrogarlo, Molly Brant. I tuoi sogni sono forti, Warraghiyagey parlerà ancora. Molly annuì. D’improvviso, un brusio montò dall’esterno. Sembrava il rumore di un fiume quando la corrente accelera e diviene rapida, poi cascata. Prima che Molly potesse rispondere, il mormorio era esploso in grida di rabbia e orrore. Al centro della folla, giovani guerrieri pestavano i piedi, i muscoli tremavano, braccia si levavano al cielo brandendo asce e coltelli. Le gambe dei giovani erano nere di sangue rappreso. Attorno, uomini più anziani facevano eco. Piangevano, gridavano, ruggivano imprecazioni. Le voci ferivano le orecchie. La cosa ai piedi dei guerrieri offendeva gli occhi. La cosa ai piedi dei guerrieri aveva avuto sembianze umane. Il corpo di Samuel Waterbridge adesso era una preda scuoiata, lasciata a marcire per terra. Molly conosceva la morte, sconcia e crudele, ma non l’aveva mai vista nel luogo dove si conserva la vita. Non trascinata in mezzo al villaggio, non ostentata perché giovani maschi potessero promettersi vendetta. Molly entrò nel cerchio di corpi furibondi. Attorno, le voci si placarono. Alle sue orecchie giunse l’ansimare dei guerrieri, il pianto di una donna. – Questa uccisione chiama vendetta, ma le vostre azioni fanno sanguinare il cuore. Gioventù e rabbia non servono come scuse. Fece una pausa. Nel tempo sospeso niente si muoveva, gli occhi mandavano lampi. La donna proseguì l’arringa. – Un corpo scuoiato ferisce la vista. La morte è entrata nel villaggio senza che nessuna canzone fosse intonata, nessun rituale compiuto. La follia attraversa le menti dei giovani. La morte deve uscire da Canajoharie. Gli uomini ammutolirono, anche i giovani che avevano raccolto il corpo. Le donne punteggiarono il discorso con cenni d’approvazione. Molly guardò Tekarihoga. Il capo del clan della Tartaruga annuì. – Chi ha portato il corpo nel villaggio lo riporti fuori, dunque, e si faccia ciò che è prescritto. I giovani raccolsero il cadavere, ridotto a una crosta di sangue e polvere. Mentre si allontanavano, Kanenonte parlò tra i denti ai compagni. – Noi perdiamo tempo con la vecchia legge e intanto ci massacrano. 12. Guy Johnson avvertiva scricchiolii tra nuca e spalle, o meglio, un rumore simile a un macinìo, come quando si sminuzza il vetro o si cammina sul pietrisco. Sabbia tra le vertebre, qualcosa non andava, aveva dormito male. L’ansia lo portava in giro per casa, avanti e indietro, a metà tra una bestia condotta alla briglia e un recluso che tentasse di sgranchirsi le gambe. Ogni mattina si svegliava e non trovava pace. Ogni giorno si sentiva più basso e tarchiato, schiacciato come sotto una pressa. Di ora in ora le spalle un po’ più curve, le gambe rattrappite. Il peso dell’eredità di Sir William. Il peso degli affari indiani. Quel pomeriggio fece ruotare la testa tutt’intorno, destra, sinistra, poi mento in su, mento in giù, adesso inclina il capo, orecchio sinistro quasi a toccare la spalla, stessa operazione a destra, ma niente da fare: qualunque cosa fosse fuori posto, non si sistemava. Passava frenetico da una stanza all’altra, scrutava dalle finestre, sedeva allo scrittoio, rovistava tra le carte, riprendeva la lettera del generale Gage, si alzava, tornava al tavolo da disegno. Cercava di quietare il proprio stato d’animo, rovesciando l’agitazione su uno dei grandi fogli bianchi. Tracciava e affastellava ghirigori, linee curve, fino ad abbozzare figure umane che subito gli apparivano sinistre, ominose, presaghe di cattivi accadimenti. Accartocciava i fogli, si alzava e li gettava nel camino. Guy aveva sempre amato disegnare. Purtroppo, i disegni erano bruciati nell’incendio di due anni prima. Un fulmine aveva colpito la casa, le fiamme avevano divorato il legno, la collezione di mappe, i libri della biblioteca, importanti documenti su concessioni terriere. Aveva fatto ricostruire la casa in pietra, lui e la famiglia vi si erano ristabiliti da meno di un anno. Ora Guy Park era un edificio imponente. Dopo le minacce dei Bostoniani, erano in corso opere di rafforzamento. Dal Massachusetts gli scontri si estendevano e aumentava il numero dei ribelli. Si temeva un attacco al Canada, sguarnita roccaforte della lealtà alla Corona. Da qui l’ordine di Gage appena giunto: mobilitarsi, partire. Attraversare il confine con uomini validi, indiani compresi. Già. Ma come dire ai Mohawk che dovevano andare a combattere in Canada mentre la vallata era in subbuglio? Guy era un ragazzo quando aveva lasciato County Meath e l’Irlanda. Aveva raggiunto in America Sir William, suo lontano parente, e ne aveva sposato la figlia Mary. Gli anni trascorsi in America superavano ormai quelli vissuti nella madrepatria. Eppure rimaneva un irlandese tra irlandesi, proprio come il Vecchio. Se inciampava in una radice o si tagliava col rasoio, imprecava ancora in gaedhilge. Quando, rimuginando su qualcosa, contava sulle dita, diceva: aon, dó, tri, ceathair. L’antica lingua. E l’antica fede. Come il Vecchio e tanti irlandesi delle ultime generazioni, Guy era fedele alla Chiesa d’Inghilterra. L’appartenenza alla fede anglicana era condizione necessaria per il cursus honorum nei ranghi dell’Impero: niente papisti, tra gli uomini di fiducia di Sua Maestà. I papisti erano Spagna e Francia, potenze nemiche di qua e di là dell’oceano. I papisti erano pluricentenaria sedizione, nella più vicina e riottosa delle colonie: l’Irlanda. Sir William era nato e cresciuto cattolico. Nell’Irlanda assoggettata, pochi tra i suoi parenti si erano convertiti al Dio inglese. Parte della famiglia Johnson aveva appoggiato la ribellione giacobita, per mettere sul trono un cattolico, Giacomo VII di Scozia. Sotto il bitume che copriva la carena dell’anima, l’antica fede pompava sangue al cuore. Superstizioni, formule di buon augurio, raccomandazioni a un santo, frasi dal messale latino. Dopo la sconfitta, l’esilio giacobita aveva toccato l’America. Nella valle del Mohawk, porta orientale della Lunga Casa, si era insediata una comunità di scozzesi delle Highlands. Che fossero cattolici non era un mistero per nessuno, men che meno per Sir William, che aveva accordato loro protezione. Erano divenuti parte della comunità, pronti a impugnare le armi per difenderla. Da trent’anni, leggi intime e non scritte regolavano il mondo che Sir William chiamava «Irochirlanda». Ciò che Guy temeva era il crollo degli equilibri tra indiani e bianchi, Corona e colonie, ribelli whig e lealisti tory. Il crollo avrebbe dato l’America alle fiamme. Nemmeno i più solidi muri di pietra avrebbero protetto dall’incendio il suo mondo, la famiglia, le proprietà. Per giunta Mary era di nuovo incinta e la nascita ormai prossima. Dopo le femmine, forse l’erede maschio, e proprio adesso bisognava partire. L’indecisione strozzava le viscere. Di fronte al peggiorare della situazione, soltanto una persona poteva aiutarlo. – Padre? – disse una voce infantile. Guy, assorto com’era, non ricordava in quale stanza si trovasse. Aveva vagato come un sonnambulo. Si guardò intorno: era in biblioteca. Scaffali semivuoti, i dorsi dei pochi libri salvati dal fuoco. Sull’uscio c’era Esther, la primogenita, dodici anni di capelli biondi e occhi verdi. – Tua madre ha bisogno di qualcosa? – le chiese. – No, padre, la mamma sta bene. Ma è arrivato il signor Joseph Brant, chiede di essere ricevuto. Dice che è molto importante. Lupus in fabula. Joseph Brant non era mai venuto a Guy Park se non come accompagnatore e interprete. Non soltanto interprete, ma ponte tra le due comunità, unite dall’interesse e dalla fede anglicana: insieme al reverendo Stuart aveva tradotto in mohawk il Vangelo di Marco. Eppure se grattavi sotto il velo della Chiesa d’Inghilterra, su una sponda trovavi papisti, sull’altra pagani. Due tribù di uomini in maschera. Joseph era uno dei figli dell’intesa costruita da Sir William, pianta cresciuta da un innesto. Guardato con sospetto dagli indiani meno a contatto coi bianchi, guardato con timore dai bianchi meno a contatto con gli indiani. Guardato con rispetto da chi, su entrambe le rive, si preoccupava di tenere saldo il legame. Il messaggero era stato scoperto e scuoiato vivo. Per com’era la situazione, non erano nemmeno in grado di portare una notizia agli Oneida, la più vicina delle tribù sorelle. Erano isolati. Quel che Joseph raccontava rendeva ancora più impellente obbedire all’ordine ricevuto. Sir John aveva già detto che non si sarebbe mosso da Johnson Hall. Che facesse come gli pareva giusto. Guy decise che sarebbe partito, portandosi dietro la famiglia. – Joseph, fratello. Se questa ribellione diventasse guerra aperta che farebbero le Sei Nazioni? Combatterebbero per re Giorgio? – I Mohawk sanno bene che i figli ribelli di re Giorgio sono gli stessi che commettono ingiustizia contro di loro. Gente come Jonas Klug. – Quindi? – Le Sei Nazioni non sono soggette alla Corona. Nelle nostre lingue la parola «suddito» non esiste. Sir William lo sapeva. Non ci ha mai trattati da sudditi, ma da alleati. – Sir William ha fatto tutto quanto era possibile per proteggere i fratelli indiani dai coloni che minacciano le vostre terre. Lo ha fatto in nome del Re. – La mia gente questo non lo dimenticherà mai. Tuttavia, Sir William non c’è più. Guy annuì con amarezza. Joseph proseguì: – Per convincere la mia gente a disseppellire l’ascia, Warraghiyagey avrebbe chiesto un concilio. Avrebbe parlato in mohawk. Dopo lunghe discussioni, i sachem avrebbero accettato, nonostante le sofferenze causate alle Sei Nazioni dalla guerra di vent’anni fa. Perdemmo uomini valorosi, perdemmo Hendrick, e non ne avemmo granché in cambio. Avrebbero combattuto non per il re inglese, ma per William Johnson. – Adesso il commissario sono io, – ribatté Guy. – Sono un Johnson. Mia moglie è la figlia di Sir William, attende un bambino che forse sarà maschio, erede in linea diretta di Warraghiyaghey. Non conosco il mohawk, ma posso parlare in un concilio, col tuo aiuto. – Sono l’interprete del Dipartimento. Se a Johnson Hall si terrà un concilio, farò il mio lavoro. – Non qui nella valle. Allarmerebbe i ribelli. Fornirebbe il pretesto per un colpo di mano. Dobbiamo riunire le Sei Nazioni a molte miglia di distanza. A Oswego. Joseph aspettò prima di replicare. Guardò fuori dalla finestra. – Sono molti giorni di viaggio. Guy seguì lo sguardo dell’indiano. – Oswego è al centro della Lunga Casa. Le nazioni parteciperanno numerose. Tu sei un capo di guerra, convinci la tua gente a venire. Questa ribellione è la minaccia più grave che i Mohawk e le Sei Nazioni abbiano mai affrontato. Joseph parve meditare sull’ultima frase. Guy tacque il vero motivo della scelta. Oswego era sulla via per Montreal. Il generale Gage chiedeva truppe per il Canada. Se il concilio fosse andato come auspicava, Guy avrebbe guidato un’armata indiana. Questo a Joseph non poteva dirlo. Il collo continuava a scricchiolare. 13. Echi di martello, rintocchi di chiodi che bucano legno. Stridore di seghe, sbattere di travi. Sgorbie che intagliano e pialle che lisciano. Canti di lavoro, grida e imprecazioni. Joseph scese al fiume. Piccoli falò spandevano odore di pece nell’aria di primavera. Raggiunse i giovani del suo clan e domandò a Kanenonte a che punto fossero i preparativi. – Abbiamo riparato sette scafi. Gli altri cascano a pezzi. Qualcuno accese una pipa e gliela offrì. Joseph tirò una boccata. – Ce ne vorranno almeno una ventina. Di cosa avete bisogno? – Assi, – rispose Oronhyateka. – Ne restano per tre battelli. Poi barattoli di vernice, almeno trenta. E scatole di chiodi, tutti i chiodi della valle. Joseph lo rassicurò. Nella segheria di Canajoharie sfilava da giorni una colonna di tronchi: la materia prima non sarebbe mancata. Quanto al resto, Molly attendeva un carico da New York. Domandò se ci fosse altro, quindi si alzò e prese il sentiero che risaliva all’emporio. I rumori del lavoro lo inseguirono per la scarpata. Da mesi non vedeva tanta attività attorno al molo. Da quando il porto di Boston era chiuso, l’aria cattiva che spirava dalla costa soffocava il commercio. Chi si guadagnava il pane come barcaiolo restava all’asciutto e i battelli marcivano sulle rive del Mohawk. La novità si chiamava Oswego. Un concilio. L’occasione di ascoltare oratori illustri, incontrare amici e parenti lontani, rinsaldare alleanze, celebrare nascite e matrimoni. Feste, rum, gioco d’azzardo. Ancora più importante: regali. Per il Dipartimento, radunare gli indiani significava mostrare i muscoli e, senza doni abbondanti, anche il genero di Sir William rischiava di apparire gracile. Il messaggio doveva giungere chiaro: la dispensa di Johnson Hall era sempre piena, a disposizione degli amici fedeli. Concilio significava affari. Oswego era il porto più importante dei Grandi Laghi, terra di latte e miele, di grano e salmoni, dove le navi inglesi non avevano mai smesso di attraccare. A Canajoharie anche le famiglie più ricche erano ormai alle scorte e il nuovo raccolto si annunciava scarso. Il fumo dei sacrifici non risvegliava le Tre Sorelle. Pannocchia, Fagiolo e Zucca erano stanche e anche san Giovanni sembrava sordo alle preghiere. Mancavano attrezzi e sementi. Mancavano fucili e munizioni. Chi vendeva pellicce non guadagnava abbastanza, e se alzava il prezzo poteva tenersele e morire di fame al caldo. Convincere la sua gente non era costato a Joseph troppa fatica. Molti avevano accolto la partenza come promessa di un inverno più dolce. Arrivato all’emporio, Joseph trovò la porta serrata. Bussò invano più volte, poi sedette ad aspettare e l’ansia della partenza allagò i pensieri. Un viaggio lungo e sfiancante. Centocinquanta miglia stretti sui battelli. La notte, coperte umide e nugoli di zanzare. Sir John sarebbe rimasto con la famiglia a Johnson Hall. Guy Johnson portava a Oswego le figlie e la moglie incinta. Per i suoi, Joseph meditava un altro approdo. Non voleva averli con sé, ma neppure lasciarli alla fattoria. Senza tanti guerrieri, la valle era poco sicura. Potevano andare dai parenti Oneida, ottanta miglia più a sud. A Oquaga, un villaggio ricco e ancora lontano dai disordini. Il tocco di una mano interruppe le riflessioni. Joseph capì e si voltò senza un sussulto. Molly era più silenziosa di un falco. Alcuni bianchi giuravano di averla vista mutarsi in picchio, prendere il volo e poi tornare donna poco più in là. Impossibile, rispondeva Joseph, mia sorella ama camminare. Certo non s’era allontanata dall’emporio per una passeggiata. – Hanno sequestrato il carico da New York, – disse. – Ieri mattina, poco prima di Fort Hunter. – Da chi l’hai saputo? – Uno dei barcaioli. Ha trovato un cavallo ed è venuto fin qui. Se gli vuoi parlare, sta ancora alla locanda. – Non serve. Raduno i guerrieri e andiamo a riprenderci la roba. – Conosci Guy Johnson, – ribatté Molly. – Preferirà pagare un altro carico. Non vuole guai prima della partenza. – Un altro carico può impiegare settimane, la ferramenta per i battelli serve adesso. – Posso procurare qualcosa, per non fermare i lavori. Tu hai un compito più importante. Joseph rimase in silenzio. – Il sogno si fa sempre più chiaro, – disse Molly. – Il guerriero che scava con te è Ronaterihonte. Joseph restò a bocca aperta. Non udiva quel nome da molto tempo. – Devi andare a chiamarlo. Verrà con te a Oswego. Joseph allargò le braccia incredulo: – Con tutto quello che c’è da fare? Ci vogliono giorni per raggiungere il suo capanno. – È il sogno che lo chiede. Le donne sono concordi. – Lui non obbedisce ai sogni. – Ma mio fratello sì. Tu saprai convincerlo. Molly slacciò dal polso destro un bracciale di wampum. – Portagli questo, – disse. – Non potrà rifiutare. 14. I contorni delle cose affiorarono, rischiarati dal sentore dell’alba. Un tavolo, due panche di legno, gli alari del camino, il baule. Il ritmo dei respiri era una placida risacca. Percepì l’odore dei corpi sotto la pelliccia d’orso, il calore della moglie e della figlia. L’eco dei risvegli di un tempo. Nel rifugio di legno, l’uomo era solo. Moglie e figlia non c’erano più, uccise dalla sete di sangue che aveva arso la frontiera molti anni prima. Da allora dormiva poco e si svegliava sempre prima della luce del giorno. Si levò senza fare rumore. Lanciò un’occhiata di sbieco all’immagine della Vergine, ritagliata da un almanacco francese, dono del vecchio istitutore, padre Guillaume. L’artista aveva dato alla Madonna vaghe sembianze indiane. Raccolse un libro dal tavolo, si avvolse in una coperta e uscì. Il cielo era rosa e azzurro. La nebbia saliva a banchi dalla terra, resa più densa dalla mezza luce del mattino. Il sole era a picco quando tre figure emersero dalla macchia in fondo al sentiero. L’uomo smise di affilare il coltello sulla cinghia di cuoio e prese il fucile. Negli ultimi tempi i boschi erano tornati pericolosi. Tra i coloni isolati, pochi si affidavano ancora alla mira per difendere se stessi e le proprietà. In molti avevano eretto palizzate, ma l’uomo non era un colono e aveva poco da difendere. Bastava il fucile. Riconobbe i visitatori e abbassò l’arma. – Ronaterihonte, io sono tuo fratello, – disse uno di loro. L’uomo rispose al saluto. – Anche io sono tuo fratello, Thayendanega. Joseph Brant presentò gli altri. – Ricordi Jacob Kanatawakhon e August Sakihenakenta. I due guerrieri salutarono con brevi cenni del capo mentre appoggiavano i fucili. – Viaggiamo da due giorni, – disse Joseph. L’uomo spalancò l’uscio. – Entrate. Ho del cervo stufato. Joseph contemplò l’interno del capanno di tronchi: il legno annerito sembrava nascere dalla terra. Una trave carica di volumi attraversava la parete. Riconobbe L’ingenuo di Voltaire, gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, la Bibbia e l’Emilio di Rousseau. Titoli che venivano da New York, barattati con pellicce pregiate. Philip Lacroix Ronaterihonte non era un cacciatore stagionale: viveva nei boschi anche d’inverno. Da oltre dieci anni si costringeva a un ritiro inusuale per un indiano. Joseph fissò il vecchio compagno d’armi. Da quando aveva compiuto quella scelta, poco dopo la fine della guerra, la loro amicizia giovanile era sfumata fino a sopravvivere nel ricordo. Si chiese cosa ne fosse rimasto: un filo sottile quanto un crine di cavallo. Ancora non capiva perché Lacroix fosse apparso nei sogni di sua sorella. – È Molly che mi manda. – Come sta? – È in buona salute. Ha lasciato Johnson Hall e aperto un emporio al villaggio. – I suoi figli? – Crescono. Peter è un uomo, ormai. Lo porto già a caccia. – I tuoi? – Anche i miei crescono. Susanna è una buona madre. Joseph raccolse una delle ciotole che Lacroix aveva riempito di carne. Jacob e August ringraziarono e presero a mangiare senza complimenti. Lacroix rimase appoggiato alla mensola del camino. I capelli ricadevano sulle spalle come ali di corvo. Una croce di legno intagliato pendeva sul petto. Il volto non tradiva emozioni. I tratti decisi potevano appartenere a un indiano o a un mezzosangue, forse al figlio bastardo di un coureur de bois. L’età era difficile da definire, anche se Joseph sapeva che erano coetanei. – Hai saputo del Massachusetts? Lacroix non rispose. Joseph fece un gesto a indicare il Nordest. – Gli inglesi whig hanno messo assieme un’armata per combattere il loro re. La chiamano Esercito Volontario. Assediano Boston e muovono guerra al Canada. August e Jacob si erano serviti di nuovo, senza dire una parola. Joseph li aveva scelti per quello, erano svegli e discreti. Poteva fidarsi di loro. – I coloni di Albany appoggiano la ribellione. C’è il rischio che attacchino la valle. Spie e assassini battono le nostre piste. Un messaggero che abbiamo inviato agli Oneida è stato ucciso. Scorticato vivo. Joseph aspettò la reazione del cacciatore. – Perché sei venuto? – chiese Lacroix. – Guy Johnson vuole convocare un concilio. Per chiedere alla Lunga Casa di schierarsi con il re. Lacroix gettò un altro ramo secco nel fuoco. – Hai detto che ti manda Molly. – Sì. Ha fatto un sogno. L’altro annuì, come si aspettasse di sentirselo dire. Joseph gli porse il bracciale di wampum. – Mi ha detto di restituirti questo. Lacroix lo tenne tra le mani, fissandolo a lungo. Le conchiglie bianche e nere componevano rombi e lune intorno a una testa di lupo. Un bottone dorato spiccava nella trama. Proveniva da un’uniforme dell’esercito francese: l’uniforme di un tamburino. Joseph sapeva che quell’oggetto era il pegno d’adozione nel clan del Lupo. Lo aveva intrecciato Molly, per il ragazzo che i preti francesi avevano battezzato Philippe Lacroix. I Mohawk gli avevano dato il nome di un caduto: Ronaterihonte, «Tiene Fede», e una madre vedova da accudire. Il bracciale rappresentava la nuova vita, quella che Molly stessa gli aveva donato quando lo aveva sottratto alla vendetta dei guerrieri. Joseph ricordava bene quel giorno, anche se era un ragazzino. Il giorno della morte di Hendrick e della ferita al fianco di Warraghiyagey. La battaglia sul lago George era valsa a William Johnson il titolo di baronetto. Philip aveva imparato la lingua in fretta: alla missione dove era cresciuto vivevano molti Caughnawaga, che parlavano un dialetto simile al mohawk. Insieme, lui e Joseph avevano ricevuto l’iniziazione guerriera e combattuto fianco a fianco fino al termine del conflitto, come giovani lupi. A guerra finita, Sir William aveva fatto studiare Joseph e si era unito a sua sorella. Philip invece aveva preso moglie, gli era nata una figlia. Una breve stagione di serenità. Dopo la tragedia, aveva compiuto atti terribili. Da allora Huron e Abenaki lo chiamavano le Grand Diable. Un giorno si era presentato da Molly e, senza una parola, le aveva consegnato il bracciale di wampum, rinunciando alla vita che gli era stata donata. Si era trasferito lì. Tornava a Canajoharie un paio di volte all’anno, per vendere pellicce, guardato con timore da chi aveva conosciuto la guerra e con reverenza dai giovani, attratti dalla leggenda. – Molly dice che è tempo che torni alla nazione. Dice che il sogno significa questo. Il cacciatore sedette su una vecchia sedia tarlata, continuando a fissare la cinta di conchiglie. Quando Lacroix alzò lo sguardo, Joseph provò inquietudine. – Partiremo con la luna nuova. Il concilio si terrà a Oswego. Aveva riferito il messaggio. Ora aveva fretta di mettersi sulla via del ritorno: mancavano pochi giorni alla partenza e c’era ancora molto da fare. Fece segno a Jacob e August di alzarsi. – Noi torniamo indietro. Grazie per il cibo. Quando furono di nuovo sulla soglia di casa, Joseph si voltò. – Molly vorrà sapere la tua risposta. Lacroix annuì ancora. – Dille che vorrei che i miei sogni fossero chiari come i suoi. 15. – Abbiamo ricevuto il Gioco dal Padrone della Vita, all’inizio dei tempi. I nostri antenati lo giocarono così come Dio aveva prescritto e in quel modo noi continuiamo a giocarlo. Johannes Tekarihoga fece un ampio gesto con la mano destra. Il braccio e la spalla, nudi, erano ancora vigorosi. Il corpo, avvolto in un manto azzurro cupo bordato di conchiglie, era alto sei piedi. I giocatori giunsero le mani all’altezza del cuore e chinarono il capo. Il vecchio riprese, seguito da tutti gli altri. – Padre nostro che sei nei cieli… L’anziano sachem concluse la preghiera, sollevò il capo, esortò i guerrieri con poche parole. – Giocate duro, ma con lealtà. Non perdete la testa. Il campo, l’unico incolto, digradava lento verso il fiume Mohawk, poco lontano dai gruppi di case che formavano il villaggio. Due fazioni lo occupavano, una trentina d’uomini per parte. Peter Johnson pensò che un dettaglio contraddiceva le affermazioni del vecchio. Il Padrone della Vita, all’inizio dei tempi, aveva prescritto di giocare a baggataway nudi, dipinti dei colori di guerra. Tutti, invece, avevano le gambe coperte da gambali di cuoio, alcuni indossavano camicie. All’inizio dei tempi, poi, nessuno avrebbe recitato il Padre nostro. Tekarihoga socchiuse gli occhi, sussurrò alcune parole e lanciò in aria la palla, proprio in mezzo ai contendenti. Una delle mazze la colpì in pieno. Il guerriero lanciò un lungo grido, una cacofonia di richiami invase il campo da gioco. Le fazioni si mischiarono, una sola massa vibrante, orda lanciata in corsa. La palla ricadde veloce, presto raggiunta dalla torma dei giocatori. Si scatenò una mischia selvaggia. Legno contro legno. Legno contro osso. Infine l’oggetto del contendere fu snidato dal covo d’arti e sospinto a gran velocità verso la meta. Con una corsa forsennata, Peter raggiunse il fuggiasco, lo sgambettò e picchiò con tutta la forza il capo della mazza contro il globo di pelle di cervo. Il tiro fu spettacolare, benché male indirizzato. La palla raggiunse il limite del bosco con traiettoria tesa e lunga. I giocatori si gettarono in avanti urlando e agitando le mazze, ma si accorsero di una presenza al margine del campo da gioco. Il gruppo rallentò, le voci scemarono fino al silenzio. L’uomo si chinò sulla palla rotolata ai suoi piedi e la rilanciò verso Tekarihoga. Tuttavia, la partita non riprese. I giocatori sembravano incantati. Peter guardò il vecchio sachem: annuiva con aria solenne. Molly attendeva a braccia conserte, in piedi sulla soglia dell’emporio. A poca distanza, donne curiose, con bambini in grembo o seduti in una fascia a tracolla. Gli occhi della donna scintillarono. Lo stava aspettando. – Salute a te, Degonwadonti. – Salute a te, Ronaterihonte. Entra, l’acqua bolle sul fuoco. Molly ordinò alla serva di preparare il tè, poi fece accomodare Philip su una poltrona rivestita in cuoio nero, con alti braccioli, confortevole e lussuosa. Da molto tempo le terga e la schiena del cacciatore non poggiavano su niente di così soffice. La comodità aveva un che di sensuale, addirittura osceno. Lacroix si abbandonò a quell’abbraccio. Lasciò che le vertebre si aggiustassero, che gomiti cadessero inerti sul legno curvo e lucido, che natiche e cosce sprofondassero senza opporre tensione. Trascorse minuti vaghi e sognanti, finché il profumo del tè non lo ridestò. Si ritrovò tra le mani un piattino e una tazza fumante. – Zucchero? – chiese la serva. – Sì, grazie –. Zucchero. Chissà se la lingua ne serbava il ricordo. La serva terminò il proprio compito e uscì. L’uomo e la donna bevvero i primi sorsi. La punta della lingua di Philip diede il bentornato al sapore. Per lo zucchero liquefatto l’accoglienza fu festosa, l’intera bocca eseguì un’elaborata cerimonia. Philip non poté fare a meno di sospirare. Bestia indomita, il piacere. Dopo alcuni minuti di silenzio, Molly parlò. – Non sono stata io a convocarti, Ronaterihonte. È la nazione a chiamarti, lo dicono i sogni. Philip bevve un altro sorso. La tazza scaldava le mani. – La nazione ti ha adottato e restituito alla vita, – continuò Molly. – Ora ha bisogno di te. Nei sogni sei di nuovo al fianco di mio fratello. – Come posso essere di aiuto alla nazione? – domandò l’uomo dei boschi. – Il sogno non si è ancora dischiuso, qualcosa rimane nell’ombra. Posso solo dirti questo: devi andare a Oswego con Joseph e i guerrieri. – Io non sono più un guerriero, Molly Brant. Non sono più niente. – Tu sei un Mohawk, e i Mohawk stanno soffrendo. Molly si fermò, convocò e radunò le parole, le passò in rassegna e infine le mise in marcia, una dopo l’altra: – Il nostro nome rischia di svanire, le fauci del tempo hanno già inghiottito interi lignaggi. La nostra terra viene invasa o rubata, un inverno di stenti cadrà su questa valle. Io rimarrò al villaggio, perché donne, vecchi e bambini hanno bisogno di me, ma il futuro della nazione dipende da quanto avverrà lontano da qui. Tu e Joseph ne siete parte –. Si interruppe e sorrise. – Devi fidarti dei sogni. Philip si allungò sulla poltrona e portò la tazza alle labbra, mentre un sussurro si insinuava nelle orecchie. Bentornato, Ronaterihonte. Il cerchio deve essere chiuso. Il viaggio deve avere inizio. 16. – Donna del Cielo ebbe una figlia, che venne fecondata dal vento occidentale. Ancora nel ventre, i due nipoti di Donna del Cielo litigarono sul modo di nascere. Gemello Sinistro non voleva uscire nel modo normale. Si fece strada fino a spuntare dall’ascella della madre e così facendo la uccise. Molly guardò il volto di Peter nello specchio e fece scorrere il rasoio sulla cute. Il ragazzo sedeva a gambe incrociate, immobile, la sorellina Ann avvinghiata a una gamba. – I gemelli seppellirono la madre, – proseguì Molly, – che divenne Madre Mais, da cui hanno origine Zucca, Fagiolo e Pannocchia, le Tre Sorelle che sostengono la vita. Dal cuore nacque il tabacco, che si usa per mandare messaggi al Mondo del Cielo. Finì di rasare i lati del cranio. Rimase un lungo ciuffo di capelli scuri tenuti insieme da un nastro rosso. Lo specchio rimandava l’immagine di un guerriero giovane, bello e forte. Le carni ben impastate, le ossa ben disposte. Gli occhi della nazione potevano compiacersi. Gli spiriti degli antenati lo avrebbero protetto. – I gemelli continuarono a sfidarsi. Destro creò le belle colline, i laghi, i fiori e le creature gentili. Sinistro le gole scoscese e le rapide, le spine e i predatori. Destro era sincero, ragionevole, di buon cuore. Sinistro mentiva, amava combattere, aveva un carattere ribelle e percorreva sentieri intricati. Poiché Destro ha creato gli uomini, è conosciuto come il nostro Creatore e il Padrone della Vita. Non dimenticare mai di onorarlo con le preghiere, recita i Salmi ogni sera. Tacque e contemplò il ragazzo. Sir William sarebbe stato contento. Suo figlio andava a Oswego, al suo primo concilio. I capelli acconciati nel modo tradizionale, cinture di wampum ad attestare il lignaggio. Un vero Mohawk, avrebbero detto tutti. Educato anche nelle lingue e nella scienza dei bianchi. Il vero erede di Warraghiyagey. – Tuo padre sarebbe fiero di te come lo sono io. Il ragazzo si rimirava nello specchio. Girò la testa, alzò il mento, abbassò la fronte per valutare l’effetto. – Manca qualcosa, – disse. Si alzò, scostando la bambina con una carezza, e prese il fucile. Si girò verso lo specchio più grande, appeso alla parete. Con l’arma al piede, l’immagine era perfetta. Il ragazzo sorrise a se stesso. – È un regalo di zio Joseph, – passò una mano sulla canna liscia e scura. – Bellissimo. – Con quello caccerai i cervi, Peter? – chiese la sorellina. – Sì, e difenderò anche la nostra valle –. Il ragazzo sembrò riflettere sulle parole appena pronunciate. – Chi ha inventato il fucile, madre? – domandò. – Gemello Destro o Gemello Sinistro? – Chi è stato, mamma, chi è stato? – si inserì Ann con voce squillante. Molly comparve alle spalle del figlio. Pose una mano sul capo della piccola. – Nulla di quel che ha fatto l’uno può esistere senza quel che ha fatto l’altro. Non puoi camminare al sole senza mandare ombra. E anche l’ombra serve, quando il sole è troppo forte. – Quindi è stato Sinistro? – insistette Peter. – Figlio ostinato, – sorrise Molly. – Lo sai benissimo che è stata l’abilità degli uomini bianchi a fare il fucile, i violini, i microscopi e le altre cose che ti piacciono –. Aggrottò la fronte. – Ma non so se nella testa del primo armaiolo il fucile ce l’abbia messo Dio o il diavolo. – Il diavolo, padrona, il diavolo di sicuro. Juba era entrata nella stanza, esile e silenziosa. Si fermò a guardare il ragazzo, che prendeva in braccio Ann. La bambina giocherellò con il ciuffo che ornava il cranio. Non sembrava interessata a nient’altro. La serva nera cercò con gli occhi l’assenso di Molly, quindi impose le mani sulla testa del giovane e mormorò frasi di benedizione in una lingua sconosciuta. Quando ebbe finito tornò a guardare la matrona del clan del Lupo. – Porta il regalo, – le ordinò Molly. – Un regalo? – disse Peter, mentre si liberava dall’abbraccio di Ann. – Il fucile che ti ha donato tuo zio Joseph non è l’unica cosa che ti può servire. Quando Juba tornò con la scatola, Molly ne estrasse una custodia di violino. Il ragazzo sobbalzò. Un violino nuovo. Avrebbe gettato le braccia al collo della madre, ma non era più un bambino. Prese lo strumento con delicatezza e ne saggiò il peso, pizzicò le corde, annusò l’odore del legno lucido. – La musica ti terrà compagnia durante il viaggio, – disse la madre. – Imparerai nuove canzoni e molte altre cose. – Suona quella che mi piace, Peter! – lo supplicò Ann. – Dài, suonala! Il fratello non si fece pregare. Mosse veloce l’archetto e la bimba iniziò a dondolare al tempo del reel. Molly guardava la scena, celando la preoccupazione dietro un sorriso. Molti pensieri affollavano i suoi giorni, e i sogni le notti. William aveva dato a Peter l’educazione e la conoscenza, ma non aveva fatto in tempo a iniziarlo alla guerra. Adesso toccava a Joseph completare l’opera, fare di lui un guerriero. Il momento sarebbe venuto presto. Orgoglio e timore si sfidarono nell’animo della donna, promettendosi eterna battaglia. Anche nel sogno Peter suonava il violino, mentre William diceva qualcosa nella lingua dei padri. Se solo fosse riuscita a capire quelle parole, avrebbe salutato il ragazzo con più serenità. Una piccola torma di bambini invase la stanza tra grida eccitate. Peter li accolse a braccia aperte e si lasciò gettare a terra. Molly guardò i suoi figli fare la lotta e rotolarsi sul pavimento, ridere e scherzare. Il tempo dei giochi stava per finire, e non soltanto per Peter. Un’ombra incombeva sulla valle, ne lambiva i margini. Il compito che toccava a Molly non sarebbe stato facile: custodire la terra degli avi, proteggere i figli della nazione come fossero tutti suoi. 17. Joseph non vide chi fu a dare il segnale, ma la folla iniziò a scendere lenta verso il fiume, Guy Johnson in testa al gruppo, Daniel Claus al suo fianco. Joseph rimase discosto e lasciò scorrere la fila per controllare che non mancasse nessuno. Centoventi persone di pelle bianca. I dipendenti del Dipartimento indiano e parte degli Highlander. Novanta guerrieri Mohawk. Johannes Tekarihoga. Famiglie con donne e bambini. Trenta battelli a pieno carico. Armi e attrezzi, barili di polvere, barre di piombo e stampi per pallottole. Provviste, sacchi di mais, carne di porco salata, rum. In mezzo alla folla, un gruppo di donne accompagnava Mary Johnson, il ventre prominente, stretta al braccio della sorella Nancy. Le figlie piccole si tenevano alla gonna della madre, come dovessero reggere lo strascico fino all’altare. Esther, la maggiore, camminava due passi indietro. Le serve bianche e africane stringevano le cinghie degli zaini o attendevano in disparte. Guy non aveva voluto lasciare a casa la moglie gravida e le bambine. Le voleva accanto, dove poteva proteggerle. Sir John era venuto a salutare la spedizione. Strinse per primo la mano al cognato. – Buona fortuna. Dio vi guardi e accompagni il vostro cammino. – E assista voi nel difendere le nostre terre, – rispose Guy. Di fronte a molte case spiccavano bastoni piantati di traverso nel terreno, segno che l’abitazione era vuota e gli spiriti avrebbero punito chi avesse osato avvicinarsi. Davanti all’emporio, Mary Johnson vide aprirsi un capannello di donne. Apparve Molly Brant, la piccola Ann in braccio. L’indiana alzò una mano in segno di saluto. Mary sentì muoversi la creatura che aveva nel grembo. Portò le mani al ventre. Esther vide la scena. Gli occhi di quella donna sulla pancia della madre, il vago gesto con la mano. Si sentì davanti a un castello di carte nell’attimo prima del crollo. Si avvicinò alla mamma e strinse con forza un lembo della sottana. Avrebbe voluto supplicare il padre di fermarsi, di non lasciare che tutto precipitasse, invece rimase zitta. Il corteo sfilò davanti a Molly, che dalla veranda osservava immobile. Quando Joseph salì gli scalini, Peter le comparve accanto. Il ragazzo era equipaggiato per il viaggio, giacca di cuoio, corno e fucile a tracolla. Molly guardò il figlio con rassegnazione, sfiorò il volto giovane, la carezza divenne una presa sul ciuffo di capelli. Peter strinse i denti. Molly lo lasciò e si rivolse a Joseph. – Guidalo con saggezza. Si abbracciarono. Il ragazzo baciò la madre e scese per raggiungere gli altri. Gli occhi brillavano. Philadelphia e gli anni di studio erano niente di fronte all’avventura che lo attendeva. L’ultimo a ricevere il saluto di Molly fu Philip Lacroix, in coda alla colonna. Ricambiò con un cenno del capo, senza bisogno di parole. Joseph scorse tre figure immobili al margine della discesa. Susanna aveva portato i bambini a salutarlo. Li toccò uno alla volta sulla fronte, una sorta di benedizione che li proteggesse dal male del mondo. Isaac aveva gli occhi lucidi. Lacrime trattenute a stento, lo sguardo rabbioso. – Voleva venire con te, – disse Susanna. – Alcuni portano la famiglia, – aggiunse subito. Joseph capì la velata richiesta e indurì i tratti del viso. – A Oquaga sarete al sicuro, – accarezzò Christina senza riuscire a sorriderle, poi guardò Susanna. – Abbi cura di mia madre. Si voltò e scese verso il greto, dove Butler e suo figlio dirigevano l’imbarco. Mano a mano che gli uomini salivano a bordo, i battelli lasciavano la riva. Sull’ultimo rimasero Joseph, Lacroix, i Butler e i fedeli del clan del Lupo. Tutti impugnarono pertiche e pagaie e portarono il barcone in mezzo al fiume. La via di Oswego iniziava controcorrente, risalendo il Mohawk. Settanta miglia fino a Fort Stanwix, prima grande tappa a metà del tragitto. Joseph osservò la pigra scia del battello e pensò a chi partiva e chi restava. Il sole bucava le nubi. Ogni elemento del paesaggio era intriso di pioggia. Le membra degli uomini, il legno della Lunga Casa e dei capanni, i campi di segale e mais, gli orti di fagioli e zucche. Osservò scorrere i castagni sui lenti declivi che portavano alla prima ansa del fiume. Tuie frondose, larici svettanti. Tutto dileguava alla vista, dietro le spalle. Il reverendo Stuart diceva che recitare il Padre nostro chiudeva ogni breccia alle tentazioni del demonio. Nulla di male poteva accadere se la preghiera che insegnò Nostro Signore occupava la mente; in caso contrario si sarebbe affrontata la malasorte in stato di grazia. Pochi prendevano alla lettera i consigli di Stuart, ma lì sull’acqua le parole del Padre affiorarono alle labbra di bianchi e indiani. Joseph chiuse gli occhi, alzò il capo verso il cielo. Raggi di sole lo investirono. Chiese a Dio di proteggere la sua famiglia. Sulle sponde, i coloni assistevano all’esodo dei Mohawk di Canajoharie. I bambini salutavano con la mano, gli adulti osservavano compiaciuti. Joseph intuì che, per molti, vederli partire era un sollievo. La flottiglia procedette spinta dalle pertiche e dai remi. Joseph ricordava bene il tragitto. L’aveva affrontato altre volte, insieme a Sir William. Prima per fare la guerra ai Francesi, poi quando il commissario era andato a firmare la pace tra la Corona e il grande capo Pontiac. Dove gli affluenti sabbiosi si riversavano nel Mohawk, secche e scogli strozzavano la corrente, formando rapide impetuose. Più volte avrebbero dovuto scaricare i battelli e procedere a terra, trainandoli da riva con spesse gomene. Per aggirare i precipizi rocciosi di Little Falls bisognava caricare in spalla le barche, risalire il bosco di mezzo miglio e ritrovare l’acqua. Joseph non temeva per sé o per i compagni: molti di loro si erano guadagnati da vivere come barcaioli. Pensava alle donne e ai bambini, che non avevano mai lasciato casa nemmeno per un giorno. Guy Johnson si volse a cercare la moglie e le figlie. Due battelli più indietro, Mary si teneva salda al bordo del barcone, gli occhi puntati sulle bambine rannicchiate ai suoi piedi. Nancy e le serve l’affiancavano. Guy rivolse un’occhiata a Daniel Claus, seduto accanto a lui, uno dei pochi a conoscere il vero motivo del viaggio. Portò una mano sulla tasca della giubba, dove custodiva la lettera del generale Gage. Una scommessa azzardata: prima incassare l’ovvia dichiarazione di fedeltà al re da parte dei sachem e solo a quel punto vincolarli al loro dovere di alleati. Avrebbe esibito l’ordine ricevuto dal più alto rappresentante di re Giorgio in America e condotto in battaglia i guerrieri delle Sei Nazioni. Si sarebbe dimostrato all’altezza di Sir William. Ascoltò il silenzio, rotto solo dal rumore dei remi e dai richiami di chi governava i battelli. Una cosa era certa: il fiume dell’esistenza si lasciava il vecchio letto alle spalle, per scorrere in una direzione nuova. 18. Se ne andavano. I Johnson con servi, sgherri e amici selvaggi. Solo il diavolo sapeva dove, e comunque non era importante. Quello era in tutti i casi un grande momento. A giudicare dai preparativi, dovevano starsene via parecchio. Klug sentì aprirsi uno spazio nel petto, come se una pietra fosse stata sollevata dallo sterno. Bevve un sorso di birra e rum, si asciugò la bocca con la manica. Guardò fuori dalla finestra, verso il fiume. La visuale era ostruita da un filare di pioppi. Dietro, le terre di scomodi vicini. Immaginò una valle senza indiani, senza ricconi papisti ammanicati coi nobilastri, solo gente onesta che lavorava. Gente come lui. Braccia, schiena e gambe facevano ancora male. I lividi passavano dal blu intenso al rosso al giallastro. E anche i suoi sentimenti cambiavano colore: dal verde pallido della paura al viola acceso della rabbia. Aveva provveduto a denunciare Brant e gli altri selvaggi. L’avvocato l’aveva rassicurato: la firma era estorta, non valeva niente, i giudici si sarebbero pronunciati di certo a suo favore. Klug ringraziò Dio. Gente ragionevole, i giudici, almeno nella colonia di New York. Mica come a Londra, laggiù ce n’era addirittura uno che si era messo in testa di liberare i negri. E i negri lo sapevano. La voce correva da una fattoria all’altra. Li sentivi biascicare parole senza senso, cantare le loro tiritere che forse erano messaggi nascosti. Si passavano informazioni, si mettevano d’accordo per scappare. Se mettevano piede in Inghilterra, diventavano uomini liberi. E loro ci provavano. Scappavano davvero. Era già successo a Windecker, a Deypert, al dottor Heyde. Tagliare la lingua a tutti, ecco come risolvere il problema dei negri, tanto dovevano spaccarsi la schiena, mica pronunciare sermoni. Klug scosse il capo. E i tory? Come la mettevano? Ce li avevano pure loro, gli schiavi! Klug sentì montare odio. Era ora di farla finita. Quella gente aveva passato il segno. L’esercito del re bloccava le navi nei porti, requisiva la roba, sbatteva in galera chi provava a metter bocca. I Bostoniani avevano ragione. I lealisti andavano presi a fucilate, ricacciati in mare. I Johnson avrebbero comprato i selvaggi a forza di rum, e li avrebbero spinti contro altri bianchi, contro altri cristiani. No, non si poteva stare a guardare, stendere il tappeto rosso, dire accomodatevi, fate pure. Klug prese la decisione. Alla prossima riunione del comitato sarebbe andato anche lui. Avrebbe raccontato cosa gli avevano fatto i selvaggi. La prossima volta che avessero provato a toccarlo, un bel po’ di gente avrebbe messo il fucile per Jonas Klug. 19. Gli uomini del Dipartimento consumavano la cena seduti in semicerchio, troppo stanchi per parlare. Navigavano da dieci giorni e i segni del viaggio erano sui volti di tutti. Al calar del sole il convoglio si era accampato su una riva scoscesa. Avevano piantato le tende e acceso i fuochi. Un grappolo di calore e luce fioca, abbarbicato ad alberi e rocce. Il cibo e il rum ridavano forza. Quando Cormac McLeod raggiunse il gruppo, il fumo di sigari e pipe si era già unito a quello del falò. Lo scozzese aveva l’aria torva. Riempì un piatto e prese a mangiare. – Come sta vostra moglie, signor Johnson? – Non troppo bene, – rispose Guy. – Questo viaggio ci sta sfiancando. Mentre accendeva la pipa, Joseph Brant osservò il gentiluomo irlandese. La pinguedine che gonfiava gli abiti era meno pronunciata, il volto arrossato dal sole. – Mi chiedo che posizione prenderanno gli Oneida, – aggiunse Guy Johnson, quasi volesse scacciare la preoccupazione per la moglie. – Verranno al concilio, ma non si schiereranno, – commentò Claus in tono annoiato. – Potete scommetterci, – aggiunse Butler. – Sono dei codardi. Facile che l’abbiano consegnato loro ai ribelli, il vostro messaggero, – fece un gesto brusco con la mano. – Faranno le verginelle, e così gli Onondaga e tutti gli altri. Ma se offrite più rum di quei maledetti whig e regalate tutta la polvere da sparo che vogliono, vedrete come vi staranno dietro. Johnson fece per replicare, ma McLeod intervenne brusco. – Mi accontento che arriviamo sani e salvi al concilio. – Che intendete dire? Lo scozzese lanciò un’occhiata alla notte che ammantava gli alberi. – Queste foreste non sono sicure. Un convoglio di barche è un bersaglio facile. – Temete un’imboscata? – I ribelli potrebbero aver comprato una tribù dei dintorni. Guy Johnson si rivolse a Joseph. – Cosa ne pensa il nostro interprete? L’indiano scosse il capo. – Nessuno farà nulla prima del concilio. – Sentito, vecchio mio? – intervenne Butler. – È presto per preoccuparsi dello scalpo. Lo scozzese si ingobbì, avvolgendosi in una coperta. – Mi sentirò più sicuro quando avremo superato il Grande Trasbordo. Joseph notò che Peter ascoltava con attenzione. Si alzò e fece segno al ragazzo di seguirlo. Avrebbero fatto insieme il primo turno di guardia. Lo condusse al fuoco dei guerrieri anziani a ricevere la benedizione di Tekarihoga. Anche loro sedevano in circolo e fumavano. Alcuni, già vinti dal sonno o dal rum, russavano sotto le stelle. Il vecchio sachem era tra questi. Proseguirono fino all’avamposto presidiato da Kanatawakhon e Sakihenakenta. Joseph disse loro di andare a riposare. Prima di andarsene, i due guerrieri indicarono una sagoma scura sotto un vecchio salice. Peter si mise all’erta, ma lo zio gli fece segno di occuparsi del fuoco. Lacroix era un’ombra che annusava l’aria. – Cosa c’è? – chiese Joseph quando gli fu accanto. – Non siamo i soli ad accendere fuochi. Indicò le cime degli alberi. Joseph scorse un filo di fumo chiaro, appena distinguibile, a meno di un miglio. – Cacciatori? – Forse. Joseph tornò al falò. Peter aveva preparato del tè nero. Bevvero in silenzio, tenendo le tazze fumanti con due mani, per scaldarsi. – Zio Joseph? – Cosa? Peter accennò all’ombra sotto l’albero. – Avete combattuto insieme, vero? – Tuo padre ci portò in guerra. Avevamo la tua età. – E poi? – La moglie e la figlia furono uccise dopo la guerra. Da allora si è ritirato nei boschi. – Perché lo chiamano il Grande Diavolo? Joseph sapeva che prima o poi avrebbe dovuto rispondere a quella domanda. Tutti i giovani guerrieri rimanevano colpiti da Lacroix. – È un nome che gli hanno dato i nemici. Raccontano storie sul suo conto. Si è vendicato da solo. Per un po’ il crepitare del fuoco fu l’unico rumore. Poi Peter fece una domanda che Joseph non si aspettava. Rimase zitto, guardando il fondo della tazza, come se dovesse leggervi la risposta. Infine disse: – Sì. È mio amico. 20. Dopo tre settimane il convoglio fu in vista di Fort Stanwix. Joseph era passato da lì sette anni prima. Aveva accompagnato Sir William a firmare il trattato più importante. I sachem e i rappresentanti della Corona avevano stabilito il confine oltre il quale i coloni bianchi non potevano insediarsi: il fiume Unadilla, da Fort Stanwix alla Pennsylvania. Joseph ricordava la mole del forte in cima al terrapieno, i quattro bastioni e la palizzata intorno. Difficile immaginare una costruzione di tronchi altrettanto solida e imponente, ma la guarnigione britannica se ne era andata da tempo. Pochi inverni di abbandono avevano fiaccato l’orgoglio del luogo: gli spalti marcivano, le casematte crollavano, i baluardi franavano nel fossato. Il convoglio avrebbe fatto tappa per alcuni giorni. I battelli imbarcavano acqua. Pigiare stoppa nelle giunture non bastava più, servivano pece e vernice. Parte delle provviste era fradicia, bisognava darsi da fare con caccia e pesca. Occorreva ritemprare forze e spirito in vista del Grande Trasbordo, lungo la mulattiera fangosa che in quattro miglia conduceva sull’altro versante, dalle acque del Mohawk a quelle del Wood Creek. Oltre la spianata si entrava in territorio Oneida. Una delegazione saliva al forte per dare il benvenuto a Guy Johnson e garantire una folta presenza al concilio di Oswego. Guy organizzò in fretta un comitato d’accoglienza, composto da Daniel Claus, Joseph Brant e Peter Johnson. Nel drappello che si avvicinava Joseph riconobbe il sachem che aveva celebrato il funerale indiano di Sir William. Shononses. La sua presenza era un evento inatteso. Dieci guerrieri lo scortavano. Portava abiti di gran pregio e piume d’uccello legate all’unica ciocca di capelli. – Io sono tuo fratello, Uraghquadira, – disse. Per accoglierlo come si deve, Guy Johnson aveva rispolverato l’uniforme rossa con gli alamari d’oro. – Anch’io sono tuo fratello, Shononses. Siamo onorati della tua visita. Joseph sfoggiava abiti eleganti e il bastone da passeggio. Ricevette il saluto dei guerrieri. – Il fiume ha portato notizia del tuo arrivo, – riprese il capo indiano. – Prima di partire anche noi per il concilio, siamo venuti ad augurarti buon viaggio. Il fiume dice che con voi c’è le Grand Diable. – Sì, – confermò Guy. Un mormorio serpeggiò tra gli Oneida. – Ricordi il figlio di Warraghiyagey, – aggiunse, – Peter Johnson. È il suo primo concilio. Gli Oneida salutarono il ragazzo. – Dov’è le Grand Diable? – chiese Shononses. Joseph fece un cenno a Guy Johnson e scese in direzione del fiume. Lacroix sedeva con i giovani guerrieri. Pulivano i fucili e riempivano i corni di polvere nera. – Il sachem degli Oneida è venuto a salutarci. Vuole incontrarti. Lacroix si alzò. – Non sederti con gli Oneida, – sibilò Jethro Kanenonte. – Non ti fidare di loro, – fece eco Oronhyateka. – Hanno paura di te e ti blandiscono come donnicciole. Non andare. Joseph puntò il pomello del bastone. – Tieni a freno la lingua. Il giovane non si scompose, assunse un tono provocatorio. – Joseph Brant sa che gli Oneida sono infidi. L’hanno venduto loro Samuel Waterbridge ai ribelli, faranno lo stesso con noi. Non hanno onore. – Taci, – ringhiò Joseph. – Mia moglie e i miei figli sono Oneida. Gli Oneida sono nostri fratelli. Non voglio problemi fino al concilio. I guerrieri zittirono e ripresero a pulire le armi. Joseph e Lacroix si allontanarono. Shononses attaccò un lungo panegirico del defunto Sir William, come se dovesse seppellirlo di nuovo. Vennero offerti cibo e bevande, mentre Claus improvvisava un discorso di benvenuto, che Joseph tradusse con fastidio. Non sopportava l’accento del tedesco, era come il frullo di una piuma nelle orecchie. Gli Oneida avevano portato cinture di wampum, pelli di castoro e coperte variopinte. Guy Johnson ricambiò con polvere da sparo, coltelli e corda. Solo dopo lo scambio di doni affrontò la questione. Parlò dell’unità delle Sei Nazioni, dell’importanza del concilio, della necessità di un aiuto reciproco tra i Mohawk e i fratelli minori Oneida. Joseph pensò che il discorso era buono, ma mancava qualcosa. Gli parve di cogliere un movimento, una sagoma nota. Il fantasma di Sir William sedeva con loro intorno al fuoco. Li ascoltava e li osservava curioso. Shononses convenne sul bisogno di rimanere uniti ma professò la neutralità degli Oneida. Un conflitto tra inglesi non poteva riguardare il suo popolo. La risposta del sachem lasciò tutti scontenti. Guy Johnson non sembrò colpito. – Anche all’epoca della guerra franco-indiana gli Oneida vennero qui e si dichiararono neutrali, – mormorò all’orecchio di Joseph. – Eppure Sir William ne convinse parecchi. Si fecero perfino battezzare. Fu la volta dei racconti di guerra. Le storie si mescolavano al fumo che saliva fino a perdersi nella luce fioca del crepuscolo. Joseph cercò ancora lo spettro seduto al margine del cerchio, oltre le fiamme, ma non vide nulla. Se Molly fosse stata lì avrebbe potuto interrogarlo, chiedergli consiglio. Più tardi, al tramonto, si ritrovò a passeggiare tra le rovine del forte. Nell’ultimo bagliore d’occidente i bastioni diroccati erano scheletri di animali giganteschi. Tra i gruppi di uomini che bivaccavano scorse alcuni Oneida che barcollavano allegri. McLeod mesceva rum da un barilotto. Quando vide Joseph sorrise e si batté il petto. – Sono già dei nostri. Joseph passò oltre, soltanto per incappare nel capitano Butler. L’irlandese indicò la mescita: – Alla fine chi ha più rum vince la guerra. Il resto sono chiacchiere, – mimò uno svolazzo con la mano. L’indiano accettò il sigaro che gli veniva offerto. Butler si piegò a raccogliere un tizzone dal falò più vicino e glielo porse. – Anche tu sei sicuro che andrà tutto per il verso giusto? Joseph continuava a tacere. I bianchi usavano fare domande e rispondersi da soli, per il piacere di ascoltare le proprie parole. Butler tirò un paio di boccate e riprese. – Se già gli Oneida si tirano indietro, convincere le altre Nazioni sarà un’impresa. Soprattutto i Seneca, io li conosco bene. Sono un osso duro, detestano gli Inglesi, ma soltanto loro possono schierare mille guerrieri. Joseph pensò che il vecchio ufficiale aveva ragione. Oltre la cerchia esterna del forte, la morsa della notte si faceva impenetrabile. 21. I guerrieri si fermarono sulla riva del torrente. Qualcuno pestò la terra melmosa sul fondo. Dalla montagna scendeva appena un rivolo d’acqua. Joseph scambiò un’occhiata con Sakihenakenta. Si voltò verso Lacroix, che fissava il bosco sull’altra sponda. – Che fine ha fatto il fiume? – chiese la voce di Peter dietro di loro. Joseph tacque. Aveva bisogno di riflettere. Erano andati in avanscoperta, per aprire la pista alla spedizione, che si apprestava ad attraversare il lembo di terra tra il Mohawk e il Wood Creek. Quel luogo era Deowainsta, il Grande Trasbordo di Canoe. Quattro miglia di boschi, gli averi sulle spalle, le barche trascinate su slitte di legno. Avrebbero impiegato almeno due giorni. E senza il fiume sarebbero rimasti bloccati. – Possiamo scendere giù fino a che non troviamo l’acqua, – suggerì Sakihenakenta. Joseph scosse la testa. – Con il carico è troppa fatica. Se fossero tornati indietro con la notizia che non c’era acqua per far navigare i battelli, parecchi avrebbero rinunciato al viaggio e sarebbero tornati a casa. Joseph non poteva permetterlo. – Non è periodo di siccità. Un fiume non sparisce da un giorno all’altro. Lacroix indicò la montagna. – Ma tronchi e fango possono rapirlo per molto tempo. Peter prese a salire l’argine pietroso. – Allora troviamolo, – disse. La soluzione del mistero giunse un’ora più tardi. Un mulino. Le acque svogliate del fiume scivolavano nella vasca mezza piena. Qualcuno spaccava legna su un ceppo, sul retro della costruzione. I guerrieri si avvicinarono cauti, senza fare rumore. Era un uomo basso e tarchiato, folta barba, un curioso cappello di pelliccia pezzata, bianco e marrone. All’improvviso si fermò, posò l’ascia e si allungò a raccogliere il moschetto. Lo puntò sugli intrusi. – Chi siete? Non siete Oneida. Joseph alzò la mano in segno di saluto: – Siamo Mohawk di Canajoharie, andiamo a Oswego con un convoglio di barche. L’uomo grugnì e strizzò gli occhi senza abbassare l’arma. – Allora siete qui per il fiume. Accento olandese, sguardo miope. Joseph annuì. – Il mulino è vostro? Il mugnaio emise un grugnito d’assenso e lanciò occhiate storte agli altri guerrieri. – Mi chiamo Jan Hoorn. Ci vuole ancora mezza giornata per riempire il bottaccio, a Dio piacendo. Dove siete accampati? – Fort Stanwix. – Allora potete stare tranquilli. Quando avrete finito il trasbordo, il fiume sarà di nuovo in piena da un pezzo. Ditelo a quelli laggiù –. Si appoggiò al ceppo senza abbassare il fucile. – Vi faccio un buon prezzo. Tre scellini a battello. Vanno bene anche polvere, carne salata, farina. Niente rum. Un barile di quella broda non vale un boccale della mia birra. Jethro Kanenonte disse qualcosa in mohawk indicando la cisterna. Joseph si rivolse di nuovo al mugnaio: – Dice che state derubando il fiume. E io penso che abbia ragione. L’olandese grugnì ancora. – L’acqua nel fiume è del fiume. L’acqua nel mio bottaccio è la mia acqua. Il padre di mio padre acquistò questa terra con regolare contratto, nell’anno di grazia 1701. La mia famiglia ha sempre vissuto in pace con gli Inglesi del forte e con gli indiani. Mio fratello ha sposato una Oneida. Non abbiamo mai avuto noie con nessuno, a Dio piacendo. Peter intervenne d’impeto: – Cosa ci impedisce di aprire la diga senza il vostro permesso? Il mugnaio scosse la testa: – Non vi servirebbe a niente. Quando il torrente è in secca bisogna accumulare abbastanza acqua per inondare il letto giù a valle. Noi la raccogliamo nel bottaccio, facciamo andare le macine e cerchiamo di dosarla quanto basta perché le barche possano navigare. Se aprite le paratie adesso, di colpo, riuscite a girare la prima ansa del fiume, ma poi vi ritrovate di nuovo in secca –. Indicò la vasca del mulino. – Troppo poca, vedete? – Abbassò il fucile e sedette sul ceppo. – Quanti battelli avete? Joseph estrasse dalla bisaccia un pezzo di tabacco e ne offrì all’olandese. – Trenta. L’olandese azzannò il tabacco e parlò con la bocca piena. – Quattro sterline, un prezzo di favore. Quasi due corone di sconto. – Affare fatto, signor Hoorn. L’olandese storse la bocca in quello che voleva essere un sorriso. – A Dio piacendo. – Dovete firmare una ricevuta per il Dipartimento indiano. Il mugnaio guardò il foglio e la piccola mina che Joseph gli porgeva come fossero oggetti stregati. Impugnò il lapis e tracciò una grossa X sul pezzo di carta. – Molto bene. Kanenonte rise indicando il berretto dell’uomo. – Cappello buffo, – disse in un inglese stentato. Il mugnaio se lo tolse e lo accarezzò con le mani. – Eh, già, il vecchio Guus. L’indiano offrì il suo coltello in cambio del cappello pezzato, ma l’olandese se lo calcò sul capo con aria risentita. – Nossignore. Mi dovranno ammazzare per togliermelo dalla testa. Era il miglior cane da caccia che abbia mai avuto, sissignore, gli volevo bene. Joseph lo scrutò, forse era più vecchio di quanto sembrasse: mani nodose, pochi denti e vista scarsa. – Vivete solo, quassù? – chiese. L’olandese annuì. – Mio fratello e sua moglie se li è presi la febbre, fanno tre anni a settembre. Il vecchio Guus, invece, me l’ha ammazzato un orso l’inverno scorso –. Toccò ancora lo strano cappello, da cui sventolavano due orecchie flosce. – È un vero peccato, perché mi teneva compagnia ed era proprio come se capisse. Sissignore, capiva tutto quello che gli dicevo, a Dio piacendo. L’orso l’ha aperto da parte a parte, il povero Guus ha sparso le budella fino a casa. Dargli il colpo di grazia mi è costato, ma non c’era più niente da fare. Prima di seppellirlo l’ho scuoiato e con la pellaccia ho fatto questo cappello, per ricordarmi di quanto era in gamba quel cane. Sissignore. E adesso sono rimasto solo a tenere dietro al mulino. L’uomo sembrò ricordarsi di qualcosa. – È vero che c’è una rivolta? Gli indiani si fecero silenziosi. – Potrebbe scoppiare una guerra, – rispose Joseph. – Un’altra? Spero che stavolta sia contro il Massachusetts. Peggio dei Francesi, quelli là. Sempre a parlare di Dio, ma se possono fregarti lo fanno più che volentieri –. Sputò per terra. – Non che quelli di Albany facciano meno schifo. A Dio piacendo, mi tengo il mulino e si scannino pure quanto vogliono. Joseph sorrise. Peter gli fece segno che l’olandese doveva essere matto. Joseph si accorse che Lacroix fissava gli alberi attorno al mulino, il mento appena sollevato. Si avvicinò. – Rientriamo, – disse Lacroix. – Il bosco non è sicuro. Peter avvertì un brivido. Anche sua madre a volte parlava così. Frasi che lasciavano intuire una minaccia indistinta, quindi più spaventosa. D’un tratto ebbe voglia di andarsene da lì. Era stato il primo a salire, fu anche il primo a scendere. 22. Due giorni dopo, Peter trasportava sacchi di farina al punto di raccolta. Il bosco era una distesa di botti e otri, barche e uomini, moschetti e remi, sacchi di pietre focaie, corni da polvere, casse di chiodi, ferramenta. L’imbarco non era ancora iniziato e l’atmosfera era gravida di tensione. Peter poggiò il sacco per terra e si fermò a riprendere fiato. I portatori lo superarono silenziosi, ciascuno concentrato sulla propria fatica. Le ultime barche sarebbero tornate in acqua entro mezzogiorno. Zio Joseph era già sceso al Wood Creek, per controllare che scorresse di nuovo. Aveva portato con sé solo Lacroix. Le braccia dei guerrieri servivano al trasporto. Peter si asciugò il sudore e osservò la radura che si apriva tra le querce. Era puntellata di pietre bianche che affioravano dall’erba e dal pantano. Vide che i portatori si facevano il segno della croce e ricordò una delle storie che gli raccontava suo padre, quella dei cinquecento battellieri del colonnello Bradstreet, morti di fatica durante il trasbordo in un giorno d’estate del 1758. Dopo l’ecatombe la Corona aveva stanziato sessantamila sterline perché John Stanwix costruisse il forte in appoggio a chi percorreva il sentiero. Per un’oscura ragione, da quando Peter era sceso dal mulino l’inquietudine non l’aveva più abbandonato. A questo si aggiunse il pensiero che dovunque, sotto i suoi piedi, dormivano i morti. Raccolse il sacco e desiderò essere molto più leggero. Davanti al fiume ancora in secca non dissero nulla. Affrontarono la salita, silenziosi come spettri. L’aria era afosa, pesante, le camicie impregnate di sudore. In cima al sentiero il mulino apparve nel pieno sole di mezzogiorno. Non si avvicinarono subito, attesero a lungo, chini a scrutare i dintorni. Joseph passò in rassegna un dettaglio alla volta. L’acqua non scrosciava più. Lacroix saltò sull’altra sponda. Salirono fino alla costruzione con cautela, i fucili spianati. Il bottaccio era colmo d’acqua, ma sulla chiusa erano accatastati alberi tagliati di fresco. Attraverso il legname filtravano rivoli d’acqua torbida, che si perdevano a valle. Joseph aveva già visto il sangue macchiare i fiumi. Si avvicinò. L’olandese era a faccia sotto nel bottaccio. L’avevano scalpato. Lacroix sbucò dall’altra parte. Lanciò un’occhiata in basso e si segnò. Presero a spostare i tronchi in preda a un’ansia silenziosa. Joseph si sentiva esposto, un bersaglio facile, mentre faticava per liberare la chiusa. Si formò una cascatella che si tuffò nell’alveo asciutto. Ci sarebbero volute ore perché il livello del torrente si alzasse abbastanza. Avrebbero dovuto pernottare laggiù, tra serpenti e zanzare, con una banda di assassini nei dintorni. Finito il lavoro non si voltarono. Avrebbero dovuto tirare fuori il corpo e seppellirlo da cristiano, ma l’istinto li spinse a raccogliere i fucili e scendere a passo di corsa. I due guerrieri in testa al gruppo si chinarono sulle impronte nel fango. Gli altri restarono sul posto. Poi senza fiatare si disposero a raggiera, lungo la sponda del fiume. Joseph si avvicinò a Lacroix e Royathakariyo, accucciati su una roccia muschiosa, il naso puntato a terra come segugi. – Sono sbarcati qui e si sono inoltrati nel bosco, – Lacroix indicò la direzione di marcia. – Almeno quattro bianchi. Una guida indiana. Si spostano veloci. La foresta era fitta e silenziosa. Solo un frullare d’ali. Gli occhi di tutti erano puntati nel verde. Joseph aveva parlato con Guy Johnson e gli altri del Dipartimento. Se qualcuno li seguiva, bisognava scoprire di chi si trattava. Gli avevano affidato l’incarico di radunare i guerrieri migliori e battere le rive in cerca di tracce. Roteò una mano sulla testa. Il gruppo si mosse evitando i tratti scoperti. Erano quindici, ma davanti a buoni tiratori appostati poteva non essere sufficiente. Ogni tanto Joseph controllava che il nipote lo seguisse da vicino. Peter stava attaccato ai suoi passi, come da consegna. Il ragazzo fremeva, la compagnia dei guerrieri lo inebriava. Al suo fianco Walter, il figlio del capitano Butler, che a detta del padre era un ottimo tiratore. Percorsero circa mezzo miglio. Royathakariyo e Lacroix si acquattarono dietro un masso, le schiene attraversate dalla tracolla dei fucili. Gli altri si ripararono sotto le felci. Joseph sentiva l’odore di Peter alle spalle e intravedeva la punta del suo fucile. Gli fece segno di rimanere dov’era e strisciò fino a raggiungere il macigno. Royathakariyo indicò giù, dove il terreno discendeva ripido. Erano cinque, procedevano in fila. La guida era un Delaware. Portava il vistoso cappello pezzato di Jan Hoorn, con le orecchie flosce sui lati. Joseph si voltò rapido verso i guerrieri e vide Kanenonte armare il fucile. Strisciò vicino a lui e afferrò la canna dell’arma appena in tempo. Guy Johnson era stato chiaro: non accettate provocazioni, non fornite pretesti per attaccarci. Non prima del concilio. Scoprite chi sono, quanti sono, e tornate al campo. Joseph disse tutto senza parlare, ma gli uomini sotto di loro percepirono qualcosa, si scostarono uno dall’altro e spianarono i fucili. Gli occhi del Delaware percorsero il pendio. Joseph e Kanenonte rimasero immobili, ascoltando il proprio respiro. Il drappello riprese la marcia e sparì tra le fronde. Kanenonte piantò gli occhi in faccia a Joseph. – Devono morire. – Possono essercene altri. Gli spari li richiamerebbero. Il giovane guerriero mise l’arma a tracolla e si preparò a seguire i bianchi. – Che vengano. Prima del tramonto ci laveremo nel loro sangue. Oronhyateka affiancò l’amico. Joseph sapeva che se avesse lasciato andare i due giovani, gli altri li avrebbero seguiti. – Non è il momento di combattere. Il giorno verrà, ma non è questo. Kanenonte tratteneva a stento la collera. – Vuoi aspettare che ci sorprendano nel sonno? Joseph guardò di nuovo le facce scure. Royathakariyo sembrava propenso a dare battaglia. Peter stava in mezzo, gli occhi guizzavano da un viso all’altro. Walter Butler osservava senza espressione. Era cresciuto alla scuola del padre e non si sarebbe tirato indietro. Aspettava la decisione del gruppo. Joseph rimase fermo. Si immaginò saldo come un albero, avvinghiato alla terra con profonde radici. Scandì le parole in modo che tutti sentissero. – Niente uccisioni prima del concilio. Oronhyateka prese a camminargli intorno a grandi passi, sibilandogli nelle orecchie. Joseph sentì il fiato sulla faccia. – Chi è Thayendanega per impedircelo? Non è un sachem, non è nobile. È un capo di guerra che si rifiuta di farci combattere. Un capo inutile. Joseph rimase impassibile: – Te l’ho già detto una volta, stai attento a come parli. – Dovrei avere paura di te? Solo perché hai combattuto in guerra? Io dico che è passato troppo tempo e che hai perso il coraggio. Il giovane afferrò il tomahawk. Joseph si preparò a colpirlo con il calcio del fucile, ma Oronhyateka scagliò l’arma ai piedi di Lacroix. – Ronaterihonte ci guidi contro i nemici. Che sia lui il capo di guerra. I sibili cessarono, i rumori della foresta ripresero il sopravvento. Tutti guardarono Lacroix, che fissava la scure piantata nel terreno. La scavalcò e fece pochi passi verso Oronhyateka. Lanciò al giovane un’occhiata noncurante. – Stiamo andando al concilio. Raccogli la tua ascia, seguiremo Thayendanega. Nessuno disse più una parola. La fila si riformò e prese la via del ritorno, Kanenonte e Oronhyateka per ultimi. Peter camminava come in sogno, certo di avere assistito a un evento cruciale, che continuò a ripercorrere nella mente fino all’accampamento. Davanti a lui, zio Joseph e il Grande Diavolo percorrevano il tragitto fianco a fianco. Osservò le loro ombre saettare sottili tra gli alberi. Immaginò fossero quelle di due ragazzi che tanti anni prima avevano seguito suo padre lungo gli stessi sentieri, come adesso lui seguiva loro. Si sentì fiero di quella compagnia. Fiero di essere un guerriero di Joseph Brant, orgoglioso di essere un Johnson. 23. I battelli procedevano in linea tra le anse tortuose del Wood Creek. La corrente si era fatta insidiosa. Guy Johnson consultava la mappa, cercando di proteggerla dagli spruzzi. Appena dodici miglia in linea d’aria, ma ventotto via fiume. Da tempo la Corona avrebbe dovuto finanziare la costruzione di un canale. Era metà pomeriggio. Guy pensò ai nugoli di zanzare che attendevano il buio per assalirli. Erano già ricorsi al grasso d’orso. L’odore impregnava pelle e vestiti, non andava più via. Ora però il puzzo era meno pungente. Ci stava facendo l’abitudine. Pensò ai misteriosi inseguitori. Tagliagole mandati da Albany. Bisognava raggiungere Oswego il prima possibile. Guardò i volti pallidi e spossati di Mary e delle bambine. Quel viaggio era l’occasione di rinnovare le fortune di famiglia. Ripercorreva il cammino di Sir William, non poteva essere un errore. Ricordava bene l’ultima volta che aveva affrontato quella via, l’accoglienza che gli indiani avevano riservato al Vecchio, come fosse il re in persona, il Grande Padre Bianco. Ora aveva con sé i migliori guerrieri, gli ultimi di una grande stirpe; il futuro della discendenza nel ventre della moglie; doni in abbondanza, rum, fucili, polvere da sparo, specchi. La figlia più piccola, Judith, domandò dove finiva il fiume. Guy rispose che sfociava nel lago Oneida dalle acque placide. Sulla superficie si trovavano particelle scure che la gente del posto chiamava «fiori di lago». Nessuno ne conosceva la natura. Chi diceva fosse polline di castagno, chi alghe putride. Qualunque cosa fossero, se mangiate provocavano vomito, febbre e diarrea. La bimba parve spaventata. Guy le accarezzò la guancia e disse che non avevano nulla da temere. Il lago era bellissimo, i pesci lo affollavano in ogni stagione. Bastava infilzare una piuma sull’amo per acchiappare lucci e trote in abbondanza. I salmoni pesavano venti libbre e i pesci volanti avevano ali da fare invidia a un falco. Judith dedicò al padre uno sguardo luminoso. Guy proseguì il racconto. Avrebbero attraversato il lago a vele spiegate, fino all’imbocco del fiume Onondaga. – Un altro fiume? Era la voce di Sarah, la secondogenita. – E un altro lago. Grande come un mare. Tanto grande che non vedi la terra dall’altra parte. Le bimbe rimasero a bocca aperta. Esther, invece, sedeva con le mani in grembo, la schiena dritta, come le avevano insegnato. La pelle aveva il colore di un giglio spuntato tra le rocce. Sostarono in un anfratto del lago, pescatori Oneida offrirono a Mary Johnson una capanna accogliente. Mentre il fuoco asciugava i vestiti, le donne aiutarono Mary a sdraiarsi e l’avvolsero nelle coperte. Sua sorella Nancy mise a letto le nipoti. – Quando arriviamo? – chiese Judith, mentre si sdraiava su una coltre di lana. – Presto saremo al lago Ontario. – E ci saranno tanti indiani? – chiese Sarah. – Più di quanti ne avete mai visti. Esther non ascoltava, teneva gli occhi fissi sulla madre. Nancy percepì la paura della bambina, la accarezzò e la fece sdraiare accanto alle sorelle. – Dormi. La bambina aveva occhi verdi, acquosi. – Ci uccideranno? – chiese senza enfasi. – Ma cosa dici? Gli indiani sono nostri amici e rispettano vostro padre. Quando arriveremo faranno festa. Esther si volse ancora verso la madre, sdraiata in fondo alla capanna. – Ho dei pensieri, – appoggiò la testa sul cuscino di pelliccia. – Me li ha mandati quella donna, Molly Brant. – Dormi, ho detto. – Forse ci ha maledetti, – insistette. La zia le strinse un braccio. – Smettila di dire sciocchezze, spaventi le tue sorelle. Pregate, piuttosto. Un Padre nostro bisbigliato si confuse con il crepitio del fuoco. 24. Spalle in fiamme, muscoli doloranti, vertebre a pezzi, il male al cervello di chi è rimasto concentrato troppo a lungo. Anche per i barcaioli più esperti le ultime ventiquattro miglia del viaggio erano un incubo d’acqua e roccia. Le rapide non davano tregua. Tre Fiumi, Ferro di cavallo, Salto di Braddock, Rapida della Roccia Liscia, Corno del Diavolo, Salto delle Sei Miglia, Piccola Rapida della Roccia Liscia, Barre Storte del Demonio, Corsa dei Cavalli del Diavolo, Salto di Oswego. Per non parlare delle cascate a metà strada: dodici piedi di altezza e un rumore che era l’eco di cento tuoni. Il convoglio le aveva aggirate, coi battelli di nuovo in spalla, carichi di vecchi, feriti, malati e una donna gravida. Un pomeriggio di fine giugno, i tre forti di Oswego erano apparsi alla vista. Sullo sfondo, l’azzurro dell’acqua incontrava il cielo. Fort George era uno scheletro annerito, dato alle fiamme durante la guerra. Poco lontano, i ruderi di un altro forte, rifugio di strolaghe e oche. La piazza d’armi accoglieva le capanne degli indiani giunti per il concilio. Di fronte a ognuna campeggiavano armi, scalpi, trofei di guerra. Un clamore diffuso accompagnava il viavai di uomini e donne: richiami, abbaiare di cani, grida di bambini, mercanti vestiti di pelle strillavano le virtù delle merci. I fuochi si preparavano a rischiarare la notte. Oswego significava «Scorre veloce», ma i ricordi di Joseph erano troppo densi per scivolare via. Sedici anni prima, dalla stessa spianata, era partita la spedizione contro i Francesi. Sir William aveva guidato l’assedio di Fort Niagara. La sua più grande vittoria e il battesimo del fuoco per Joseph e Lacroix. La prima volta che le Sei Nazioni avevano combattuto unite a fianco degli Inglesi. Fort Ontario era ancora in buono stato benché la guarnigione non lo abitasse più da cinque anni. Joseph aveva lavorato lì come interprete. In una baracca del cortile aveva visto la moglie Peggy dare alla luce Isaac, il primogenito. – Fratelli, – la voce di Piccolo Abramo tornò a risuonare nel cortile, dopo una breve pausa. – Le Sei Nazioni sono alleate del re inglese da molte stagioni. Sono amiche della famiglia Johnson, di Warraghiyagey e del suo successore Uraghquadirah, che ormai da un anno cura le nostre faccende e mai ci ha dato motivo di lamentela. Io credo però che non sempre un uomo debba occuparsi delle dispute dei suoi amici. Se tu vieni a dirmi che qualcuno ha bruciato la tua casa, io prendo il mio fucile e ti accompagno sul fiume, anche per molte miglia, per giorni interi, finché tu non avrai giustizia. Ma se litighi con tuo figlio perché la brocca dell’acqua è vuota e vieni da me a chiedere aiuto, io ti dirò: «Va’, torna da tuo figlio e risolvete l’affare tra voi». Se ti seguissi fino a casa, non farei che aggravare il vostro litigio. Fratelli, io credo che il Grande Padre Inglese sia abbastanza autorevole per trattare da solo coi suoi figli ribelli. Non posso dimenticare che tra essi ci sono uomini come Nicholas Herkimer, Philip Schuyler e molti altri che hanno sempre rispettato il nostro popolo, i figli, le figlie, i padri, le madri della nazione, la Lunga Casa e il Sacro Fuoco. Due mesi fa, quando ci dissero che il nostro commissario correva il rischio di essere fatto prigioniero, mandammo subito i guerrieri a difendere la sua casa. Chiedemmo agli uomini più onorevoli dell’assemblea coloniale di garantirci che nessuno avrebbe fatto del male a Guy Johnson. Solo allora scaricammo i fucili. Fratelli, se le terre del re fossero minacciate da un esercito straniero, le Sei Nazioni combatterebbero per difenderle, come hanno fatto in passato. Per ogni colpo alla Lunga Casa, le Sei Nazioni sono pronte a restituirne mille. Ma questo oggi non accade e l’amicizia tra le Sei Nazioni e l’Inghilterra rimane un’amicizia di pace, perché nessuna guerra è stata dichiarata. Fratelli, ho parlato. Il discorso di Piccolo Abramo concluse il primo giro di consultazioni. Guy Johnson aveva chiesto di sentire subito i capi più influenti di ogni nazione, oratori capaci di convincere centinaia di uomini. Nessuno aveva messo in discussione la lealtà alla Corona. Nessuno aveva preso posizione contro i coloni whig. Ridotto all’osso, era lo stesso discorso ripetuto sei volte. Le divergenze che attraversavano la Lunga Casa si celavano dietro sfumature di tono e parole, finezze che gli Inglesi non erano in grado di cogliere. Gli Oneida erano stati i meno amichevoli. La predicazione di Kirkland lavorava in profondità. I Seneca stavano a guardare, per riscuotere doni da entrambe le parti. Tuscarora e Cayuga seguivano i Seneca come cuccioli di lupa. Gli Onondaga, custodi del Sacro Fuoco, avevano rivendicato completa equidistanza. Joseph attese un cenno di Guy Johnson. Il commissario sembrava tranquillo, l’espressione sicura. Si alzò in piedi e cominciò a parlare. Per prima cosa ringraziò gli oratori per la loro schiettezza, poi ricordò Sir William, morto un anno prima proprio durante un concilio. Infine, recitò alcune frasi che suscitarono grande approvazione, cenni del capo e un echeggiare di oyeh da un angolo all’altro del piazzale. Joseph rabbrividì. Erano le parole usate da Sir William per convincere le Sei Nazioni ad assediare Fort Niagara. Facevano parte di Oswego come gli olmi dell’antica foresta e la brezza del lago. Guy Johnson evocava la forza del luogo. Quella che i Mohawk chiamavano orenda. Joseph iniziò a tradurre. Sentì che il commissario aveva toccato le corde giuste e si sforzò di infondere alle parole l’energia di cui era capace. In quel momento, Guy Johnson infilò una mano sotto la giubba ed estrasse un foglio ripiegato con cura. – Fratelli, – riprese, – ho qui una lettera del generale Thomas Gage –. Sventolò il foglio e lo spiegò davanti agli occhi. – Il capo dell’esercito del re mi informa che i ribelli minacciano i territori del Canada. Tutti sapete della caduta di Fort Ticonderoga. Lo scopo dei traditori è soggiogare i possedimenti della Corona. Razzieranno le città, svuoteranno granai e polveriere, giacché essi possiedono a malapena cibo e munizioni, che voi avete ancora in abbondanza grazie alle navi di Sua Maestà. Joseph pensò che l’argomento era buono, per quanto i Seneca non amassero sentirselo ricordare. Poco più di dieci anni prima, ai tempi della ribellione di Pontiac, molti di loro avevano sperato di fare a meno dei bianchi, di tornare all’arco e alle frecce. Ridotti alla fame, s’erano dovuti ricredere. Joseph tradusse, cercando di rendere il concetto meno offensivo possibile. Conosceva fin troppo bene la suscettibilità dei suoi fratelli. – Quelli che voi chiamate figli ribelli, – continuò il commissario, – non sono altro che nemici del re, come lo erano i Francesi. Ecco perché il generale Gage, – di nuovo mostrò la lettera, il braccio teso sopra la testa, – ordina di condurre in Canada una spedizione guerriera. Attaccare da nord e scendere fino ad Albany, per non trascinare oltre questo inutile conflitto. Chi si è appena dichiarato amico del re non può negargli il suo appoggio. Un brusio nervoso serpeggiò tra le teste, a partire da quelli che capivano l’inglese, e subito Joseph si trovò addosso centinaia di occhi. Esitava, incapace di ripetere ciò che aveva ascoltato. L’orenda delle parole non conosce distinzioni di lingua. Tradurre un sortilegio può essere pericoloso quanto lanciarlo. Cominciò a parlare, badando che le frasi uscissero dalla bocca come acqua cattiva da sputare via. Ma per quanti sforzi facesse, il sapore restava attaccato alla lingua. Dalla folla si levarono grida di approvazione, voci troppo giovani per capire cosa stesse accadendo. I guerrieri adulti e gli anziani erano ammutoliti, come se qualcuno si fosse alzato e avesse spento con una pisciata le fiamme al centro del cortile. Il sorriso compiaciuto di Guy Johnson si dissolse. In quel momento Joseph capì. La strategia del commissario era evidente. Incassare promesse e riscuoterle in un colpo solo, grazie a un ordine che pretendeva guerrieri, non parole. Ecco il vero motivo per radunare un concilio a centocinquanta miglia da casa. Difendere il Canada, non le Sei Nazioni. Joseph studiò i volti induriti dei sachem e dei guerrieri anziani. Incontrò lo sguardo di Philip Lacroix. Il Gran Diavolo era impassibile. Qualcuno gli toccò la gamba e indicò il commissario: Guy Johnson aveva ripreso a parlare. – La Corona inglese, – stava dicendo, – non chiede il vostro appoggio senza nulla promettere in cambio. Al termine della campagna, prima dell’inverno, ciascun guerriero riceverà quattro sterline in valuta di New York. Inoltre, il generale Gage promette in modo solenne che, a guerra finita, tutte le terre oggetto di contesa tra voi e i coloni verranno restituite alla Lunga Casa. Qualunque perdita di terre o di beni verrà indennizzata in eguale misura. Joseph finì di tradurre nel silenzio dell’assemblea. In altre circostanze, una promessa simile avrebbe sollevato boati di entusiasmo, ma in quel momento faceva parte di un gioco truccato. Era solo un altro azzardo, per bilanciare il precedente. I sachem si sentivano presi in giro. Joseph masticava fiele. Come capo di guerra, aveva speso migliaia di parole per convincere la sua gente. Bisognava mostrare i muscoli delle Sei Nazioni, così i ribelli avrebbero smesso di ringhiare. Riunirsi lontano da casa, lontano da orecchie indiscrete, malintesi e provocazioni, per poi tornare in forza a difendere la valle. Aveva ricordato loro a ogni passo, a ogni colpo di remo, quanto solido e leale fosse il legame tra i Mohawk e la famiglia Johnson. In cambio, Guy l’aveva reso complice di un trucco maldestro, per forzare la mano al concilio. Joseph tornò al suo posto. Toccava di nuovo ai sachem e al loro interprete designato. Sapeva che i capi non si sarebbero scomposti. Prendere tempo era un’arte che conoscevano alla perfezione. Mentre sedeva, un sussurro gli scivolò nell’orecchio. La voce di Kanenonte. – Il giorno è arrivato, Thayendanega. Samuel Waterbridge avrà la sua vendetta. Noi tutti l’avremo. Joseph sentì di non avere scelta. Se non voleva perdere la faccia, doveva essere il primo a salire sui battelli per il Canada. Doveva parlare agli indecisi, nonostante tutto. Portare ancora acqua al mulino di Guy Johnson. 25. Le lanterne dei pescatori sfilavano sul lago e contendevano il primato agli astri. Oltre le fiamme che ravvivavano l’accampamento, acqua e terra si scambiavano i ruoli. Era il lago a sembrare una cittadina e i villaggi costieri piccole flotte in viaggio. Il concilio volgeva al termine. Una notte di festa e poi, all’alba, ogni guerriero avrebbe scelto per sé. La Lunga Casa non prendeva decisioni che non fossero unanimi e i sachem si erano trovati d’accordo su una cosa soltanto: accettare i regali della Corona e ringraziare per il pensiero. Canti, danze, giochi d’azzardo, racconti di ubriachi, interpretazione di sogni e il cerimoniale comico degli sciamani Seneca. Guy Johnson si sarebbe risparmiato volentieri tutta la trafila. Aveva già fatto i conti: duecento guerrieri era il massimo che potesse aspettarsi. Seneca, nessuno. Mohawk, meno di un centinaio, gli uomini di Brant. Dalle altre nazioni, briciole. Parenti dei Mohawk, amici personali dei Johnson, uomini vincolati da antichi patti o da sogni recenti. Sir William ne avrebbe convinti il triplo con una mezza frase. Ecco perché non poteva andare da sua moglie. Non poteva disertare il rituale. Doveva mostrarsi cortese coi vivi e devoto agli antenati se non voleva arrivare a Montreal da solo. Bisognava tenere caldo il cuore degli indiani. E ancor più le budella. Ottanta galloni di rum, la santabarbara della serata. Vino di Madera, riserva speciale di Guy Park. Sperava di poterlo stappare, brindare alla nascita di un maschio. L’avrebbe chiamato William, per rafforzare l’immagine di una dinastia forte di vita e speranze. Nancy Claus accolse la donna in anticamera. – Dio sia lodato, siete la levatrice? Lydia Devon strinse una mano ossuta, che le ricordò una zampa di uccello. – Sono la sorella della signora Johnson. Venite. I dolori sono cominciati. – Da quanto? – Lydia si tolse il pastrano e seguì Nancy nella stanza da letto. – Un paio d’ore, – rispose quest’ultima tradendo l’ansia. Mary era stesa sul letto, le mani avvinghiate al lenzuolo e il volto tirato. Un’indiana di bassa statura le tergeva il sudore dalla fronte con una pezza bagnata. Nancy la presentò: – Questa è Tabby. Ci ha sempre assistito, in tutti i travagli. Lydia annuì, sistemò borsa e cappotto e si guardò intorno. Un intonaco d’argilla imbiancato a calce rivestiva le pareti di tronchi. L’arredamento era ridotto al minimo. Una stanza angusta e spartana, più adatta al sonno di un mercante di passaggio che ai dolori di una partoriente. Accarezzò il volto di Mary. – State tranquilla, cara. Ci siamo noi. Si rivolse alle altre donne. – Quando è stata visitata l’ultima volta? – Prima che partissimo è venuta la levatrice, – rispose Nancy. – Ha detto che mancavano almeno tre mesi. Non dovevamo fidarci, non ha nemmeno il diploma. Nancy parlava in fretta, mangiandosi le parole. – Il mio diploma sono ottocentoquattordici neonati, – disse Lydia, – senza contare i quattro che ho messo al mondo io. E tu, Tabby, hai figli, vero? L’indiana annuì. – Quanti parti avete avuto finora, cara? – domandò a Mary. – Tre. Tutte femmine, – rispose lei con il fiato che cominciava a spezzarsi. Lydia Devon le allungò una mano sul ventre. – Stavolta è un maschietto. Avete la pancia a punta. La levatrice si inginocchiò sul pavimento, spalmò la mano con olio di lino ed esaminò la paziente. Mary trattenne il respiro. Le pareti della stanza si contraevano a ogni spasmo. – Lo sento, – comunicò Lydia un attimo dopo. Sospiri e benedizioni accolsero la notizia. Mary alzò la testa dal petto e si limitò a gemere. – È bello grosso, vedrete, e siccome stava un po’ stretto s’è messo di traverso, cerca di uscire con la spalla, è per quello che fate tanta fatica –. Si tirò in piedi, prese la mano della paziente e la fissò negli occhi. – Ora, signora Johnson, vi facciamo sdraiare e cerchiamo di girarlo, d’accordo? Intanto Tabby ci prepara un impacco di lana nera, brandy e pepe, trovi tutto nella mia borsa, cara. E farei portare del tè, per rinvigorirci tutte. Ne avremo bisogno. Gli uomini del concilio avevano dato fondo ad altre bevande. I più erano già ubriachi, quando Guy Johnson si alzò, domandò scusa e montò in sella con l’uomo che gli aveva portato il messaggio. Il bambino non era ancora nato, la signora Claus domandava la sua presenza. Appena messo piede a terra, entrò dalla porta secondaria e avanzò di slancio verso la stanza di Mary. Pochi passi e subito rallentò, disorientato. Gli impegni politici non gli avevano consentito di essere presente per la nascita delle figlie; si aspettava grida laceranti, che riempissero la stanza come l’aria una canna d’organo. Ora, davanti al silenzio, non sapeva che pensare. Bussò alla porta, la serva aprì, poi si fece da parte e uscì la padrona. – Come andiamo? – chiese lui. L’espressione sul volto magro di Nancy lo incupì. – Non bene, Guy. Era meglio chiamare il dottore da subito, come l’altra volta. Guy storse la bocca: – Lo sapete che Mary non vuole uomini attorno. – Per questo vi ho fatto chiamare. Se lei sapesse che siete d’accordo, accetterebbe. – Va bene, – sospirò. – Ditele pure che mi avete parlato. E mandatemi notizie. Devo far presenza ancora un poco. Fece per andarsene, ma la voce della cognata lo trattenne. – E del vostro parto non mi date notizie? Ci sarà guerra? – La guerra c’è già. Ma i sachem preferiscono fare finta di niente. In quel momento entrambi notarono tre sagome bianche in fondo alle scale. Le figlie di Guy e Mary erano lì, in piedi. Le lunghe camicie da notte strisciavano per terra. Si tenevano per mano, gli occhi luccicavano nella penombra. – Che ci fate qui? – le sgridò Nancy. – Tornate subito a letto. Le ragazzine non si mossero. Sarah era sull’orlo delle lacrime. – La mamma sta male, – disse con un filo di voce. Guy incrociò lo sguardo vitreo di Esther ed ebbe un brivido. Non seppe cosa dire. Si voltò e lasciò la casa. Nancy le spinse su per le scale, mentre la più piccola iniziava a piangere. – Se volete bene a vostra madre, pregate per lei con quanta fede avete. Mancavano poche ore all’alba quando Guy riprese posto attorno al fuoco. I racconti di caccia e di sogni non finivano mai. Molti giacevano accasciati sull’erba. Scrutò il proprio volto riflesso sul vetro di una bottiglia e gli apparve deforme, mostruoso. Avrebbe voluto che il Vecchio fosse lì, con la sua saggezza, per aiutarlo a partorire il futuro. Avrebbe voluto che il tempo scorresse più veloce. Ora tanta gente sta in questo posto hey nel luogo del nostro raduno comincia quando due si guardano l’un l’altro hey si salutano hey l’un l’altro noi ci salutiamo l’un l’altro oyeh. Heyyouheyyahheyahheyah heyyouheyyahheyahheyah… Figure spettrali danzavano intorno al fuoco, ombre arrossate, girandola di muscoli sudati e piedi battuti sul terreno. Incantato dalle fiamme, Guy respirava effluvi d’alcol che salivano da ogni parte. Al suo fianco, John Butler sussurrava parole incomprensibili. I canti proseguivano senza sosta, accompagnati dai violini di Peter Johnson e Daniel Claus. Allora lui pensò: facciamo la Terra che un po’ di persone ci cammineranno sopra io li ho creati e ora è successo noi ci camminiamo sopra oyeh e in quest’ora del giorno hey rendiamo grazie hey alla Terra. Nei nostri pensieri dev’essere così nei nostri pensieri dev’essere così. Dall’altra parte del cerchio gli parve di vedere occhi scuri che lo fissavano. Joseph Brant, o forse ancora la sua stessa immagine deformata da un gioco di riflessi. Fu soltanto un attimo, poi il vortice dei danzatori riempì di nuovo la notte. Heyyouheyyahheyahheyah heyyouheyyahheyahheyah… La partoriente era accasciata su una seggiola, con un cuscino dietro la schiena e una donna Cayuga a sorreggerla per le ascelle. In piedi davanti a lei, Tabby le massaggiava i fianchi, mentre la levatrice per l’ennesima volta si sforzava di girare il bambino. – State tranquilla, cara, – ripeteva di quando in quando. – Si è girato, è pronto a uscire. I dolori sono regolari, molto promettenti. Con l’aiuto di sant’Anna, la natura farà il suo dovere. Mary Johnson non aveva più forza per sorridere. Il viso gonfio, imperlato di sudore, era fisso in un’espressione di sofferenza e rassegnazione. La fronte scottava di febbre. Intorno alla sedia, le donne si alternavano nell’offrire consigli, ricordi rassicuranti, brodo di pollo e rum. – È arrivato il dottor Savage, signora, – disse una voce da dietro la porta. La levatrice raccolse un asciugamano e andò a pulirsi al catino. Mary fece segno all’indiana di sospendere il massaggio, si abbassò la camicia da notte e pregò la serva di far entrare il nuovo arrivato. Terminate le domande di rito, il dottor Savage chiese chi fosse la levatrice. La donna si fece avanti. – Molto bene, signora Devon. Vi sarei grato se voi e le altre donne voleste spostare la signora Johnson sul letto. Posso chiedervi cosa le è stato somministrato, finora? La donna rispose che aveva applicato un impiastro sullo stomaco della partoriente e cipolle affettate sui piedi, aveva frizionato le tempie con aceto e fatto bere tè, brodo, mezzo bicchiere di rum e uno di sciroppo di verbasco. Il dottore annuì: – Molto ben fatto, signora Devon. Ma temo che avremo bisogno di una terapia più robusta. Estrasse una boccetta dal suo armamentario, ne versò venti gocce su un cucchiaio e si avvicinò al letto. – Ecco, signora Johnson. Questo vi darà sollievo. È laudano e in capo a pochi minuti eliminerà la tensione muscolare in eccesso, che è dovuta a false doglie. – Permettetemi, dottore, – si inserì la levatrice. – Le doglie sono tutt’altro che false, ho toccato la mia paziente diverse volte e… Mary Johnson arrossì. – La prego, signora Devon, non ci mettete in imbarazzo. Anche se fossero vere doglie, come dite voi, è abbastanza chiaro che la mia paziente ha bisogno di recuperare le forze, altrimenti i muscoli saranno troppo deboli per sopportare la fatica. E anche voi, signora Devon, se volete riposarvi un paio d’ore e rimandare queste donne alle loro famiglie, fate pure. Avrò bisogno del vostro aiuto più tardi, quando le doglie riprenderanno. Così dicendo infilò la punta del cucchiaio in bocca alla partoriente e le porse un fazzoletto per asciugare le labbra. Di lì a poco, Mary Johnson dormiva un sonno profondo. Come ogni notte, Philip Lacroix incontrò moglie e figlia. Camminavano insieme, nell’erba alta, fino alla soglia di casa. Loro entravano, lui restava sulla porta a ripulire il fucile. Una volta dentro, si accorgeva che la donna non era sua moglie. Era Molly Brant. E la bimba non era sua figlia, ma una ragazzina bionda. Molly gli andava incontro, slacciava dal polso un bracciale di wampum e lo posava ai suoi piedi. «Per dimenticare è necessario conoscere, – diceva. – Per rinnegare bisogna anche credere. Quando l’hai ricevuto, questo bracciale aveva un valore. Quando l’hai restituito, ne aveva un altro. Salda il conto o perderai l’equilibrio. Non tornare a mani vuote, Ronaterihonte». Detto questo, il bracciale sprofondava nel terreno, spalancando un abisso al centro del capanno. Philip si svegliò madido di sudore e con una strana vertigine. Il sole era sorto e i guerrieri spartivano i doni degli Inglesi. Sulla riva del lago, una flotta di battelli attendeva il carico. Mary si risvegliò alle quattro del mattino. I dolori erano tornati e un improvviso attacco di vomito sembrava dovesse rompere gli indugi facendo nascere il bambino dalla parte dei denti. La donna che la vegliava si precipitò a sollevarle la testa, le infilò un altro cuscino dietro la schiena e chiamò rinforzi. Tabby si levò dalla sedia, seguita dalla levatrice che riposava su un paio di coperte. Subito infilò la cuffia, si unse le mani e controllò la situazione. Per la prima volta dall’inizio del travaglio Mary cominciò a gridare. Non urla vere e proprie, piuttosto un rosario di lamenti, modulati su note gravi e acute. Abbastanza penetranti da svegliare il dottor Savage, sdraiato su una delle panche nell’anticamera. – I dolori sono molto frequenti, – spiegò la levatrice, – ma il bambino non ce la fa ancora. Forse ha il cordone attorcigliato al collo. Tabby, vuoi darmi una mano? L’indiana si avvicinò, fece notare che la signora Johnson aveva una collana e che era meglio toglierla. Con braccia tremanti, la schiena inarcata dalla tensione, Mary infilò le mani dietro la nuca. – Bando alle superstizioni, – le gelò il dottore. – Se c’è rischio di soffocamento occorre intervenire. Con gesto sicuro estrasse il forcipe dalla borsa, ordinò alla levatrice di sistemare le ganasce, si piegò appena sulle ginocchia e cominciò a tirare. Mary pregava, Tabby le asciugava la fronte con un fazzoletto bagnato d’aceto, Lydia Devon, a cavalcioni sul letto, di schiena alla paziente, premeva sulla pancia per aiutare l’espulsione. Il dottore si rialzò, lasciando il ferro in posizione. Sudava. Chiese che gli portassero una pezza, la fece legare stretta allo snodo del forcipe e istruì la levatrice perché tirasse con quella, verso il basso, mentre lui continuava ad agire sulle branche del suo arnese. Lydia accettò con riluttanza. Bevve un sorso dalla bottiglia di rum, si accovacciò e fece come le aveva detto il dottore. Una donna Seneca tracciava segni e simboli sulla pancia di Mary Johnson. Nonostante gli odori che si mescolavano nella stanza – alcol e sudore, febbre e miasmi del corpo, brodo e infusi di erbe – la levatrice distinse subito quello del sangue. Si sollevò di scatto, recuperò la borsa, ci frugò dentro con le mani ancora sporche. Estrasse una grossa siringa e un’ampolla di vetro. La porse a Tabby. – Spalmale questo sui lombi, – ordinò, – bisogna fermare l’emorragia –. Quindi riempì la siringa da una piccola scodella d’acqua, l’unica rimasta pura, scostò il dottore, si inginocchiò di nuovo, estrasse il forcipe, puntò la siringa dentro la donna. – Nel nome del Padre, – sussurrò pompando il primo schizzo d’acqua, – del Figlio e dello Spirito santo. Appoggiò a terra la siringa e allungò una mano sul volto della paziente. Mary Johnson respirava a fatica. La febbre saliva e altrettanto faceva il sole, lento e impacciato, incapace di sfuggire all’abbraccio delle paludi. Joseph avvolse le sue cose in una coperta e la legò con una cinghia di cuoio. Percepì una presenza. Si voltò appena. Lacroix era in piedi alle sue spalle. – Torni a casa? – chiese Joseph. – E tu? – Non sapevo dell’ordine di Gage. Non sei tenuto a seguirci in Canada. Lacroix sedette su una roccia e prese a caricare la pipa con grande flemma. Joseph appoggiò il bagaglio e affiancò l’amico. Nell’anticamera, Nancy Johnson piangeva senza rumore, solo lacrime e sussulti, una mano sulle labbra a frenare i singhiozzi, l’altra a stringere lo stomaco. Appena lo vide, andò incontro al cognato e provò a trattenerlo. – Non entrate, Guy. Non adesso. Lui la scostò col braccio e afferrò la maniglia. C’era soltanto la levatrice, dentro la stanza. Teneva in braccio il cadavere del bambino, avvolto in fasce. Sei piccoli amuleti pendevano dal collo livido e coprivano il minuscolo petto. Anche Lydia Devon piangeva: da quando aveva iniziato il mestiere, le erano morti solo quattro nascituri. Mai una simile disgrazia. Mary era sdraiata nel sangue. Nuda, immobile, il taglio che squarciava la pancia. Guy chiuse la porta di scatto, per scacciare l’orrore. Strinse i pugni e respinse la mano di Nancy. Gli sembrò che il mondo vacillasse. 26. Quando Joseph aveva perduto Peggie, il conforto di chi lo amava aveva attenuato la sofferenza. Molly e Sir William, Tekarihoga e gli anziani del villaggio, Margaret e le matrone del clan, gli amici Sakihenakenta e Kanatawakhon, il reverendo Stuart. Tutti avevano avuto le parole giuste per il guerriero rimasto vedovo. Joseph aveva sognato forte, aveva affidato a Molly i bambini e la vecchia madre ed era partito per Oquaga. Era tornato con Susanna e la vita era ripresa. A Oswego, invece, Guy aveva il burbero conforto di Daniel Claus, John Butler e Cormac McLeod, e un capitale di frasi di circostanza, dono di altri membri della spedizione, da investire nel tentativo di non cadere a pezzi. Joseph pensò a Lacroix, anch’egli padre e marito straziato, reduce da una tragedia ancora peggiore, affrontata in totale solitudine. L’uomo dei boschi non aveva commentato la morte di Mary e del bambino, aveva trascorso ore seduto sulla riva del lago e adesso era lì, tra la folla. Il volto non tradiva emozioni, ma tra gola e sterno doveva avere una tempesta di ricordi. Il funerale della sposa di Uraghquadirah univa le anime della Lunga Casa per un ultimo giorno. La morte di un bimbo destinato a chiamarsi William Johnson, nipote di Warraghiyagey, era un’incudine caduta dal cielo a schiacciare tutto il resto. La disgrazia aveva disperso sospetti e rancori, li aveva spinti da parte. Guy Johnson era solo un capofamiglia colpito da un fulmine, stordito, rimasto con tre figlie e un viaggio da compiere. Joseph e John Butler scavarono e calarono la bara. Tekarihoga e Piccolo Abramo pregarono il Padrone della Vita. Le lacrime di Esther, Judith e Sarah infradiciarono la sottana della zia, Nancy Claus, che piangeva sulla spalla del marito. La levatrice, Lydia Devon, pregava a mani giunte. La fossa si riempiva di terra e Guy Johnson non riusciva ad alzare gli occhi dai propri stivali. Joseph lo guardò e provò pena per lui. I cristiani recitarono il Padre nostro, in inglese, in latino, in mohawk, in oneida. Onwari teconnoronkwanions… Pater noster… ise tsiati ioainerenstakwa… qui es in caelis… Rawennio senikwekon… hallowed be Thy name… La Babele d’Irochirlanda salutò Mary Johnson, seppellita col suo bimbo tra le braccia. Lacroix terminò la preghiera, et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo. Amen, e si segnò. Joseph lo vide avvicinarsi a Guy e appoggiargli una mano sulla spalla. Il commissario sollevò il capo, sorpreso, gli occhi lucidi. Lacroix non disse nulla, non c’era bisogno di parole. L’altro annuì. L’uomo dei boschi si allontanò. Guy inspirò, scosse le spalle come percorso da un brivido, infine si mosse in direzione di Nancy e le bambine. «Oggi le Grand Diable ha scaldato il cuore di un uomo», pensò Joseph. I battelli fendevano le acque placide a vele spiegate, ma il vento non era sufficiente. Bisognava impegnarsi sui remi. Il cielo era limpido, solcato da poche nuvole immobili e bianchissime, riflesse sullo specchio del lago. A bordo nessuno parlava. Guy Johnson sedeva sulla barca di testa, lo sguardo perso nella scia dei remi. Dopo le esequie non aveva più detto niente, nemmeno alle figlie, lasciate a Oswego con la zia Nancy. Sul pontile, Esther aveva guardato i battelli allontanarsi. Le sorelle dormivano, ma lei era sgusciata fuori dalle coperte per vederli partire. Guy le aveva rivolto a fatica un cenno di saluto, senza ottenere risposta. Il primo raggio di sole si era riflesso nei capelli d’oro della ragazzina, mossi appena dal vento. Era rimasta lì, immobile, mentre la nebbia del lago la cancellava piano alla vista. Guy aveva continuato a sentirne lo sguardo, al largo, quasi che gli occhi chiari della figlia potessero raggiungerlo anche lì, o fino in capo al mondo. Aveva pregato a bassa voce per la moglie, per il figlio nato morto e per se stesso. Aveva chiesto perdono a Dio, padre severo che sembrava averli abbandonati. Aveva chiesto perdono a Esther, sforzandosi di comprendere la propria colpa. Si fece coraggio. Aveva una spedizione da guidare e battaglie da combattere. Il Canada era là ad aspettarlo. Doveva sopportare il dolore, il peso sulle spalle e gli scricchiolii del corpo. Andare avanti. 27. – Due tribù si contendevano la Terra. Una abitava a nord del San Lorenzo, l’altra a sud. Il Padrone della Vita, amareggiato per quella guerra, decise di scendere dal cielo con un misterioso bagaglio. La notte era umida, il fumo teneva lontane le zanzare. Peter raccontava la leggenda di Manituana, il luogo dove erano accampati. Gliel’aveva raccontata sua madre, ma non la ricordava bene. Con lui c’erano Walter Butler e tre giovani guerrieri di Canajoharie, venuti durante il turno di guardia con una bottiglia di whiskey trafugata chissà dove. – Il Padrone della Vita srotolò la coperta e dentro c’era una terra di delizie, creata perché tutti vivessero nell’abbondanza e non ci fosse più motivo di combattere. Appoggiò il regalo sulle acque del San Lorenzo, a distanza uguale dalle due sponde, e invitò gli uomini a trasferirsi lì. Per lunghi anni, il popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. Per parlarsi, mescolarono le loro lingue, così che nessuna incomprensione potesse sorgere. Nacquero i primi figli e molti di essi avevano il padre di un popolo e la madre dell’altro. Ciascuna famiglia voleva che i discendenti imparassero anzitutto la lingua e le abitudini degli avi. Così, mentre i figli crescevano e parlavano la lingua bastarda che non era madre per nessuno, la gente del Nord e la gente del Sud ripresero a odiare. Quelli del Sud tornarono al Sud e quelli del Nord al Nord. Soltanto i figli che non erano di nessun popolo restarono su Manituana, mentre i loro parenti si preparavano a combattere, per decidere chi tra loro avrebbe tenuto l’isola. Le grida e i canti di guerra salirono in alto e spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla terra, capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo. Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume. La voce di Peter si fece più profonda, il ritmo delle parole rallentò. – Si levarono onde altissime e i guerrieri schierati sulle sponde morirono tutti. Manituana si frantumò in pezzi, briciole, scogli. Le Mille Isole del San Lorenzo. – E i figli rimasti sull’isola? – domandò uno dei giovani guerrieri. – Che ne fu di loro? Peter guardò la tazza che aveva tra le mani ed elargì il finale a sorpresa. – Quei figli siamo noi. Quando l’isola cadde dal cielo, molti annegarono, altri invece restarono avvinghiati a un brandello di terra e riuscirono a salvarsi. Ma ne avevano abbastanza delle guerre tra Nord e Sud, così cercarono un’altra patria e infine la trovarono, nella valle del Mohawk. I ragazzi di Canajoharie scolarono la bottiglia alla salute di Peter. Toccava a Walter Butler: – Io non conosco leggende indiane, ma posso raccontare la storia di Ethan Allen, il Golia delle Verdi Montagne, l’uomo che ha conquistato Fort Ticonderoga. – La conosci davvero? – chiese Peter. – Me l’ha raccontata mio padre. Conosceva Allen prima che diventasse un fuorilegge. Walter, compiaciuto per aver attirato l’attenzione, attaccò la storia. Ethan Allen era un brigante sanguinario, alto più di sei piedi. Da anni spadroneggiava sulle Green Mountains, che un tempo facevano parte del New Hampshire. Poi quella terra l’aveva comprata la colonia di New York e ci aveva mandato i suoi coloni. Allen era un coltivatore che non voleva pagare le tasse a quelli di Albany, perché li odiava. Aveva sparato sui nuovi arrivati, aveva reclutato una banda di criminali, i Green Mountain Boys, e si era proclamato «colonnello». Il re in persona aveva messo una taglia di trecento sterline sulla sua testa. Lui ne aveva offerte cinque per chi gli avesse consegnato il governatore. Il padre di Walter lo considerava il più pericoloso bandito d’America. Quando i whig avevano sparato contro l’esercito a Lexington e Concord, e subito dopo avevano preso d’assedio Boston, Allen aveva capito che poteva allearsi con loro. Quelli ce l’avevano col governatore del Massachusetts, lui con quello di New York. Il suo scopo era proclamare le Green Mountains territorio indipendente, e con l’aiuto dei Bostoniani poteva riuscirci. Così era diventato whig anche lui. Avevano preso Fort Ticonderoga mentre la guarnigione era ubriaca. Ethan Allen aveva gridato: «In nome del Grande Jehovah e del Congresso continentale, io prendo possesso di questo forte!» I Green Mountain Boys erano entrati puntando i fucili. Come quando i Greci erano entrati a Roma nascosti in un grande cavallo di legno, solo che il cavallo di legno non c’era. I Greci a Roma? Peter stava per obiettare, quando udì un rumore di frasche. – Hai sentito? – chiese Walter voltandosi di scatto verso la boscaglia. Balzò in piedi con il fucile in pugno e la faccia pallida. La vista di una figura nota lo tranquillizzò. – Signor McLeod, – disse. Gli rivolsero un saluto discreto, mentre lo scozzese entrava nel cerchio di luce. – Tre bastardelli hanno grattato una bottiglia dalla mia riserva. Li hanno visti che salivano da queste parti. Peter si guardò intorno con imbarazzo. I ragazzi indiani erano spariti. – Da qui non sono passati, – si affrettò a dire Walter. – Possiamo offrirvi del tè, – propose Peter. McLeod grugnì un ringraziamento. Sedette e lanciò un’occhiata dietro le spalle. – Non siete i soli a fare la guardia stanotte. C’è anche quell’indiano, – indicò il buio. – Lacroix. Peter si voltò, come potesse vedere attraverso le tenebre. – Dove? – chiese. – Laggiù, seduto al buio. – Impossibile, – commentò Walter. – Non l’abbiamo visto e nemmeno sentito. – Già, – annuì McLeod afferrando la tazza, – come non avete visto quei tre ladruncoli, eh? Walter fece per ribattere qualcosa, ma fu di nuovo lo scozzese a parlare. – Ci ho quasi sbattuto contro. Immobile come il tronco di un albero. – È un tipo strano, – si affrettò a dire Walter. – Com’è che lo chiamano? – I nemici lo chiamano le Grand Diable, – rispose Peter. – Per via di una vendetta, ho sentito dire. – È una storia di molti anni fa, – disse McLeod. – La conoscete? L’uomo rimestò il fuoco con un bastone. – Tornato dalla guerra, si sposò e andò a ovest a cacciare, con moglie e figlia. Un giorno arrivò a casa e trovò la famiglia massacrata –. La voce di McLeod arrochì: – Indiani Huron, sbandati e ubriachi. Reietti che le tribù avevano allontanato –. Sputò per terra. – Le avevano scannate come bestie. Tacque. Il crepitare delle fiamme era l’unico rumore netto, nel coro di fruscii degli animali notturni. Peter volle conoscere come finiva la storia. – Stette via un inverno intero. Tornò a primavera con ventisette scalpi in un sacco. Peter serrò la mascella. – Li ho visti con i miei occhi, – disse l’altro, la voce ancora più roca. – Sono sepolti vicino alla tomba delle sue donne. McLeod si alzò. – Signori, grazie per il tè. Buona guardia. L’uomo si allontanò, i due giovani restarono in silenzio. Walter disse che avrebbe fatto il secondo turno e si avvolse nella coperta. Peter scrutò le tenebre. Immaginò la superficie del lago, mare nel cuore del continente. Le storie di quella notte parlavano tutte di guerra e gli ricordarono che presto avrebbe combattuto, al fianco di grandi guerrieri. Mentre ripuliva il fucile, pregò di essere all’altezza. 28. Dalle rive del San Lorenzo spiravano odori d’estate, l’aria aperta disperdeva i miasmi che provenivano dai battelli. Il sole offriva ancora luce e presto la rapida di La Chine avrebbe messo alla prova il convoglio. Joseph scrutava il profilo delle sponde, cercando appigli per la memoria, visioni vecchie di quindici anni, quando aveva solcato quelle acque per la prima volta. Osservò il profilo d’ombra disegnato dallo scafo e notò che anche Philip faceva lo stesso. Il volto del cacciatore solitario fluttuava nella corrente. La guerra contro la Francia era durata sette anni, ma la loro giovane età aveva consentito di prendere parte soltanto alle ultime imprese di Sir William. La cattura di Fort Niagara, dove avevano avuto il battesimo del fuoco, e la presa di Montreal, l’ultimo baluardo francese in America. I Francesi sapevano che ormai la guerra era perduta e la città si era arresa senza opporre resistenza. Eppure il pericolo più grande lui e Philip l’avevano corso allora, mentre percorrevano quel fiume. Si erano salvati insieme ed era stato l’inizio della loro amicizia. Joseph si accorse di stringere il remo più del necessario. Una presa rigida, contratta, che la spalla cominciava ad accusare. Si sforzò di sciogliere i movimenti e continuare a remare. Immaginò che anche Philip stesse ripercorrendo il sentiero dei ricordi. Avevano diciassette anni, ma quella volta non si era trattato di lanciare insulti e sparare da dietro un albero in attesa che i guerrieri risolvessero la questione. Quella volta l’odore della paura e della morte era entrato in profondità attraverso le narici, scendendo nella pancia e risalendo fino in gola. Erano in avanscoperta insieme a due guerrieri esperti, gente che aveva combattuto sotto l’ala di Hendrick, uccisori d’uomini, rispettati da un capo all’altro della Lunga Casa. Il generale Amherst, che guidava la spedizione, temeva che le tribù alleate dei Francesi progettassero un attacco sulla rapida. Sir William si era offerto di mandare una canoa in perlustrazione. Era un incarico importante, Joseph ricordava d’aver provato orgoglio. Dovevano sbarcare e pattugliare la riva, controllare se qualcuno avesse lasciato segni o tracce sul sentiero che costeggiava la sponda destra del fiume. Quando la canoa si era avvicinata alle rocce, il guerriero a prua aveva fatto cenno di fermarsi. Silenzio, soltanto lo sciabordare dello scafo e il rombo della rapida più a valle. Joseph aveva avuto solo il tempo di sfiorare il fucile, prima che tutto accadesse. All’improvviso, demoni feroci erano sorti dal fiume, nascosti da ammassi di alghe. I guerrieri a prua e a poppa erano stati trascinati giù, in un abbraccio che non lasciava scampo. Joseph aveva visto specchiata la propria paura nel volto dell’amico. Poi Philip s’era scagliato fuori dalla canoa con un grido di guerra. Lo aveva visto avanzare nell’acqua fino al ventre e sfidare gli Abenaki. Quelli avevano ghignato, non era che un ragazzo, trovavano la cosa ridicola, divertente. Nondimeno si apprestavano a ucciderlo. Joseph aveva contato i fucili dei guerrieri rimasti sul fondo della canoa. Quattro con il suo. Poi aveva fatto lo stesso con i nemici. Non doveva sbagliare. Aveva abbattuto il primo con un colpo in pieno petto, senza lasciargli il tempo di avvicinarsi a Philip. Il secondo era riuscito solo a ferirlo al fianco, ma ci aveva pensato Philip a finirlo col tomahawk. Il terzo e il quarto si erano scagliati contro il giovane Mohawk accecati di rabbia. Joseph ne aveva colpito soltanto uno, alla testa. La lotta tra Philip e l’ultimo avversario era durata pochi respiri, che a Joseph erano sembrati eterni. Poi l’amico era emerso dall’acqua brandendo il coltello. Aveva una vistosa ferita al costato. Un passo più in là l’avversario cercava di rimettersi in piedi, mentre si tamponava un taglio al braccio, profondo fino all’osso. Mentre si ritirava verso il bosco, li aveva maledetti nella sua lingua e in francese, incredulo d’essere stato battuto da due ragazzi. Ancora furente di paura, Philip si era gettato all’inseguimento. A Joseph non restavano più colpi in canna. Ricaricare avrebbe richiesto troppo tempo. Come in sogno, gli occhi della mente avevano osservato il corpo saltare nell’acqua e correre a ginocchia alte verso la riva. Li aveva raggiunti tra gli alberi. Aveva dovuto strappare via Philip dall’avversario, che ancora si dibatteva sotto i colpi di coltello. Nonostante la ferita, Philip era un fascio di nervi e muscoli pronti a scattare, o a sciogliersi non appena le forze fossero mancate. Senza pensare, Joseph aveva guardato il volto del guerriero moribondo e alzato il calcio del fucile. Il rumore delle ossa del cranio che si spaccavano gli era entrato nelle orecchie per non uscirne più. Quando erano tornati alla canoa, la piccola insenatura era rossa di sangue e la corrente cullava i corpi inerti dei caduti. I due superstiti si erano guardati senza parole. La ferita di Philip era profonda. Dovevano tornare in fretta al convoglio. Un solo paio di braccia per pagaiare, trasportare i corpi dei compagni, sperare che il grosso dei nemici fosse lontano. In quella situazione, sparare non era stato saggio. Ma dai giovani non ci si aspetta saggezza. Joseph aveva remato con la forza della disperazione, ansioso di vedere spuntare il profilo di scafi amici. Lo scontro era avvenuto nell’acqua, ma il sangue impregnava tutto. Anche il loro spirito. La corrente dei ricordi lasciò spazio alle immagini del presente, un altro convoglio, un’altra guerra. Joseph guardò ancora Philip che remava. Pensò che doveva esserci un senso nel ripetersi di quel viaggio. Era come tornare dove tutto aveva avuto inizio. 29. L’isola di Montreal apparve nel pieno sole di luglio. L’isola di Gesù, il secondo pilastro della porta del Canada, faceva capolino alle sue spalle. Le acque del San Lorenzo si dividevano su un triplo percorso, attraverso strettoie facili da difendere, per ricongiungersi più a nord. Peter Johnson aveva ascoltato i racconti di quel viaggio tante volte da riconoscere ogni particolare, come fosse già stato lì. Sulla sponda orientale, fili di fumo tra gli alberi rivelavano il villaggio dei Caughnawaga, che un tempo erano stati Mohawk rinnegati, alleati dei Francesi. Dalla spiaggia, donne e bambini osservavano i battelli. Superata l’ansa del fiume, l’isola maggiore si dispiegò alla vista in tutta la lunghezza. La collina era disseminata di appezzamenti e orti che digradavano fino alla città, ben stretta tra i bastioni. Il campanile della chiesa di Notre-Dame svettava sull’abitato. Peter avrebbe voluto dire qualcosa, condividere un commento che esprimesse l’entusiasmo per essere arrivati alla fine del viaggio, forse anche sparare in aria per annunciare il loro arrivo. Ma per molti l’avvicinarsi alla meta era tutt’altro che gioioso, a causa del lutto che si era abbattuto sulla spedizione e dei pochi guerrieri che li seguivano. Il silenzio dominava i cuori. Guy Johnson sedeva sul battello di testa, tetro e taciturno, insieme agli uomini del Dipartimento. Zio Joseph non aveva più detto nulla da quando avevano lasciato Oswego. Gli altri guerrieri non consideravano Peter abbastanza adulto per concedergli di chiacchierare con loro. Inoltre aveva trascorso gli ultimi anni a Philadelphia, immerso negli studi, e condotto una vita troppo diversa. Nell’ultima tratta del viaggio, non fosse stato per Walter Butler, Peter non avrebbe avuto con chi scambiare due parole. Ma Walter vogava sul battello del Dipartimento, accanto al padre. Peter si rassegnò a tenere per sé l’emozione e pagaiò più forte. Una volta, a New York, Peter aveva visto le truppe di Sua Maestà schierate in parata. Adesso, a un passo dalla guerra, l’effetto era molto diverso. Sulla Place d’Armes, di fianco alla chiesa, la guarnigione cittadina li accoglieva al rullo dei tamburi. Peter era abbagliato dal rosso scarlatto delle uniformi, ripreso negli stendardi. Il governatore Carleton attese la delegazione al centro dello spiazzo e insieme salutarono la bandiera. Guy Johnson e Daniel Claus, rigidi davanti alla Union Jack, non tradirono la stanchezza. Seguirono il cerimoniale fino all’ultimo, quando venne dato l’ordine di rompere le righe e tornare ai compiti di presidio. I soldati si dispersero rapidi in piccoli gruppi. – Combatteremo insieme a loro? – chiese Peter. Joseph gli toccò la spalla. – Non solo, mi auguro. Siamo pochi per tenere la città. Il ragazzo notò l’ombra che attraversava lo sguardo dello zio. Non chiese altro. Il governatore Carleton lesse il messaggio con attenzione, le pupille che guizzavano da una parola all’altra. Quindi ripiegò il foglio e con un gesto stanco lo restituì a Guy Johnson. – Il generale Gage ha sempre un pensiero per tutti. La voce era strascicata. Guy pensò che somigliava a quella di un malato. Scambiò un’occhiata con Daniel Claus, seduto accanto a lui, e attese. Il governatore allungò le gambe sotto il tavolo, lasciando che il ventre premesse contro il bordo di legno. Riccioli grigi incorniciavano un volto glabro e sudato, rughe da pensatore increspavano la stempiatura incipiente. Con un gesto fece portare da bere. – Fa molto caldo, non trovate? Vuotò un bicchiere di liquido giallastro e nettò le labbra carnose con un fazzoletto di pizzo. Johnson e Claus tacquero ancora. Era vero, nell’edificio dell’Intendenza c’era afa e puzzo di chiuso, la luce entrava da una sola finestra. Sudavano sotto le giubbe di lana. – Vi manda qui per difendere il Canada. Certo –. Carleton annuì tra sé. – Che diavolo ne sa Gage del Canada? È barricato a Boston da tre mesi e pretende di dirigere le operazioni militari. Batté il bicchiere sul tavolo e un attendente si affrettò a riempirlo di nuovo. – Sapete, gli ho mandato i miei reparti migliori. Adesso sono costretto a tenere le posizioni con poche migliaia di uomini, su un territorio grande dieci volte l’Inghilterra, mentre lui se ne sta rintanato –. Le ultime parole furono mormorate tra i denti. Con uno scatto della mano srotolò una mappa sul grande tavolo e fece cenno ai due di guardarla, cosa che lui non ebbe bisogno di fare. Johnson e Claus allungarono il collo. Il bacino del San Lorenzo era riprodotto in tutta la lunghezza, dal lago Ontario all’oceano. Carleton stese di nuovo le gambe. – A Londra non riescono a capire, – parlava a se stesso ora, sguardo in aria, mani incrociate sul ventre. – È chiaro che sfugge loro la natura del problema, – fece scorrere l’indice sul bordo della mappa. – Le dimensioni di questo continente. Sospirò. Guardò i due gentiluomini come si accorgesse della loro presenza per la prima volta. – Abbiamo un compito difficile. Civilizzare un immenso territorio selvaggio e ostile. Un fardello pesante da portare, sì. Eppure qualcuno deve farlo –. Asciugò il sudore che imperlava la fronte. – Fa molto caldo, vero? Fece di nuovo riempire i bicchieri e sorseggiò la bibita con aria distratta, ascoltando i rumori indistinti che giungevano da fuori, mescolati al ticchettio della pendola in fondo alla stanza. – Ho chiesto rinforzi dall’Inghilterra, ma finora niente. Ho anche provato a reclutare questi contadini francesi. Inutile, ci considerano ancora degli occupanti, non combatteranno mai per Giorgio III. Fissò i due in silenzio, serio, in attesa della risposta a una domanda implicita. – E adesso Thomas Gage manda voi, insieme a duecento indiani, – stirò un sorrisetto. – Che capolavoro. Forse pensa che dovrei fare come Leonida alle Termopili. Johnson e Claus erano statue di sale inchiodate alle sedie. Guy sentì montare la rabbia, mista a una cupa frustrazione. – Possiamo reclutarne un migliaio, – intervenne gelido – Se solo Vostra Eccellenza ce lo consente. Con un’armata indiana potremmo scendere incontro ai ribelli e bloccarli sul lago Champlain. Riconquistare Fort Ticonderoga. Ricacciarli da dove sono venuti. Carleton ascoltava impassibile. Daniel Claus si protese in avanti. – Con rispetto parlando, Eccellenza, svolgo il compito di commissario per gli indiani canadesi da molti anni. Lasciate che organizziamo un concilio anche qui. Ho buone ragioni di credere che le tribù di questi territori combatteranno dalla parte del re. Il governatore forzò un colpo di tosse. – Non mi risulta che voi, signor Claus, né voi, signor Johnson, abbiate alcun titolo per svolgere il compito di commissari del Dipartimento indiano. Il tedesco ammutolì, Guy intervenne con un tono di voce appena più alto di quanto l’etichetta richiedesse. – Il defunto Sir William Johnson ci ha designati suoi successori. – Come certo saprete, – ribatté freddo Carleton, – le nomine del Dipartimento sono prerogativa del ministro delle Colonie. Guy si sentiva stanco, provato dal lutto recente e infastidito dalla testardaggine di quell’uomo. Ebbe la tentazione di mandare al diavolo tutto, alzarsi e tornare a casa, abbandonarsi agli eventi anziché accanirsi contro di essi. Scacciò la sensazione con un respiro profondo. – Eccellenza, per vostra stessa ammissione, avete pochi soldati per difendere Montreal. E se Montreal cade, i ribelli avranno la strada libera fino a Québec… Carleton lo interruppe ancora: – Se siete così convinto che gli indiani ci presterebbero ubbidienza, ditemi, cosa pretenderebbero in cambio? – Regali. E la conferma di quanto abbiamo promesso a Oswego. Carleton sollevò un sopracciglio che valse più di un punto interrogativo tracciato sulla carta. – Che i combattenti per la Corona verranno risarciti di ogni perdita territoriale. – Ah, – disse il governatore. – Niente meno. Ondeggiò sulla sedia, ma non aggiunse altro. Guy intravide un varco e decise di sfruttarlo. – Non vi chiederanno di metterlo per iscritto. Sarà sufficiente che Vostra Eccellenza lo dica davanti ai capi di guerra. La pendola, lo scricchiolio dei carriaggi sulla piazza, il passo di marcia della ronda, schiamazzi di bambini. La luce calava, il sole indorava i contorni delle cose. Carleton annuì, con movimenti del capo grevi e lenti. – Ora vi dico cosa farò. Vi lascerò organizzare questo concilio. Radunate tutti i guerrieri che potete. I ribelli temono gli indiani almeno quanto li temo io. Avranno paura e forse non ci attaccheranno. Comunque ci farà guadagnare tempo. Tuttavia vi faccio obbligo di restare entro i confini canadesi. Non scenderete al di sotto del quarantacinquesimo parallelo, aspetterete che i ribelli lo oltrepassino per ingaggiarli in battaglia. – Eccellenza… – tentò d’intervenire Guy Johnson, ma la mano alzata del governatore lo costrinse a tacere. – Signori, io qui rappresento Sua Maestà. Sir Guy Carleton non entrerà negli annali per avere scatenato i selvaggi contro dei sudditi inglesi, anche se si tratta di traditori. Costoro dovranno pendere da una forca dopo un processo per alto tradimento, non essere sgozzati e scalpati in mezzo alla foresta –. Fissò entrambi a lungo negli occhi. – Questi sono i miei ordini. Attenetevi a essi senza eccezioni. 30. Montreal, 5 settembre 1775 Onorato Sir John, i messaggeri che ho inviato da Oswego vi avranno ormai dato notizia della morte di mia moglie e della creatura che portava in grembo. Una perdita incommensurabile per me e un segnale nefasto per la spedizione, che, ne sono convinto, da questa tragedia ha riportato un’indelebile aura di sventura. La malasorte infatti non ci ha più abbandonati. Lasciate che illustri i fatti degli ultimi mesi e giudicate voi stesso. Siamo giunti in Canada alla metà di luglio con soli duecento guerrieri, ricevendo un’accoglienza piuttosto fredda da parte del governatore, il generale Carleton. Della sua antipatia per la nostra famiglia eravamo già a conoscenza, ma non ci aspettavamo che scoraggiasse un’iniziativa atta a portargli soccorso. Si trova infatti sprovvisto di truppe, avendole inviate di rincalzo al generale Gage a Boston, e sotto minaccia di un’invasione da parte dei ribelli whig. Ho tentato di spiegare a Sua Eccellenza che il generale Gage ha pensato bene di ricambiare inviando noi, con gli irregolari indiani, in appoggio del Canada, ma l’argomento non ha ottenuto su di lui alcun effetto. Tuttavia ha acconsentito a confermare agli indiani le promesse fatte a Oswego dal sottoscritto in cambio dell’appoggio alla nostra causa, vale a dire il risarcimento da parte della Corona di ogni territorio perduto in caso di conflitto con i whig. Abbiamo avuto premura di fargli contrarre l’impegno davanti a un concilio di tribù canadesi, indetto per l’occasione dal nostro fidato Daniel Claus. Tra i circa duemila convenuti le promesse di Carleton hanno suscitato grande impressione, ma si sa che l’entusiasmo degli indiani è di breve durata, se non trova sbocco in un agire rapido. Purtroppo la diffidente titubanza del governatore nei confronti degli indiani si è rivelata un ostacolo difficile da sormontare più di qualsiasi rapida o stretto passaggio incontrato per arrivare qui. Non si fida degli indiani e non vuole che combattano da soli, per timore di perderne il controllo e di essere accusato d’efferatezza. È ferma volontà di Sua Eccellenza che i nostri guerrieri combattano insieme alle truppe regolari in reggimenti misti, sotto il comando di ufficiali britannici. L’ordine ricevuto è stato di tenere la posizione e attendere l’offensiva dei ribelli o l’arrivo di nuovi contingenti dalla madrepatria. Le conseguenze sono presto dette. Una lunga estate di inattività è stata più che sufficiente a fiaccare il morale e a fare ripartire per le proprie case la maggior parte dei guerrieri. A questo bisogna aggiungere che i ribelli whig non hanno perso tempo nel tentare di corrompere le tribù, comprando a peso d’oro la loro neutralità. I Caughnawaga si sono lasciati convincere per trecento sterline. Più grave ancora è che una settimana fa è giunta al nostro accampamento una delegazione Oneida, consigliando ai guerrieri di firmare la pace con i ribelli di Albany e riferendo che i Mohawk di Fort Hunter l’avrebbero già fatto. Se ciò corrispondesse a verità la nostra valle e i nostri possedimenti sarebbero esposti a un grave rischio, senza alcuna tribù indiana disposta a difenderli, e voi e la vostra famiglia sareste in pericolo. Con il cuore greve per queste notizie stavamo risolvendo di tornare indietro in gran fretta, quando ci ha raggiunti la notizia che i ribelli hanno ripreso l’avanzata verso nord. Da Fort Ticonderoga risalgono il lago Champlain. Li guida Montgomery, che ricorderete come ufficiale del generale Amherst nella guerra franco-indiana. È irlandese come noi, Sir William vostro padre lo conosceva bene e oggi sarebbe sorpreso di trovarsi a combattere contro un vecchio commilitone. Ancora non sappiamo quanti uomini Montgomery porti con sé, ma la notizia ha spinto il governatore Carleton a mobilitare gli indiani, purché sotto la responsabilità di un ufficiale. Si è offerto Butler. Mentre vi scrivo conduce i guerrieri oltre il San Lorenzo, fino all’avamposto di Fort St. Johns, il primo ostacolo che i ribelli troveranno sulla loro strada. I nostri Mohawk sono con lui. Inutile dire che il morale dei membri del Dipartimento è piuttosto basso. I combattenti a nostra disposizione sono pochi, non si ha ancora notizia di rinforzi dall’Inghilterra, ed è fuor di dubbio che Montreal non resisterebbe a un attacco in forze. Il nostro apporto alla difesa del Canada è tutt’altro che determinante. Ho quindi intenzione di adoprarmi per organizzare il ritorno non appena sarà possibile. Poiché l’incertezza per ciò che potrebbe accadere a casa ci lascia in balia di una profonda angoscia, vi prego di inviarmi notizie dalla colonia quanto prima. Nella speranza di ricongiungerci presto e augurandovi ogni bene, rimango il Vostro devoto cognato, Guy Johnson 31. Attorno al danzatore, bianchi e indiani battevano le mani. La melodia delle cornamuse e il ritmo serrato del tamburo parevano arrivare da sottoterra, sepolti dal frastuono e dalle grida d’incitamento. L’uomo al centro dell’attenzione saltellava alternando le gambe, ginocchia alte, mano destra sollevata sopra il capo, mano sinistra sul fianco. Indossava il cappello tradizionale della sua gente, quello che gli Inglesi chiamavano con disprezzo «merda-in-testa». Il kilt e i calzettoni a losanghe erano rimasti a casa, in un piccolo podere di proprietà dei Johnson. Fin dall’attacco, Peter aveva riconosciuto la musica, una marcia. I passi, invece, erano indecifrabili. Più che danza era un gioco di gambe per disorientare l’avversario e sorprenderlo con un colpo di daga. Stese sull’erba ingiallita dal sole, due spade formavano una croce. Peter conosceva la sfida, consisteva nel battere i piedi accanto alle lame, ora in un quadrante, ora nell’altro, senza mai pestarle. Non un semplice gioco, con il consueto corollario di scommesse: ballare sulle spade era uno dei tanti modi per ottenere auspici. I Mohawk ne erano entusiasti. Suo padre giurava che la Danza di Guerra delle Highlands, e non gli estenuanti concili, avevano persuaso le Sei Nazioni a combattere i Francesi. «Non c’è da stupirsi, – diceva. – Gli Scozzesi sono i più indiani tra i popoli d’Europa». Il tamburo divenne incalzante: i musicisti davano prova di entusiasmo guerriero. Le grida si unirono in coro. Peter guardò il danzatore: volava, sospeso a un pollice da terra, i piedi talmente veloci da galleggiare sulla polvere. Un guerriero capace di muoversi in quel modo doveva essere un bersaglio impossibile per chiunque. Il cerchio di spettatori si strinse. Gli Highlander avanzavano con lunghe falcate sospese, a passo di danza. Gli altri si sforzavano di imitarli. Sembrava un esercito in marcia che accerchia minaccioso l’ultimo nemico rimasto in piedi. In realtà, si avvicinavano per controllare meglio che il campione non pestasse i ferri. Se ci fosse riuscito, l’indomani avrebbero respinto l’assalto dei ribelli e il battesimo del fuoco di Peter sarebbe culminato in una vittoria. La polvere offuscava la vista delle spade. Il crepuscolo estivo ammorbidiva linee e contrasti nella piazza d’armi di Fort St. Johns. Anche le sentinelle sui bastioni tendevano l’orecchio alla musica, che si spinse nell’ultimo, furioso galoppo. Ci fu un sussulto collettivo, poi le voci tacquero, le mani smisero di battere e indicarono la croce ai piedi del danzatore. Tutta la prima fila tremò di battibecchi e contestazioni, poi quella dietro e dietro ancora. Il cerchio d’uomini trattenne il fiato. Nel silenzio improvviso, Cormac McLeod avanzò verso il ballerino, che attendeva sull’attenti, di fronte alle spade. Il gran capo degli Scozzesi si inginocchiò solenne di fronte alle lame incrociate, soffiò nella polvere, poi alzò lo sguardo sul guerriero. McLeod impugnò le armi, le sollevò alte in forma di croce e per tre volte batté le spade l’una contro l’altra. – Bualidh mi u an sa chean, – urlò a pieni polmoni. – Bualidh mi u an sa chean, – ripeterono gli Highlander in un boato d’esultanza, si gettarono sul loro campione e lo portarono in trionfo sopra le teste. Sullo spiazzo rimasero gli indiani, ancora perplessi sul risultato della danza, della battaglia e delle scommesse. Vespero già riluceva accanto alla luna. Peter respirò l’aria della notte. Non aveva mai veduto un edificio più antico, nemmeno ad Albany, nemmeno a New York. In realtà il forte era stato ricostruito di recente, ma la palizzata, già ricoperta di muschio, sembrava sorgere dalla terra da prima dell’inizio dei tempi. La bandiera britannica sventolava pigra in mezzo al fumo dei fuochi, i colori spenti dalla notte la facevano apparire bianca e nera. Il giorno addietro, una salva di hurra aveva salutato il loro arrivo dagli spalti del forte. La guarnigione era sparuta. L’84esimo reggimento, i Royal Higlander Emigrants, era in realtà poco più che un battaglione. Reclutati a Boston, New York, Canada, Nuova Scozia. Gente appena arrivata sul suolo americano: pescatori di Terranova, coloni dalla Carolina, sbarcati con ben altre speranze, avevano deciso in fretta da che parte stare. Soldati nella divisa verde dei reggimenti canadesi: quella rossa con kilt, sciabola e pistola gli era stata promessa, ma non era ancora arrivata. Ora il forte brulicava d’attività e preparativi. Si riempivano i corni di polvere, si pulivano i fucili. McLeod affilava la lama della spada sulla fresa. Nessuno avrebbe dormito prima della battaglia, solo poche ore di incoscienza, per raccogliere le forze e farsi trovare in piedi all’alba. Peter di certo non avrebbe chiuso occhio. Alla fine il momento era arrivato. Quel pomeriggio zio Joseph e John Butler avevano studiato il piano di battaglia. I ribelli si aspettavano di trovare un piccolo contingente barricato dentro il forte, invece loro li avrebbero aspettati lungo il fiume. Le guide sostenevano che il posto migliore era una strettoia poche miglia a sud, dove la corrente avrebbe rallentato l’avanzata dei nemici. – Gli Scozzesi hanno ballato le loro danze, – sentì la voce dello zio proprio dietro l’orecchio. – Tocca alle nostre. Peter gli sedette accanto ed estrasse uno specchietto. Senza parlare, cominciò a dipingere il volto in larghi riquadri rossi e azzurri, mentre Joseph finiva di pulire la propria arma con lo stantuffo e uno straccio insaponato. – Dicono che lo scalpo è l’essenza di un uomo. Ma io dico che l’essenza di un uomo è il fucile. La parte più intima del fucile è cava, vuota. L’anima dell’uomo è inafferrabile, imprendibile. Senza il fucile, sei solo un altro animale in lotta per mangiare. Il fucile, Peter, è il dono di Dio agli uomini dei boschi, che li ha resi signori sopra le bestie –. Joseph si concesse una pausa. Rifletté per un po’ e concluse. – Certo, occorre essere signori giusti, non tiranni –. Appoggiò il fucile ed estrasse lo specchio e i colori dalla sacca di pelle. Peter non aveva mai udito parole simili. Joseph prese a dipingersi le guance. Li raggiunse Philip Lacroix. I capelli ricadevano folti sulle spalle, le pitture di guerra erano sobrie. Aveva utilizzato soltanto il nero per dipingere una striscia sugli occhi. – Domani, durante l’attacco, resterai accanto a me e Philip, – disse Joseph. Peter deglutì. Senza sapere cosa pensare, si limitò a fissare il calderone che bolliva sul grande fuoco al centro del campo. La carne dolce dell’orso cuoceva nel suo grasso. Come il cacciatore estrae le viscere dal ventre della preda, i capi guerrieri avrebbero afferrato a mani nude la carne bollente. Peter e i guerrieri della sua età dovevano servirla ai più anziani, insieme al liquore. Corpo e sangue dei nemici avrebbero dato forza agli uomini per la guerra. Terminata la cena anche i Mohawk avrebbero danzato fino allo spasimo, fermandosi a rifiatare tra canti e racconti di imprese. La luce guadagnava il cielo mentre una brezza fredda spargeva le braci e dissipava l’eco di balli e canzoni. Peter, equipaggiamento pronto da ore e faccia dipinta, osservò gli Highlander in piedi davanti al cappellano per la santa messa. In mezzo ai vapori dell’alba, con i fucili piantati a terra e le sciabole al fianco, ricordavano le illustrazioni di un libro nella biblioteca di Johnson Hall. Cavalieri, armati di lance e spade, pronti a combattere per il loro re. John Butler e il figlio erano in mezzo a loro. Si misero in fila davanti al sacerdote e si inginocchiarono uno dopo l’altro per ricevere il corpo di Cristo. Ognuno porgeva il fucile perché venisse benedetto. Per ultimo Peter vide Lacroix rimettersi in piedi e farsi il segno della croce. Si diresse verso il gruppo dei guerrieri. Peter si affrettò, rendendosi conto di battere i denti a labbra chiuse, al ritmo della danza di guerra scozzese. Bianchi e indiani presero a uscire dal fortilizio in due lunghe file parallele, che puntarono sul bosco. Non più di cinquecento uomini. Due ore dopo gli esploratori tornarono a riferire che l’armata ribelle avanzava lungo la sponda ovest del Richelieu. Almeno duemila uomini. Peter pensò che era così che si misurava il coraggio: affrontare un avversario compensando la disparità delle forze con l’astuzia e la sorpresa. Si sentì alle soglie di una prova memorabile. 32. I ribelli comparvero lungo il sentiero che costeggiava la rapida. Perlustravano il terreno e il bosco attorno, mentre le barche accostavano alla riva. A Peter ricordarono formiche sparse su un tronco d’albero. Non portavano uniforme, ognuno imbracciava un’arma diversa. Da lontano, l’Esercito continentale americano somigliava a una banda di cacciatori. Peter inspirò a fondo per contenere l’agitazione. L’odore muscoso del sottobosco si mescolava alle zaffate dolciastre che salivano dal fiume. Lacroix, accucciato di fianco a lui, non muoveva un muscolo. L’intera linea di fuoco era immobile. Butler aveva disposto gli uomini sul crinale di un piccolo promontorio che sovrastava la strettoia del Richelieu. L’84simo e gli Highlander al centro, gli indiani sui lati. Li avrebbero colpiti dall’alto, al riparo degli alberi, mentre erano allo scoperto in mezzo al passaggio. Joseph scivolò silenzioso fino a raggiungere il margine della fila, dove avrebbe guidato la fucileria dei Mohawk. Lacroix guardò Peter e ne intuì lo stato d’animo. – Custodisci la paura. Non lasciarla libera, – mormorò. – Quando tutto accade veloce, impara a essere lento. I ribelli giù al fiume scaricavano le imbarcazioni per diminuirne il pescaggio e farle passare attraverso le rapide. A gruppi tendevano le gomene, e le rilasciavano quanto bastava a far scendere i battelli senza urti violenti. Affondavano e scivolavano nella melma fino alle ginocchia. Peter si rese conto che era il momento. Il grido di guerra delle Highlands risuonò sul crinale, forte, ripreso da decine di voci. Lungo la riva del fiume si diffuse il panico, che mutò in terrore cieco quando i primi duecento fucili aprirono il fuoco dal bosco. Peter non sapeva se aveva colpito il bersaglio. Quando il fumo diradò c’erano corpi a galla nell’acqua e altri che si dimenavano per non affogare. Butler ordinò la seconda salva. Le formiche corsero in tutte le direzioni, in cerca di riparo, sotto i sassi del greto o nei buchi della terra. Qualcuno tentava di raggiungere l’altra sponda, ma la corrente lo trascinava via. Uno dei battelli si era incagliato tra le rocce, gli altri erano bloccati a riva. Qualcuno rispose al fuoco, mirando alla cieca verso la macchia. La voce di Peter si unì all’urlo di esultanza dei Mohawk. Gli indiani erano bravi a far credere d’essere il doppio. I colpi proseguirono disordinati, ognuno a caccia del proprio bersaglio nascosto. Ormai li avevano in pugno. Poi terra e cielo tremarono. Peter fu investito da una pioggia di sassi e terriccio, un groviglio di rami spezzati precipitò dall’alto. Butler corse dietro la linea dei fucilieri, verso Joseph, ma scivolò e cadde. Un secondo botto, e due corpi vennero sbalzati in aria, a brandelli. Butler si rialzò lercio di fango, la faccia e la giubba spruzzate di sangue. Inveì, mentre raggiungeva Joseph. – Quei figli di cane ci tirano addosso con un pezzo da otto. Gridava, assordato dagli scoppi. Peter poteva sentire ogni cosa. Joseph cercò di individuare il mortaio sotto di loro. – Dov’è? Butler indicò l’ansa del fiume. – Dietro le rocce. Il terzo colpo spaccò di netto il tronco di un albero, che rovinò sulla fila. Uno dei soldati gridò, la gamba trafitta da un ramo acuminato. Peter sputava terra e cercava di respirare, l’aria era densa di fuliggine. Gli alberi e le felci trattenevano il fumo degli spari, che diventava una fitta nebbia. – Come fanno a vederci da là sotto? – gridò Joseph incredulo. – Non hanno bisogno di vederci, – rispose Butler. – Sparano a casaccio contro la collina. Con quell’aggeggio possono farci crollare addosso l’intero bosco, se vogliono. A suggellare le parole dell’irlandese, una quarta cannonata piombò poche iarde sopra di loro, mandando in frantumi legno e piante. Gli indiani erano terrorizzati, sul punto di disperdersi. Joseph corse lungo la fila, insieme a Butler, urlando con quanto fiato aveva. – Fermi! Continuate a sparare! Peter lo perse di vista in mezzo al fumo e al fogliame. Solo allora si accorse di premere sui palmi per alzarsi: le gambe volevano correre via da lì, ma la mano di Lacroix lo teneva a terra. Il quinto colpo di mortaio aprì un corridoio tra gli alberi e rimbalzò fin quasi alla cima del pendio. La cascata di rami e foglie seppellì metà della fila, impedendo di fare fuoco. McLeod urlava ordini ai suoi uomini, agitando la spada. Giurava su sant’Andrea e san Colombano che avrebbe sbudellato chiunque avesse voltato la schiena al nemico. L’aria era ormai irrespirabile e non si vedeva più niente. Peter faticò a riconoscere Joseph e Butler negli uomini che gli si sdraiarono accanto. Il fango e le pitture di guerra si mescolavano sulla faccia dello zio, dandogli un’espressione mostruosa. Butler urlò sopra il rumore della foresta che andava in pezzi. – Dobbiamo sganciarci a piccoli gruppi e risalire fino al crinale. Joseph scosse la testa. – No. Lassù saremmo bersagli più facili. – Non c’è alternativa, – ringhiò l’irlandese. Joseph guardò Lacroix. I due si fissarono. Aveva perso il conto delle cannonate, le orecchie gli ronzavano, tossiva e sputava. – Andiamo noi, – disse Joseph. Lanciò un verso acuto e dalla fila si staccarono Kanatawakhon e Sakihenakenta. Oronhyateka e Kanenonte, i muscoli lucidi di sudore, affiancarono Lacroix. Joseph guardò i guerrieri e si avvicinò a Peter fino ad alitargli in faccia. – Risalire è pericoloso quanto restare qui. Perciò l’unica salvezza è scendere. Dobbiamo avvicinarci al mortaio, capisci? Dove non può colpirci. Farlo smettere. Peter annuì trasognato. – Stai un passo dietro di me, – disse Joseph. – Tieni giù la testa e quando te lo dico buttati a terra. Guardò Butler in attesa del suo assenso. – D’accordo. Prendete due fucili ciascuno. Vi darò tutta la copertura che posso. Che Dio vi guardi, maledetti pazzi. Caricarono le armi e iniziarono a scendere al piccolo trotto, fendendo le felci e il fumo sempre più fitto. Senza fare rumore raggiunsero il margine del bosco e si acquattarono dietro un grosso tronco abbattuto, a una trentina di iarde dai ripari dei ribelli. Dopo lo sbandamento iniziale si stavano riorganizzando, cercavano di recuperare il materiale e radunare le forze. I colpi del mortaio volavano alti sulle loro teste, fischiando forte. Peter lo individuò dietro un gruppo di rocce dove l’ansa del fiume creava un piccolo avvallamento. Era discosto dal grosso della colonna, fuori tiro. Lo difendeva un gruppo di uomini appostati dentro una barca sprofondata nel fango fino a diventare una trincea. Il mortaio si trovava poche decine di iarde più indietro. Quando il vento aprì un varco nella nebbia, Peter distinse gli artiglieri. In quel momento vide Lacroix, coltello e mazza alla cinta, fucile a tracolla, tomahawk in pugno. Joseph iniziò a sparare sulle postazioni ribelli, seguito dagli altri. Sopra di loro, dal fianco della collina, gli Highlander davano fondo alle munizioni, incitati dalle urla roche di Butler e McLeod. Fu allora che Lacroix saltò fuori dal riparo. Peter Johnson assistette incredulo a quel che seguì. Più tardi quella notte, tornato al forte, dovette scomporre e ricomporre il ricordo dei gesti, come un gioco a incastro, per renderlo plausibile alla propria stessa immaginazione. Raccontarlo sarebbe stato impossibile. Lacroix aveva raggiunto le difese nemiche nascosto da un mantello di fumo. Senza correre, camminando spedito e silenzioso. Qualcuno, forse un ufficiale, dall’altra parte aveva gridato: – Sparate! Sparate! Troppo tardi. Il Diavolo era già in mezzo a loro. Il capitano Jacobs si voltò, le mani sullo stomaco. Mentre vacillava ebbe il tempo di vedere l’indiano spaccare il cranio al secondo ufficiale con un solo colpo di tomahawk e piantare il coltello nelle costole del sergente maggiore. Erano movimenti fluidi, una danza. Dio mio. Sentì le ginocchia cedere, si accasciò, sputò il sangue che saliva in gola e cercò l’aria a bocca spalancata. Dio mio. Qualcuno dal battello diede l’allarme. Da dietro le rocce urlarono di tacere, ché i lealisti erano bloccati sulla collina, sotto il tiro del mortaio. Il capitano Jacobs chiuse gli occhi e li riaprì, tutto era offuscato. Il Signore è il mio pastore. Il tenente Bones si ritrovò la canna del fucile sotto il mento mentre cercava di imbracciare la propria arma. Il colpo gli staccò la testa di netto e la fece volare lontano. Su pascoli erbosi mi fa riposare e ad acque tranquille mi conduce. Donkers alzò il fucile, ma il panico gli impedì di sparare dritto e si ritrovò le budella tra i piedi, le mani che annaspavano nel tentativo di trattenerle. Mi rinfranca e mi guida per il giusto cammino. Abrahamson si avventò alla baionetta digrignando i denti. Quando il tomahawk gli spezzò il braccio con un rumore secco rimase immobile a contemplare l’arto che pendeva dalla spalla. Poi alzò il capo per ricevere il colpo di grazia in piena tempia. Per amore del Suo nome. Marteens scivolò sulla melma viscida mentre tentava di strisciare fuori. Una sola coltellata alla coscia gli recise l’arteria e lo lasciò morente sul fondo del battello, a urlare come un maiale scannato. Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché Tu sei con me. Gli artiglieri stavano aprendo il fuoco contro l’ombra che avanzava lenta verso di loro. Come fai a sparare a un’ombra? Il Tuo bastone e il Tuo vincastro mi dànno sicurezza. Fuggite, avrebbe voluto gridare il capitano Jacobs, se solo gli fosse rimasto fiato in gola. Vide Rodgers cadere per primo con l’ascia nel petto. Gli addetti al pezzo si scagliarono in avanti rabbiosi. L’ombra si abbassò, ne azzoppò uno mentre colpiva l’altro col calcio del fucile e già li finiva entrambi con il pugnale. Dio mio, pensò Jacobs appoggiando la fronte al terreno, le ginocchia raccolte sotto la pancia. Respirò l’odore umido dell’erba, misto a quello del proprio sangue. Vide l’ombra tornare indietro. Dio mio, pensò ancora, prima che l’ultimo conato gli facesse sputare l’anima. I bastioni del forte li accolsero in un abbraccio protettivo. I combattenti si buttarono qua e là, rannicchiandosi sotto coperte e pellicce, accanto ai falò. Pochi ebbero la forza di attardarsi a raccontare e rivivere la giornata campale. Ci sarebbe stato tempo, l’indomani, quando il mondo fosse riapparso intorno a loro. Peter sedette, troppo spossato anche per battere le palpebre. Le parole di zio Joseph e John Butler arrivavano a folate. Avevano respinto i ribelli, inflitto loro molte perdite, ma presto ne sarebbero giunti altri. Bisognava tenere duro. Dare tempo a Carleton di organizzare le difese della città. Peter ascoltava, ma la mente era altrove. Sentì la mano di Joseph sulla spalla. – Oggi ti sei comportato bene. Molly potrà essere fiera di te. Adesso dormi. Il ragazzo si stese, ma impiegò molto tempo a prendere sonno. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva l’attacco di Lacroix, e poi il guerriero che li attendeva sulla riva del fiume, coperto di sangue fino ai capelli. Oronhyateka e Kanenonte si scostavano al suo passaggio, timorosi e ammirati. E il volto di Lacroix: sotto il sangue che si rapprendeva, ogni muscolo si era fermato. Le labbra erano secche e piene di crepe, il letto di un fiume morto, battuto dal sole. Il Diavolo passava oltre. Lo avevano visto fermarsi, cinquanta iarde più in là, e togliersi i vestiti, dimentico di tutto. Era entrato nell’acqua a passi pesanti. Si era lavato via il sangue dalla pelle, con grandi, ruvide manate. Peter aveva guardato suo zio. Joseph aveva fissato a lungo il vecchio compagno d’armi. Peter si rigirò nella coperta. Attraverso le palpebre, le fiamme guizzavano al ritmo del tamburo e della cornamusa. Una danza di guerra e di morte. 33. Il castello di Ramezay non era un vero castello. Niente merli e torrioni, solo i grandi comignoli sul tetto spiovente. Trasportata nella campagna irlandese, la dimora del governatore sarebbe sembrata una grossa fattoria. A Londra l’avrebbero scambiata per una caserma. Per la terza volta da quando era in Canada, Guy Johnson si lasciò alle spalle il palazzo e attraversò il giardino. Raggi di sole tiepido impregnavano la foschia. Tre colloqui con Carleton, altrettante pugnalate alla schiena. Quella mattina, un messaggero di Sir John aveva portato notizie all’accampamento dei Mohawk. I ribelli spadroneggiavano nella valle. Avevano arrestato due scozzesi, mentre montavano la guardia sulla strada di contea nei pressi di Johnson Hall. La situazione precipitava. Secondo le voci, gli uomini del Dipartimento erano prede ambite. Non si azzardavano a toccare Sir John, non ancora, ma per tutti gli altri tornare a casa era troppo rischioso. Nella prigione di Albany erano pronte le gabbie. Il messaggero era appena arrivato e già McLeod domandava licenza di fare i bagagli. Gli Highlander erano rientrati da Fort St. Johns carichi di risentimento. Si erano battuti con valore, avevano respinto il nemico. Due giorni dopo, Carleton aveva inviato una compagnia per rimpiazzarli. Tante grazie, tornate pure in città, forse un giorno ci servirete ancora. Usati e messi da parte appena possibile. Carleton preferiva difendere il Canada da solo, o illudersi che i contadini francesi gli avrebbero dato una mano, piuttosto che concedere qualcosa ai Johnson e al Dipartimento indiano. Nessuno voleva più combattere per il governatore. Anche gli indiani ardevano di delusione. La guerra mordi e fuggi era normale per loro, ma odiavano gli scontri senza bottino, senza scalpi, senza onori e regali a premiare i guerrieri. La vostra dimestichezza con gli indiani ci sarebbe molto utile a Fort Niagara, colonnello Johnson. Niagara, all’altro capo del lago Ontario. Il posto migliore dove andare a marcire, in mezzo ai Seneca, ai confini del mondo. Guy varcò la cancellata e congedò la carrozza con un cenno. Aveva voglia di camminare, sgranchire le ossa. Forse il tepore della giornata avrebbe sciolto il nodo che bloccava il collo. Ogni giorno si sentiva più basso, schiacciato come una biscia sotto un mattone, un mattone arroventato dal sole. Doveva uscire dallo stallo, fare la scelta giusta, tentare il tutto per tutto. Ma cosa? A Fort Niagara non sarebbe andato, questo era certo. Un posto da soldati e mercanti di pellicce, dove l’unica diplomazia possibile era leccare i piedi a un pugno di sachem altezzosi e arroganti. Tornare a Guy Park era troppo pericoloso. E poi c’era la faccenda più grave, la seconda pugnalata del governatore Carleton. Colonnello Johnson, tenente Claus: vi presento il maggiore John Campbell, appena arrivato dall’Inghilterra con l’incarico di commissario per gli indiani canadesi. John Campbell, l’uomo di Londra, ben introdotto nei salotti della capitale, irrompeva sulla scena da un giorno all’altro per spodestare Daniel Claus e ricordare a Guy che le sua posizione era appena più solida di quella del tedesco. Non abbastanza per sentirsi tranquillo, immune da ulteriori infamie. Uscire di scena poteva significare sparire per sempre, rinunciare a essere il successore di Sir William. Che fare? Nemmeno il Vecchio s’era mai trovato in un simile labirinto. Più ci pensava e più se ne convinceva. Serviva a poco domandarsi cosa avrebbe fatto al suo posto. La risposta banale era che nessun Carleton Pallone Gonfiato si sarebbe permesso di trattare Sir William a quel modo. Il Vecchio a Montreal c’era venuto per conquistare la città, con settecento indiani, non per fare anticamera in un castello che pareva una fattoria. Lungo la via di St. Paul sciamavano carri diretti al mercato. Gli ingressi dei negozi di tè, pellicce, spiriti e tessuti erano incorniciati da scritte, che si arrampicavano sulle facciate fino alle prime finestre, per decantare la varietà e il pregio delle merci. Dai retrobottega aperti si intravedevano le mura e un viavai di facchini che tradiva la vicinanza del fiume, col fronte del porto e gli alberi dei vascelli assiepati attorno ai moli. Davanti alla cappella del Soccorso, un gruppo di Caughnawaga cantilenava il rosario per guadagnare l’elemosina dei passanti. Le donne che entravano in chiesa tenevano in mano piccoli modelli di navi. Doveva trattarsi di ex voto, simboli di preghiere esaudite per un marito in balia dei flutti. Guy desiderò inginocchiarsi davanti alla Vergine dei Marinai, per chiedere aiuto contro la burrasca degli ultimi mesi. Si avvicinò alla porta, ma l’uniforme rossa che indossava attirò subito l’attenzione e lo convinse a desistere. Mentre tornava in strada, la mano stretta sul collo, una donna del popolo prese a camminargli a fianco. – Escusé, mio signore, voi très mal. Vostra ombra è lorda. – Come dite? – domandò Guy. La donna parlava in fretta, un miscuglio di inglese e francese, ma nessuna delle due pareva essere la sua lingua. Era di una razza indefinibile: i tratti del volto europei, la pelle scura, gli occhi appena allungati, le labbra carnose delle africane. – Vostra ombra è lorda, – indicò per terra, – lei va distaccarsi, capite? La morte vi segue. Di là du lac. Guy trasalì e le afferrò un polso. – Mi state gettando il malocchio? – No signore, Massoula non fa. La Vergine piange i vostri lutti. A Guy parve che il cervello dovesse tracimare, che la strada fosse il ponte di una nave su un oceano in tempesta. Strinse i pugni, come quando aveva visto il taglio. Come davanti al bambino, immobile sotto le fasce. – Bandoka ha fatto il nido ici, – la donna si toccò dietro la nuca. – Dentro vostro collo, e lui adesso fa très mal. Come risvegliato da un negromante, Guy si ricordò di essere a Montreal, in un vicolo laterale della via di St. Paul, davanti a una fattucchiera di nome Massoula, che conosceva di lui molte cose, dalle disgrazie più nere ai dolori cervicali. Con uno sventolare di dita, la donna lo invitò a seguirla. – Venez, un po’ di moneta soltanto, venite avec moi. Guy esitò. Ci mancava il trucco di un borsaiolo francese per chiudere la giornata in bellezza. La donna fece un centinaio di iarde e sparì dentro una locanda a ridosso delle mura. Un attimo dopo si sporse e agitò il braccio per richiamarlo. Guy si incamminò, pensando che in un locale sulla strada non c’erano da temere imboscate. Arrivato sulla soglia, dovette ricredersi. Sul muro campeggiava una stampa di re Giorgio appesa a testa in giù. Gli occhi degli avventori balzarono sull’estraneo in uniforme rossa come gatti affamati su un’aragosta rovesciata di schiena. Nessuno sembrava contento di vederlo, e a giudicare da imprecazioni e sputi a terra, nessuno voleva dimostrare il contrario. La donna era seduta in un angolo e Guy si affrettò a raggiungerla. Appena si fu accomodato, la teppa francese tornò a scrutare carte e bicchieri. Gli parve di sentire il fruscio delle lame che scivolavano nei foderi. – Voi avete bokù de bandoka, mio signore, vremàn bokù. Un uomo malvagio viene da très lontano, attraversa il mare, lui anche l’ha mandato bandoka. Bisogna togliere, Massoula vi dice come. Allora l’ombra è di nuovo leggera, il collo leggero, voi libero. Un uomo malvagio, da molto lontano. Con gli occhi della mente, Guy vide il volto azzimato di Campbell, parrucca corta e incarnato pallido. – Bandoka emporta via la magione, poi la famiglia, poi il travay, poi l’argento, poi la sanità. Alla fine emporta via l’ombra e siete perduto. Guy rabbrividì e a stento si trattenne dall’ordinare un cognac. L’elenco dei malanni sembrava una formula rituale, ma era difficile non riconoscervi lo stillicidio degli ultimi mesi sciagurati. – Ditemi dell’uomo che attraversa il mare. – Sì, lui porta bandoka, ma porta anche soluzione. Dovete tagliare la radice du mal. La donna sembrò sul punto di completare la frase, poi abbassò gli occhi sul tavolo, come in preda a un’improvvisa stanchezza. – Quale soluzione? Avanti, parlate, ecco una mezza corona. – Questo è voi che sapete, no Massoula. Guy bloccò sul tavolo la mano della donna, mentre allungava le dita per afferrare la moneta. Si sentì preso in giro, il solito trucco da strapazzo, azzeccano un dettaglio poi vanno avanti a filastrocche e indovinelli. Fece per alzarsi, ma prima che le natiche lasciassero la panca, rivide il volto di Campbell, sentì nelle orecchie le sue parole. Il ministro delle Colonie mi prega di consegnarvi questa lettera e vi sollecita a inviare quanto prima un elenco di riprovazioni e doglianze da parte degli alleati indiani di Sua Maestà. Campbell portava una lettera di Lord Dartmouth, il ministro delle Colonie. Un elenco di doglianze, ecco cosa chiedevano da Londra. La presa di Guy si allentò e Massoula infilò la moneta sotto il vestito. – Tenete sempre con voi questo, mio signore –. La fattucchiera allungò qualcosa sul tavolo. – Per tagliare la radice du mal, per affrontare le passage. La donna si alzò in fretta e raggiunse l’uscita, prima che Guy potesse fermarla. Osservò il piccolo oggetto sul tavolo. Non era che un pendaglio, ricavato da una conchiglia forata. Scosse il capo, l’afferrò e lo fece sparire in tasca. Uscì dalla locanda, stordito e stanco. Affrettò il passo, mentre il sole di mezzogiorno colava sui tetti riflessi di miele. 34. C’è un orso nella foresta. Ogni notte esce per sgozzare gli animali. Le sue zampe lorde di sangue raspano alla porta. Il pallore del viso, liscio come avorio, faceva risaltare il contorno degli occhi e delle labbra di Molly. Indicò a Joseph il limitare della macchia d’alberi, dove le frasche erano scosse con violenza. Joseph percepì la presenza della bestia ed ebbe paura. Di’ a mio figlio che deve ricacciare il leviatano nell’abisso. Nel profondo della foresta che l’ha partorito. Là dove il sole non riesce a penetrare. Joseph avrebbe voluto chiedere perché doveva essere Peter a rischiare l’impresa mortale. Molly si erse immensa, lo sguardo era una fiamma nera. La strada a ritroso ti porta a quello che eri, non a ciò che sarai. Va’ e quello che devi fare fallo presto. O non ci saranno arcobaleni, né buoni auspici, né raccolto. Perché Peter? Ciascun anello della catena si trova nel posto esatto. Non puoi vedere l’inizio della catena e la sua fine. Nemmeno io posso. Nemmeno i morti. Dalle colline giunse un ululato di avvertimento. Quando Joseph tornò a guardare la sorella, al suo posto una lupa correva in direzione del richiamo. Gli animali selvatici si rintanarono. La tartaruga scivolò più a fondo nella melma dello stagno. Il sole si eclissò, l’ultimo raggio di luce toccò le ali di un’aquila. Dal fitto della vegetazione, l’orso, enorme e feroce, avanzava schiantando rami e piante. Al risveglio, Joseph trovò i guerrieri pronti a partire. Molte coperte erano già arrotolate e i primi battelli solcavano il fiume. Per i Mohawk la Campagna del Canada era finita. I larici ingiallivano, era tempo di cacciare e prepararsi all’inverno. A casa, mogli e figli subivano le angherie dei coloni. Qualcuno sarebbe tornato subito a Canajoharie. I più saggi, o i più compromessi, avrebbero svernato a Oswego. Partivano anche Cormac McLeod e i suoi Highlander. Sir John era in pericolo, la guardia d’onore tornava a proteggerlo. Joseph sentiva nostalgia di Susanna e dei bambini. Se fosse stato a casa, quella sera si sarebbe sdraiato a letto e avrebbe dimenticato ogni guaio, almeno per poche ore, ma non poteva tornare. Lui era Thayendanega, Lega Due Bastoni, destinato a unire Mohawk e bianchi. Il lascito di Sir William in punto di morte. In fondo che altro fa un interprete se non accoppiare le parole, gli uomini e le cose? Joseph era una creatura del Dipartimento, cresciuto sotto l’ala dei Johnson. Se il sole della famiglia si fosse oscurato, lui per primo sarebbe rimasto al freddo, e dopo di lui l’intera nazione. Doveva decidere anche per Peter. Il ragazzo era un Johnson ed era un Mohawk. Aveva combattuto, era stato all’altezza, ma ora Molly voleva da lui qualcos’altro. Avrebbe potuto parlare del sogno con i guerrieri più anziani, ma anche Tekarihoga si stava congedando. La tartaruga tornava allo stagno, con formule d’augurio e secche parole d’auspicio per chi restava. Joseph non avrebbe saputo dire chi avesse più bisogno dell’aiuto del cielo, se chi rimaneva o chi si accingeva a tornare. Vide Oronhyateka e Kanenonte, l’uno accanto all’altro. Fissavano il centro del fiume. Ai loro piedi, coperte, armi, due borracce. Si avvicinò per salutarli. – Torna a casa anche tu, Thayendanega, – disse Kanenonte. – La guerra, qui, non è come la sognavamo. – Combatteremo a Canajoharie, – aggiunse Oronhyateka. – Se resti qui, i ragni faranno la tela intorno al grilletto del tuo fucile. – Quel che accadrà a casa dipende ancora da quel che accadrà qui, – rispose Joseph. – E questo dipende anche da me. Oltre il fiume, Joseph sentì odore di pioggia e una fitta amara in mezzo al petto. Oronhyateka si grattò il mento, pensoso. – Tu sei mio fratello, Thayendanega, – disse Kanenonte. – Ma parli come uno di quei politici bianchi. Joseph sorrise. – Le mie labbra torneranno a bagnarsi con l’acqua del Mohawk. Ma non ora. 35. Quel che premeva al colonnello Ethan Allen: esser trattato da gentiluomo. Guai a chi si fosse permesso il contrario. Poteva rispondere con arguzia a chiunque lo provocasse, ricco o povero, amico o straniero. Non aveva potuto studiare tanto, tuttavia sapeva parlare e convincere. Le dita erano tozze, ma pizzicavano le corde giuste. Aveva reso memorabile la presa di Fort Ticonderoga, impresa ritenuta impossibile, pronunciando una frase perfetta. Si era fatto consegnare il forte «nel nome del grande Jehovah e del Congresso continentale». Una grande frase, di quelle che rotolano oltre l’equivoco, forti di un solo significato: Ethan Allen camminava sospinto dal dito di Dio. La sua fama era appena uscita di casa, e dietro la collina già s’alzava luce di leggenda. Il colonnello Ethan Allen era un conquistatore e quella era la sua strategia. Nel nome di Jehovah? Non proprio. Ethan non credeva al Dio degli anglicani né a quello dei papisti. Non credeva al Signore della Bibbia, irato vendicatore, mandante di stupri, carneficine e saccheggi. Il suo Dio era forza superiore che regola l’universo, e lo si pregava con la Ragione, non coi salmi o mangiando pane sciapo. Il Dio di Ethan era intelligenza che imbriglia e organizza la Natura. L’Ente illuminava l’Uomo e lo metteva in grado di affermare la Libertà. Quel che premeva al colonnello Ethan Allen: esser trattato da gentiluomo. Subito dopo la presa di Ticonderoga si era recato a Philadelphia, dove il Congresso era in seduta permanente. Aveva preteso di essere ricevuto e intervenire di fronte ai rappresentanti. La nuova tappa della sua strategia: quei signori non potevano non accogliere l’uomo che combatteva in loro nome e in quello di Jehovah. Come fare un torto al Golia delle Verdi Montagne? Ethan aveva fatto spargere la voce del suo arrivo, nelle vie di Philadelphia la folla si accalcava per vederlo. Nella sua orazione aveva chiesto il riconoscimento dei Green Mountain Boys come forza belligerante, alleata dell’esercito continentale. A quei banditi divenuti eroi spettava la medesima paga degli altri soldati. Aveva reclamato il loro diritto a scegliere sotto quale ufficiale servire. In cambio, avrebbero continuato a rischiare la vita per la causa della Libertà. Il Congresso si era consultato col generale Schuyler e aveva accolto ogni richiesta. Il problema di Ethan Allen: la gamba era talvolta più corta del passo, restava sospesa a mezz’aria, ricadeva e tirava con sé tutto il corpo. Ethan temeva quei momenti. Ventitre di settembre del 1775. Una sera come nessun’altra, lungo la riva orientale del San Lorenzo. Le idee affollavano la testa. La più ardita di tutte: prendere Montreal. Lo aveva convinto il maggiore John Brown: un colpo di mano, un’azione audace e piena di spirito. Prendere Montreal con le sole forze dei loro uomini. L’ultimo colpo di scalpello, aveva pensato Allen. Terminare il capolavoro iniziato a Ticonderoga cinque mesi prima. Prendere Montreal prima del generale Montgomery, battere sul tempo l’esercito continentale. Non aveva ancora pronta la frase. Il verso, il distico in prosa guerriera, tondo, levigato, da dire al momento giusto, proiettile di sillabe sparato fino a Londra. Tutti avrebbero ripetuto quelle parole. Nondimeno, prima occorreva metterle in fila, e ogni sillaba contava, ogni brandello di immagine da soffiare verso il nemico. Quando si elabora un grande tema, è necessario curare anche i minimi dettagli. Ethan Allen avrebbe attraversato il San Lorenzo a Longueil, in una notte senza luna, e raggiunto Montreal da nord. Brown avrebbe attraversato a La Prairie, per poi scendere da sud. Al primo affacciarsi del sole, premendo sui due lati, avrebbero stretto Montreal in una morsa. No, l’immagine non era quella giusta: tirando sui due lati, l’avrebbero schiusa di forza. Come i battenti di un armadio, strappati dai cardini a mani nude per impadronirsi della Storia. L’unica preoccupazione: che la gamba fosse tanto lunga da coprire il passo. La notte era il fondo di un pozzo, nulla affiorava, la coltre d’aria fredda pesava sul collo e le spalle. Ethan sentiva sulle mani i piccoli morsi del vento. Centodieci uomini, tra cui ottanta canadesi disposti a combattere coi patrioti. Le canoe erano poche e dovettero fare tre viaggi, col pericolo d’essere sorpresi a cavalcioni del fiume, un piede a Longueil e l’altro a mezz’aria. La traversata del San Lorenzo impegnò tutta la notte. Di fronte a loro, lo sguardo non trovava appigli. L’alba era ancora una bava di lumaca quando Allen mise sentinelle tutt’intorno al campo. Aveva attraversato il suo Rubicone. Chissà se Cesare l’aveva detta subito, la frase più celebre. Era nata spiccando il volo dalle labbra o era stata pensata a lungo, modellata dal condottiero, la lingua a tirare di scherma coi denti? Il dado è tratto. Perfetta, lucente, immortale. Allen si risolse ad attendere il segnale: tre grida a pieni polmoni sarebbero uscite dalle gole degli uomini di Brown, aprendo squarci nei vapori dell’alba. Gli uccelli già facevano le prove d’orchestra. Allen tese le orecchie. Due ore dopo, metà del cielo era bagnata di luce. La rugiada si dissolveva, abbandonava i campi e ancora non s’era alzato nessun grido. Dov’era finito Brown? L’idea era stata sua, il colpo di mano, l’azione audace. Allen si guardò attorno: negli uomini si andava perdendo la voglia di combattere, lanciarsi nel futuro imminente come orsi su un favo di miele. Una notte di traversata e ore di attesa fiaccano i nervi, inumidiscono la polvere pirica che accende il cuore. Era tutto un battere di piedi, scrollare le spalle, sfregarsi le mani e sbadigliare. Si guardavano di sottecchi, parlavano a mezzavoce, indicavano Allen con brevi cenni del capo. Allen ne fu certo: Brown non sarebbe arrivato. Non potevano averlo scoperto: l’aria e il San Lorenzo avrebbero portato l’eco di scontri. Non aveva nemmeno attraversato il fiume. Non c’era e basta, inutile chiedersi come mai. Il Rubicone era alle spalle, ma il dado era tratto a metà. Il piede era pesante e, nel cadere, sbilanciava il corpo. Intanto l’azzurro conquistava il cielo. Allen carezzò l’idea di tornare indietro, riattraversare il fiume ocra, rimettere piede a Longueil. Impossibile, sarebbero occorse ore, il nemico li avrebbe scoperti. L’unica cosa da fare era mantenere la posizione, ma fino a quando? Ethan sospirò. La giornata dei misteri e delle scelte impossibili. Il nemico sarebbe arrivato. Dare battaglia, dunque. 36. La notizia giunse di corsa: i ribelli erano vicini, molto vicini, e si preparavano ad attaccare. Non era l’esercito continentale a minacciare Montreal: si trattava di irregolari, e li comandava Ethan Allen. Occorreva uscire subito, con tutte le forze disponibili. Ingaggiare battaglia prima che il conquistatore di Ticonderoga fosse in vista della città. Gli uomini del Dipartimento – Joseph, Philip, Peter, Guy Johnson, i Butler – si unirono all’improvvisata schiera che avrebbe sbarrato il passo al Golia delle Verdi Montagne. Appena una quarantina di soldati regolari, sciolti in una moltitudine di miliziani, giacche e cappelli di ogni foggia e colore. Volontari civili in tenuta da caccia, ranger, guerrieri delle nazioni del Canada, soprattutto Caughnawaga. Peter fissava il guerriero accanto a sé. Le Grand Diable. Pensò: qualunque cosa accada, lo seguirò. Pensò all’uomo che stavano per affrontare. Dicevano che la sua statura fosse gigantesca. Peter ricordò le storie intorno al fuoco, il volto di Walter Butler oltre le fiamme che guizzavano. Seguire le Grand Diable. Peter scoprì che dietro la paura c’era dell’altro. Eccitazione e un sentimento nuovo, solido, inaspettato. Determinazione. Conosceva già la battaglia, il tuono dei cannoni nelle orecchie, la terra che tremava sotto i piedi. Aveva veduto la morte. L’unico modo di evitarla era vincere. I due schieramenti presero contatto verso le due del pomeriggio. Scariche di fucileria scambiate alla distanza, da un capo all’altro di un’ampia radura. Eppure, il nemico cambiava forma, perdeva già compattezza, si sfilacciava in fughe scomposte. Di colpo, Lacroix fece un cenno con la mano. Gli uomini si mossero. Joseph, Lacroix e Peter avanzarono lenti, tenendo bassa la testa, con Walter Butler e un gruppetto di Caughnawaga, su un arco di una cinquantina di iarde. Si tenevano a pelo dei cespugli e scivolavano sul fianco dello schieramento nemico. I proiettili ronzavano sopra di loro, insetti pesanti e sgraziati. Gli uomini presero posizione dietro grandi tronchi di pino sul margine della radura. I ribelli non si erano accorti di nulla. Peter vide un uomo alto e corpulento che strillava ordini nel crepitare dei fucili. Percorreva a grandi falcate la fila dei ribelli, inginocchiati dietro i tronchi e nelle buche del terreno. L’andatura oscillante, nervosa, era quella di un animale in trappola. Ruggiva comandi con rabbia, artigliava l’aria con le mani, indicava dove sparare. Peter capì: Golia era di fronte a lui. Il ragazzo avanzò di un passo. La paura stringeva le viscere. Forzò il corpo a muoversi ancora, fino a trovarsi di fianco a Lacroix. I due scambiarono una lunga occhiata. La mente di Peter divenne chiara, leggera. La decisione irruppe in un batter di ciglia, un guizzo. Peter uscì allo scoperto. Si mosse con scioltezza in direzione di una roccia che sembrava posta sul campo dalla mano di Dio. Joseph e Lacroix lo seguirono. Una volta al riparo, Joseph rivolse a Peter un cenno di approvazione. Il ragazzo si lanciò in avanti. Joseph mandò un segnale ai Caughnawaga, che partirono all’assalto. Entrarono nel fianco dello schieramento ribelle. I nemici indietreggiarono, sbandarono, si diedero alla fuga. Due si fermarono per sparare su Peter. Joseph prese la mira in corsa e ne ferì uno alla spalla. Prima che l’altro capisse da dov’era arrivato il colpo, Lacroix lo abbatté col calcio del fucile. Peter proseguì la caccia. Ethan Allen aveva già corso un miglio. Ogni tanto incespicava. Ancora pochi passi e cadde, esausto. Peter gli fu sopra, ansimando. Puntò il fucile. – Siete sconfitto. Arrendetevi. Con voce rotta dalla fatica, Allen rispose: – I miei uomini non consegneranno le armi senza la garanzia di un trattamento leale. Esigo la vostra parola. Peter, confuso, si guardò alle spalle. Zio Joseph e il Gran Diavolo si avvicinavano con calma. – Ordinate ai selvaggi di starmi lontano, – disse Allen. – Siete mio prigioniero. Avete la mia parola, – rispose Peter. Allen consegnò la sciabola. Peter la levò in alto, si voltò verso i guerrieri e lanciò il grido di guerra del clan del Lupo. 37. La notte avvolgeva l’isola di Montreal, la città, l’accampamento fuori dalle mura. Una civetta lanciava richiami attraverso i vapori che salivano dal fiume. Dall’interno della tenda, Guy poteva scorgere un quarto di luna appena offuscata dalle nuvole. Era seduto al tavolo da campo, alla luce fioca di una lampada, e si massaggiava il collo indolenzito. Osservò la propria ombra sulla tela incerata. Appariva storta e deforme. Vostra ombra è lorda. Lei va distaccarsi. Nella testa, il grido della civetta si mescolò alle parole della fattucchiera. Guy allungò una mano, come ad afferrare la propria sagoma. Senza pensare estrasse l’amuleto che la strega gli aveva venduto. Dal giorno di quell’incontro l’aveva portato sempre in tasca, per pura superstizione. Lo depose sul tavolo, sotto la luce spiovente del lume a olio, e a un tratto si sentì ridicolo. Con un mezzo sorriso pensò che un po’ di fortuna in fondo l’aveva portata: ora avevano un prigioniero famoso, il grande Ethan Allen, chiuso nel recinto e ben sorvegliato da guardiani fidati. Gli ultimi rimasti. Guy sospirò e tornò serio. Se n’erano andati tutti, gli Scozzesi, i Mohawk. Era solo, davanti alla decisione da prendere. Significava scegliere per sé, ma questo non rendeva le cose più facili. Fort Niagara o la Mohawk Valley. O magari restare lì, aspettando che l’armata ribelle spuntasse sulla riva del fiume. Un’attesa senza senso, le intenzioni di Carleton erano evidenti: il governatore non aveva alcuna intenzione di difendere Montreal. Non l’aveva mai avuta, ogni decisione era servita soltanto a prendere tempo e a sbarazzarsi di loro. Si sarebbe ritirato a Québec, dove poteva contare sull’appoggio della flotta. Guy sentì che non era più un sasso a schiacciarlo, ma una valanga, un’intera montagna gli crollava addosso. Il collo era rigido e contratto. Riprese a massaggiarlo forte. Come l’aveva chiamato la fattucchiera? Il nido di bandoka. Certo, la sfortuna. Scacciò il pensiero di quella donna e prese a rileggere la missiva per il ministro delle Colonie. Aveva elencato nel dettaglio le questioni territoriali in sospeso e le violazioni compiute dai nuovi coloni ai danni degli indiani. Scrivere gli riusciva bene, ma riguardando il foglio ebbe la sensazione che fosse la sua condanna all’oblio. L’aveva persino firmata. Si mise in piedi e avanzò nella penombra, le spalle curve. Non bastava il torcicollo, c’erano anche i pidocchi a farlo impazzire. L’accampamento ne era infestato. Si affacciò all’uscio della tenda e scrutò ancora la notte. Spedire quella missiva era un atto di abdicazione. Gli chiedevano di comunicare al governo le questioni aperte nella valle del Mohawk, perché altri potessero porvi rimedio. Per lui era in serbo la stessa sorpresa toccata a Claus. Messo da parte dopo anni di onorato servizio. Il tedesco si era chiuso in un mutismo accanito, anche se qualcuno sosteneva di averlo sentito imprecare nella sua lingua durante il sonno. Maledizioni all’indirizzo di Carleton e di Campbell, con ogni probabilità. Guy sedette sulla branda, la testa tra le mani. Avrebbe voluto la moglie accanto, sentire la sua mano calda sciogliere con un massaggio la tensione. Gli mancava. E gli mancavano le figlie. Doveva pensare anche a loro, rimaste a Oswego. Tra le labbra formulò una preghiera per l’anima di Mary e chiese a Dio di proteggere le bambine. Tornò al tavolo: penna, calamaio, tampone. Il bastoncino di ceralacca e il sigillo di Sir William. Se l’avessero spodestato, l’avrebbe tenuto come ricordo. Lo rigirò tra le dita, rappresentava lo stemma del patriarca: due indiani reggevano uno scudo con tre conchiglie al centro. In basso, il motto del Vecchio. Deo Regique Debeo. Sono debitore a Dio e al re. Guy si bloccò. Gli occhi corsero al pendaglio della strega Massoula: una conchiglia. Non era la coincidenza a dargli la pelle d’oca, ma ancora l’eco delle sue parole. L’uomo che attraversa il mare porta bandoka, ma porta anche soluzione. Campbell veniva dall’Inghilterra. La soluzione che portava non era la richiesta del ministro. La soluzione era attraversare il mare. Guy trasalì. L’idea si conficcò nella mente, tanto da cancellare il dolore al collo. Tagliare la radice du mal. Riprendersi le nomine. Con l’aiuto di Dio e per volere del re. – Volete portare la lettera a Lord Dartmouth di persona? Daniel Claus formulò la domanda a occhi sgranati, le mani artigliate ai braccioli della sedia. La reazione di John Butler fu più compassata. Il vecchio capitano non mosse un muscolo, ma era evidente che teneva le orecchie tese. Guy Johnson guardò prima uno poi l’altro. Aveva la faccia di chi non ha chiuso occhio, ma per la prima volta da settimane appariva determinato. Si trovavano sotto la sua tenda. Guy aveva convocato gli altri due solo a metà mattina, per non allarmare nessuno, nemmeno i diretti interessati. Non voleva che una spia di Carleton venisse a conoscenza delle sue intenzioni. Faceva caldo e l’attività al campo languiva. – Avete inteso bene, signor Claus, – disse Guy. – E in quell’occasione chiederò udienza a Sua Maestà. Per sollevare la sua attenzione sulla nostra famiglia. I Johnson lo servono con fedeltà da più di trent’anni, e non può negare quello che ci spetta di diritto. Mi riferisco, è chiaro, alle nomine a commissari per gli Affari indiani. Dopo giorni di umore nero e insulti biascicati tra i denti, il tedesco reagì. – Sono tremila miglia di oceano e l’inverno incombe. Guy annuì senza scomporsi. – Non c’è tempo da perdere, infatti. Butler guardò il fondo del cappello che teneva in grembo. – Nessuno di noi conosce Londra, tanto meno i meandri di corte. La nostra fortuna è qui in America. – Lo so bene, capitano Butler, – rispose Guy, – ma al momento sembra essersi esaurita. Senza nomine non possiamo più amministrare gli indiani, nessuno ci difenderà, il nostro nome cadrà nell’oblio. Sir William non si sarebbe mai piegato a una fine così indegna. Io dico che bisogna tentare. – Ci vogliono mesi, anni, per ottenere un’udienza dal re, – obiettò Claus. – È vero. Ma noi porteremo a Sua Maestà un dono. E a chi porta doni è difficile negare accoglienza. I due gentiluomini fissarono Guy perplessi. – Il capo dei ribelli, signori. È l’uomo che ha preso Ticonderoga, e noi abbiamo preso lui. Lo trascineremo in catene ai piedi di Giorgio III. Claus si profuse in un sorriso maligno: – Come Vercingetorige davanti a Cesare. Questo è un colpo di genio, signor Johnson. – Con tutto il rispetto, – intervenne Butler, – ha piuttosto l’aria di una puntata alla cieca. – Forse lo è, capitano, – rispose Guy, – ma non credo che abbiamo molto da perdere. – Il commissario Johnson ha ragione, – disse Claus. – Tutte le strade sono sbarrate. – È chiaro che dovremo portare con noi degli indiani, – riprese Guy. – Qualcuno che parli a nome di molti e possa impressionare la corte. Il tedesco rifletté ad alta voce: – I nostri sachem se ne sono andati. – Abbiamo Joseph Brant, – suggerì Guy. – L’unico che non ci abbia ancora abbandonati. È un capo di guerra, e parla inglese. E non dimenticate il piccolo Davide che ha abbattuto Golia. Peter Johnson sarà il nostro passepartout. Per il nome che porta. Gli occhi di Claus si riaccesero. – Abbiamo una delegazione indiana. Non resta che trovare una nave. Si voltarono entrambi verso il vecchio irlandese. – Mantenete le vostre riserve, capitano? John Butler si alzò con un movimento energico e fece un passo verso Guy. – Ascoltatemi bene, Johnson. Sarò molto sincero con voi. Io ho imparato una cosa da Sir William: senza gli indiani noi non siamo niente. Loro sono la nostra forza, la nostra garanzia. Gli indiani non guardano alle nomine, ma alle facce. A Londra non troverete la soluzione ai nostri guai. – Non volete essere della partita, dunque. Il tono di Guy era rammaricato e sincero. – Mi dispiace, – rispose Butler. – Io e mio figlio abbiamo deciso di andare a Niagara. Questa guerra sta prendendo una brutta piega. I Seneca hanno più guerrieri di ogni altra tribù ed è loro che bisogna convincere. Non qualche cicisbeo londinese, con rispetto parlando. Seguì un momento di silenzio. Poi Butler calcò il cappello in testa e porse la mano agli altri. – Buona fortuna, signori. Dio vi assista. Lo guardarono allontanarsi nella piena luce del giorno. – Non avete insistito molto per convincerlo, – disse Claus. – Aveva già fatto la sua scelta. Forse è più giusto così. Guy si risedette al tavolo e distese le gambe. Il tedesco lo incalzò: – Che facciamo adesso? Le nostre famiglie? Non avrete intenzione di lasciarle a Oswego. – No di certo. Bisogna reclutare una scorta e andare a riprenderle. Vi affido questo incarico, signor Claus. Il tedesco si lasciò cadere sulla branda. Le novità della mattinata l’avevano provato. – E voi? – Io andrò a Québec a spendere gli ultimi soldi del Dipartimento, – disse Guy. – Ci servono una nave, un capitano e un equipaggio affidabili. Farò in modo che al vostro ritorno troviate un trasporto rapido per raggiungermi. – Vi serve qualcuno che vi copra le spalle, signore. L’irlandese annuì tra sé, mentre versava liquore in un paio di bicchieri e ne passava uno a Claus. – Ho un ottimo guardaspalle. Joseph Brant. E ne consiglio uno a voi: Philip Lacroix. Il suo nome incute rispetto lungo tutto il San Lorenzo. Guy fece tintinnare il bicchiere contro quello del tedesco. – A re Giorgio e al nostro viaggio. Claus trangugiò senza dire nulla, stretto tra l’entusiasmo e l’apprensione. 38. In piedi sul pontile, avvolto in una pesante coperta rossa, Joseph guardava battelli di pescatori mettere la prua verso nord, verso l’estuario e il mare aperto. Solo pochi risalivano la corrente. Tempo di migrazioni: il cielo era solcato da stormi di uccelli di passo. Quanto erano lontani da casa? Sulle prime, Joseph aveva accolto la decisione con stupore. Suonava come il discorso di un folle: non Fort Niagara, ma Londra. Farsi ricevere dal ministro delle Colonie, se possibile da re Giorgio in persona. Durante il passo degli uccelli migratori c’erano specie che andavano verso nord, in direzione inversa rispetto al flusso di ali e penne che solcava il cielo. Volatili figli dell’inverno, che si rifugiavano tra le sue fauci gelide e spalancate. Se il Signore aveva concesso tanto coraggio e resistenza a dei pennuti, tanto più doveva averne concessa all’uomo, o almeno a certi uomini, pensò Joseph. Osare era diventato necessario, la tenaglia che stringeva il Popolo della Selce andava recisa dal manico. La mossa disperata di Guy Johnson poteva tornare a vantaggio suo, dei Mohawk e delle Sei Nazioni. Il commissario aveva bisogno di lui e non lo nascondeva: se voleva mostrare di avere gli Irochesi dalla sua parte doveva portare con sé dei rappresentanti della Lega. Se fosse riuscito a farsi ricevere a corte, Joseph avrebbe potuto strappare impegni diretti, garanzie concrete sulle terre e i confini da rispettare. Hendrick c’era già riuscito molti anni prima. Portavano in dono il capo dei ribelli, scortato dal guerriero che lo aveva catturato, un giovane Mohawk figlio del grande William Johnson. Non era follia immaginare una buona accoglienza a Londra. Risalire la corrente fino al cuore di ghiaccio dell’Impero era un atto di coraggio, non di stolta incoscienza. Dal pontile, Joseph aveva osservato i barcaioli abenaki allestire due canoe. Scortavano Daniel Claus e Philip Lacroix alla volta di Oswego, per recuperare le donne della famiglia Johnson. Meno di vent’anni prima gli uomini di quella tribù combattevano al fianco dei Francesi contro i Mohawk. Oggi prendevano ordini da le Grand Diable, il più temuto dei nemici di un tempo. La squadra era partita alla svelta e in sordina, meglio evitare che troppe voci solcassero il fiume più in fretta di loro. I familiari dei Johnson erano merce preziosa. Quando il piccolo convoglio aveva preso l’acqua Joseph e Lacroix si erano salutati con un cenno d’intesa, com’erano soliti fare anni addietro. Nelle ultime settimane il loro legame si era rinsaldato. Come sempre, le visioni di Molly si rivelavano di impressionante chiarezza. Un rumore di passi ridestò l’attenzione di Joseph. La sagoma di John Butler si avvicinava. Il vecchio soldato lo affiancò. – A Fort Niagara tu e Lacroix mi sareste molto utili, – disse. – I Seneca ammirano il coraggio. – Sono un uomo del Dipartimento, – rispose Joseph. – Ho dato la mia parola a Guy Johnson. L’irlandese annuì. – Spero che tu non debba pentirtene. Dio ti assista, Joseph Brant. Joseph strinse la mano che Butler gli offriva. Gli stormi proseguivano la rotta. 39. L’aria non sapeva ancora di sole quando Esther sentì la coperta scivolare via e una voce che diceva di alzarsi, in fretta, che bisognava andare. Scrollò di dosso la paglia e tentò di fare lo stesso col sonno, ma quello rimase attaccato agli occhi. Era stata una notte difficile. La soffitta dove le avevano ospitate era zeppa di pannocchie ed Esther si era ricordata cosa diceva mamma, di non giocare in granaio perché i serpenti sono ghiotti di mais. Ci fosse stata lei, non avrebbe mai accettato di farle dormire là dentro. Ma lei non c’era più ed Esther non aveva dormito. Prima di lasciare Oswego, zia Nancy aveva portato lei e le sorelle a deporre un mazzo di fiori sulla tomba. Dovevano andare lontano, raggiungere papà. Le aspettava nel porto in fondo al Grande Fiume, dove iniziava l’oceano. Perché non fosse venuto a prenderle, Esther non riusciva a capirlo. Aveva mandato zio Daniel, con dei barcaioli indiani e l’uomo che chiamavano il Gran Diavolo. Stretti sulle canoe di corteccia, avevano attraversato il lago e imboccato il fiume. Nella grande cucina, Judith e Sarah facevano colazione: latte e biscotti. Esther li odiava. Ascoltare quattro bocche mentre impastavano quella roba le dava già il voltastomaco. Chiese pane e miele, ma non ce n’era più. Zia Nancy le offrì una galletta spalmata di grasso. – Mangia qualcosa, oggi bisogna camminare. Esther non fece domande, non era più una bambina. Nei viaggi in barca si andava anche a piedi, questo ormai lo sapeva. Poco importava se il pericolo da evitare era una rapida, una secca o altro ancora. Aprì la porta e respirò aria fredda. Un brontolio liquido tradiva la presenza del fiume, nascosto da una coltre di alberi e bruma. Esther gettò la galletta ai maiali e si guardò intorno. Sull’aia, il Diavolo parlava in francese al padrone di casa, un signore col codino, che puzzava d’aglio e tabacco. Gli indiani erano chinati sui resti del fuoco e mangiavano strisce di carne abbrustolita. Zio Daniel e la domestica uscirono dalla fattoria in assoluto silenzio. Sulla schiena portavano Judith e una cugina, dentro le imbracature indiane che servono a trasportare i bambini. Si accodarono al barcaiolo che faceva da guida, mentre gli altri caricavano in spalla le canoe, per chiudere la fila insieme al Diavolo. – Adieu. Bon courage, – li salutò il francese dalla soglia. La strada non era di quelle larghe, per carri e cavalli. Si avanzava tra i rovi, in mezzo all’erba e alle zanzare. I piedi affondavano nel fango e non venivano più su. Sarah cominciò a lamentarsi dopo mezz’ora di marcia. Sembrava che un gatto le fosse saltato in faccia per affilare le unghie. Piangeva, le facevano male i piedi, aveva sete. Mentre la domestica le passava la borraccia, il Diavolo si avvicinò e le offrì di caricarla su una canoa. Esther si aspettava che sua sorella iniziasse a urlare. Una sera, per farle paura, le aveva raccontato che quell’indiano era davvero Satana ed era venuto per portarle all’Inferno. Invece lei tirò su col naso e offrì le braccia al Diavolo, che la issò e la depose nella barca. Dopo un pranzo rapido e immangiabile, carne secca e miele, anche la figlia maggiore di zia Nancy si arrese e finì a sedere nell’altra canoa. Esther riprese la marcia, fiera che nessuno la dovesse trasportare come le altre bambine. Non durò molto. Presto la stanchezza incrinò l’orgoglio. Non toccava cibo dalla sera prima, aveva i vestiti strappati, la pelle bruciava sotto i graffi, grappoli di vesciche gonfiavano i piedi. Le gambe non rispondevano più, erano tronchi da trascinare nel bosco e s’incagliavano a ogni inciampo. Esther si lasciò cadere, la testa girava. Vide avvicinarsi il Diavolo e d’istinto si abbracciò le ginocchia, come per ripararsi da un vento gelido. D’un tratto, si sentì estranea alla scena. Osservava se stessa con la visuale di un uccello appollaiato su un ramo. Si guardò allungare una mano, afferrare la borraccia che le veniva offerta, portarla alle labbra. Sciroppo d’acero e acqua. Anche meglio del miele. Mentre beveva, sentì un braccio scivolare dietro la schiena, un altro sotto le cosce. In un attimo si ritrovò sulle sue spalle, con la gola stretta e i pensieri sottosopra. Non l’aveva sollevata così, la piccola Sarah. L’aveva presa sotto le braccia, come si fa con una bambina che vuole giocare. Esther non era più una bambina, ma spesso i grandi non ci facevano caso. Il Diavolo lo aveva capito. Il fuoco sonnecchiava davanti al riparo. Il Diavolo stava seduto, per la prima volta da quando erano partiti, a tirare boccate da una pipa sottile. Aveva montato il ricovero insieme ai barcaioli, con bastoni e tela incerata. Aveva arrostito trote e scoiattoli ed Esther si era stupita che fossero buoni da mangiare. Zia Nancy e la domestica avevano messo a letto le bambine e s’erano buttate a dormire, troppo sfinite per dire buonanotte. Zio Daniel russava seduto, il mento sul petto. Nel suo giaciglio di coperte, Esther sentiva la stanchezza pesare sulle tempie e non riusciva a prendere sonno. Ripensò alla giornata, ai graffi e ai piedi gonfi, al sorriso delle bambine sopra le canoe, all’abbraccio del Diavolo. Un singhiozzare sommesso si aggiunse ai richiami di ghiri e civette. Rintanata nelle coperte, Judith piangeva. Esther si voltò verso zia Nancy, per controllare che avesse sentito, ma le donne russavano, sprofondate in un mondo distante. Fece per alzarsi, ma vide il Diavolo venire verso di loro e preferì restare giù, fingere di dormire. Dietro le ciglia socchiuse, lo guardò inginocchiarsi e passare una mano sui capelli di sua sorella. Lo sentì sussurrare qualcosa, mentre i singhiozzi si facevano più radi. Doveva essere una canzone per dormire, di quelle che conosceva la mamma e che anche Esther avrebbe voluto ascoltare. La voce del Diavolo si spense. Fece ancora una carezza, poi raccolse la pipa e tornò verso il fuoco. Esther non fu sicura di vedere bene, le parve di intuire un gesto, le dita di una mano che sfioravano l’occhio. Si sentì confusa. Che il Diavolo fosse forte lo aveva sempre saputo. Poteva anche essere bello e gentile, per lusingare gli uomini. Ma che potesse piangere, questo davvero non lo aveva mai sentito. 40. Québec era una grande città scolpita sulle rocce. Un castello da favole dominava il fiume, le guglie di Nostra Signora, le case massicce nel recinto delle mura. Esther lesse il nome, scritto a caratteri d’oro sulla prua della nave. a-da-mant. A confronto di quel vascello enorme, gigante con la pancia in acqua, il brigantino che le aveva raccolte a Montreal era un folletto del fiume. Erano arrivate il giorno prima, sane e salve, anche se zia Nancy era un’altra persona: le guance scavate, gli occhi gonfi, il viso intrappolato in una rete di graffi. Le bambine parevano animali sfuggiti a una trappola dopo giorni di lotta. Il padre le aveva accolte lodando Dio, eppure era il Diavolo che doveva ringraziare. Esther ignorava il proprio aspetto. Non aveva trovato uno specchio dove guardarsi: il tempo di fare un bagno caldo, mangiare, dormire poche ore e già urgeva la nuova partenza. S’era aspettato fin troppo, dicevano i cambusieri al porto di Québec. Bisognava spicciarsi, evitare che ghiaccio e tempeste bloccassero il fiume. Parlavano di Londra e intanto caricavano. Rispondevano «Londra» ai passanti curiosi. Il nome della capitale affollava i discorsi, ronzava sulle teste, era il ritornello di qualunque faccenda. Londra? Impossibile, pensava Esther. Londra era di là dell’oceano. Si impiegavano mesi per arrivarci, uno di quei viaggi che si affrontavano una volta nella vita, per cercare fortuna. adamant. Impresse il nome nella memoria, mentre saliva a bordo sui passi del padre, che conduceva per mano le due sorelle. Si girò. Il Gran Diavolo era ai piedi della rampa, con un sacco caricato sulla schiena, e le rivolse un’occhiata. Esther si girò di scatto per nascondere il viso. Le guance avvamparono. 41. L’estuario del San Lorenzo era un sanguemisto. Ibrido d’acque diverse, più salato di un fiume, più dolce dell’oceano. Campo di battaglia per opposte correnti, ondate di piena e maree che influenzavano la navigazione fino ai laghi, nel cuore del continente. Peter pensò a se stesso, estuario tra due popoli, via d’uscita e porta d’ingresso. – È come la canna di un fucile, – disse indicando la mappa. – Un fucile? – domandò Daniel Claus perplesso. – Di quelli che si allargano in fondo. – E noi allora saremmo il proiettile? – Sicuro. Un proiettile di legno, tela e carne. – Ma così, ragazzo mio, spariamo all’Inghilterra, – obiettò Claus. Il giovane Johnson alzò le spalle. Il gioco non gli sembrava poi così importante. – Meglio un corno da caccia, – intervenne l’altro. – E noi? – domandò Peter per non essere da meno. – Noi siamo il richiamo. Il re non potrà fare a meno di ascoltarci. L’estuario del San Lorenzo era il buio della stiva. Trenta uomini in una scatola di legno di sei passi per lato, un secchio d’acqua putrida, un catino per i bisogni, gli avanzi come unico pasto. Ethan Allen aveva provato a ribellarsi, a esigere che lo trattassero da gentiluomo, gli evitassero l’umiliazione dei ceppi, lo facessero parlare col signor Watson, il proprietario della nave. – Sono un colonnello dell’Esercito continentale americano, – aveva protestato. – Questo è un trattamento da bestie, indegno di un ufficiale. Grossi topi neri nuotavano nella sentina che arrivava alle caviglie. Allen ne aveva colpito uno con un calcio rabbioso, sollevando schizzi tutt’attorno. Dalla feritoia un paio di occhi giallastri lo fissavano, stagliati su pelle scura. Succedeva quando meno se l’aspettava. Alzava il capo e quegli occhi bovini erano lì, irritanti come le mosche attratte dalle feci nel bugliolo. Forse il negro non parlava nemmeno la sua lingua. – Siamo uomini, non animali! – urlò Allen esasperato a quegli occhi spenti. – Il mondo saprà come re Giorgio tratta i prigionieri! Scagliò la ciotola di metallo contro la feritoia e la mancò di poco. Quando una voce cavernosa giunse da dietro la porta di legno, i prigionieri alzarono il capo dalla propria amarezza. Nessuno aveva ancora rivolto loro la parola, da quando li avevano tradotti là sotto. – Sai chi sono io, colonnello? Era difficile dire se la voce appartenesse a quel volto, perché la feritoia non inquadrava il viso intero. Allen, il fiato grosso per la rabbia, rimase zitto. – Mio padre era figlio di un principe, – continuò la voce. Le parole avevano un timbro basso e vibrante. – Uomini bianchi lo caricarono su una nave come questa, insieme a tanti altri. Tanti che nella stiva non potevano nemmeno sedersi. Metà di loro morì nella traversata. Tu, colonnello, arriverai vivo. Sei fortunato. – Io sono un uomo libero e sono un ufficiale! – tuonò Allen con espressione spiritata. Gli occhi non risposero. La feritoia si richiuse. L’estuario del San Lorenzo era un lento congedo. Centinaia di miglia separavano Québec dall’oceano. Joseph guardò le creste innevate che l’Adamant si lasciava alle spalle. Parevano richiudersi al passaggio, come le acque del Mar Rosso sull’esercito del faraone. Se non puoi tornare al punto di partenza, l’unica scelta è proseguire. Andare avanti, spingersi più in là. Joseph aveva tessuto arazzi di pensieri. A Londra, come Hendrick tanti anni prima. Quante volte aveva sentito quella storia? Hendrick alla corte della regina Anna. Con lui c’era il padre di Canagaraduncka, il patrigno di Joseph, conosciuto come «Brant», da qui il cognome che Joseph portava. Canagaraduncka aveva raccontato tante volte dei «quattro re indiani» accolti con tutti gli onori. A Londra, Hendrick aveva negoziato l’appoggio delle Sei Nazioni alla regina, nella prima delle guerre contro i Francesi. Aveva perorato un’alleanza tra pari. Lo avevano portato a teatro e ai ricevimenti di corte. Celebri pittori lo avevano ritratto. Tutti si inchinavano al suo passaggio. Durante quel viaggio, Hendrick doveva avere l’età di Joseph. L’estuario del San Lorenzo era una risposta inattesa. Alle spalle di Guy, seduta sul pagliericcio, Nancy Claus intratteneva le bambine. Spiegava che il fiume, migliaia d’anni prima, s’era scavato una via verso il mare. Aveva eroso il granito, strappato terra alle sponde, abbattuto foreste. Guy pensò che a raccontarla in quel modo, sembrava che il fiume avesse deciso dove passare. In realtà, il San Lorenzo aveva eroso il granito che la corrente gli consentiva, non un granello di più. Aveva abbattuto foreste fin dove le piene riuscivano a salire e strappato la terra che si lasciava strappare. A ben guardare, pur con tutta la forza delle sue acque, il San Lorenzo s’era dovuto accontentare dell’unico letto possibile. La scelta era soltanto un modo di dire, un punto di vista ristretto, che non teneva conto di troppi dettagli. Allo stesso modo, pensò, gli uomini si convincono di scegliere, ma il cammino che percorrono è sempre l’unico che hanno a disposizione. Guy era il fiume. Pensò di aver preso la decisione migliore, ma solo perché era l’unica possibile. Il fiume doveva aprirsi la via fino al mare, per non finire in secca e morire. Il passaggio 1775 Il ritmo delle oscillazioni era profondo e stringeva lo stomaco. L’aria entrava copiosa nelle narici, assecondando quel moto. Philip Lacroix si cimentava in un singolare faccia a faccia con i gabbiani, intenti in meravigliose acrobazie. La mente era una buona volta sgombra, liberata dai gravami, il corpo riacquistava vigore, dopo l’immobilità forzata e i giorni di tempesta vissuti sotto coperta. Gesti semplici, essenziali: respirare, percepire il battito e controllarlo, coordinare arti e cervello in movimenti fluidi, capaci di sciogliere la tensione accumulata. Appena giunto in cima, Lacroix aveva rivolto lo sguardo verso il basso, al ponte dell’Adamant. Si notava una certa attività, andirivieni di figure minuscole, non prive di grazia. L’eco distorta di ordini e imprecazioni ovattate e mangiate dal vento. Povera cosa gli umani osservati dall’alto. Aveva rivolto l’attenzione altrove. L’oceano si allargava intorno, ovunque. Non provava terrore di fronte all’immensità. Sentiva il freddo rigido e tagliente. Sentiva la forza della massa d’acqua. A un tratto avvertì una puntura di spillo, fitta leggera che saliva dai piedi. Guardò in basso. Scorse una figura molto piccola, sfocata. Cercò di individuarne i contorni, aiutato dalla luce maestosa del mattino. La figlia maggiore di Guy Johnson, Esther. La ragazza celava una forza singolare e primitiva. Il dolore e la ferita per la morte della madre la rendevano ancor più sensibile e vicina agli spettri. Come Molly. Percepì una nuova presenza, qualcuno saliva il grande albero. Joseph raggiunse la vetta e prese posto accanto a lui. Riempì i polmoni d’aria fresca. Lacroix seguitò a guardare l’oceano. – Credi che il re vorrà incontrarci? – La regina incontrò Hendrick, – rispose Joseph. – Hendrick era un capo. Tu sei l’interprete di Guy Johnson. – Non più, – ribatté Joseph. – Sono l’ambasciatore della nazione Mohawk. Questa volta le parole che dirò saranno le mie. Le nostre. Lacroix annuì, mentre i richiami dei marinai e dei gabbiani sostituivano le parole. – Abbiamo bisogno di giustizia, – aggiunse Joseph a bruciapelo. – Giustizia inglese? – I coloni che ci rubano la terra sono nemici di re Giorgio. Questa ribellione è l’opportunità per ristabilire il nostro diritto –. Joseph strinse il pugno per dare più forza all’idea. – I sachem non lo capiscono, pensano che le cose continueranno come sempre. Invece tutto sta cambiando. Rimasero di nuovo zitti, questa volta più a lungo, ad ascoltare il vento e guardare le vele che sporgevano panciute sotto di loro. Philip Lacroix respirò ancora a fondo. Liberata dal puzzo degli uomini l’aria salmastra non era male. Accennò un sorriso. Anche Joseph distese i tratti del volto. Per un attimo, fugace come la coda di un sogno, gli parve di essere di nuovo su una canoa, lungo il fiume che portava due giovani guerrieri verso l’età adulta. I marinai si spostavano veloci, qualcuno le sorrideva, ma la maggior parte non la vedeva nemmeno. Un enorme uomo nero che arrotolava una corda sul gomito le mostrò i denti candidi. Uno luccicava di metallo. Esther ebbe paura e si allontanò verso il castello di poppa. Si fermò sotto la scaletta, dove il vento non poteva stanarla. Sedette su un barilotto che qualcuno doveva avere messo lì per quello scopo. Dall’alto provenivano voci, riconobbe quella di suo padre e dell’uomo con la gamba di legno, il signor Watson. – … faranno un grande effetto, – stavano dicendo. – Ne andranno matti. Erano sopra di lei. Poteva sentire il rumore del passo sciancato, il tump tump sulle assi del ponte. Spinse il naso oltre il parapetto e guardò giù, nel blu profondo striato di schiuma. Immaginò i recessi tenebrosi che cullavano mostri. Si alzò in piedi sul barilotto. Lo sguardo precipitò tra le onde. Sollevò un piede fino al bordo. La massa scura la chiamava a sé. Esther. Un sussurro nelle orecchie. Un battito di ciglia. Quanto bastò per vedere due occhi neri di donna specchiarsi nei suoi. Esitò. Poi udì un grido, un urlo vibrante, dall’albero di trinchetto. – Terra dritta di prua! La ragazzina la vide: un’ombra scura che s’insinuava tra cielo e mare, interrompeva le onde e stabiliva una fine. L’Altro Mondo. Sul ponte l’agitazione contagiò tutti. Il capitano prese a strillare ordini. Qualcuno afferrò Esther per il braccio e la trascinò fuori dal nascondiglio. Per essere una donna minuta zia Nancy aveva una presa forte. – Ecco dove ti eri cacciata. Fila di sotto, c’è da badare alle tue sorelle. Il colonnello Ethan Allen grattò le croste di sporcizia dall’avambraccio. Non sentiva più il fetore dei corpi, l’olfatto aveva smesso di farci caso. Il trambusto in coperta l’aveva destato dal dormiveglia. Controllò le tacche incise sull’asse di legno. Sì, potevano essere in vista delle coste inglesi. Nella tana del lupo, pensò eccitato. Doveva escogitare qualcosa, spremersi le meningi. L’eroe di Ticonderoga non poteva certo sbarcare come un qualsiasi prigioniero. Serviva una frase memorabile, un discorso, qualcosa che potesse viaggiare di bocca in bocca, incendiare le polveri. Poteva appellarsi ai whig della madrepatria. Patria? Le Green Mountains erano la sua patria. Ecco, forse era questo che doveva dire. Ma no, che ne sapevano del suo paese gli abitanti dell’Inghilterra… Abbasso i tiranni. Era piuttosto questo il concetto. Quando l’avessero processato per tradimento, si sarebbe difeso pronunciando un discorso sulla libertà del popolo. Chi si ribella al tiranno non tradisce, ma serve la libertà. L’avrebbero trascritto e stampato in migliaia di copie. Ethan Allen, Della libertà. Un titolo che avrebbe fatto il giro del mondo. Allen si grattò la testa, snidando pidocchi. Scostò la mole di uno dei suoi uomini accasciato sul pavimento e provò a sgranchirsi le gambe. Due passi avanti, due indietro, tanto era lo spazio a disposizione. «Un mondo nuovo avanza nel cammino della Storia». Suonava bene. Ma i concetti astratti non potevano bastare, bisognava evocare qualcosa di tangibile, che tutti potessero capire. Pestò una mano, qualcuno protestò. Allen sferrò un paio di calci per guadagnare pollici e si appoggiò alla parete. Sopra la testa il trambusto continuava, l’Inghilterra era vicina. Rumore di paratie, vele ammainate, richiami. Allen pensò al ragazzo a cui si era arreso. Un mezzosangue, niente meno. Aveva consegnato la spada a un bastardo. Strinse i denti per la rabbia e osservò la massa di teste chine. Eccolì lì, i patrioti. Un pensiero cominciò a prendere forma. Cos’era quell’insulsa isoletta, l’Inghilterra, al confronto dell’America? Il Nuovo Mondo, una grande nazione sorgeva dalle ceneri dell’Impero. Sorrise per l’emozione. La feritoia della cella si aprì e il guardiano sbirciò dentro. – Allegro, colonnello, – dissero gli occhi gialli. – Siamo arrivati dove ti devono impiccare. Le locande del porto avevano finito il gin prima di mezzogiorno. Era venerdì di mercato, a Falmouth, in più era giunta la notizia che le vele dell’Adamant stavano per entrare nel porto. Ad annunciare l’arrivo era approdata di prima mattina una scialuppa. Ne erano scesi dei marinai e un ufficiale. Quest’ultimo era entrato nei locali dell’ammiragliato e aveva visitato le prigioni. La voce si era sparsa. La nave portava con sé prigionieri, tra i quali Ethan Allen, il famigerato conquistatore di Fort Ticonderoga. Risultato: per le strade la folla era divenuta calca vociante. Le vie fangose erano invase da venditori di brodaglie alcoliche, venditori di trippa e gamberoni, venditori di parrucche usate garantite senza pidocchi, bambini con mazzi di fiori, mendicanti, giocolieri, lustrascarpe di primo, secondo e terz’ordine. Richiami di strilloni di almanacchi si intrecciavano a cantilene di arrotini. I borseggiatori avrebbero guadagnato pane per un mese nell’arco di poche ore. Quando si sparse la voce dell’approdo, la folla si mosse per accalcarsi sul molo: nobili giunti dalle ville nei dintorni, popolani scalzi, servi in libera uscita, mercanti, marinai, contadini scesi per il mercato. Chi abitava le case che si affacciavano sul molo scese in strada a offrire posti d’eccezione per godersi lo spettacolo lontani da urti, spintoni e gomitate. Il padrone di una segheria provò in fretta e furia ad allestire una tribuna. L’opera rimase incompiuta: al primo rintocco del pomeriggio l’Adamant ammainava le vele ed entrava nel porto. Una doppia fila di soldati si fece largo a calci e spinte. Quando il legno fu prossimo all’attracco, la folla ondeggiò. Molti sentivano che la posizione conquistata non era la migliore, i più discreti si limitarono ad alzarsi sulle punte, ma la maggioranza prese a dar di gomito a destra e a manca, pestando piedi e cani da grembo scivolati alle padrone. Dopo molto trambusto, la massa raggiunse un precario equilibrio e trattenne il respiro. Eccoli. Sulla passerella avanzava un gruppo di uomini, sembravano inglesi, ma alcuni avevano la pelle più scura. Al centro, più alto di una spanna, un uomo in catene. Ethan Allen. La folla cominciò a gridare, insultare, inveire. Partì un primo lancio d’ortaggi, ma nessuno voleva rischiare la reazione degli uomini di scorta. I soldati presentarono le armi. Il capitano che li comandava fece il saluto. Un uomo pingue e ben vestito uscì dal gruppo appena sbarcato e con accento irlandese proclamò: – Capitano, vi consegno trentatre prigionieri, nemici del re e dell’Inghilterra, e il loro capo Ethan Allen. Egli si è arreso a questo coraggioso giovane, Peter Johnson, figlio del defunto commissario per gli Affari indiani, Sir William Johnson. All’impresa hanno preso parte anche i capi irochesi qui presenti, fieri alleati del re, Joseph Brant Thayendanega e Philip Lacroix Ronaterihonte. Ci fu un boato di stupore e approvazione. Il capitano avanzò per prendere in consegna il prigioniero. Prima che i soldati lo trascinassero via, Ethan Allen alzò la voce per sovrastare il rumore della folla. – Io sono il fuoco che consuma Babilonia! A morte i tiranni! Ethan Allen sfilò sotto una pioggia di insulti e ortaggi andati a male. Seconda parte Mohock Club 1775-76 1. La carrozza scese lungo la strada, mentre i giganti di St. Dunstan battevano due rintocchi. Il vetturino lottava contro il sonno: un sorso di troppo alla bottiglia sotto il sedile. La nebbia era densa, doveva affidarsi all’istinto del cavallo, bussola puntata sulla stalla. Un grido di bestia selvatica lacerò la notte. L’uomo tirò le redini e sussultò. Quando l’urlo si ripeté, proveniva da più vicino. Il cocchiere avvertì una stretta alle budella. Una parrucca bianco latte si sporse dal finestrino. – Che diavolo succede, Giles? – Non sono sicuro di volerlo sapere, signore. Il vetturino colse un movimento con la coda dell’occhio, sull’altro lato della carrozza. Si girò di scatto: un’immagine fugace, poi solo nebbia. – Forza, Giles, andiamo! Il servo strinse le palpebre, il pensiero andò alla bottiglia sotto il sedile. Non poteva aver visto quel che gli era sembrato di vedere. Un uomo nudo? Scrollò forte la testa e fece per frustare il cavallo, ma un tonfo secco scosse la carrozza. Il passeggero lanciò un grido di paura e stupore. Non c’erano dubbi: nello sportello era piantata una freccia. – Frusta quella dannata bestia, Giles, per l’amor del cielo! Il servitore schioccò la frusta, ma il cavallo impennò con un nitrito, prima di accasciarsi sulle zampe anteriori, il capo disteso sui ciottoli. Alla luce fioca del lampione si vedevano due frecce, conficcate nel collo dell’animale. Il gin non c’entrava, pensò Giles. Forse era giunta la sua ora. Percepiva presenze, ombre striscianti. – Che volete? – gridò per farsi forza. Intanto aveva raccolto la grossa pistola che teneva a fianco della bottiglia e la caricava con mano tremante. La puntò in faccia alla nebbia, dove sentiva i loro passi. Correvano intorno alla carrozza, qua e là intravedeva il biancheggiare di un corpo. – Chi si avvicina è morto, – ringhiò dalla cassetta. Il passeggero si affacciò di nuovo. – Diteci quanto volete e lasciateci tranquilli, – esclamò con voce stentorea. In risposta, una seconda freccia raggiunse la fiancata. La testa si ritrasse nel guscio della carrozza. – Non temete, signore, venderemo cara la pelle, – garantì Giles, ma fece appena in tempo a girarsi per ricevere un colpo alla testa. Mentre sentiva la forza di gravità avere la meglio e la vista cedere al buio dell’incoscienza, riuscì a strappare alla veglia un’ultima immagine. Una grossa mezzaluna turca, tatuata sulla fronte di un energumeno dalla faccia dipinta, con un solo ciuffo di capelli in mezzo alla testa. Gran brutta faccia, pensò Giles prima di piombare sul selciato e perdere i sensi. Il gentiluomo chiamò il vetturino, ma capì d’essere rimasto solo in balìa delle bestie. Vedeva sagome saettare davanti al finestrino, sentiva sussurri, versi di animali. Quando un’ombra si fermò minacciosa davanti all’apertura, brandì il bastone da passeggio e calò un fendente. Approfittò del trambusto per aprire lo sportello sull’altro lato e precipitarsi fuori. Provò a correre ma inciampò e, quando fu di nuovo in piedi, lo avevano accerchiato. Ne contò almeno cinque. Tutti con la testa rasata e a torso nudo. Un rivolo di sangue scendeva su una faccia. L’uomo vide armi lunghe, bastoni appuntiti, uno spiedo, perfino un forcone. – Imperatore! – esclamò uno dei selvaggi alle sue spalle. – Costui mi offende mostrandomi il culo. – Ignobile affronto! – gli fece eco quello con la mezzaluna sulla fronte. – Punitelo secondo la legge dei Mohock. Il selvaggio rifilò una stoccata nel posteriore del gentiluomo. Quello si girò di scatto, ma così facendo mostrò le terga a un altro membro della banda, che subito gliene diede una seconda, costringendolo a un’altra giravolta; ma già arrivava un terzo colpo, poi un quarto, mentre tutti gridavano invasati: – Mo-hock! Mo-hock! Mo-hock! – dimenando le braccia, pestando i piedi e urtandosi l’un l’altro con poderose spallate. All’improvviso, quello che chiamavano Imperatore alzò un braccio. I sottoposti si fermarono. La vittima era piegata in due, mani sulle ginocchia, cercava aria a grandi boccate. A un secondo cenno del caporione, la sollevarono per i piedi finché ogni moneta non saltò fuori dalle tasche. L’Imperatore incassò la refurtiva, poi si chinò sul malcapitato. – Mi chiamo Taw Waw Eben Zan Kaladar II, Imperatore dei Mohock di Londra. Dopo il tramonto, questa è la mia riserva di caccia –. Trasse un respiro profondo e la mezzaluna si increspò di rughe. Quindi strappò la parrucca candida del gentiluomo e la legò alla cintura. – Potete andarvene, – aggiunse. – Ma in fretta. Avete bisogno di un bagno. Il disgraziato si sollevò a fatica, stringendo i denti, e iniziò a correre alla cieca, verso il fondo della strada. Con un movimento rapido il capobanda recuperò l’arco, prese la mira e scoccò una freccia nel posteriore dell’uomo in fuga. Quello riuscì a malapena a urlare, prima di perdere i sensi. Gli altri assalitori si scambiarono occhiate perplesse. – E se tira la crepa? – lamentò uno di loro. – Metti che è un milordone. L’energumeno lo degnò appena di un’occhiata, mentre infilava l’arco a tracolla. – Diventiamo famosi. Nessuno aggiunse altro. Preceduti dal capo, uno alla volta rientrarono nella nebbia, creature d’incubo prima del risveglio. L’ultimo lanciò di nuovo il grido di guerra animalesco, a sfidare la notte di Londra. 2. Lungo la strada le case infittivano, la campagna lasciava il posto ai sobborghi. Philip Lacroix ripensò all’esodo che l’aveva condotto dai boschi di Canajoharie alla capitale dell’Impero, dalla valle del Mohawk a quella del Tamigi. Ripensò al fiume percorso controcorrente; ai torrenti impetuosi discesi a rotta di collo; alle cascate e ai crinali aggirati con l’imbarcazione in spalla; ai venti che soffiavano sul lago Ontario; alle Mille Isole del San Lorenzo e alle tempeste gelide dell’Atlantico settentrionale, capaci di inclinare i pennoni dell’Adamant fino a lambire le onde. Eppure gli ultimi cinque giorni, quelle duecento miglia sulle strade sconnesse tra Falmouth e Londra, erano stati i più faticosi. Forse era solo questione d’abitudine: Philip aveva poca dimestichezza coi veicoli a ruota. Forse il malessere aveva a che fare con la velocità: la diligenza si muoveva più rapida dello spirito del passeggero e quest’ultimo era costretto a inseguirla. Si strinse nella pelliccia di castoro e guardò l’amico seduto accanto a lui. Joseph Brant era assorto. Oltre il finestrino, edifici sempre più imponenti. La luce del giorno si esauriva, la città appariva un ammasso scuro pronto a inghiottirli, un animale gigantesco, il fiato sospeso nell’aria, denso e visibile. Joseph era stato a New York, una volta, ma quella era tutt’altra cosa. Si riscosse, sforzandosi di sorridere a Philip. – Benvenuto a Babilonia, – mormorò. Ombre di grandi costruzioni incombevano nella foschia. L’aria puzzava di bruciato, liquami e spazzatura, ma Peter respirava a pieni polmoni, mentre cercava di distinguere qualcosa. Avrebbe preferito arrivare in pieno giorno, il crepuscolo lasciava ostaggi dell’olfatto, troppo stanchi per riuscire a orientarsi e cavarsi d’impaccio. Desiderò energie fresche e luce a volontà, per esplorare ogni vicolo ai lati della strada. Il convoglio di carrozze sostava, i cavalli ansimavano, i passeggeri stremati occhieggiavano dai finestrini. Qualcuno del Dipartimento, in testa alla colonna, era entrato nell’albergo per impegnare le stanze. Peter vide un ragazzo della sua età che impugnava una lunga pertica con in cima una fiammella. Si accostava ai lampioni della strada e li accendeva uno a uno, facendo piovere luce giallastra sul selciato. Ombre scivolavano veloci sotto l’alone, emergendo dal nulla per subito svanire. Gli venne in mente una finestra affacciata su un mondo capovolto, da cui fosse possibile osservare le strane creature che lo popolavano. Non era così che aveva immaginato l’arrivo nella capitale. L’ordine era di non scendere dalle carrozze. Allungò il collo, ma non riuscì a vedere oltre la vettura successiva. Joseph si pulì le dita dal tabacco sfregandole tra loro. Il sapore dolce mitigava il puzzo di Londra. Guy Johnson diceva che l’odore acre di bruciato era dovuto al carbone, e anche la foschia. Difficile immaginare che una roccia estratta dalla terra servisse a fare il fuoco. Le carrozze attendevano da mezz’ora. L’elmo d’oro aveva due camere meno del previsto. Il personale dell’albergo stava facendo il possibile per trovare un’alternativa. – A Québec stavamo tutti in una stanza, – osservò Peter tra gli sbadigli. – Qui non si usa? – Qui siamo ambasciatori della nazione Mohawk, – gli rispose lo zio. – Gli inviati del re di Francia non accetterebbero di dividersi una stanza. Peter chiuse gli occhi e si lasciò andare sul sedile. Joseph si voltò per offrire una presa anche a Philip, ma scoprì che era scivolato fuori dalla carrozza. Aveva bisogno di stare in piedi, dritto sulle gambe, liberarsi dalla morsa del viaggio. Fece pochi passi fino al lampione, per osservarlo da vicino. Tra quello e il successivo rimaneva un tratto di buio pesto: il mondo appariva a pezzi scollegati, intermittenza luminosa che rendeva impossibile abituarsi alla notte. Oltre la debole cascata di luce non si vedeva nulla. Dal pozzo della memoria affiorò un ricordo opalescente, le dita scarne di padre Guillaume premute sul banco: «Ricorda, Philippe. Non c’è Luce senza Tenebra. Un solo principio e il suo opposto. Per affrontare le tenebre serve la fede, perché non vedrai mai oltre il passo che stai per compiere. È la nostra prova terrena». Un rumore lo riportò al presente, un cigolio sinistro si avvicinava, difficile dire da dove, la nebbia spandeva il suono tutt’attorno. All’improvviso percepì una presenza sotto di sé, trasalì. Un essere mostruoso gli toccava il ginocchio ed emetteva suoni incomprensibili. Era un uomo, o ciò che ne rimaneva. Il tronco poggiava su un piano di legno, spostato su piccole ruote grazie alla spinta delle mani. Uno strato compatto di croste e cenci incolori ricopriva il corpo, a stento si distinguevano occhi, bocca, alcune dita. Philip provò l’istinto di scacciare l’orrore, ma rimase immobile, catturato dall’immensità di tanta bruttura. «La nostra prova terrena». L’essere puzzava e parlava, diceva qualcosa, una nenia oscura, eccetto due parole, «signore», «eccellenza». In fondo alle dita contorte sporgeva un piattino di latta. L’essere chiedeva la carità. Philip provò ribrezzo, repulsione, paura. Allontanò l’artiglio del mendicante e tornò alla carrozza. Joseph lo vide rientrare, pallido e corrucciato. – Cosa c’è? – Questo posto puzza, – disse Philip. L’amico alzò le spalle. – Anche il grasso d’orso. Ma senza che faresti? Rumore di zoccoli risuonò sul selciato, la sagoma di due cavalli trainò un veicolo nel cono di luce dei lampioni. L’uomo che sedeva a cassetta si tirò in piedi. – Un attimo di attenzione, prego –. Parlava scandendo le parole, per esser certo di farsi capire. – Mi chiamo Jerome, per servirvi. Vengo dal Cigno a due colli, in Lad Lane. Il mio padrone mi chiede di riferirvi che siamo pronti ad accogliervi come meglio possiamo. La nostra locanda non si addice a lunghe permanenze, ma siamo riusciti a liberarvi due stanze tranquille. Il personale sarà a vostra disposizione. Philip afferrò il bagaglio e scese in strada. – Una stanza è per me, – disse. – E credo che Peter la dividerà volentieri. Il ragazzo si risvegliò dal torpore e affiancò il Gran Diavolo. A Joseph non rimase che seguirli. Jerome si affrettò a trasferire le borse da viaggio. Prima di risalire a cassetta, si assicurò che i passeggeri fossero comodi. – Signori, se permettete, anche se c’è nebbia, sciolgo la briglia a queste bestiacce. Le strade di Londra non sono tutte ben illuminate ed è rischioso, dopo l’imbrunire. I due indiani non dissero nulla. Joseph si limitò a un cenno del capo. Quando le ruote presero a muoversi, Philip guardò fuori. Gli sembrava di sentire ancora il cigolio, sempre più debole e lontano. 3. Almeno sessanta uomini, una dozzina di cavalli, cinque cani. Polli in abbondanza, stretti nella stessa gabbia. Quattro bambini inseguivano un grasso porcello. Gabbiani chiacchieravano in volo. La Creazione. Voci e rumori salivano dal cortile come vapore da una zuppa bollente. Scalavano le balconate, bussavano a ogni porta, svegliavano i clienti uno dopo l’altro. Il sonno di Philip era una rete a maglie larghe: la maggior parte dei suoni lo attraversava senza spezzarlo. Nel dormiveglia, era capace di dare un nome a ciascun rumore, di valutarne volume e distanza. Aveva imparato da bambino e ormai era un’abitudine. Alla missione lavoravano molti Caughnawaga. Era stato uno di loro a insegnare a Philippe i rudimenti della caccia. I padri non s’erano opposti, purché l’attività non sottraesse tempo allo studio e alla preghiera. Così, non potendo stare nei boschi da mattina a sera, erano nati una serie di esercizi per tener svegli riflessi, sensi e muscoli. «La Creazione» era uno di quelli. L’aveva soprannominato così padre Guillaume, sempre attento a rivestire di Dio qualunque cosa riguardasse un suo allievo. Philip scivolò fuori dal letto. Peter dormiva ancora. Estrasse gli abiti dal baule e iniziò a vestirsi. Semplici ma di ottima stoffa. Infilò gli stivali, uscì e si affacciò dal ballatoio. Il Cigno a due colli era un ampio edificio senza fronzoli, che chiudeva i tre lati di un cortile. Il corpo centrale ospitava le stanze, con accesso dall’esterno attraverso balconate di legno che rivestivano la facciata. Traiettorie di uomini, veicoli e bestie s’incrociavano nel fango. Un ubriaco trascinava i piedi fuori dalla taverna. Facchini parevano soccombere sotto carichi impossibili. Un ragazzo correva sulle gambe sottili per consegnare lettere e pacchi. Carri e cavalli si urtavano per guadagnare il voltone d’uscita. I postiglioni chiedevano strada, mentre nugoli di bambini assediavano i passeggeri con offerte di pettini, spugne, rasoi, specchietti e frutti arancioni che Philip non aveva mai visto. Di fronte alle stalle, diligenze attendevano cavalli e riparazioni. L’atmosfera del luogo aveva un che di familiare, pensò Philip. Nella valle del Mohawk, le case più grandi erano sempre anche locande, stalle, uffici postali, spacci, rimesse per barche e armerie. La gente andava e veniva, le vite si sfioravano e questo bastava a conoscere più cose di quante Canajoharie potesse contenere. Imboccò le scale e scese di sotto. Neanche il tempo di guardarsi intorno e già era circondato dai venditori di cianfrusaglie, scandalizzati che un gentiluomo come lui affrontasse la giornata senza acquistare simili mercanzie. Pagò uno dei frutti sconosciuti, lo infilò in tasca e si smarcò. Fece pochi passi in direzione dell’ingresso ma un tizio dai vestiti logori e l’aria sussiegosa riuscì a mettergli in mano un foglio. – Un’esibizione che non potete perdere, signore. Soltanto tre scellini –. La battuta sembrava recitata a memoria. – L’uomo-istrice? – domandò l’indiano leggendo l’annuncio. – Un uomo con gli aculei al posto della normale peluria, signore. Sensazionale. Mai visto in nessuna città del regno. Le frasi uscivano come una cantilena. – In cosa consiste l’esibizione? – chiese ancora Philip. – L’uomo-istrice vi mostrerà il tronco e le gambe. Potrete toccarlo e notare che non c’è nulla di finto, solo uno scherzo di madre natura. Poi lo vedrete comportarsi come un istrice, camminare a quattro zampe, rizzare gli aculei, dare la caccia ai vermi. – Quest’uomo mangia i vermi? L’altro ammiccò: – Ma no, solo così, per intortare le babbole e sudarsi la stecca. – Come dite? Il tizio sgranò gli occhi, come colto sul fatto a commettere un crimine: – Niente, signore, niente. Sensazionale. Mai visto. L’uomo-istrice –. E così dicendo si allontanò col plico di fogli stretto sul cuore. – Nulla di che preoccuparsi, signore. È il mercato. Philip si girò e vide un uomo elegante, sui trent’anni. Un sorriso a bocca aperta si allargava verso le orecchie e tagliava il volto in due, tronco d’albero che attende l’ultimo colpo. L’uomo portava un grande cappello. Accanto a lui, un negro grande e grosso, altrettanto ben vestito, reggeva una borsa di cuoio. – Permettete che mi presenti, signore. Mi chiamo Maugham. Frederic W. Maugham, e la «W» sta per Winslow. Questo è il mio segretario, il signor Cornelius Pigou. Voi siete straniero, si vede subito, signor… – Philip Lacroix. – Francese, dunque. – Sono cresciuto in Canada. – Prima volta a Londra, nevvero? – Sì, è esatto. – Dovrete abituarvi a gente come quello straccione. Tolta l’invadenza di chi cerca di venderle, le merci di bassa qualità sono innocue. La moneta buona scaccia quella cattiva, se vi è libertà di scelta, e Londra è la capitale della libertà di scelta. In nessun’altra parte del mondo circolano tante merci –. Maugham allargò le braccia, come per afferrare la maggior quantità possibile di mondo. – In nessun’altra città il mercato si regola con tanto mirabile equilibrio! Philip cercò invano di dare un senso a quelle parole. Maugham dovette capirlo, perché cambiò espressione, abbassò la voce e riattaccò il discorso con un tono più calmo e paziente. – Signor Lacroix, l’uomo vestito di cenci vi ha appena offerto una merce tra le più ricercate: il divertimento, la distrazione, il brivido dell’inconsueto. Ogni giorno, persone dai gusti semplici si eccitano vedendo l’esibizione dell’uomo-istrice e di chissà quanti altri suoi colleghi, veri o presunti scherzi di Madre Natura: nani, giganti, ermafroditi, donne col becco d’anatra, uomini con quattro testicoli. Si tratta di imbrogli, di messinscene per creduloni. Prodotti di infimo livello, per giunta proposti in modo rozzo. Se chi vende questi spettacoli rimane in affari, è perché opera in condizioni particolari, limitando con artifici la libertà di scelta. Mi seguite? – Seguirvi? – Intendo dire: capite quel che sto dicendo? Quel genere di spettacoli viene proposto a persone come voi, di fronte ad alberghi e stazioni di posta. Gente di passaggio, che si trova a Londra per la prima volta, è a caccia di sensazioni forti, ma non conosce quel che la città offre né ha tempo di informarsi e scegliere l’offerta migliore al prezzo più vantaggioso. Così si ritrova a vedere l’uomo-istrice, e magari prosegue la serata facendosi spennare in una bettola dove il cibo è avariato e il vino è acqua tinta, per concludere il proprio excursus in un vicolo, con una battona di bassa levatura. Sovente, dietro c’è un accordo, quando non un unico interesse: il padrone dell’uomo-istrice è anche proprietario della bettola, nonché protettore della battona. Il vostro excursus è stato pilotato fin dall’inizio, in modo da impedirvi di conoscere altre offerte. Così si chiude e blocca il mercato, si abbassa la qualità dei beni, si rende cattivo servigio alla città, all’Inghilterra, all’Impero. Ed ecco che arrivo io. – Voi? – Sì, io. Un suddito leale come Frederic W. Maugham non può permettere che un gentiluomo come voi torni in Francia o in Canada convinto che gli intrattenimenti di Londra siano dozzinali, che il cibo sia immangiabile e costoso, che le battone inglesi abbiano carni frolle e seni cadenti. La mia è una missione: assecondando le forze del mercato, contribuisco alla ricchezza della nazione. Il servizio che offro ai gentiluomini è, né più né meno, la possibilità di esercitare il proprio libero arbitrio. Come vi dicevo dianzi: la moneta cattiva è scacciata dalla buona. Io metto in circolazione moneta buona. Il lungo discorso aveva ubriacato Philip. Era combattuto tra il desiderio di rientrare in albergo e la curiosità di capire quale fosse il punto. – Anche voi mi state offrendo qualcosa? Maugham sorrise e fece un cenno al suo segretario. – Pigou, apri la borsa. Il negro eseguì. La borsa era vuota. – Ciò che io vendo, signor Lacroix, è informazione. Vedete cosa c’è in quella borsa? – Non c’è niente, direi. – Esatto, esatto! Niente. Ma immaginate… – e abbassò ancora la voce. – … immaginate che quella borsa sia piena di carta. Centinaia e centinaia di fogli. Nero su bianco, tutto quel che Londra è in grado di offrire a un uomo di mondo. Nomi, indirizzi, prezzi. Le puttane più belle ai prezzi più convenienti. Gli spettacoli più bizzarri per clientele selezionate. L’oppio migliore da fumare nella più totale discrezione. I ricevimenti particolari a cui accedere con parole d’ordine. Le persone a cui rivolgersi per soddisfare i gusti meno… usuali. Chi ha da offrire questi servizi si rivolge a me, e io metto in contatto la domanda e l’offerta. Si rivolgono a me perché sono il migliore, e lo sono diventato senza scorciatoie, sbaragliando i competitori grazie alla qualità del servizio. Mi seguite, signor Lacroix? Philip non disse niente. Confusione e curiosità lasciarono spazio al disprezzo. Il negro chiuse la borsa. Maugham continuò. – Si tratta di informazioni che fanno girare l’economia, signor Lacroix. Tuttavia, voi comprenderete, non sono cose che si possano gridare ai quattro venti. Io sono un patriota e un suddito che ama re Giorgio, ma devo dire che le autorità inglesi sono ancora molto arretrate. In nome di una morale vetusta, pongono inspiegabili freni al commercio e mantengono fuorilegge alcuni beni e servizi. Presto dovranno mutare atteggiamento, e lasciare il mercato libero di crescere. Finché quel giorno non verrà, ciò che dovrebbe stare in quella borsa sta tutto qui dentro! – Con la punta dell’indice destro si toccò la fronte. – Non avete che da chiedere, signor Lacroix. Vorreste intrattenervi con qualcuno? Posso proporvi donne giovani, donne vecchie, donne in carne, donne scheletrite, oppure uomini, fanciulli, e altre creature di Dio, se mi sono spiegato. Cosa vi piacerebbe vedere? Incontri di pugilato all’ultimo sangue? Vi piace scommettere? C’è un posto dove i negri si affrontano con coltello e bastone. Tutti negri liberi, ovvio. Anche Pigou è un uomo libero. Io sono contrario alla schiavitù: ciascuno ha il diritto di vendersi al prezzo che ritiene giusto. Ehi, ma dove andate? Signor Lacroix? Philip si diresse verso l’albergo. Maugham e Pigou lo seguirono per una decina di iarde: – Signor Lacroix? Ho tante altre offerte da farvi. Badate, non troverete nessun altro in grado di dirvi… Uno degli uscieri del Cigno a due colli vide i tormentatori, agitò il pugno e disse: – Ancora qui, schifosi depravati? Se importunate di nuovo un nostro cliente, vi faccio pestare a sangue! I due si allontanarono. Philip entrò e si lasciò il mondo alle spalle. Respirò forte. Dentro si aprivano due sale, una di seguito all’altra. Joseph gli fece cenno da un tavolo accanto alla finestra. Addentava una fetta di pancetta in compagnia di uno sconosciuto. Quest’ultimo vomitava parole in un dialetto incomprensibile, con l’aria di chi ne avrà per un pezzo. Philip afferrò una sedia e provò a rintracciare il bandolo del discorso. Guardò l’amico: ascoltava attento, annuiva, ogni tanto sollevava la tazza e mandava giù un sorso di brodo. – Capisci qualcosa? – sussurrò Philip in lingua mohawk. – Nient’affatto, – fu la risposta. – Mi abituo all’accento di Londra. La sagoma rotonda di Jerome avanzò a grandi passi verso di loro. – Signori, – disse con voce piena di rammarico. – Non dovevate mangiare qui, vi avevo fatto riservare una stanza, cibo speciale… – State tranquillo, Jerome, – lo interruppe Joseph. – Qui va benissimo. – Come volete, signori. Il vostro albergo libera le stanze domattina e anche se ci dispiace vedervi partire… – Noi non partiamo, – intervenne Joseph. – Qui stiamo bene. E voi, Jerome, siete un uomo premuroso. – Come i signori desiderano. La vostra presenza ci fa onore –. Fece per voltarsi, ma si fermò, frugò le tasche del panciotto ed estrasse una busta. – Dimenticavo. Un biglietto per voi –. Con un leggero inchino lo consegnò nelle mani di Joseph. – Buona giornata, signori. Philip guardò l’amico aprire la busta e leggere il messaggio. Lo interrogò con un’occhiata. – Siamo invitati a un ricevimento a casa di un certo Warwick, – rispose Joseph. – Il conte di Warwick. 4. Dal «Daily Courant», 30 dicembre 1775. un resoconto dell’intervista con il colonnello johnson commissario del dipartimento per gli affari indiani delle colonie americane Il 28 dicembre scorso, all’ora del tè, mi sono recato a Westminster, all’albergo dell’Elmo d’oro, dove risiede il commissario del Dipartimento per gli Affari indiani delle colonie americane, colonnello guy johnson. Egli è un uomo robusto, di media statura. Porta i capelli corti sulla nuca, pettinati all’indietro, come per lasciar spazio al volto, onesto e minuto. Benché rivesta cariche importanti, il suo eloquio è conciso, laconico, con un accento irlandese assai marcato. Dopo un breve scambio epistolare, mi ha ricevuto con molta gentilezza e ha accettato volentieri di rispondere alle mie domande. Circa le ragioni che hanno spinto la delegazione indiana ad attraversare l’oceano, ha affermato che le tribù nostre alleate sono estremamente confuse dagli eventi delle colonie. Ufficiali che combatterono al loro fianco nella guerra contro i Francesi sono diventati avversari gli uni degli altri. In un simile guazzabuglio, il popolo mohawk desidera ascoltare la viva voce di Sua Maestà e agire soltanto in ossequio alle Sue direttive. Una visita del tutto simile avvenne nel 1710. Anche in quell’occasione si trattava di consolidare un’alleanza e lo splendore di Londra doveva servire da contrappeso alle fandonie dei gesuiti francesi, secondo le quali Cristo nacque a Parigi e venne crocifisso in Inghilterra. La regina Anna ricevette a corte l’imperatore Tiyanoga, che i coloni chiamavano Hendrick, accompagnato dal re di Maquas, detto Brant. Si dice che costui fosse il nonno del principe Thayendanega, anch’egli noto col nome di Brant. Ho chiesto al colonnello Johnson di darmi notizie sui nostri alleati indiani. Egli mi ha mostrato una mappa, disegnata di suo pugno per il ministro delle Colonie lord germain. Qui le Sei Nazioni Irochesi occupano il territorio a ovest della colonia di New York, fino ai Grandi Laghi. Il popolo più importante e autorevole è quello dei Mohawk, i cui territori si trovano entro i confini della colonia. Dai tempi della regina Anna, la nazione Mohawk è di molto progredita. Abitano villaggi di case robuste e dignitose, coltivano la terra con l’abilità di un contadino dell’Essex, sono tutti devoti cristiani e si assicurano molti agi e comodità grazie al commercio con i mercanti inglesi. Quanto alla consistenza militare, l’intera federazione può mettere in pochi giorni quindicimila uomini sul sentiero di guerra. Secondo il colonnello Johnson, una chiara e inequivocabile scelta di campo da parte di questi alleati basterebbe da sola per far desistere dall’impresa i Bostoniani che assediano Québec. «Non a caso, – ha detto, – sono stati sufficienti un centinaio di guerrieri per difendere Montreal e catturare il più pericoloso dei nemici», riferendosi a quell’ethan allen che pochi mesi fa si era impadronito di Fort Ticonderoga. Ho domandato allora come mai il Principe Thayendanega, giunto in Canada per difendere Montreal, sia partito alla volta di Londra proprio quando l’esercito continentale schierava le truppe sulla riva del San Lorenzo. A questa domanda, il colonnello Johnson si è alzato, ha riposto la mappa e dopo un lungo silenzio mi ha spiegato che i quindicimila guerrieri delle Sei Nazioni attendevano solo un cenno per intervenire contro i ribelli e rincorrerli fino a New York. Egli guidava una piccola avanguardia, giunta in Canada come rinforzo per ordine del generale Gage. Purtroppo, tra il generale e il governatore di Québec sorse un dissidio circa l’utilizzo delle milizie Mohawk ed esse furono costrette a smobilitare. «Molti ufficiali temono che le truppe indiane sfuggano al loro controllo, – ha chiarito il colonnello Johnson. – Questo non succede quando il comando è affidato a una persona di loro fiducia. Sir William Johnson, mio zio, si è occupato per due decenni degli affari indiani. Egli è morto da oltre un anno, ma le Sei Nazioni continuano ad avere grande confidenza nella nostra famiglia. Se tale fiducia verrà confermata anche da Sua Maestà, l’alleanza con gli indiani non potrà che portare benefici agli interessi della Corona». Con questa importante precisazione si è conclusa l’intervista e il colonnello Johnson mi ha dato appuntamento per un resoconto completo della sua udienza con Lord Germain. panifex 5. Un maiale in abiti eleganti, con una pecora in testa. La parrucca era troppo lunga, la posizione dell’uomo le faceva sfiorare il pavimento. Era grasso e certo non molto alto. Anche piuttosto in là con gli anni, si sarebbe detto. Le guance ricadevano flaccide ai lati del volto, come quelle di una scrofa. Nondimeno erano incipriate a dovere e uniformavano l’incarnato al colore della chioma. Labbra e gote ravvivate di rosso, punteggiate da un florilegio di nei. Il respiro gonfiava il panciotto, che sembrava sul punto di cedere, come il portale di una fortezza sotto i colpi di un ariete. Le scarpe toccavano appena il pavimento, mantenendo la sedia in bilico sulle gambe posteriori. Rimaneva così, appoggiato al muro, dondolando appena. Philip si distolse dalla strana creatura e tornò a prestare attenzione al padrone di casa. – Quanto invidio i Mohawk, altezza, – diceva il conte di Warwick rivolto a Joseph, mentre si tamponava il volto incipriato. – Un popolo che si dipinge la faccia solo per andare in battaglia. Philip ricordò che all’ingresso del salone, un domestico con una giacca piena di bottoni aveva preso in consegna i loro cappelli e aveva fatto l’annuncio. «Sua altezza Joseph Brant Thayendanega, principe di Ganjahore, e il signor Philippe de la Croix». Philip era rimasto interdetto. Al confronto «il colonnello Guy Johnson e il tenente Daniel Claus» sembravano semplici membri del seguito; perfino Peter aveva ricevuto un’accoglienza più calorosa, in qualità di «vittorioso campione del re». Vide Joseph schiudere le labbra per rispondere qualcosa, ma il conte aveva già riattaccato a parlare: – Voi siete il clou della serata, ma i miei ospiti sono a dir poco spaesati. Si immaginavano esotici guerrieri, scalzi, il volto dipinto, coperti di penne e piume. Sulle prime sono rimasti delusi nel vedervi tanto gentiluomo. Tuttavia, v’assicuro che non stanno nella pelle, – e col braccio fece un ampio gesto circolare, a indicare la vastità del salone. Philip osservò gli invitati: difficile attribuire natura umana alla maggior parte di quegli esseri coperti di tessuti sgargianti, stretti negli abiti, in bilico su tacchi di dieci pollici, dita invisibili sotto grappoli di anelli, teste affossate nelle spalle sotto il peso di parrucche simili a uccelli impagliati. Erano intenti a ballare, bere, ruminare cibo, conversare. Warwick parve capire cosa passava per la testa del guerriero, sorrise e spiegò: – Questa… fauna è molto diversa da quella dei vostri boschi, nevvero, monsieur Lacroix? Ma vi assicuro che dietro l’aspetto ridicolo ils sont ni plus ni moins que des bêtes féroces! Joseph, che non capiva la lingua di Molière, aggrottò la fronte. Warwick venne in suo soccorso, senza guardarlo. I suoi occhi erano vuoti, ora. Era come se parlasse a se stesso, dimentico degli ospiti, in uno stato simile al sonnambulismo. – Belve feroci, principe. Mostri che lo stesso Linné, il grande naturalista, non sarebbe in grado di classificare. Dopo una buona occhiata li si direbbe primati, famiglia degli hominidae, ma alcuni di loro sono rapaci notturni, altri insetti simili alle termiti, altri ancora rettili dal sangue gelido. Tutti carnivori e cacciatori. Uccidono per mangiare, ma la loro fame si chiama noia, vivono nel perenne bisogno di trovare qualcosa di nuovo, qualcuno di nuovo, distrarsi, ghermire negli altri l’autentica vita, la jouissance che essi sono condannati a simulare. Quando trovano una preda la divorano, piluccano ogni ossicino, lo spezzano e ne suggono il midollo. Philip e Joseph erano rimasti a bocca aperta. Il conte li guardò, si scosse dalla trance e proseguì su un altro registro: – Bene, stasera le prede siete voi. Avreste dovuto sentire le corbellerie dette sul vostro conto poco prima che giungeste qui. Circolano idee affatto bizzarre sugli indiani, tra la nobiltà inglese. Prendete, per esempio, il duca di Sorethumberland, là in fondo, – e distese l’indice. I due Mohawk seguirono la traiettoria e in mezzo alla calca variopinta individuarono il probabile oggetto del discorso, un uomo alto e magrissimo dall’età indefinibile, vestito di rosso fiammante. Conversava con una specie di donna-barile, molto più bassa di lui, e teneva le spalle curve. La donna aveva in braccio un animaletto dal pelo lungo e il muso schiacciato. – Che genere di bestia è quella? – chiese Joseph. – Un cane da grembo. Un essere inutile con il quale trastullarsi. Pensate che a volte i miei ospiti arrivano con scimmie accovacciate sulla spalla, et les singes, vous le savez, ils chient, juste comme les hommes. «Scimmie? – pensò Philip. – Scimmie che defecano sulle spalle?» Warwick era già tornato al suo argomento. – Il bravo duca era convinto che sulle vostre terre scorrazzassero i rinoceronti e che voi indiani ne riduceste in polvere il corno per trarne un afrodisiaco più potente della cantaride. Rinoceronti? Cantaride? Philip e Joseph erano attoniti. – Come dicevo, – proseguì Warwick, – costoro non sanno nulla delle nostre colonie. Non hanno idea di dove siano e di chi le popoli. Siamo soliti descrivere Londra come «il cuore dell’Impero», ma il cuore pompa il sangue al resto del corpo, mentre qui è vero il contrario: sono le colonie a pompare il sangue che tiene in vita Londra. – Quindi la città del vostro re sarebbe la testa, – affermò Joseph. Warwick sorrise: – Se così fosse dovrebbe contenere il cervello. Guardatevi intorno: in teoria, questo salone ospita il meglio dell’alta società del regno. Ebbene, dal momento che vi accingete a trascorrere la serata in questo posto, vi invito ad ascoltare le conversazioni. Vi assicuro che non rinverrete traccia di raziocinio. Io credo che queste strade e dimore siano le terga dell’Impero. Del deretano e del suo orifizio possiedono ogni caratteristica: qui si deietta ogni risorsa che l’Impero manda a noi. Solo che, per un capriccio di natura, tali terga si trovano davanti al corpo anziché dietro –. Il conte scoppiò a ridere. – Avete una strana considerazione dei vostri invitati, conte, – disse Joseph. – Per quale ragione vi circondate di persone che non tenete in stima? – Guardatemi bene, altezza. Io appartengo alla stessa specie. Anch’io vado in cerca di jouissance. Trovo il mio godimento nel disgusto. Assisto con autentico piacere a spettacoli ridicoli e rivoltanti. Allestisco serate come questa e osservo il decadere del mio tempo, un piede dentro e uno fuori lo spettacolo. Non è un segreto, tutti sanno qual è il mio scopo, e nondimeno accorrono a frotte, perché nessun ricevimento tiene il passo coi miei. Philip non era certo di aver capito. Joseph era certo di non aver capito. Warwick lo sapeva e di nuovo rise. – Voi ignorate la natura di chi regna sui vostri vicini bianchi, come noi non sappiamo nulla di loro e di voi. Certo, si sa che i coloniali sono in rivolta, al di là dell’oceano, ma la maggior parte di noi s’è fatta un’idea vaghissima. La domanda più frequente, quando se ne parla, è: «Perché ci odiano?» – Non odiano voi, – disse Joseph. – Dietro il velo delle parole, c’è la mia gente. Vogliono le nostre terre e la nostra dignità. – Oh, di certo non vogliono la nostra, – replicò Warwick. – Ne siamo privi. Philip vide un gatto sfrecciare sotto la sedia del grassone addormentato e fargli perdere l’equilibrio. L’uomo sbatté per terra con un tonfo e proruppe in un peto sonoro, che causò l’ilarità garrula della dama più vicina. La bestiola, spaventata, si rifugiò sotto l’orlo della sottana, ma con fare deciso la signora sferrò un calcio e la proiettò lontano. Philip guardò la palla di pelo volare attraverso il salone e si accorse che non era un gatto, ma un opossum. Rimbalzò sulla schiena di uno dei danzatori, che fece finta di nulla, limitandosi a restituire un sorriso stolido mentre si spiava le spalle. Infine l’animale atterrò in mezzo alla sala, dove rischiò d’essere schiacciato da decine di tacchi che si muovevano in sincrono. In quel momento Philip lo vide meglio e capì. Non era nemmeno un opossum. Né un coniglio. Era il topo più grande che avesse mai visto. Dopo un attimo di panico, il roditore puntò velocissimo nella sua direzione. Philip si spostò per farlo passare, ma un colpo secco inchiodò il ratto al pavimento. Fu come se qualcuno avesse fatto scoppiare un palloncino. Un nastro di budella schizzò dall’addome della bestia e raggiunse la schiena del duca di Sorethumberland, che si girò interdetto, credendosi vittima di uno scherzo. Qualcuno gli indicò le terga ed egli compì diverse piroette prima di capire cosa l’avesse colpito. La sua dama fece appena in tempo a stendere il ventaglio e vomitare in un vaso di fiori, mentre il cagnolino leccava le frattaglie sul pavimento. I servitori accorsero a ripulire. Qualcuno intanto aiutava l’uomo-maiale a rialzarsi. Philip fu certo di averlo sentito grugnire e dovette stringere i denti per non ridere. Joseph Brant sollevò il bastone e contemplò il cadavere. Il conte di Warwick si affrettò a richiamare l’attenzione del maggiordomo. L’uomo, un nero in livrea e guanti candidi, sollevò il topo per la coda e lo portò via tra i gridolini schifati delle dame. I danzatori ripresero ad attraversare il salone a passi coordinati. Gli orchestrali erano maschere di sudore e cerone. Peter era stato reclutato con molte moine per esibirsi al violino insieme all’orchestra. Qualcuno prese a lodare il fatto che un eroico soldato nutrisse anche l’interesse per la musica e avesse un tocco così lieve. Joseph non riusciva a distendere i muscoli facciali, tanto era il puzzo che saturava la stanza: un misto di sudore rancido e fiori marci. Gli avevano detto che i nobili europei erano soliti profumarsi, ma quello che sentiva non era certo un odore gradevole. Si voltò verso Philip, che si guardava intorno perplesso. – Forse anche qui devono tenere alla larga le zanzare. Il maggiordomo annunciò l’arrivo di qualcuno e una donna deforme avanzò nella sala. I fianchi erano tanto larghi da sfiorare gli stipiti della porta. Una valletta doveva aiutarla a passare senza intoppi e seguirla dappresso per correggerne la rotta con piccole spinte sui lati. Una scalinata di boccoli coronava la testa. L’abito sbrilluccicava, come intessuto di frammenti di specchio, tanto che guardarla feriva gli occhi. Al collo pendeva una teoria di pietre intagliate che scendeva fino al seno massiccio. Il maggiordomo declamò ad alta voce una cifra ragguardevole e la donna-baldacchino si guardò intorno compiaciuta. – È il prezzo del vestito e dei gioielli che indossa, – disse il conte rivolto a Joseph e Philip. – A fine serata proclamiamo sempre una vincitrice. – Anche le nostre donne sono ottime trasportatrici, – commentò Joseph. – A dire il vero, altezza, le nostre trasportano soltanto la propria vanità, – sogghignò Warwick. – Un peso enorme, in effetti. Permettete che ve lo dimostri. Joseph osservò il conte avvicinarsi al donnone con noncuranza, baciarle la mano, vezzeggiarla, e intanto far scivolare la punta del bastone sotto l’orlo della sottana. Approfittando di un rumoroso applauso agli orchestrali, sollevò appena la stoffa. Una struttura di ferro reggeva il peso dell’abito, montata su piccole ruote. 6. In piedi nella divisa militare, Guy Johnson assisteva alla scena, defilato rispetto all’alone di interesse e curiosità che circondava i Mohawk. Al suo fianco, sotto una parrucca bianca, Daniel Claus contemplava gli invitati di Lord Warwick. Nonostante la fierezza della postura, Guy accusava il peso del viaggio e la fatica degli ultimi mesi. Lo stupore di fronte all’aristocrazia londinese lasciava il passo a considerazioni più gravi circa la loro presenza nella capitale. Londra era un calderone ribollente di umori e avvenimenti, il rischio di rimanere inghiottiti era serio. Le porte da aprire erano due: Lord Germain, nuovo ministro delle Colonie, e re Giorgio. Bisognava aprirle in fretta, ottenere le nomine. Al momento l’attenzione volgeva tutta verso «il principe Thayendanega e i suoi valorosi guerrieri Mohawk». Dalle premure di Lord Warwick e dalla curiosità morbosa dei convitati si capiva che la cosa era destinata a durare. Questo poteva andare bene: Guy si fidava di Joseph Brant, sapeva quanto avesse a cuore l’eredità di Sir William e l’unione di sangue con la famiglia Johnson. Sapeva che avrebbe fatto la sua parte per onorare la memoria e i precetti del Vecchio. Anche al «monaco» Lacroix doveva essere riconoscente: difficile da capire, ma affidabile come pochi. I Mohawk avrebbero fatto l’interesse del loro popolo e della famiglia Johnson. Eppure, il rischio di rimanere oscurati era concreto. Forse bisognava insistere sui meriti militari ottenuti contro i ribelli, sulla cattura di quel pagliaccio esaltato di Allen. Eppure, al fondo qualcosa era cambiato. Una gobba di stanchezza, la patina scura del dolore. Non era facile scrollarsi di dosso bandoka. Mary e il figlio maschio. La responsabilità era sua, l’aveva voluta con sé. Da quella notte faticava a guardare in volto le figlie e aveva iniziato a temere il futuro. Forse era quello il senso dell’invecchiare. La paura come una zavorra sempre più pesante. O forse era solo la durezza di un viaggio iniziato molti mesi prima. Eppure, l’anno 1775 si chiudeva nella residenza sul Tamigi di un aristocratico nelle grazie di re Giorgio, tra baldracche di illustri casati e parassiti d’alto bordo. Lontano dalle terre e dai possedimenti, con la guerra alle porte. Per fortuna aveva le figlie con sé, al sicuro. Difendere l’onore e gli averi dei Johnson. Ottenere gli incontri giusti, trattare buoni affari. Allontanare l’ombra cupa. Guy destò i propri sensi e si accorse di avere in mano un bicchiere, ma non ricordava cosa contenesse. Vide Peter seguire al violino la musica dell’orchestra. Suonavano su una piccola pedana, sotto un enorme specchio dentro una cornice di legno dorato. Il ragazzo era a suo agio. Aveva studiato e ricevuto una buona educazione, parlava bene e aveva già fama di combattente. Poteva fare breccia nella considerazione della Corona. Tornò a guardare in direzione di Joseph Brant e del conte di Warwick, pochi passi più avanti: l’indiano era impassibile, non mutava espressione né apriva bocca, calato nella parte in maniera impeccabile. A giudicare dalle moine del conte poteva chiedere qualsiasi cosa. Meglio non farsi rodere dalla fretta, muoversi nei tempi giusti, saper aspettare. Si scosse di nuovo e si girò verso Daniel Claus. – Pare che il nostro principe eserciti un’attrazione irresistibile sull’aristocrazia britannica –. Indicò con un cenno del capo in direzione del capannello animato dalla loquacità del conte. Il tedesco spostò il peso sull’altra gamba e il commento che proferì fu solo un rantolo. Guy Johnson guardò di nuovo il bicchiere che aveva tra le mani. Il maestro cerimoniere interruppe musica e danze per annunciare che Lady Somersault, la strana architettura semovente di broccati e gioielli, era la vincitrice della serata, grazie alla considerevole opulenza del carico che trasportava, per un controvalore di migliaia di sterline. Alla notizia seguì un applauso, interrotto da nuove portate di cacciagione dirette al lunghissimo tavolo del banchetto. Il trambusto fu immediato e irrefrenabile, i capannelli si scomposero, attraversati da un sussulto come di esercito in rotta. Non di fuga si trattava, ma di assalto, tanto che alcuni camerieri si sottrassero a stento all’arrembaggio. Grovigli di mani smembrarono il cibo. Rumori di masticazione riempirono la sala. – Toglie appetito, vero? Una voce disgustata. Passo incerto, gamba destra rigida, spalle storte come il sorriso. L’uomo accennò un inchino. – Sir Theodore Leed. Onorato. Guy Johnson e Daniel Claus ricambiarono il saluto. Leed ammiccò in direzione di Joseph Brant, che contemplava serafico il banchetto. – Con tutto il rispetto, signori, a meno che da quando ho lasciato l’America le Sei Nazioni non siano diventate una monarchia, il vostro indiano non è principe più di quanto io sia re di Svezia. Aveva il tono brusco di un soldato e ne aveva anche l’aria. Guy e Daniel scambiarono un’occhiata eloquente. – In effetti, Joseph Brant Thayendanega è un capo guerriero, non un principe, – ammise Guy. – Lo immaginavo, – soggiunse lo sciancato. – Ero di stanza a Fort William Henry durante l’ultima guerra –. Sfiorò la gamba, poi la spalla, con la punta delle dita. – Mortaio francese, chirurgo scozzese. Abbinata infelice. Si concesse un ghigno amaro. Guy sentì l’ansia salire in gola. Deglutì un paio di volte, cercando di non pensare alla sua tenuta, alla valle e soprattutto all’abisso d’acqua che lo separava da casa. Fu Claus a intervenire, forse accorgendosi della sua difficoltà. – Da allora non siete più tornato in America? – Purtroppo no, sono in congedo definitivo. Nondimeno, mi tengo informato su quanto succede. So che avete avuto problemi col generale Carleton circa gli indiani. Claus lo squadrò con malcelata diffidenza. – Per caso appartenete anche voi al partito contrario al loro impiego in questa guerra? Leed sorrise. La domanda era un modo esplicito di prendergli le misure. Osservò l’orda famelica che si allontanava dal tavolo con l’aria stanca e soddisfatta di chi ha faticato per guadagnare il pane. Il chiacchiericcio riprendeva a coppie e gruppetti, mentre l’orchestra cambiava gli spartiti. – A suo tempo conobbi il commissario Johnson, – disse infine Leed. – Mi è dispiaciuto apprendere della sua morte. È raro trovare nella stessa persona un condottiero capace e un abile diplomatico. – Non avete risposto alla mia domanda, – replicò Claus arrotando le erre. Quando si innervosiva, l’accento tedesco prendeva il sopravvento. – Altroché, signore. Un uomo come Sir William sapeva utilizzare gli indiani contro i nemici della Corona, e allo stesso tempo tenerli sotto controllo. Datemi un altro William Johnson e sarò il primo a sostenere l’impiego degli irregolari indiani. – È un modo elegante per dire che siete contrario, – intervenne Guy. – Nient’affatto, – ribatté l’altro. – È un modo di dirvi che comprendo la delicatezza della vostra missione. Credo di essere l’unico in questa sala. – Tuttavia, credete gli indiani troppo indisciplinati per combattere dalla nostra parte. – La disciplina, colonnello, serve a illudersi che la guerra sia una partita a scacchi tra gentiluomini –. Leed adesso parlava come se stesse commentando il sapore del vino, ma gli occhi erano offuscati da un malessere che sembrava marcire in fondo all’animo. – Un’idea con cui noi ufficiali amiamo baloccarci –. Una smorfia gli storse di nuovo la bocca. – Ma chi, come noi, conosce l’America, sa che questa guerra sarà di un genere particolare. Senza regole e con scenari imprevedibili –. Fissò i due interlocutori con fermezza, un’enorme forza mentale si dibatteva dentro un involucro fallato. – Guerra civile, la più sanguinosa. Gli Inglesi la conoscono, già una volta un re ci ha rimesso la testa. È questo che spaventa i pavidi come Carleton –. Un lieve gesto bastò a esprimere la scarsa considerazione per il governatore del Canada. – Sanno che gli indiani sono i combattenti ideali per questo genere di conflitto, e ne hanno paura. Paura di quello che si può scatenare. Guy Johnson avvertì un fastidioso sudore sotto il colletto. Ebbe la sensazione che qualcuno avesse rubato i rumori, che i suoni non si diffondessero più. Le bocche si aprivano mute. L’archetto di Peter accarezzava le corde senza cavarne nota. Tacchi e suole battevano un pavimento d’ovatta. Ogni corpo, ogni movimento era assurdo e inumano. Gli sembrava di essere circondato da lastre di vetro. Le due iarde quadrate che comprendevano lui, Claus e Leed erano il frammento di un mondo alieno, sovrapposto a quello della festa, come una macchia d’olio sul pelo dell’acqua, che galleggia senza farsi assorbire. – Le vostre parole sono affatto inconsuete, Sir Theodore. Il reduce mosse il busto irrigidito e asimmetrico, come una marionetta. – Pensate che non siano adatte a un leale soldato di Sua Maestà? – Leed abbracciò la sala con un solo gesto della mano. – E se vi dicessi che davanti allo spettacolo di questa nobiltà, non posso non provare un briciolo di simpatia per chi è stanco di finanziarne i lussi con le proprie tasse? Pensereste che sono un traditore? Guy scambiò un’occhiata con Claus, nervoso. Dove voleva arrivare? Forse il mortaio l’aveva colpito anche alla testa e sotto la parrucca il cranio era deformato, la mente offesa. – Ebbene, sbagliereste. E di molto, – concluse Leed. – Io sarei disposto a tutto per salvaguardare l’unità dell’Impero –. Tornò a fissare Guy Johnson. – E voi? – Non capisco cosa intendiate. Il reduce fece un cenno in direzione di Brant, di nuovo in balia del padrone di casa e dei suoi ospiti. – Aizzare i cani da guerra contro altri inglesi, ancorché nemici del re, – sentenziò Leed. – Ci vorrà fegato per farlo. Una grande fede in Dio e in Giorgio III –. Sbatté i tacchi. – Signori. È stato un onore –. Di nuovo un mezzo inchino, un sorriso, e si allontanò. I due gentiluomini restarono a guardarlo trascinare la gamba, come un vecchio animale ferito. Il disagio che condividevano impediva a entrambi di aprire bocca. – Allora è questo che fanno gli indiani. Osservano in disparte i nostri usi bizzarri. Philip Lacroix si voltò di scatto. La donna era vestita d’azzurro, un filo di perle al collo. La pelle candida come un lenzuolo era percorsa da efelidi che si perdevano sotto l’abito. Era di corporatura solida, ben piantata. Sembrava apparsa dal nulla, viso adulto, tratti marcati appena ingentiliti dal trucco. I capelli dorati riflettevano la luce della sala. Philip rimase muto a osservarla. Poi parve ricordare qualcosa. – Mi dispiace, signora, temo di non capire. La donna sorrise. – Intendo dire che assomigliate a uno studioso di storia naturale che osserva illustrazioni di animali esotici. Philip non sapeva cosa pensare. Le parole della donna erano celia o cos’altro? La donna allungò una mano. – Lady Florence Mowbray. – Philip Lacroix. La donna ristette perplessa, attendendo il baciamano, poi aprì il ventaglio che portava appeso al polso e sorrise: – Non mi aspettavo certo Hercules Kerkabon. – E voi non siete la signorina di Saint-Yves. – Per fortuna! Avete davvero letto L’ingenuo? E come lo giudicate? Fu il testo a offrire a Philip la risposta. – Una buona favola. Mi piacciono le favole dei filosofi, rido a quelle dei bambini e odio quelle degli impostori. Gli occhi di Lady Mowbray tradirono una sincera sorpresa. – Nessun altro in questa sala saprebbe citarlo così a memoria. Ammesso che qualcuno lo abbia letto. Nelle foreste americane circolano contes philosophiques? – Nelle foreste americane circolano molte cose europee, – rispose Philip. Lady Mowbray schermò il volto con la ruota del ventaglio. Lo fece ondeggiare sul naso per impedire al sudore di sciogliere il trucco. – Noialtri non sappiamo davvero nulla del vostro paese. Leggiamo Voltaire che con foga sconsiglia l’America. – A lui piace l’Inghilterra, – commentò Philip. – Forse. In realtà credo gli piaccia contrariare i suoi connazionali. Quell’uomo è un provocatore, il più acuto d’Europa –. Fece una pausa, come dovesse decidere se azzardare ancora o fermarsi. Alla fine aggiunse: – Al suo confronto Rousseau non è che un grigio figuro, non trovate? Del resto, non è francese, ma svizzero, tutt’altra razza. Oh, scusate, non vi ho chiesto se conoscete… – … gli Svizzeri? – la interruppe Philip. – No. Ma ho letto l’Emilio. – Stupefacente, – disse la donna avvicinandosi di un mezzo passo. – E… – soppesò la domanda, – … da che parte state? Philip la guardò perplesso. – Tra i due campioni quale scegliete, per chi parteggiate? – precisò lei. – Oggi non si è nessuno se non si ha un’opinione in proposito. – Quale proposito? – Ebbene, voi, in un certo senso. Non mi lascerò sfuggire l’occasione di avere chiarimenti da un diretto interessato. – Temo di non capire. Lei gli sfiorò il braccio con la punta delle dita. – Il selvaggio, l’ingenuo, l’uomo naturale. Pensate di essere il modello dell’uomo originario, virtuoso e incorrotto, o piuttosto un ritardatario che deve approdare alla civiltà? Philip soppesò la domanda e decise di dire quello che pensava davvero. – Appartengo al Popolo della Selce, custode della porta orientale della Lunga Casa. Sono figlio del clan del Lupo. Prego Dio alla maniera dei papisti francesi e ho combattuto per il re d’Inghilterra. I filosofi non hanno mai messo piede in America né hanno mai incontrato un indiano. La donna elargì un sorriso di meraviglia: – Mon Dieu, ecco Alessandro che taglia il nodo gordiano. Avete ragione: pronunciarsi su tutto, e in special modo su ciò che si ignora, è una delle malattie del nostro tempo. Tipica dei Francesi, aggiungerei –. Compì un mezzo giro intorno a lui, lanciando occhiate alla sala e inclinando appena la testa in segno di saluto verso qualcuno degli ospiti. La donna proseguì. – La vostra storia deve essere assai più interessante di qualunque operetta morale. Discendete certo da un grande re. – Non ho conosciuto i miei genitori, – rispose Philip. – I missionari del Canada mi hanno raccolto quando avevo due anni. – Orfano, quindi, – commentò Lady Mowbray con aria più greve. – Scapolo, anche? – Ho avuto moglie e una figlia. Sono morte molti anni fa. La donna si schiaffeggiò una mano. – Pago pegno per la mia indiscrezione. Attorno, la sala era un brulicare di corpi e di voci. – Voi siete sposata? – Sì. Ho barattato la mia virtù per un bene maggiore, – le parole uscirono attraverso un sorriso forzato. – Una contea, per la precisione. Ma ho avuto la buona idea di pretendere un’istruzione, così da non vivere inconsapevole come un animale. Philip non seppe cosa dire. Lei parve divertita dall’effetto delle proprie parole. – Lord Mowbray esige massima discrezione, e che non lo si contraddica in pubblico. Una donna acculturata è più di quanto queste persone riescano a sopportare. Come vede, monsieur Lacroix, noi inglesi siamo davvero civili. Mettiamo a contratto qualsiasi cosa. Ecco svelato perché molti filosofi ci prendono a modello. Philip colse la figura di Joseph, scortato dal conte di Warwick fino a un capannello di dame sovreccitate. – Ma adesso venite, – propose Lady Mowbray senza perdere tempo. – Soccorriamo il principe, lo spettacolo sta per cominciare. 7. Gli Italiani avevano la mania della «macchina». Non come i Tedeschi. I Tedeschi, al più, alzavano un obelisco o una statua – un putto, un angelo ad ali spiegate, un monumento equestre in omaggio al committente. Opere grezze di gesso e cartone, pochi giorni di sudore e il resto della fatica andava ai fuochi, miscelare le polveri, provare le micce. Al momento giusto, l’obelisco o la statua si aprivano o incendiavano, e da dentro partivano i razzi. Gli Italiani no. Gli Italiani ergevano castelli da fiaba in legno, tela e cartapesta, alti cento piedi, con pareti scorrevoli o ripiegabili, tripudio di trompe l’œil e false prospettive. Gli Italiani alzavano archi, cupoloni, facciate di cattedrali, i fuochi nascosti dentro gargoyle e altorilievi. La macchina, questo importava. Senza la macchina, i fuochi erano «nudi». Così aveva detto uno dei mastri artificieri, mischiando gli idiomi come polveri piriche: – Sans de machine, de fires sont nud, compris? Nud. Let de Germans being de Germans, we do different, con l’argent of de Lord. Perché Lord Warwick si fosse intestardito con la scuola italiana non era dato sapere. Il signor Abbott, l’esperto cerimoniere del conte, preferiva i Tedeschi. Più scarni, ma precisi e affidabili. Eppure, in tutta Europa, erano i fuochisti italiani a godere della migliore reputazione. Gli Italiani costruivano la propria gloria sull’abbellimento di idee nate altrove, aggiungendo un tocco flamboyant e buffonesco. Con loro c’era un architetto, tale Guidalberto Rizzi. Abbott aveva visto i suoi bozzetti: un edificio senza stile riconoscibile, facciata sontuosa sorretta da portici, si innalzava ed era interrotto due volte da nuovi spazi vuoti, foreste di pilastri e capitelli, e in cima si allungavano torri, cannoni verticali dal cui interno partivano i fuochi. Più in alto ancora, su una piattaforma circolare giravano unicorni, draghi cinesi e leoni simili a quelli della Repubblica di Venezia. Dalle fauci uscivano fiamme, subito spente dai getti d’acqua delle proboscidi di due elefanti di legno, nascosti dietro gli alberi e poi sospesi in aria da un gioco di funi. Elefanti che, a loro volta, dovevano esplodere in un tripudio di lampi rossi, bianchi e blu. Lord Warwick non era tipo da badare a spese e aveva acconsentito a ogni richiesta. Abbott aveva assunto gli artigiani e gli operai e procurato i materiali. Un mese di lavoro, i viali della residenza affollati di carri e maestranze a petto nudo. Impalcature si alzavano, ponteggi si allargavano, secchi viaggiavano su carrucole e ogni tanto cadevano sfiorando teste. Lord Warwick salutava gli incidenti con applausi dal terrazzo, Abbott non sapeva che pensare. Nel carro-officina, i pirotecnici miscelavano zinco, antimonio e arsenico rosso. Abbott era preoccupato. Anche la scelta dell’accompagnamento gli sembrava azzardata. Musica per i Reali Fuochi d’Artificio. Lo ricordavano tutti, il grande tonfo del ’49. Anche quella volta s’era trattato di Italiani. Un disastro: esplosioni premature, incendi, morti, feriti, risse e arresti. Il re e il suo seguito se n’erano andati, suggellando il memorabile fiasco. Su scala minore, Abbott temeva di assistere a qualcosa di simile. Lo traversavano orribili presentimenti. Il cielo era color blu di Prussia. L’unico elemento germanico del display. Alla servitù occorsero parecchi minuti per spegnere tutti i lampadari e le candele del salone panoramico. Pian piano la grande vetrata cessò di riflettere le luci, i sorrisi e i colori sgargianti della calca, e si fece trasparente. Ciascuno vide svanire il suo doppio e si trovò in compagnia di un blu denso e pesante, di fronte alla volta del cielo. Philip Lacroix Ronaterihonte non aveva mai visto fuochi d’artificio. Joseph Brant Thayendanega non aveva mai visto fuochi d’artificio. Peter Warren Johnson aveva visto i fuochi d’artificio, a Philadelphia, ma sospettava che quello spettacolo sarebbe stato un’esperienza ben più ricca. Con argani e pertiche, gli operai rimossero i teli dalla bizzarra costruzione al centro del parco, circondata da lunghe torce infisse al suolo e grandi lampade appese agli alberi. Peter si guardò intorno in cerca di suo zio e del Grande Diavolo, ma non riuscì a vederli. Boom! La folla trasalì e i vetri tremarono. Il cielo ancora non s’illuminava. A breve distanza, una seconda esplosione: Boom! E poi: Boom! La terza salva era l’ultimo segnale. Un lampo illuminò il cielo senza fare alcun rumore. L’orchestra attaccò l’ouverture. Da una cupola in cima al tempio si levò una muraglia di fuoco, che divenne una cascata di fiamme rosse, bianche e blu. La Union Jack. Una sequenza di scoppi spaventosi cancellò la musica, accompagnata da scie verdissime che sembravano partire da ogni punto del palazzo, salivano in cielo e davano vita a effimere stelle. Gli Italiani avevano la mania del rumore. Nei loro spettacoli inserivano il maggior numero possibile di «colpi scuri», zeppi di polvere nera. – Abundance of grand noise, Mister Ebbott, is de Italian style, ssssssssssss, ka-boom! Boom, boo-boom! Tutto scoppia, compris? Abbott, in piedi su una collinetta, godeva di una buona vista sulla macchina e sull’intero display. Sulla sinistra vedeva il palazzo, quello vero, i fuochi riflessi nelle vetrate del salone panoramico. Un edificio di fronte all’altro, come se quello in pietra subisse l’arrembaggio di un suo doppio avvolto dalle fiamme e avesse rinunciato a difendersi, limitandosi a contemplare la violenza di cui era vittima. In quel momento capì l’intento degli Italiani. Anche Philip comprese. Appoggiato alla parete di fondo, accanto a Lady Mowbray, vedeva lo spettacolo al di sopra di parrucche e diademi. Il palazzo di legno non era forse la caricatura del palazzo di Lord Warwick? Lo sfarzo inutile, le statue, gli orpelli, i colonnati sospesi. I pirotecnici mettevano la nobiltà inglese di fronte allo spettacolo di se stessa. La jouissance del padrone di casa trovava il proprio culmine nel falò delle vanità imperiali. Un leone sbuffò un getto ardente, più debole del previsto. Si risolse in una pioggia di lapilli che cadde sul prato, radente alla facciata del tempio. Fu così che una colonna del portico prese fuoco. Prima che qualcuno intervenisse, le fiamme si trasmisero a un’altra colonna. Gli elefanti, intanto, restavano nascosti. Da dietro una siepe sbucarono alcuni energumeni a petto nudo, ciascuno con un secchio d’acqua. Nel mentre, il fuoco aveva intaccato una terza colonna. Abbott si lanciò di corsa giù per la collinetta. Il fuoco divorava la facciata. Continuavano a partire razzi, in un tripudio di astri artificiali. Sorgevano e subito calavano. Tramonti definitivi, rimpiazzati da nuove, rapide albe. Grappoli di scintille fluttuavano negli occhi degli astanti. Abbott raggiunse la siepe dietro la quale operavano i tireurs. Vide gli Italiani e si avventò contro di loro. – Incoscienti! Irresponsabili! Lo sapevo che avreste causato un disastro! Gli Italiani lo guardarono come fosse un posseduto. Uno di essi gli mostrò i palmi delle mani, per placarlo o per tenerlo a distanza. – Calm, friend, tranquill! C’est part du spectacle! Is de Italian style, maybe forget? – poi si girò verso gli operai a torso nudo e ordinò: – Tirez la corde, now! Un altro pirotecnico, coperto di tatuaggi dal mento alle dita delle mani, indicò alle spalle di Abbott e gli fece segno di girarsi. In quel momento l’intera facciata crollò. Abbott rimase a bocca aperta. Peter, Philip, Joseph e tutti gli altri rimasero a bocca aperta. I musici smisero di suonare. Un prolungato «ooohhh» di stupore riempì il salone. Dietro la facciata distrutta dal fuoco era sorta una piramide. In cima alla piramide, un disco di fuoco, replica del sole, mandava intorno una luce bianca. La piramide si alzò, sollevata da tiranti e verricelli. Alla base, si accesero decine di razzi. Era come se le fiamme variopinte la spingessero lontano da terra, verso il cielo. Cielo che si accese di stelle e si tinse, in un’ultima grande vampata, di rosso, bianco e blu. L’applauso fu fragoroso. Tutti si girarono verso Lord Warwick, per congratularsi. Il padrone di casa sorrideva sardonico. «E gli elefanti? Dove sono gli elefanti?» pensò Abbott. – Non dovevano esserci gli elefanti? – chiese agli Italiani. – Come omaggio agli ospiti indiani? Gli Italiani lo guardarono come fosse un verme spuntato da sotto un sasso, poi scoppiarono a ridere. – Ils sont indiens d’Amerique. Elephants stay in India, imbezèl. Notte. Peter tornava verso l’albergo e si sentiva alto dieci piedi. Il legno e le stoffe della carrozza faticavano a contenerlo. L’eccitazione della folla, la musica, i fuochi d’artificio continuavano a rumoreggiare, suonare, esplodere nella mente. Scorrevano nelle vene insieme al sangue, denso e forte. Il cuore batteva come un tamburo, sul volto era dipinto un sorriso. La carrozza sobbalzava, Peter non provava alcun disagio, come se le membra, pervase d’eccitazione, non percepissero disagio o stanchezza. Era al centro del pianeta, in mezzo a un gruppo d’eroi che Londra aveva salutato con il cappello in mano. Era alticcio, i liquori e i rosoli e i vini avevano sapore di nettare, sapori ben diversi dal rum delle colonie. Le donne e le fanciulle – alcune lo avevano guardato, se n’era accorto – erano ninfe, la sala dove si era tenuto il ballo era un Parnaso. Gli uomini lo avevano trattato con il rispetto che si conviene a un giovane guerriero vittorioso. Peter guardò fuori del finestrino. La notte era buia, in molti punti l’illuminazione pubblica era assente. Sentì la mole dei palazzi gravare sul veicolo. Londra era un’immensa fortezza, i suoi bastioni difendevano tutti i sudditi leali, giungevano ai quattro angoli del mondo, fino alla valle del Mohawk, fino a Canajoharie. Peter pensò che il futuro aveva i colori dell’arcobaleno. 8. Una cantina umida, senza intonaco né pavimento. Nell’angolo più scuro, un gatto morto saziava una banda di topi. Il calore della stufa era una goccia nel mare di gelo. Raggi di sole smorto e grida eccitate colavano giù dalle bocche di lupo. L’orco col grembiule travasava il vino dalle damigiane alle bottiglie, senza riempirle. Lo sfregiato lavorava di lima su un vassoio di peltro. Il più magro dei tre raccoglieva la polvere con un cucchiaino, la versava nel Bordeaux, aggiungeva acqua e contava ad alta voce: – Centosette, centotto, centonove… Dall’ingresso sul fondo, proruppero nella stanza due individui, eleganti come lord se paragonati agli altri. Sotto i pastrani, giacche di lino grezzo e calzoni di lana. Il più alto aveva persino una parrucca, sfilacciata e sporca ma di buona fattura. In mano, un foglio sgualcito. – Signori, – annunciò con enfasi. – Il «Daily Courant» ci fa l’onore di un articolo. – Dannato cazzo! Leggi un po’. – Zitti. Mi incasinate la conta. Dove stavo? – C’è la lettera del merlo che abbiamo spennato l’altra notte. Dice che se qualcuno non gli crede, può andare dal dottor Flint, e chiedere a lui com’era bollito, dopo la cura degli indiani. – La freccia nel culo. Chissà che ghigne, dottor Flint! – Centotto. Eri arrivato a centotto. – Macché, almeno centodieci. Tocca che ricomincio. – Lascia perdere, – lo fermò il nuovo arrivato. – Si deve parlare. – Qualche trucco per la serata? – domandò il contabile. – Anche. Lo sfregiato sorrise con l’occhio buono slavato dal gin. Non aveva progetti per l’ultima notte dell’anno, a eccezione di un ragazzino che gli doveva un favore. – Porta il vino, – ordinò il lord a quello col grembiule. – Voglio sentirlo, prima che lo piombate. Piegò il giornale e andò a sedersi su una cassa di legno abbandonata più in là. Gli altri quattro ne trascinarono altrettante a formare un cerchio. Gli passarono la bottiglia. Tirò una sorsata, si sfilò la parrucca e prese a pettinarla con le dita. La testa scoperta rivelò il ciuffo da guerriero indiano e una mezzaluna turca tatuata in fronte. Con un gesto, invitò l’altro lord a prendere la parola. Era un biondino pallido, aria sifilitica, pancia da birra. A prima vista, pochi gli avrebbero dato un penny. – Dunque, – si schiarì la voce. – La storia è questa: qui a Soho, smazzano tutti in solitaria. Tagliaborse, scippatori, borsaioli, scassaporte. Qualche stradaro sulla via di Tottenham. Rape come le nostre, c’è solo uno che le sbafa. Si chiama Dread Jack, ha una ganga da sette e fa il gioco infame: ladra e acchiappa i ladri, gratta, piazza, si canta chi compra e intasca la mensa. – A Covent Garden non ne avevamo di stronzi così, – commentò malinconico lo smilzo. – Avevamo i bracchi del giudice Fielding, in compenso, e abbiam dovuto sgambare. – Animo, sguanati, – tagliò corto l’Imperatore. – Magari il trasloco ci fa bene. Il Garden era troppo fitto, ormai. Qui niente cagnacci, solo bacucchi della Guardia, gli fai uh! e scappano in parrocchia. Mettiamo sotto Dead Jack e il gioco è fatto. I polli tutti per noi, le facce tutte con noi. – La fai liscia, – sputacchiò lo sfregiato. – Quello mica è un poldo qualsiasi. La gnucca indiana gli fa una sega. – Non dire stronzate, Cole. Noi siamo i Mohock di Londra, altro che ciuffo. Questa qui, – batté la mano sulla fronte, – non me la sono fatta ieri. – Lo sappiamo, Dave, – l’orco recitò la filastrocca. – Tuo nonno era Hendrick, il re dei Mohock, che venne a Londra e si fece una scopata. – Proprio così. Tutta la città sbava per gli indiani, come allora. Se eravamo la ganga del Signor Nessuno, quello manco la scriveva, la lettera sul «Courant». – E secondo te Dread Jack legge il giornale? – A mala pena saprà scrivere il nome, ma che c’entra? Al gregge basterà sentire il nostro, di nome, per cagarsi in saccoccia. – E a noi che ce ne viene? – Il contabile strizzò il naso in una smorfia da gatto. – Se si cagano, pagano, – sentenziò l’Imperatore. – La paura è l’anima del commercio. I selvaggi della città non vedranno l’ora di mettersi con noi. I vecchi della Guardia pregheranno Dio, i bracchi di Fielding staranno a cuccia nel canile di Bow Street. Dead Jack ci penserà due volte, prima di fare la guerra ai Mohock di Londra. Detto questo, estrasse dalla tasca una scatolina rivestita di velluto, ne cavò uno stuzzicadenti in penna d’oca e prese a conficcarlo tra carie e denti guasti. – E il carico di vino che ci siamo fatti? – chiese l’orco indicando le damigiane. – Se lo stavano cucinando loro, quel colpo. – Appunto. Sono passati tre giorni. Tu li hai sentiti lagnarsi? – No, ma tempo al tempo… – Tempo al cazzo. Mica è scacchi, che dobbiamo aspettare. Abbiamo fatto la prima mossa, adesso rilanciamo. – Rilanciamo? E cosa? L’Imperatore ripose lo stuzzicadenti, pescò una zolletta simile a zucchero e se la ficcò in bocca. Disgustato, diede fondo alla bottiglia, fece un gargarismo e sputò per terra l’intera mistura. – Allume, – disse con l’indice puntato in gola. – Stanga i denti come niente. Un gentiluomo… – Sì, Dave, – lo assecondò l’orco. – Un gentiluomo è come un cavallo. Che cazzo rilanciamo, allora? L’altro arricciò le labbra sui denti. – Quando farai coftretto a parlare cofì e ti piglieranno tutti a ciondoli, come te la gagnerai, la ftecca? Fucchiando la fava? Risate al catarro rimbalzarono per la cantina. L’orco replicò a gesti, invitando i compari a prendersi cura della sua, di fava. – Cosa stavamo dicendo? Ah, già, semplice: andiamo, ci presentiamo, e se vogliono un risarcimento glielo diamo volentieri. Silenzio, rotto solo dallo squittire dei topi. Lo sfregiato si alzò per raccattare una nuova bottiglia. Bevve un lungo sorso. Era di quelle già trattate, ma non parve accorgersi della differenza. Il contabile fu il primo a parlare. – Per me ci sto. Quando? L’Imperatore lanciò la parrucca e si alzò di scatto. – Stasera. Non volevate festeggiare? Domani comincia l’anno mohock. 9. Occhiosolo Fred locchiava le mignotte da dietro il banco della taverna. Era in un cortile di Tottenham Court Road, in mezzo a quello che chiamavano, con rispetto parlando, «l’isolato dei tagliagole» di Soho. Da vent’anni, pure se priva di insegne, portava il suo nome, Taverna Occhiosolo, cioè da quando Fred era sbarcato per sempre da gusci e legnacci sopra la terraferma, e con i quattro denghi che aveva gagnato tra paghe, ruberie e contrabbandi, s’era comprato quella stamberga per diventare un poldo bigio e ciucco in santa pace, e si fottesse l’acqua salata. L’affare era ganzo, il gagno sicuro, il truciolo in saccoccia allora non faltava, e la ciangotta ce l’aveva giusta per ispirare il rispetto. Il resto l’avevano fatto l’occhio guercio, ché uno buono era abbastanza per locchiare quello che si doveva locchiare, qualche sfregio a mescolare i tratti e l’espressione, la ghigna storta e i quattro zughi rimasti nel truglio, marci e affilati come quelli di un pescecane morto. S’era ritrovato oste. Altri tempi. Poi l’età bigia, loffia, scannata e bastarda aveva irrancidito ossa e budella, costringendo Fred a mettersi sotto padrone, un malcico merdoso e lezzo che conosceva da quando era fringuello e si chiamava James, ora Dread Jack. Teneva una ganga di soma infami, truffa e zavagli. Tutto il giorno a glutare gin e a riempirsi le gaioffe e le palandre di denghi frutto di tagli, infamate e borseggi. Finiva un anno di merda, ne cominciava un altro, tanto non cambiava mai una sega, e se cambiava era in peggio, questo pensava Occhiosolo. Così la sbronzeria era già tamagna assai: i soma di ganga di Jack biascicavano, palpavano e glutavano gin, glutavano, palpavano e scaracchiavano dai loro trugli immondi. Le mignotte, nonostante il freddo lisca infame, portavano corpetti di pelle, quasi tutte senza indossar altro di sotto, con le granfie e la schiena nude e le minne bene in vista, e gonne larghe a proteggere il mestiere. Le mignotte passavano da un tavolo all’altro, con il gin e la mercanzia saltellante, a ogni palpata uno scriccio acuto e sguaiato, e poi gufavano, gufavano forte quando uno dei lezzoni di Dread gli affondava la biffa dentro le minne. Insomma, Occhiosolo, da dietro il banco, non aveva che da versare gin e locchiare carne, più o meno fresca. Dread Jack stravaccava sopra una panca appoggiata a una parete, di lui si prendeva cura Betty, detta «la Mangiona», insieme a Ellie, che non aveva un braccio, ma in compenso la natura le aveva donato due minne spaventose. Altri soma di ganga sedevano intorno, zavagli e tronfi e sguanosi come si competeva a poldi di così infimo rango. E via rutti da orchi, scaracchi e bestemmie. La mossa divenne interessante quando all’improvviso il truglio di Tom, detto «Trombone», emise un rantolo come di orso ferito. Trombone Tom, scassaporte della ganga, se ne stava un po’ appartato a un altro tavolo a spassarsela con Mary «la Culona» già da qualche tempo. Com’è come non è, gin, arrazzo e tutto quanto, la salsa che gli scorreva nelle vene era andata tutta alla zucca e Trombone, dopo quel raglio, aveva ribaltato la gonna sopra la testa di Culona, le aveva infilato la fava e la sbatteva da dietro. Ora, questa cosa, dopo qualche sguanata di commento iniziale, aveva riportato una strana specie di calma: le donne non scricciavano più, qualcuna semmai gufava divertita, ma in silenzio, e i poldi locchiavano assorti come a teatro o alle recite di strada. Mary gemeva sguaiata da sotto la gonna, Trombone ragliava e affannava come quell’orco che era. Occhiosolo, dietro il banco, si era arrazzato un bel po’, e aveva cominciato a menarselo lì sotto. Dio scannato, che marciume l’età bigia che nessuno più ti alliscia la fava. Ecco allora che proprio nel mezzo dello spettacolo, e grazie alla calma trista che era piombata nella taverna, d’un tratto Occhiosolo cominciò a snicchiare una ciangotta forte e stentorea. Veniva dalla scuraglia là fuori in strada. Fred drizzò gli snicchi, unico a interessarsi alla cosa nonostante l’arrazzo: Rapido come un falco l’indiano cala sopra il palco Il suono delle ciangotte si avvicinava. e con arco e freccia sgagna la feccia. Fred snicchiò un tramestio di passi rapidi e poi locchiò la porta spalancarsi di botto e apparire un poldo con una biffa esaltata da non crederci, che portava un ciuffo da pazzo invece dei capelli e una mezza luna intarsiata sulla fronte mentre esclamava con la medesima ciangotta: Ma è con l’ascia che l’Imperatore ti sfascia. Giusto il tempo per Occhiosolo di inguattare la biffa sotto il bancone, perché quel poldo pazzo aveva scagliato l’arma dritto davanti, mandandola a conficcarsi sulla pancia di una botte proprio alle spalle di Fred. Seguì uno scriccio belluino, come un grido di battaglia, e dietro di lui presero a entrare malcichi pittati e forniti di mazze e lische e veri archi e frecce pronti per l’uso. Per la ganga di Dread Jack la sorpresa fu da smerdo, e la busseria che ebbe inizio di proporzioni epiche, sebbene in un’unica direzione. I malcichi cacciavano mazzate a tutto andare su biffe e trugli, mentre l’Imperatore della mezzaluna andava a passi spediti a riprendere l’ascia piantata in mezzo alla botte e saliva in piedi sul bancone, proprio sopra la testa inguattata di Occhiosolo. Lì giunto, tronfio e trionfante, si mise a locchiare la scena con gaudio tamagno. Trombone Tom, la fava ancora di fuori, si era preso subito una frecciata verso quelle lande, e guaiva e latrava come un cane; le mignotte, Culona più di tutte, scricciavano come aquile e si raggruppavano in zone meno battute da fendenti, ciaffoni e mazzate; i soma di ganga di Jack, ciucchi e bafagni, avevano provato a metter granfia alle lische, ma i poldi pazzi gli erano stati subito addosso e avevano ridotto biffe e trugli a maschere deformi, con salsa che colava ovunque e zughi, anche buoni, che saltavano fuori come scaracchi. Una disfatta. Fu allora che, dal suo piedistallo, Ciuffettone con l’ascia richiamò i presenti scagati e fraccati con gran sbracciate e una ciangotta mielosa: – Signore, signori, prego, prestate attenzione. Io, Taw Waw Eben Zan Kaladar II, imperatore della nazione Mohock londinese, dichiaro in via ufficiale aperto l’anno mohock. Da ora dunque, siete tutti raccolti sotto la mia benigna ed equanime autorità, rispettando la quale non potrà che tornarvi del bene e una vita lunga e priva di affanni. Siamo venuti a informarvi, affinché non abbiate a manifestar sorpresa per alcuni, diciamo, cambiamenti che da oggi stesso abbelliranno l’esistenza nel nostro vicinato. Dread Jack, che s’era stampato alla parete con tre mignotte a fare da scudo, fece alcuni passi allo scoperto, una lisca bella lunga sguainata in una granfia. Tutto paonazzo nella biffa, tuonò con la ciangotta roca e incazzosa: – E chi diavolo saresti tu, lezzone merdoso che vieni a sparare sguanate in casa d’altri senza rispetto? Salta giù che ti rivolto il culo come un paio di palandre. – Lo sapevo, ecco il grande Dreeead, – disse l’Imperatore. E prima di finire saltò di sotto e piantò l’ascia sulla zucca di Jack, che stramazzò lungo disteso. Dopo alcuni scricci di femmine piombò il silenzio in tutta la taverna. Anche i soma di quel poldo scraniato che si dava dell’imperatore parevano sorpresi e impauriti. Ciuffone II allungò una pedata nelle trippe di Jack, che tirò gli ultimi nel lago di salsa dove si trovava. Poi gli si mise a cavalcioni e con un colpo secco lo scalpò. Tutti locchiavano scagati. Quello sbandierò la cotenna di Jack: – Signore, signori. Da oggi lavorate per me. È tutto. Felice anno nuovo –. Diede un paio di colpi con la granfia aperta sopra il banco e aggiunse: – Vecchio, puoi uscire da là sotto, i clienti hanno bisogno. Noi andiamo. Si rivolse ai soma di ganga, e a passi rapidi, uno dietro l’altro, come erano entrati, uscirono. Occhiosolo Fred, mentre sporgeva guardingo la biffa sopra il bancone, si ritrovò a pensare che forse sì, stavolta l’anno nuovo sarebbe stato diverso. Un anno indiano. 10. Estratto dal «Daily Courant» del 5 gennaio 1776. sui criminali travestiti da indiani che tornano a imperversare nelle strade di londra Nell’ultima edizione dell’anno appena trascorso, pubblicammo la lettera di un gentiluomo di Mayfair, che raccontava la feroce aggressione e rapina da egli subita a opera di presunti indiani Mohock. Da allora, numerosi lettori ci hanno scritto mettendo in dubbio l’autenticità della lettera, o perlomeno, dei fatti in essa descritti. Umili servitori della Verità, siamo dunque risaliti all’autore, abbiamo verificato diverse circostanze ed eravamo sul punto di pubblicare un’accorata difesa della sua onestà, quando è giunta alla nostra sede di Grub Street una notizia che, da sola, vale più di cento difese. Il primo gennaio scorso, poco dopo la mezzanotte, una squadriglia di indiani ha fatto irruzione alla Taverna Occhiosolo di Tottenham Court Road, devastando i locali a colpi d’ascia e di freccia, ferendo diverse persone e infine uccidendo, col barbaro rituale dello scalpo, un certo James hotburn, di anni trentuno, residente a Soho. Il locandiere e alcune donne presenti hanno già dato testimonianza dell’accaduto dinanzi ai giudici dell’Old Bailey. Inutile dire che i protagonisti di queste vicende non possono essere i medesimi indiani attualmente in visita nella nostra capitale. Il pensiero è volato subito al tristemente noto mohock club, che i londinesi rammentano ancora con raccapriccio e che noi, a uso dei lettori più giovani o smemorati, ricorderemo anche qui con poche righe. Nella primavera del 1712, due anni dopo la visita di re Hendrick alla regina Anna, un gruppo di scellerati che s’era battezzato appunto Mohock Club, prese a infestare la notte di Londra a caccia di passanti da molestare, con metodi di rara crudeltà. Tra questi: chiudere la vittima dentro una botte e rotolarla lungo Snow Hill; infilzare le guance dei malcapitati con ami da pesca per poi trascinarli in giro con una lenza; rovesciare carrozze sopra cumuli di immondizia; tagliare mani e nasi; schiacciare il naso di qualcuno e tirargli fuori gli occhi con le dita (il cosiddetto supplizio del Leone); costringere la vittima a far capriole e piroette, agitandogli una spada tra le gambe (supplizio del Maestro di ballo); rivoltare le signore a testa in giù e commettere indecenze sulle loro gambe così esposte (supplizio dell’Acrobata). Pare che dietro la mascherata si nascondessero alcuni rampolli della nobiltà cittadina in cerca di distrazioni. Oggi è dato credere che si tratti piuttosto di pericolosi malviventi. panifex 11. Bucce d’arancia e tabacco masticato bersagliavano la platea come flagelli divini. Servi e lacchè, rintanati nei palchi, tenevano caldo il posto per i loro signori. In galleria, bastoni da passeggio e ventagli scheggiavano la balaustra. Qualcuno invocava gli attori, qualcun altro i principi indiani. Le due fazioni si scambiavano sputi. L’orchestra attaccò una melodia solenne, grida e sconquassi si trasformarono in canto. Il testo parlava della carne arrosto della vecchia Inghilterra e dei suoi molti vantaggi sul ragù dei Francesi. Joseph scambiò un’occhiata con Philip senza dire nulla. Warwick aprì un varco fino alla panca centrale della prima fila, come una guida indiana su una traccia invasa dai rovi. Allontanava gli ostacoli con metodo e senza incertezze. Un saluto a destra, un pizzicotto a sinistra, il bastone puntato avanti e la pancia subito dietro. Appena i suoi ospiti furono seduti, il conte prese posto accanto a Joseph. – I nobili di Londra pensano che i posti migliori di un teatro siano quelli dei palchi. Costano più degli altri, dunque devono essere migliori. Se tutti gli ordini avessero lo stesso prezzo, nessuno di loro saprebbe dove sedersi. Dovrebbero scegliere, ponderare, esporsi all’errore. Non la qualità degli oggetti, ma il sonno della ragione genera il lusso. Ciò detto portò la mano destra sul cuore e intonò l’ultima strofa della canzone. La musica si avvitò nelle battute finali, coperta dai fischi di chi reclamava che si alzasse il sipario. Un proiettile arancione sfiorò la guancia di Warwick e si stampò sul parapetto che proteggeva attori e musicisti dalle intemperanze della folla. – La prima fila centrale è il meglio in assoluto, – sussurrò Warwick come dettando a Joseph le sue ultime volontà. – La scena è di fronte, vicinissima, e i lanci di frutta molto di rado arrivano fin qui. Nei palchi, per seguire bene l’azione occorre sporgersi, e chi sta in alto aspetta solo questo per rovesciare un pitale d’acqua, o anche peggio. Su quell’annotazione, le quinte presero a ondeggiare e l’applauso del pubblico di Drury Lane accompagnò il sipario. Il corifeo era un uomo alto, vestito con una lunga tunica di velluto e un berretto floscio. La voce stentorea superò il frastuono che andava scemando in brusio. – Due casati di pari nobiltà, nella bella Verona dove poniamo la scena, da antico rancore passano a nuovo scontro, e mani civili si macchiano di sangue civile. Dai lombi fatali di questi due avversari nasce sotto cattive stelle una coppia di amanti. Il loro sventurato destino porrà fine con la morte alla faida dei genitori. Gli spaventosi casi del loro segnato amore… Un urlo sguaiato piovve dall’alto sulla platea. – Ehi! Quelli sono i principi indiani! File di colli presero a torcersi in tutte le direzioni. Il brusio tornò a salire, gli sguardi rimbalzarono dal basso in alto e poi di nuovo giù, alla ricerca dell’origine di tanto stupore, finché Joseph e Philip non vennero identificati. I due non osavano muovere un muscolo: l’attenzione di quella gente somigliava a una minaccia. Lord Warwick trattenne un risolino compiaciuto. – Gli indiani! Per Giove, gli indiani! – Fateceli vedere! – Vedo soltanto la testa. – Vogliamo vederli in faccia! – Dateci gli indiani! Il corifeo prese a sbracciarsi e alzò ancora la voce: – Signore, signori, vi prego, siamo qui per Romeo e Giulietta… – Ce li abbiamo tutti i giorni. Vogliamo gli indiani! Un paio di mele colpirono il capo coro, che fu costretto a ripararsi dietro una quinta. Lord Warwick si alzò in piedi e batté con forza il bastone per terra. – Signori, vi prego. Un ortaggio volante sfiorò la parrucca e lo convinse a risedersi. Guardò Joseph e scrollò le spalle. – È il prezzo della fama, – disse divertito, ma l’espressione del volto mutò non appena si accorse che una banda di energumeni era scesa in platea e cercava di farsi largo. – Se non ce li fate vedere ce li veniamo a prendere, – gridava il più esaltato, e intanto calava fendenti con un bastone da passeggio. Pochi passi più avanti, un ufficiale in uniforme rossa sguainò la spada. Qualcuno gridò: – Le guardie! Le guardie! – Un nanerottolo con una parrucca sproporzionata si mise in piedi su una panca, estrasse un foglio dalla tasca del panciotto e prese a leggere con foga, la voce che andava in falsetto al termine di ogni frase. – È il Riot Act, – spiegò Warwick, mentre fingeva di voler proteggere Philip e in realtà lo usava come scudo. – Qui in Inghilterra la libertà dell’individuo ci è così cara che le guardie non possono caricare una folla senza prima avvertirla leggendo quelle righe. Un uomo attempato vestito con eleganza entrò a grandi passi sul palcoscenico. Si piazzò proprio al centro della pedana e allargò le braccia, i palmi aperti. Mentre gli astanti lo riconoscevano, le voci presero a scemare. Warwick inclinò la testa verso Joseph. – L’impresario, David Garrick. È l’attore più famoso di Londra. Si è ritirato dalle scene, ma è ancora un’autorità. Ottenuto un po’ di silenzio, l’uomo sorrise alla platea. – Sembra che oggi il Bardo abbia trovato pane per i suoi denti. Ditemi, dunque. Cosa vi trattiene tutti tra i miasmi di Londra, invece di spingervi nell’eterea Verona? Un paio di voci risposero dalle ultime file. – Vogliamo vedere gli indiani. – Sì, Garrick, guarda, stanno lì in prima fila. David Garrick individuò in platea i due gentiluomini dalla pelle ramata. Con gesto sinuoso da istrione li indicò a tutti. – Li invito allora a raggiungermi su questo proscenio, poiché oggi Mastro Shakespeare deve inchinarsi a chi gli ha rubato la scena. Lord Warwick sfiorò il gomito di Joseph. – Non resta che salire, altezza, e pensare che i prossimi gradini saranno quelli di St. James’ Palace. Joseph guardò di nuovo Philip. Non sarebbe andato solo. L’altro annuì controvoglia e si alzarono. Nel più assoluto silenzio raggiunsero Garrick, che li accolse con un elegante inchino e, con un gesto lieve, li invitò a prendere la parola. Joseph guardò quella marea di facce curiose e provò un disagio nuovo. Aveva parlato molte volte davanti all’assemblea della sua gente. Aveva partecipato a concili e riunioni. Ma si era sempre seduto in cerchio, tra pari. Non si era mai trovato solo di fronte – anzi, contro – una tale folla sconosciuta. Più ci pensava, più il disagio aumentava. Il conte di Warwick, con indice e medio, mimò un omino che saliva le scale. – Che dicano qualcosa! – In inglese! – No, nella loro lingua! – I tatuaggi! Vogliamo vederli! – Fate una danza di guerra! Uno spettatore si sporse oltre la balaustra per picchiare il bastone sulla testa di uno che stava di sotto e si sbracciava. Quello se ne accorse, parò il colpo e lo restituì. L’altro rispose. I vicini si appassionarono al duello e già qualcuno proponeva di scommettere se il tizio in alto sarebbe caduto di sotto oppure no. Arance e tabacco ripresero a volare. Gli occhi di Warwick si fecero supplichevoli. Joseph trovò le parole. – Fratelli di Londra, – disse, poi attese che il silenzio abbracciasse di nuovo il Teatro Reale e ripeté ancora. – Fratelli di Londra, molti tra voi si chiedono cosa ha spinto Thayendanega, Lega Due Bastoni, e suo fratello Ronaterihonte, Tiene Fede, messaggeri del Popolo della Selce e della Lunga Casa delle Sei Nazioni, a varcare l’oceano per arrivare fin qui. Qualcuno dice che è la lite tra le colonie americane e l’Inghilterra. Qualcun altro sostiene che siamo qui per chiedere aiuto al Re contro chi ruba le nostre terre. Tutto questo è vero, ma non sminuisce la curiosità e l’ammirazione che proviamo per la vostra città, grande e magnifica, ricca di cose che gli americani possono soltanto immaginare. Una curiosità più forte la proviamo solo per William Shakespeare, e in particolare per Romeo e Giulietta. Se i rapporti tra l’uomo e la donna, qui in Inghilterra, sono come Shakespeare li descrive, ci chiediamo come sia possibile che Londra abbia un milione di abitanti. Se il nostro popolo adottasse lo stesso tipo di corteggiamento, scomparirebbe nel giro di poche stagioni. Applausi. Il pubblico rideva, fischiava, lanciava in aria fuochi artificiali di bucce d’arancia. I due indiani si avviarono verso la scaletta. Gli spettatori si quietarono nello strano silenzio di chi non sa cosa attendersi. Il corifeo guardò Garrick con aria sperduta. Doveva abbandonare la scena e chiamare il sipario, o riprendere da dove s’era interrotto? Ma dopo un elegante inchino al pubblico il Grande Garrick si ritirò. Il capo coro rimase impalato in mezzo al palco, senza sapere che fare. Joseph Brant stava già scendendo la scaletta per tornare in platea. Dietro di lui, Philip si accorse dell’imbarazzo del corifeo. Si avvicinò e mormorò: – Gli spaventosi casi del loro segnato amore… In prima fila alcune bocche tornarono a spalancarsi. Senza concedersi sorpresa, il corifeo riattaccò: – Gli spaventosi casi del loro segnato amore, e il proseguire della collera dei genitori, che nulla poté rimuovere a parte la morte dei figli, è quanto vi rappresenteremo per due ore su questo palcoscenico, e se vorrete ascoltare con pazienza, sopperiremo col mestiere a quel che mancherà. In platea, incapace di contenere l’emozione, il conte di Warwick si agitava sulla panca. Stringeva mani a destra, sinistra e pure dietro, poi abbracciava Joseph, per accertarsi che fosse vero, in carne e ossa. – Questa città non sarà più la stessa quando ve ne sarete andati, – disse infine con malinconia. – Dirò di più, non sarà lo stesso nemmeno Shakespeare –. Prese un tono supplichevole e proseguì. – Dovete promettermi che non lascerete Londra prima dell’estate. Dovete promettermelo o farò tutto quanto è in mio potere per rimandare la vostra udienza con re Giorgio. Joseph promise, poi fissò il palco con aria rapita e il conte, giunte le mani sul pomo del bastone, si sforzò di tacere fino alla fine della scena. Su una delle logge centrali un gruppo di gentiluomini fingeva di prestare attenzione all’opera. Le voci erano sussurri, i volti in ombra. Gli abiti eleganti dallo stile sobrio denotavano l’appartenenza alla classe degli affaristi della City. Sedevano accostati, ma era evidente che uno di loro era il centro di gravità del gruppo. Le teste degli altri, appena reclinate, convergevano sulla sua figura, e i commenti sibilati erano tutti nella sua direzione. – Quel buffone di Warwick doveva rifilarci perfino gli indiani… La prossima volta toccherà ai cannibali dell’Africa. Da una scatolina d’argento, l’uomo pizzicò una presa di tabacco e la fiutò, nettandosi poi le narici con un fazzoletto ricamato. – I giornali non parlano d’altro, – commentò l’ombra accanto. – Davvero sperano di portare in auge i selvaggi? – commentò un terzo in tono sprezzante. – Vogliono farci digerire l’idea che la Corona affida a questi primitivi la difesa dei propri interessi in America, – aggiunse quello che non aveva ancora parlato. L’uomo al centro della fila sniffò ancora la polvere gialla, quindi richiuse la scatolina e la ripose in tasca lanciando un’occhiata distratta di sotto. Sul palco era in corso il duello tra Mercuzio e Tebaldo, con colpi secchi delle spade di legno. Qualcuno tra il pubblico faceva il tifo, come non si sapesse già chi avrebbe vinto. – Il problema, mio caro Cavendish, – riprese l’uomo al centro senza smettere di guardare giù, – è che gli interessi della Corona divergono sempre più dai nostri. Ogni giorno che passa questo conflitto con i coloniali ci costa migliaia di sterline. La metà dei nostri rapporti d’affari è saltata. I porti americani vengono chiusi, le merci sequestrate o buttate a mare. L’esercito doveva ristabilire l’ordine in poche settimane, e sono già passati più di sei mesi. – Avrebbero dovuto dar retta a Burke. In tutta la Camera è l’unico con un po’ di buon senso, aveva previsto ogni cosa. – Nonostante la vostra stima per lui, signor Pole, il governo è di tutt’altro avviso. – Allora forse dovremmo cambiare governo. – Non prima che abbia perso la guerra, – sentenziò il gentiluomo seduto nel mezzo. – Credete davvero che il nostro esercito possa essere sconfitto? – Non mi intendo di faccende militari, signori. Di sicuro non può essere sconfitto il progresso. Stiamo facendo una guerra per garantire alla Compagnia delle Indie di smaltire in America i suoi stoccaggi di tè. Vi rendete conto che in questo modo non ne andrà venduta nemmeno un’oncia? Anzi, mi dicono che per protesta gli Americani hanno preso l’abitudine di bere caffè. Questo succede quando si forza la mano al mercato. Quante volte ho ripetuto al ministro del Commercio che il mercato deve essere libero, libero, per Dio. Domanda e offerta, domanda e offerta. Tutti i blasoni del mondo non fanno un buon contabile. – Avete saputo che alla buon’ora il signor Adam Smith si è risolto a dare alle stampe le sue teorie? – Grazie a Dio, non sembrerò più un predicatore nel deserto. Quello è uno scienziato che si rispetti. – Dobbiamo senz’altro finanziare la distribuzione del testo a Londra. – Centinaia, migliaia di copie. L’uomo indicò la testa di Warwick, in prima fila. – E nel frattempo abbozzare con questi vecchi parassiti? Qualcuno dovrebbe rompergli le uova nel paniere. I sussurri vennero coperti dal boato del pubblico per la morte di Mercuzio. Quando il fragore cessò, l’uomo seduto al centro riprese a parlare. – Portano qui un paio di indiani ben educati, che conoscono Shakespeare, e pretendono che ci caschiamo tutti quanti. Ridicolo. – Inverecondo, – aggiunse l’ombra seduta a destra. – Miserabile, – commentò quella di sinistra. – Squallido, – concluse l’ultimo personaggio, dopo un attimo d’esitazione. L’uomo al centro si alzò. – Oggi gli attori sono fiacchi. Il vecchio Garrick potrebbe tenere tutti i ruoli e fare una figura migliore. – Anche Giulietta? – scherzò uno degli altri. – Certo. Forse lo stesso Shakespeare la impersonò. – Tempi cupi, – ghignò l’altro. – Non peggiori di questi, – ribatté serio il gentiluomo. – I nostri compatrioti americani chiedono libertà di commercio e il governo non trova di meglio che fraternizzare con gli scotennatori. Il mondo va alla rovescia. Le ombre scivolarono via piano, lasciando la loggia vuota, come una bocca nera spalancata in faccia al palcoscenico. 12. Zia Nancy continuava a dirle di trattenere il respiro. Appena Esther obbediva, una serva nerboruta tirava i lacci del busto, comprimeva le costole e intrappolava l’aria dentro la cassa toracica. Esther pensava di morire, ma il suo piccolo corpo riusciva a difendere uno spazio, quanto bastava per sopravvivere. – Fatto, – concluse la serva con un sorriso arcigno. La voltarono verso uno specchio appoggiato al muro. Esther guardò la dama in miniatura di fronte a sé. L’acconciatura sfiorava il bordo superiore della cornice, guarnita di spaghi dorati, nastri di velluto, strisce di merletto. I capelli stavano dritti sulla testa, come rami di una pianta su un graticcio, per ricadere in boccoli perfetti. A stento riconosceva il proprio viso. Uno strato di biacca l’aveva reso piatto, uniforme, una bambola di porcellana. Spiccavano le labbra vermiglie e l’ombretto sugli occhi. La gonna sfiorava il pavimento, tre strati di stoffa pesante, e sotto mutande lunghe fino al ginocchio e calze di seta. Si chiese come avrebbe fatto a orinare. A causa del busto i respiri erano corti e frequenti, aumentati dal batticuore, dovuto al panico di trovarsi prigioniera lì dentro. Zia Nancy le aveva spiegato che doveva fare bella figura. Era una signorina ormai, e l’occasione mondana richiedeva uno sforzo. L’avrebbe fatto per suo padre? Non voleva dargli un dispiacere, vero? No, Esther non voleva. Zia Nancy disse che dall’alto dei cieli sua madre sarebbe stata fiera di lei, vedendola così bella. Bella? Esther scrutò ancora nello specchio. Non avrebbe saputo dirlo. Provò a camminare, si sentì goffa e lenta. Così conciata non avrebbe mai potuto correre, né accelerare il passo, tanto meno nascondersi dove non potessero trovarla. Poteva solo girare sul posto, come la miniatura del carillon che le aveva regalato suo padre il giorno prima, una donnina piccolissima che si muoveva a tempo su un solco di legno. Esther si voltò verso le sorelline, sedute in un angolo. La guardavano stranite, come si guarda una persona che se ne va all’improvviso. Esther capì che si stavano separando, eppure non riuscì a dolersene. Così doveva essere. Doveva diventare una signora, imparare a ruotare sul posto. Poteva farlo. Usare la corazza che le avevano stretto addosso e stare al gioco. Tornò a guardare la superficie lucida dello specchio e sorrise a se stessa. Dal mondo rovesciato, quell’essere pallido arricciò un ghigno freddo. Sulla carrozza la fecero sedere accanto al padre. Di fronte a loro, Lord Warwick poggiava il fondoschiena sul bordo del sedile e le mani sul pomello del bastone. Accanto a lui, Joseph Brant le rivolse un vago sorriso. Esther osservava le ruote delle altre carrozze che correvano veloci. Sollevavano schizzi di fango sui vestiti dei passanti e sui banchetti dei venditori. Giunsero a un ponte affollato dall’andirivieni di uomini e cose. Aveva visto un termitaio squarciato dai boscaioli, una volta. Distolse subito il pensiero e respirò a fondo per trattenere un conato di vomito. Forse era il su e giù della carrozza, o forse le termiti che correvano nella testa. La voce di suo padre le giunse attutita dai rumori esterni e da quelli della vettura. – Lord Germain è incline a sostenere la nostra causa. Ha risposto alla mia lettera con sollecitudine, chiedendo di mettere per iscritto le questioni in sospeso. – Questa è una buona notizia, – commentò il conte. – Germain è il ministro delle Colonie più infido che abbiamo mai avuto, ma è l’unica persona che può risolvere i vostri problemi. L’attenzione di Esther fu attirata da una banda di ragazzini che aveva catturato e legato un cane e lo impalava con uno spiedo da arrosto. I guaiti erano strazianti. Altri intanto avevano legato tre gatti per la coda e li facevano roteare in un groviglio di artigli, soffi e miagolii. Rabbrividì, mentre la vettura passava oltre. Poi la carrozza rallentò e si ritrovò a guardare un grasso signore su una portantina, che quattro servi tenevano ben sollevata dalla mota della strada. La grossa testa sporgeva dall’abitacolo e gridava una serie di ingiurie in direzione di un’altra portantina, che proveniva dalla direzione opposta. D’un tratto l’uomo smise di urlare, scorse la ragazzina e la fissò con disappunto. Lei tornò a volgersi all’interno. Suo padre e il conte non la smettevano di parlare. – Credete che avverrà presto? – intervenne Joseph Brant. – Certo. La presenza in città di sua altezza Joseph Brant sta facendo il dovuto scalpore. In fondo siete il principe di Canajoharie. Non possono lasciarvi in anticamera troppo a lungo. L’indiano guardò il bastone da passeggio che teneva tra le ginocchia scuotendo la testa. – Io sono un capo guerriero. È un titolo guadagnato sul campo. Le mie origini non sono nobili, Lord Warwick. – Come quelle di chiunque altro, – disse il conte. – Non è Dio ad assegnare i titoli nobiliari, ma la forza –. Sistemò un filo della parrucca fuori posto. – A ben guardare, l’origine della nobiltà inglese non è che lo stupro. Esther sentì il padre agitarsi sul sedile. La nausea stava passando, ma dovette abbandonare la testa sullo schienale e respirare a fondo. Capiva poco di quello che dicevano i grandi, ma poteva cogliere i loro stati d’animo. Il conte parlava con aria annoiata, come se tutto fosse ovvio. – Molto tempo fa un’orda di villosi guerrieri francesi attraversò la Manica, conquistò queste terre ed esercitò il diritto dei vincitori sulle donne dell’isola. Poi spartì i titoli nobiliari che ancora oggi portiamo –. Warwick agitò lezioso una mano. – Ed eccoci qui. Bastardi preoccupati di coltivare le buone maniere per far dimenticare le nostre origini. – I lord inglesi guidano gli eserciti in battaglia, – intervenne Joseph Brant. – Il valore e il coraggio sono la vera fonte di nobiltà. – Valore e coraggio? Qualità apprezzate da un popolo come il vostro, che tiene ancora in conto antiche virtù, – un altro gesto vago della mano. – Ma guardate qui fuori. Io non resisterei un giorno in queste strade, figuriamoci una notte. Questa gente ci trascorre l’intera vita. Altro che coraggio. Ladri, guitti e mercanti sopravvivono a tutto e dovunque. Come i topi –. A Esther girava la testa. Immagini e parole suonavano vaghe e ovattate, il viso di Warwick sembrava deforme, quello di Joseph Brant aveva tratti animaleschi. – È la razza dalla fame insaziabile, che divora qualunque cosa. Pensate che il valore e il coraggio cambieranno il corso degli eventi? Sono concetti buoni per le allegorie dei pittori, ai quali chiediamo ritratti in armatura e alta uniforme. Un patetico tentativo di scacciare il pensiero che presto questa gente rosicchierà le nostre ossa. Suo padre parlò da una grande distanza: – Eppure, Milord, non potete negare che l’aristocrazia coltivi una qualche forma di eccellenza. – In effetti ho riflettuto a lungo su cosa voglia dire essere aristocratico –. Esther vide il conte estrarre una fiaschetta di metallo da sotto la giacca, svitarne il tappo e offrirla agli altri. – Un cordiale? I due rifiutarono e Warwick tracannò un sorso abbondante, per riprendere a parlare con lo stesso tono. – Sono giunto alla conclusione che significhi avere qualcuno disposto a prendersi le colpe al posto nostro. Per comprovare questa teoria, l’altro giorno ho sonoramente scoreggiato in salotto, alla presenza di ben tre dei miei servi. Ebbene, non solo hanno fatto finta di non sentire, ma quando ho accusato con veemenza uno di loro, non ha battuto ciglio e si è lasciato infliggere la punizione con l’aria più contrita del mondo. Ecco, essere aristocratici significa agire nella piena impunità, a dispetto di ogni evidenza –. Il conte alzò ancora la fiasca. – Viva re Giorgio –. Bevve un secondo sorso. – Viva, – fecero eco gli altri due senza entusiasmo. 13. Le carrozze rallentarono, i cavalli si misero al passo. L’ingresso ai giardini di Vauxhall era coreografico, colonne ioniche svettavano reggendo una sorta di pergolato. Philip notò con sorpresa che oltre il cancello lo sguardo poteva allargarsi, pur se indirizzato dalle siepi e contenuto da filari d’alberi disposti ad arte. In alcuni punti l’orizzonte era visibile, la campagna si apriva. La mole cinerea della città era un lottatore che allentava la presa. Philip provò a riempire i polmoni, ma l’aria sapeva ancora di fumo e carbone, di lezzo umano e animale. Peter scese dalla carrozza e stirò con le mani la giacca. L’entrata costava uno scellino. Esther camminava innanzi al padre. Rispondeva ai sorrisi con un sorriso, si presentava secondo convenienza quando Warwick decideva fosse il caso di fermarsi, ma era concentrata sulla pena fisica del busto. Eppure tutte le signore sembravano adattarvisi. Alcune avevano la vita così stretta che due mani avrebbero potuto cingerla, pollici e indici accostati, ma sembravano a proprio agio sotto la biacca, le gote rosse, i nei, le complesse acconciature. Esther avrebbe voluto tapparsi le orecchie, i discorsi erano noiosi, inutili. Le persone che le venivano presentate lo erano altrettanto. Pensò che era un vero peccato che la confidenza tra lei e Peter non fosse cresciuta nel corso del viaggio. La condizione di eroe e la compagnia degli adulti lo allontanavano senza rimedio. In mezzo alla folla, nei giardini di Vauxhall, Esther Johnson pensò ancora una volta alla madre. L’assenza era più profonda dell’oceano che avevano attraversato. Il padre si fermò: altre presentazioni, ancora chiacchiere. Decifrò una manciata di parole. «Canada», «dannati whig», «guidare gli indiani»… Dalla piattaforma al centro dei giardini giungeva la musica di un’orchestra. Tutti sembravano dimentichi di lei. Esther indietreggiò. Nessuno se ne accorse. Il Gran Diavolo era stanco di folla. Lanciò un’occhiata a Peter, assorto nella contemplazione dei musicisti. Decise di allontanarsi dal gruppo. Vauxhall sembrava abbastanza grande da concedere solitudine. Un passo dopo l’altro, Philip giunse in vista della Rotonda, un edificio circolare dalla mole solida. L’interno era illuminato da candelieri e specchi. Poca gente, intenta a osservare gli affreschi che decoravano le pareti. La musica giungeva lontana. Navi. La maggior parte dei dipinti trattava di navi. Gli Inglesi erano ben consapevoli di essere grandi navigatori. Le scene erano il racconto ininterrotto di una vocazione. Una in particolare lo colpì: il pittore l’aveva dipinta in modo mirabile, la cura dei particolari rendeva i personaggi vividi. Era una resa. Una nave era stata abbordata, la ciurma superstite radunata su un lato del ponte. Dall’altra parte i vincitori, armi spianate. I volti degli sconfitti tradivano incertezza, terrore. La loro vita era nelle mani di un nemico ebbro di vittoria. L’uomo dei boschi osservò ogni particolare del dipinto. La scena faceva parte della sua esperienza. Si era trovato in entrambe le condizioni: prigioniero e cacciatore d’uomini. Si allontanò dal dipinto. Accanto a una statua, una figura nota. Esther uscì dall’ombra. Philip la guardò senza proferire parola. Avvertì la fatica del respiro, il disagio che la ragazzina doveva provare nei panni che le avevano imposto. Ebbe la visione di un se stesso più giovane, vestito di tutto punto per le funzioni religiose. Non sapeva bene come rompere il silenzio, ma qualcosa lo spinse a farlo. – Signorina Johnson. Come mai non siete con gli altri? Le parole uscirono forzate. Philip le udì risuonare come se provenissero da un luogo distante. – Mi annoiavo. Non mi lasciano sola un momento. La voce di Esther era chiara, anche se tradiva un certo imbarazzo. Philip non ricordava che a quell’età la solitudine rivestisse un valore. Il silenzio tornò ad addensarsi. Decise che era compito suo disperderlo ancora una volta. – Avete veduto gli affreschi? Sotto la maschera di biacca Esther provò a sorridere. – Navi. Solo navi. Come se non ne avessimo già viste abbastanza. Philip annuì. Esther mutò espressione d’improvviso e fece un paio di passi in direzione dell’indiano. A voce bassa proseguì. – Non siete stanco, signor Lacroix, di indossare questi vestiti? Non vi sembra che tutti quanti siano rigidi come marionette? La ragazzina aveva pronunciato le parole in fretta, senza tirare il fiato. Philip la guardò negli occhi. – Non sono i vestiti. È l’anima. Esther parve stupita, come fosse la prima volta che un adulto le dava ragione. – Quando torneremo a casa, signor Lacroix? – Non lo so, – rispose Philip. – Adesso usciamo di qui. Fuori, le note dell’orchestra li sfiorarono appena. 14. Notte. Nebbia. La campagna nei pressi di Vauxhall: rape a sinistra; cipolle a destra. Cinque spettri marciavano allineati sul limitare di un fosso. Il capofila sniffava tabacco per asciugare il cervello dai vapori. Il secondo si sforzava di tenere accesa la torcia e bestemmiava controvento: le imprecazioni facevano da paralume. Il terzo rigirava tra le mani una spranga. Quarto e quinto erano agganciati l’un l’altro da una scala di legno. Una macchia di luce annegava nell’aria fradicia. Gli spettri sembravano intenzionati a raggiungerla, ma il fango gelato rallentava il passo, duro come pietra, rosario di buche e crepacci. I ramoscelli marci sparpagliati a terra erano coltelli e trappole d’acciaio. Tutto era rigido e spigoloso. Anche la nebbia. Giunti a un alto recinto, la marcia si arrestò. Le fiamme della torcia danzarono sui volti. Una cicatrice, un naso arrossato, un incisivo mancante. Oltre i pali conficcati nel suolo, risa sguaiate che non parevano umane. – Meeerda, Dave. Sei il gemello scannato del poldo qua sopra! L’ammirazione dell’orco era sincera. Con un occhio studiava la mascherata indiana del compare, con l’altro, l’immagine di un selvaggio su un vecchio almanacco. L’Imperatore si sforzava di inquadrare la testa in una scheggia di specchio piantata su una cassa. – Gemello bastardo, – precisò il biondo. S’avvicinò all’orco e indicò il ritratto dell’indigeno pennuto. – Queste sono aquila, mica pollo. – Pollo tua madre –. L’Imperatore si girò di scatto: avessero chiamato mignotta la sua, di madre, non se la sarebbe presa tanto a cuore. – Gallo di Turchia, si chiama. Pavone americano. – Turchia? Cazzo c’entra la Turchia? – America, India, Turchia… È la stessa sguana, – commentò il più magro con aria schifata. L’Imperatore batté la mano sulla fronte, appena sotto le penne di tacchino. – Questa qui è una mezzaluna turca, guarda un po’, e sai chi me l’ha fatta? – Sì, Dave, – annuì l’orco con fare compito. – Le cazzate sono importanti, – sentenziò l’Imperatore. – L’anima del commercio, vi dico. Un poldo tamagno si sgama da quelle. – Appunto –. Il biondo era l’unico che poteva permettersi tanta insistenza. – A frugare bene, le ciuffe d’aquila te le gagnavi, in qualche buco. Invece no, ci hai portato nel letame di Vauxhall per grattare due polli. Saranno pure americani, ma tanto peggio. Magari averci su quelle ciuffe vuol dire qualcosa, in selvaggio. Magari vuol dire «sono un coglione» e tu, per fare l’americano, vai dal principe dei Mohawk con «sono un coglione» stampato sulla biffa. – Mi fotte quanto una morta fredda, il principe indiano. – Ti fotte? Ma se gli hai scritto un papiro lingua in culo! – Dio scannato, Neil, tu che hai studiato! La lettera non è per il principe, è per il «Courant». – Non è per il principe? – si sbalordì lo sfregiato. – No, ciucchi dannati. Darla al principe è tutta commedia, per farsi locchiare dai babbioni. I babbioni locchiano, cianciano, gli viene la fotta. Gli scrivani cianciano, stampano, riempiono le gaioffe. I malcichi si cagano, le mignotte s’arrazzano, i sudditi sgobbano. L’Imperatore e i suoi soma spalano denghi senza sguanarsi. Grida eccitate accolsero la tirata del capo. Anche il biondo parve mettere da parte i dubbi per unirsi al coro. L’Imperatore estrasse lo stuzzicadenti e si pugnalò una gengiva. – Andate ad acchittarvi, adesso, – ordinò. – State per diventare i selvaggi più tamagni di Londra. 15. Una folla vociante orlava di parrucche, cappelli e acconciature i larghi marciapiedi di Pall Mall. A trattenerla, come un lungo rammendo scarlatto, braccia e fucili della Guardia Reale, rinforzati qua e là dagli zoccoli della Cavalleria. Due ali di popolo si allungavano per oltre mezzo miglio, dall’ingresso settentrionale del Palazzo fino all’incrocio con Hay Market. Qualche ben informato giurava che gli indiani non si sarebbero visti, che la notizia, circolata in tutti gli ambienti e amplificata dalle gazzette, era priva di fondamento. Ciononostante, lavorava di gomiti per guadagnare la visuale migliore. Altri sostenevano che un fratello, un cugino, un amico, aveva già goduto il privilegio di osservare da vicino i selvaggi e garantiva che non c’era nulla da vedere, che i due somigliavano a un qualunque signorotto di Islington vestito a festa per la funzione domenicale. Ciononostante, aspettavano da ore per controllare di persona. Qualcuno si faceva beffe di tutti, poveri stolti, che aspettavano nel posto sbagliato, quando era chiaro che i principi canadesi sarebbero arrivati dal parco di St. James. Cercava di convincere almeno un paio di sconosciuti a seguirlo, che c’era da fidarsi, non poteva che essere così. Ciononostante, di andarci da solo non ne voleva sapere. Se il povero stolto era lui, voleva qualcuno accanto per condividere la disgrazia. All’improvviso prese ad alzarsi un brusio prima stupito, poi eccitato, poi sempre più forte, acuto e ingombrante, finché gli «Aaah» e gli «Oi» non si modellarono in qualcosa di comprensibile, un terremoto di «Arrivano», «Sono loro», «Eccoli là». Una vettura di gran lusso procedeva solenne in fondo a Pall Mall. I soldati trattennero a stento la calca immane di corpi e voci. Proprio allora, dietro un manipolo di gentildonne che reclamava a gran voce il principe degli indiani, comparvero altri selvaggi. – Lasciate passare! Portiamo una lettera per sua altezza, – gridava il loro battitore pennuto, nel tentativo di incunearsi e raggiungere la carrozza. Le signore lasciarono fare, ché uno vestito a quel modo poteva essere davvero un messaggero del principe, e infilarsi dietro di lui era forse la via più rapida per guadagnare le prime file. – Sarà gente del seguito, servitori, lacchè, – disse qualcuno. Un altro ribatté che uno dei selvaggi abitava nel suo stesso quartiere, a due passi da casa sua. – Ma piantala! Non lo vedi che ha la pelle rossa? Ha la pelle rossa, il tuo vicino? Altri ancora fecero notare che almeno due indiani sembravano ubriachi. – E ti stupisci? In India bevono senza ritegno, è risaputo. Peggio degli Scozzesi. Intanto i selvaggi approfittavano della confusione per arrivare a ridosso della prima fila. Cominciarono a premere con veemenza, in modo che i soldati attribuissero la spinta a quelli davanti. Le guardie distribuirono mazzate su teste incolpevoli. I malcapitati dapprima cercarono di giustificarsi indicando alle spalle, poi riuscirono a farsi da parte. Guardie e selvaggi si trovarono faccia a faccia. Il principe Thayendanega, coronato di penne, si sporse dalla carrozza per controllare cosa stesse accadendo. Il messaggero dei selvaggi capì che non ci sarebbe stata un’altra occasione. Fece segno ai suoi di sollevarlo, e con un balzo si lanciò oltre i soldati, il braccio proteso e la lettera stretta in mano. Il principe, d’istinto, l’afferrò. – Da parte degli indiani di Londra, – gridò il messaggero. L’indiano londinese si sentì afferrare dalle guardie e tirare giù. Torcendosi come una serpe si liberò dello scialle che indossava a mo’ di mantello. Sfuggì alla presa, diede un colpo di reni, si aggrappò alla carrozza e l’arrampicò con la velocità di un ratto. Salito a cassetta, sotto lo sguardo allibito del vetturino, con i vestiti a brandelli e il ciuffo spettinato come una cresta, allargò le braccia e la bocca in un ghigno allucinato. – Dio salvi il re, – strillò. – Potere Mohock! Con un grido belluino si gettò di sotto, in posa di crocefisso, per atterrare sulle braccia protese dei compari. Quelli, schiacciati nella calca, non trovarono lo spazio per metterlo a terra. Lo tennero lassù come il cadavere di un martire esposto alla folla, e con spinte d’anca, di ginocchio e di piede si aprirono un varco verso la salvezza. Non abbastanza largo per accoglierli tutti. Un’ora più tardi, mentre gli ambasciatori dei Mohawk entravano a St. James’ Palace ricevuti con tutti gli onori, due indiani di Londra entravano a Newgate con gli schiavettoni ai polsi. 16. Il conte di Warwick prese posto su uno scranno d’ebano e cuoio, a fianco del segretario di Stato, e studiò il terreno. Giorgio III, la regina Carlotta e nove principi. Buon segno. La presenza dei figli significava curiosità. La curiosità produceva domande. Le domande producevano punti. Sua Maestà pareva di buon umore. I boccoli ai lati del viso erano curati alla perfezione. Giorgio III non usava parrucche. A quanto si diceva, per paura che riscaldare il cranio potesse danneggiargli il cervello. In ossequio alla moda, si faceva pettinare e incipriare la criniera come se fosse posticcia. Un’operazione che lo innervosiva, spesso al punto da doverla sospendere, con risultati tragici in termini di acconciatura. La Regina, ormai prossima al parto, aveva scelto una veste rosa, larga, con molti pizzi. I capelli erano arricciati sopra la testa, senza fronzoli. Gesti e postura dicevano che un’ora prima, guardandosi allo specchio, Carlotta non era rimasta delusa. L’aspetto dei principini contava poco, difficile persino identificarli con precisione. A parte i quattro adolescenti, maschi e femmine si somigliavano tutti. In quel momento, la porta dello studio si spalancò e il maestro di cerimonie diede inizio all’incontro. – Il colonnello Guy Johnson, – annunciò, – commissario del Dipartimento per gli Affari indiani delle colonie settentrionali. Il capodelegazione comparve sulla soglia. Fece subito un primo inchino, un secondo al centro della stanza, il terzo a destinazione, sfiorando con le labbra l’anello di Sua Maestà e la mano della regina. Movenze non proprio da ballerino, leggera incertezza sugli ultimi passi, ma tutto sommato una buona prova, che non tradiva emozioni, ma scontava l’inesperienza. Dietro di lui, non molto più aggraziati, avanzarono gli altri quattro. Daniel Claus, il peggiore in assoluto. Goffo, impacciato, tedesco. Per sua fortuna, anche la famiglia reale era di quelle lande e non aveva grandi tradizioni in fatto di eleganza. Dei due indiani, il più appariscente era il principe Thayendanega: mantello di seta rossa, copricapo di penne d’aquila, cinture di conchiglie, collana di artigli d’orso. Philip Lacroix, molto più sobrio nell’aspetto, non indossava nulla di indiano. Il ragazzo, Peter Johnson, portava un abito cucito dal miglior sarto di Londra. Sul volto del re, nessuna espressione particolare. La regina socchiuse appena le palpebre. I mocciosi restarono composti. – Altezze Reali, – disse il nuovo entrato, – prima di introdurre al cospetto delle Vostre Maestà gli uomini che hanno l’onore di accompagnarmi, permettete che corregga quanto appena annunciato dal maestro di cerimonie. Warwick ebbe una smorfia di disappunto. Non era quello il discorso che avevano provato. Il maestro di cerimonie era un uomo permaloso. Bisognava lasciarlo stare. – Non è mia abitudine ascrivermi titoli che non mi spettano, – proseguì Johnson, – e non vorrei, a causa di un banale errore, passare per impostore di fronte alle Vostre Maestà. L’incarico di commissario per gli Affari indiani mi è stato affidato dal mio predecessore, Sir William Johnson, e dai capi delle Sei Nazioni Irochesi, ma ancora non ha avuto la conferma del sigillo reale. Il solo titolo di cui posso fregiarmi, dunque, è quello di colonnello della Milizia di New York. Giocata rischiosa, pensò Warwick. Era stato lo stesso Johnson a presentarsi al cerimoniere come commissario. Aveva provocato l’errore solo per correggerlo e infilare la pulce della nomina nell’orecchio del re. Ora il cerimoniere poteva decidere di vendicarsi. Era l’orecchio di Londra dentro le stanze reali. Poteva mettere in giro voci, seminare dubbi sul punteggio, anche se di norma i verbali del segretario di Stato erano inequivocabili. Un punto per ogni sorriso del re, due per gli apprezzamenti, tre per le domande. Le frasi di circostanza valevano zero, le interruzioni infastidite meno due. Un’udienza ben riuscita doveva totalizzare almeno otto punti. Le scommesse sui risultati attiravano il bel mondo almeno quanto i cavalli. Il re alzò un sopracciglio e fece segno di proseguire. La regina si sventagliò. Uno dei mocciosi venne portato a pisciare. Guy Johnson terminò il discorso, si fece da parte e con un cenno del braccio additò a re Giorgio la delegazione americana. Toccava al tedesco. Fece un passo avanti, mentre il commissario lo presentava con voce stentorea. Warwick si morse il labbro. Claus aveva l’aria affaticata e pallida tipica dell’onanista. Occhi, naso e bocca parevano pigiati dentro una scatola troppo piccola. Quando si inchinò a baciare l’anello del re, sembrò che dovesse valutarne la pietra. Fece il discorso concordato, breve breve, per non offendere le orecchie regali con quella pronuncia sgraziata. La regina chiuse il ventaglio di scatto e domandò a Claus di quale regione tedesca fosse la sua famiglia. Miracoli dell’accento teutonico e della nostalgia di Sua Maestà per il puzzo di cavoli e salsicce. Senza nemmeno azionare il cervello, Daniel Claus aveva messo a segno un punto e mezzo. Purtroppo le reazioni della regina valevano la metà rispetto a re Giorgio, che invece era rimasto impassibile, gli occhi da rospo puntati al centro della sala. Warwick intrecciò le dita sotto il mento. Era il turno del campione, il pezzo forte, l’uomo che poteva cambiare faccia all’incontro e portare a casa i sette punti mancanti. Johnson lo presentò in modo piatto, un pessimo inizio. Niente «sua altezza», niente «principe». Soltanto «capo Joseph Brant Thayendanega», e basta. L’indiano avanzò, Apollo del Nuovo Mondo, emblema in carne e ossa di virilità e forza serena. Piegò il busto di fronte al re, baciò la mano della regina, indietreggiò. Warwick non poté fare a meno di coprirsi la bocca con le mani. Il principe, il campione americano, aveva dimenticato l’anello del re. Un pomeriggio intero a provare la cerimonia con il maestro di danza e poi un errore banale mandava in vacca tutto il lavoro. Prima di lasciarsi andare allo sconforto, il conte studiò l’espressione di Giorgio III, la mimica del volto che rappresentava l’Impero. Non c’erano segni di stizza. Le labbra distese, l’incarnato chiaro, senza rossori, le mani appoggiate in grembo. Guardò il segretario di Stato. Scriveva il verbale con il solito scrupolo. Tese l’orecchio al discorso del principe. Come da copione, aveva sfilato dalla spalla una delle cinture e la teneva sollevata con entrambe le mani. La cintura, stava spiegando, rappresentava l’alleanza delle Sei Nazioni con la Corona d’Inghilterra. Le Sei Nazioni erano pronte a combattere i nemici del Padre Inglese, ma prima di farlo, volevano sincerarsi che il Padre Inglese fosse pronto a combattere i nemici delle Sei Nazioni. Le alleanze, infatti, o sono reciproche o non sono. Fu l’enfasi sull’aggettivo «reciproche» a illuminare Warwick su quanto era accaduto. Ricordava bene come il principe si fosse informato con attenzione sul significato di ciascuna riverenza. Il bacio dell’anello era l’omaggio richiesto ai sudditi. I ministri stranieri si limitavano all’inchino. Parlare di alleanza e fare un gesto di sottomissione sarebbe stato contraddittorio. Il principe aveva evitato il dilemma. Non c’era un punteggio previsto, per una simile genialità, ma poco importava. Tutta Londra ne avrebbe parlato. Inseguendo fantasie di gloria, Warwick si perse la domanda della regina. Il principe rispose che il suo nome indiano significava «Lega Due Bastoni», ovverosia «Piazza Due Scommesse». Alla parola scommesse, gli occhi di Warwick planarono su re Giorgio. Sua Maestà aveva un debole per i cavalli. Le labbra regali tremarono appena. Warwick preferì non guardare. – Quale sarebbe la vostra doppia scommessa, capo Brant? Warwick tenne le palpebre socchiuse. – Scommetto sulle Sei Nazioni, Maestà, e sulla Corona d’Inghilterra. Da dietro le ciglia, il conte vide il re aprirsi in un sorriso che era il sorriso di milioni di Inglesi. L’Impero britannico sorrideva al principe Thayendanega. Cinque punti e mezzo, sette in totale. Era quasi fatta. Un altro sorriso del re, un apprezzamento della regina. Niente di impossibile, ma già una bella impresa per il ragazzo, al quale ora toccava intervenire. Warwick si augurò che fosse all’altezza dello zio. – Peter Warren Johnson, figlio naturale del defunto Sir William Johnson da Johnson Hall. Il ragazzo fece un passo avanti, piuttosto sicuro. Si produsse in inchini e baci, ivi compreso l’anello di Sua Maestà. Con gesto lento e plateale sfoderò una spada e andò a deporla ai piedi di re Giorgio. La spada era quella di Ethan Allen. Il ragazzo spiegò che il capo dei ribelli l’aveva consegnata a lui in persona e ora lui ne faceva dono a Sua Maestà, come segno tangibile e auspicio di gloria per l’alleanza, eccetera eccetera. Ci fu un brusio dalla parte dei mocciosi, poi il più grande si avvicinò alla madre e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La regina si schiarì la voce: – Il principe Giorgio Augusto vorrebbe sapere come avvenne la cattura di quel famoso bandito. Warwick esultò: una domanda per bocca della regina. Un punto e mezzo, il Paradiso. Il ragazzo si produsse in un resoconto avvincente. Né troppo lungo, né troppo succinto. Re Giorgio annuiva compiaciuto. Terminata la storia, continuò a dondolare la testa tra sé, come per cullare un pensiero. Quindi si interruppe e, per la seconda volta, schiuse le labbra. Si congratulò col ragazzo, ne lodò il coraggio e per un paio di minuti si perse in un monologo su quella virtù così preziosa. Warwick faticava a seguire il filo del ragionamento. Il re parlava con una strana cantilena che lo faceva sembrare sempre emozionato, sul punto di piangere. Faceva pause sgrammaticate tra una parola e l’altra, lasciava le frasi in sospeso dopo le congiunzioni. La vulgata diceva che era un modo per mascherare la balbuzie, ma i più informati sostenevano che c’era sotto qualcosa. Il re aveva problemi di nervi, era ipersensibile, doveva davvero trattenere i singhiozzi. Lacrime o no, la lunga digressione terminò in una domanda. – Dite, signor Johnson, quale caratteristica vi spinge a considerare tanto solida e invincibile l’alleanza tra la Corona d’Inghilterra e le Sei Nazioni irochesi? Il ragazzo era una rivelazione. Appena possibile doveva trovare il modo di premiarlo. Warwick aveva perso il conto esatto dei punti, almeno dieci. Un’udienza così lo avrebbe proiettato tra i favoriti di Sua Maestà, scavalcando in classifica pezzi grossi come Carmarthen e Windelmere. – Non saprei rispondere, Maestà, – iniziò il piccolo fenomeno. – Nessun pesce, infatti, saprebbe dirvi perché il mare è superiore alla terraferma. Esso è il suo mondo ed egli non può tradirlo né spiegarlo. Così è per me l’alleanza tra l’Inghilterra e le Sei Nazioni. Sono un suddito di Vostra Maestà, come lo era mio padre, e sono un Mohawk del clan del Lupo, il clan di mia madre e di mio zio Joseph Brant. Re Giorgio sorrise con franchezza, poi si alzò, un gesto inedito, mai visto. Raccolse la spada di Ethan Allen e la riconsegnò a Peter Johnson. – Non intendiamo farvi torto, signor Johnson, restituendovi un dono, ma vorremmo che teneste voi la spada che avete conquistato. Promettete soltanto che tornerete a portarcela quando avrete sul petto i gradi di generale. Adesso era Warwick a trattenere le lacrime. Doveva avere la febbre, le parole di Sua Maestà gli giungevano come da un altro pianeta. Seguì il resto della cerimonia quasi sotto ipnosi: gli inchini, i saluti, i ringraziamenti. Si congedò con salamelecchi da pupazzo meccanico e infilò la porta per ultimo. Il mondo delle udienze non sarebbe più stato lo stesso. 17. I torrioni sorgevano massicci dal fossato che circondava le mura. L’edificio centrale, chiuso dai torresotti chiari, si stagliava sul cielo plumbeo. Forza ed eleganza si univano. Al confronto il castello di Québec era poca cosa. Soltanto nei libri illustrati ne aveva visto uno così. Peter si riempiva gli occhi di ogni dettaglio, voleva imprimerlo nella mente, per ricostruire quell’edificio maestoso pietra su pietra quando fosse stato lontano da lì, descriverlo da tutte le angolazioni, rimirarlo ogni volta che ne avesse avuto voglia. La Torre di Londra, dove venivano imprigionati i nemici del re, i traditori e i cospiratori. Forse anche Ethan Allen era rinchiuso nelle segrete del castello. Padre, se potessi vedermi, pensò Peter. Prima al cospetto di Sua Maestà. Adesso in un luogo uscito dalle favole che mi raccontavi da bambino, la dimora di sovrani e cavalieri. Pensò anche a sua madre, a quanto sarebbe stata fiera di lui sapendolo lì, sulla carrozza di un aristocratico inglese che lo scortava in visita alla Torre. La carrozza percorreva il perimetro della roccaforte e Lord Warwick indicava a Peter i particolari della costruzione. Il conte ostentava confidenza senza essere invadente. Giunti all’altezza dello spiazzo laterale, ammirarono l’ensemble di divise rosse e stendardi. Era stato Peter a esprimere il desiderio di vedere la Guardia Reale in parata e Warwick lo aveva accontentato volentieri. Era la ricompensa per la straordinaria esibizione al cospetto del re. La perfetta geometria dello schieramento, le movenze in sincrono, non un passo fuori posto. I soldati marciavano come fossero una cosa sola, erano il richiamo diretto all’ordine che reggeva l’Impero. Peter sorrise, pensando all’accozzaglia di straccioni che aveva affrontato nelle foreste canadesi. Di fronte a quella meravigliosa compattezza, il Golia americano era uno gnomo. Osservò la manovra dal finestrino e pensò che quei soldati dall’uniforme scarlatta non avrebbero lasciato scampo ai ribelli. Bastava che re Giorgio li spedisse oltreoceano e la rivolta sarebbe finita molto presto. Mentre i reparti rientravano in caserma, il conte fece notare a Peter l’angolo delle decapitazioni. «Il cantone del boia», lo definì ridacchiando tra sé, ma si fece subito scuro in volto e aggiunse una considerazione amara sul fatto che a chiunque poteva capitare di poggiare la testa sul ceppo, perfino a re e regine. Toccò legno con un gesto plateale e riprese a parlare in tono suadente, elencando i nomi di personaggi famosi che in quel luogo avevano ricevuto i servigi del boia. Peter non ne ricordò alcuno, ma la visione di teste che rotolavano tra i suoi piedi lo fece rabbrividire. La carrozza rallentò fino a fermarsi e i due scesero per passeggiare sul lungofiume antistante la fortezza. Il vento sbatacchiò il foulard del conte. Warwick lo sistemò sotto il bavero della giacca. Peter pensò che il rigonfiamento sullo sterno lo faceva assomigliare a un galletto impettito. Anche la camminata era quella di un pennuto: il conte poggiava i piedi con cautela, scrutando il terreno. Si accorse che il ragazzo l’osservava e sorrise, scandendo le sillabe con eleganza: «Coprofobia». Domandò perdono al giovane amico. Disse che escrementi e liquami erano la sua ossessione: pestare qualcosa di indesiderato l’avrebbe reso prima nervoso, poi triste. Da vicino, le mura e i torrioni erano ancora più imponenti. Sui pinnacoli sventolavano vessilli. Un lieve tocco del conte riportò Peter con gli occhi al suolo. Poco distante, dietro un capannello di curiosi e una fila di sbarre, dormiva un grosso animale. Il serraglio reale annoverava svariate bestie. Il leone della Torre era la più famosa. Questo disse il conte mentre apriva un varco per sé e il ragazzo con lievi tocchi del bastone. Non era che un enorme gatto, pensò Peter. Ciuffi spelacchiati, mossi dal vento, spuntavano sulla testa. La lingua penzolava dalle fauci appena dischiuse. Puzzava in maniera rivoltante. Non fosse stato per il leggero movimento della coda, Peter lo avrebbe creduto morto. Warwick roteò il bastone, tracciando un cerchio nell’aria in direzione dei genitali dell’animale che ricadevano penduli. – Notate, vi prego, il diametro testicolare, – disse. Scosse la testa. – Che spreco, non trovate? Peter fece notare che non sembrava affatto feroce. Il conte disse che viveva nella Torre da tanto tempo e aveva dimenticato l’istinto del predatore. Assunse un tono mesto, rammaricato. – Ecco l’emblema d’Inghilterra, il leone che ruggisce negli stemmi e nei vessilli del regno. Come se l’avesse udito, l’animale alzò la testa e mostrò le fauci in uno sbadiglio ferino. La gente balzò indietro con grida spaventate. Anche Peter si ritrasse. Non il conte, che invece si protese verso le sbarre emettendo un verso svogliato, simile al ruggito. Il felino non lo degnò d’attenzione. Il conte rimase a contemplare la bestia appoggiato al bastone da passeggio, il capo piegato sulla spalla. Peter chiese sottovoce cosa stesse osservando. – Un essere annoiato di vivere, – rispose Warwick tetro. Si soffiò il naso con fragore, quindi invitò il ragazzo a seguirlo, lontano da lì, stando bene attento a dove metteva i piedi. Camminarono per un lungo tratto senza scambiare parole. Fino a che il conte non controllò l’orologio e con un repentino cambio d’umore disse che avevano un appuntamento. Non riusciva a smettere di guardarla. Era perfetta. Più della parata, più del castello. Eppure doveva essere uscita da lì, dalla casa delle fate e delle principesse. Doveva esserci una stanza, nella torre più alta, dove custodivano quell’essere incantato. Era giovane. Sorrideva appena, causandogli una leggera stretta alla bocca dello stomaco. Lui la fissava, consapevole della propria maleducazione. Occhi, bocca, riccioli, collo candido. Profumo. Essenza che Peter non sapeva riconoscere. Non esisteva quell’odore in America. Il conte era allegro, parlava senza fretta e senza pause, un flusso di parole cullava lo stupore di Peter davanti alla creatura che sedeva con loro in carrozza. – Si fa presto a dire eroe, ragazzo mio. In fondo che cos’è l’eroismo? I raggi di una buona stella che illuminano la nostra personale virtù –. Il conte sniffò tabacco, accompagnandolo con un sorso di liquore dalla fiasca. – Eroi ce n’è in ogni guerra e a ogni angolo di strada, fortunati o invisi alla sorte, ricchi e felici o sposati a una bottiglia di gin. Ma un uomo, ah, un uomo. Trovarne ancora uno in questa Gomorra di seduzione e ladrocinio, pederastia e decadenza, rosa dai sorci come la carcassa di una vecchia fiera. Di questi tempi l’uomo è raro, bisogna cercarlo con la lanterna, come faceva quel tale Diogene. Peter faticava a seguire il ragionamento, perso com’era negli occhi della giovane. Al conte non importava, ascoltava le proprie parole, rapito da se stesso. – Voi, ragazzo mio, venite da un mondo giovane e forte. In voi scorre sangue rosso vermiglio, non la miscela bluastra che intasa le nostre vene. Io mi onoro… no, no, non vi schermite… io mi onoro d’esservi stato mentore e cicerone in questa marziale giornata. Ah, l’uomo nuovo, che ancora non ha ferrato la propria virtù virile. Guerriero, soldato del re, spartiata gagliardo quanto illibato. Quel che ancora manca alla vostra perfezione concedetemi d’aggiungerlo come dono, o se preferite un ricordo di me stesso medesimo. Un tocco personale, ché là dove ve n’è per il conte di Warwick, a maggior ragione ve ne sia per un nobile uomo. Peter non capiva. Vide il conte bussare con il bastone sul tetto della carrozza. Il vetturino fermò i cavalli. – È la mia fermata, – annunciò Lord Warwick. Baciò la mano della giovane, le raccomandò il suo ospite, indirizzò a Peter una riverenza e con un solo movimento sinuoso si sporse sul predellino. Prima di scendere, perlustrò il terreno sottostante. Peter non ebbe il tempo di rendersi conto, la carrozza già ripartiva. Si ritrovò solo e muto, nell’abitacolo, in compagnia della ragazza. Sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma aveva la mente vuota e non riusciva a togliere gli occhi dai suoi. Poi la fata gli sfiorò una mano e con delicatezza la portò in grembo. 18. Le carcasse spolpate di un fagiano e dieci pernici giacevano su un vassoio d’argento, al centro della tavola circolare. C’era qualcosa di sinistro nell’insieme degli avanzi: la disposizione ordinata degli ossi sul piatto richiamava una lucida brutalità. La testa del pennuto più grosso occhieggiava in direzione sudest, come a rimpiangere una rotta migratoria verso miglior sorte. Gli altri scheletri attendevano inerti l’inumazione tra le fauci dei gatti, sul retro del club. Il cameriere sollevò il vassoio e allontanò dalla vista dei commensali i resti macabri della cena. Quindi tornò dalle cucine con una bottiglia di vino di Porto, che gli ospiti rifiutarono di farsi servire, allontanando l’uomo con un gesto spiccio. Presero a riempire i calici da sé, con dosi generose. – Stavate dicendo, signor Whitebread, – disse il gentiluomo seduto a nord, – che il principe dei selvaggi si è rifiutato di baciare l’anello di Sua Maestà. Un uomo dall’aria giovanile, con la parrucca nera, si schiarì la voce. – Sarebbe più esatto dire, signore, che non l’ha fatto. Si è limitato a baciare la mano della regina. – E la vostra penna immortalerà il momento sul «Courant» di domani, immagino, – ribatté l’altro. – Non tanto per la posterità, – si inserì l’uomo seduto a ovest, – quanto per alimentare i pettegolezzi di Londra. Risero tutti, incluso Whitebread, che dovette sforzarsi per farlo. Non era mai del tutto a suo agio in mezzo ai pezzi grossi della City. – Diteci del discorso, – incalzò l’uomo a est. – È vero che ha minacciato il re? – chiese il gentiluomo a sudovest. Whitebread scosse il capo. – Non proprio. Ha detto che tra alleati la lealtà deve essere reciproca, – lanciò un’occhiata ai volti dei commensali, cercando di cogliere le loro reazioni. – E che le tribù indiane combatteranno al fianco dell’Inghilterra soltanto se il re garantirà il rispetto dei loro confini. Il signor Nord riempì di nuovo il bicchiere e passò la bottiglia. – E che mi dite dei tafferugli, signor Whitebread? – aveva un tono insinuante. – Si ha l’impressione che da quando questi Mohawk sono in città, il clima si surriscaldi con facilità e la schiuma tracimi dai bassifondi. Il giornalista annuì. – Un episodio singolare davvero. Pare che tra la folla vi fossero agitatori travestiti da indiani, – si trattenne, indeciso se continuare, ma aveva gli occhi di tutti puntati addosso e non poteva ritrarsi. – Figuratevi che alla sede del giornale è stata recapitata una lettera. Il mittente sostiene di averne consegnata una identica agli emissari indiani, il giorno dell’udienza. Si firma con il titolo di «Imperatore dei Mohock di Londra». Di nuovo tutti sogghignarono. Eccetto il gentiluomo a nord, quello che sembrava godere della maggior considerazione da parte degli altri. – Mohock di Londra? Indiani di città? – sbottò incredulo il signor Est. – Ridicolo, – sibilò Nord. – Inverecondo, – aggiunse Ovest. – Miserabile, – continuò Sudest. – Squallido, – concluse Sudovest. Poi, riponendo in tasca uno stecchino d’argento con cui si era nettato i molari, aggiunse: – Non meraviglia che i selvaggi solidarizzino tra loro. La feccia di Soho e gli scalpatori delle foreste, intendo. Cosa li distingue, in fondo? – Il dialetto, – commentò distratto il signor Nord, prima di sniffare una presa di tabacco. Risero. Whitebread alzò la voce di un tono per essere certo di farsi intendere. – Nella lettera, gli indiani di Londra chiedono di essere riconosciuti come settima nazione irochese. Un rumore improvviso strozzò le risate in gola ai presenti. Il signor Nord aveva spezzato il gambo del bicchiere con la pressione delle dita. Tutti si voltarono in apprensione, ma Nord osservava distratto il piccolo taglio sul pollice. Lasciò che una goccia di sangue scorresse fino alla base del dito, come se volesse giocarci. – Avete ragione da vendere, signor Cavendish. La feccia è feccia, che si annidi nelle bettole puzzolenti dell’East End, sulle banchine di Boston o nelle foreste del Canada –. Mostrò il palmo aperto, dove la goccia era andata a depositarsi, formando una piccola macchia rossa. – E quando la feccia si unisce, l’Impero sanguina. Ricordatevi di quel tale Spartaco, – fissò Whitebread, che venne colto da una sensazione di disagio e durezza, come se la sedia fosse diventata di marmo. Gli occhi del signor Nord erano fessure. Lasciavano appena trasparire un bagliore azzurro. Gli altri gentiluomini pendevano dalle sue labbra, attenti a coglierne i pensieri, forse anche a cercare di anticiparli. – Visto che a corte non se ne rendono conto, – disse rivolto al giornalista, – forse qualcuno potrebbe farlo notare al pubblico. Magari il nostro Panifex. – Certo, signor Whitebread, – intervenne Est. – Dovreste proprio pubblicarla la lettera di questo Imperatore degli indiani di città. Così la gente capirebbe la gravità di quello che sta succedendo. – State scherzando, signor Pole? – sbottò Whitebread, sempre più scomodo sulla sedia. – Dare spazio sul giornale alle farneticazioni di un pazzo? – Ditemi, signor Whitebread, chi è più pazzo? – Era di nuovo Nord a parlare, il tono di voce calmo suonava sinistro e minaccioso alle orecchie del giornalista. – Chi reclama una nazione indiana nel cuore di Londra, o chi è disposto a giocarsi l’Impero pur di negare libertà di commercio alle colonie? Erano di nuovo tutti zitti, rivolti a nord. Il gentiluomo si puliva la mano ferita con il tovagliolo. – Il governo invita questi indiani, – proseguì, – ed eccoli diventare beniamini della folla e delle gang di strada, che adesso chiedono addirittura riconoscimenti. Abbiamo perfino un sedicente imperatore che alza la cresta a sfidare l’autorità legittima della Corona, proprio come succede in America. Magari vorrebbe anche lui essere ricevuto a St. James con tutti gli onori. O sedere in Parlamento. I commensali ridacchiarono compiacenti. – Le scelte sbagliate si pagano, – insistette. – Con la rovina politica per chi governa. In migliaia di sterline per chi come noi, signori, produce la ricchezza della nazione. – Ben detto. – Sagge parole. Whitebread finse di guardare Nord, ma in realtà puntò la poiana imbalsamata sul mobile alle sue spalle. Il giornalista seguì la linea del rostro acuminato. Occhi di vetro giallo lo fissavano con avidità. – Tafferugli, risse, un paio di caporioni che sanno leggere e scrivere, – disse ancora il signor Nord con apparente noncuranza. – È iniziata così anche in Massachusetts. – Sì, signor Whitebread, scrivete questo sul «Courant», – intervenne il signor Sudest, senza trattenere l’entusiasmo. – Scrivete che questi maledetti indiani portano solo guai alla città di Londra. E se non stiamo attenti, la ribellione delle colonie potremmo ritrovarcela in casa. Mentre tutti annuivano, «Panifex», al secolo Richard Whitebread, stirò un sorriso di convenienza, senza trovare nulla da ribattere. 19. Dal «Daily Courant» del 2 marzo 1776: sui disordini avvenuti in pall mall a opera dei famigerati indiani londinesi Il 29 scorso, alle 10 del mattino, Sua Maestà re Giorgio III e la regina Carlotta hanno ricevuto nel palazzo di St. James il colonnello Guy Johnson, del Dipartimento indiano per le Colonie americane, il capo della Nazione Mohawk, principe Joseph Brant Thayendanega e il suo segretario particolare, signor Philippe Lacroix. L’ingresso a corte della delegazione americana è stato seguito da una gran folla di londinesi, con le conseguenze che sono solite verificarsi quando troppa gente si raduna in un luogo solo: furti, ossa ammaccate, ferimenti e oltraggi. A questo si aggiunga lo scompiglio generato da una cricca di saltimbanchi travestiti da indiani, che nemmeno di fronte alla Guardia Reale ha voluto abbandonare l’insano proposito di avvicinare il principe dei Mohawk. Due di essi, presi in custodia, sono ospitati a Newgate, in attesa che giudici e testimoni risolvano due importanti quesiti. Il primo, se questi indiani fasulli siano gli stessi che l’ultima notte dell’anno levarono lo scalpo di un certo James hotburn detto Dread Jack, alla Taverna Occhiosolo di Tottenham Court Road e ancora gli stessi che giorni prima assaltarono la carrozza di un gentiluomo di Mayfair, come descritto dalla vittima in persona in una lettera al nostro giornale. Secondo, quale fosse il motivo di tanto accanimento nel voler raggiungere i principi Mohawk, se un atto di pazzia o piuttosto un disegno preciso. Da questi interrogativi dipenderà la sorte dei due malfattori, id est il manicomio di Santa Maria di Betlemme oppure, come ci auguriamo, le forche di Tiburn. Ebbene, la ragione che ci ha spinto a sorvolare sui particolari del ricevimento a corte, particolari che anche le pietre ormai conoscono a memoria, è che, salvo i diretti interessati, soltanto noi, in tutta Londra, abbiamo una risposta a entrambi i quesiti. Tale risposta è la lettera che riportiamo qui sotto, la stessa che gli indiani di Londra avrebbero consegnato al principe Thayendanega. Uno sconosciuto l’ha recapitata in copia alla sede del nostro giornale, poche ore dopo il fatidico incontro. Ci siamo interrogati a lungo sull’opportunità di concedere queste pagine al delirio di un pazzo, assecondando così la sua perversione. Ci siamo risposti che, sotto la folle apparenza, queste righe celano un disegno lucido e se il diffonderle fa certo buon gioco a chi ce le ha fatte recapitare, tenerle nascoste sarebbe ancora più grave, perché priverebbe i nostri concittadini dell’unica risorsa che hanno di fronte a simili oltraggi: stare all’erta, vigilare, conoscere il giorno e l’ora della prossima visita del ladro. Al Principe dei Mohock, Sua Altezza Joseph Brandt Teyandegea Fratello, scriviamo questa Lettera consapevoli che i Ministri della Corona – e le loro amorevoli Guardie – non ci permetteranno facilmente di parlare con Voi in un incontro franco e tranquillo, preferendo annoiarvi con inutili Ricevimenti, Spettacoli teatrali e Sfide tra spadaccini. La vostra Visita nelle Città di Londra e Westminster è per noi motivo di inspiegabile Orgoglio e di grandi Speranze. Orgoglio, per gli onori tributati dalla capitale dell’Impero a un principe di sangue indiano; Speranza, per l’occasione che Dio ha voluto concedere ai Mohock delle colonie e a quelli del Vecchio Mondo di potersi abbracciare e dar vita a un’unica nazione potente. Per amor di chiarezza, diciamo subito che noi Mohock di Londra – a eccezione di chi Vi scrive – non abbiamo manco una goccia di sangue indiano nelle vene, ma ci sentiamo, in tutto e per tutto analoghi. I cosiddetti onest’uomini, infatti, ci considerano selvaggi e amano appiopparci le più crudeli malefatte, per poi ricordarsi di noi quando hanno bisogno di carne da cannone per i loro eserciti. Un tempo eravamo anche noi un popolo fiero e coraggioso, dedito alla caccia e all’agricoltura, desideroso di vivere in pace, ma gli onest’uomini ci hanno soffiato la terra, e con essa boschi, alberi, animali e acque, costringendo i nostri nonni ad abitare quartieri malsani e a divenire servi, soldati, mendicanti o ladroni. Un destino che gli Inglesi d’America vorrebbero riservare anche al vostro popolo e da cui vi mettiamo in occhio. I Mohock di Londra, appesantiti da secoli di privazioni e soprusi, non ebbero mai l’opportunità di scendere a patti con un sovrano. Hanno però un vantaggio, rispetto ai fratelli d’America, che è quello di vivere nel cuore dell’Impero, a pochi isolati dalle dimore di Sua Maestà e di poter far sentire la propria voce forte. Immaginate che gli Indiani delle Colonie e quelli della Madrepatria uniscano le forze in una grande nazione. I Mohock di Londra verrebbero allora ricevuti dal Re come ambasciatori, onore che viceversa non verrebbe mai concesso; d’altra parte, i Mohock americani avrebbero qualcuno a presentarli nella Capitale dell’Impero senza bisogno di attraversare l’oceano di qua e di là. Ecco perché riteniamo questa unione di grande convenienza per tutti e facciamo richiesta formale, fratello, di entrare a far parte della vostra Confederazione, come Settima Nazione. Seppoi un patto di questo tipo non fosse possibile, siamo perfino disposti a fare atto di sottomissione alla vostra autorità, chiedendo alle Sei Nazioni di considerarci sudditi, o di adottarci alla maniera indiana, o al limite di farci prigionieri. Tutto pur di essere Mohock con giusta ragione. Se dunque volete farci l’onore di accettare il nostro invito, vi chiediamo, fratello, di aggiungere queste condizioni al patto di alleanza che stringerete con Lui: Primo, che gli indiani di Londra e Westminster non devono servire nell’Esercito di Sua Maestà, ma solo ubbidire al capo supremo delle Sei Nazioni, Joseph Brandt Teyandegea e all’Imperatore Taw Waw Eben Zan Kaladar II. Secondo, che i terreni indiani delle città di Londra e Westminster, nonché del sobborgo di Southwark, siano considerati Porta Orientale della Casa Lunga, sottoposti all’autorità esclusiva del suddetto Joseph Brandt Teyandegea e dell’Imperatore dei Mohock. Guardie, soldati e milizie di Sua Maestà avranno accesso a questi terreni solo dietro formale autorizzazione. Terzo e anche ultimo, che al di fuori dei terreni suddetti è garantito agli Indiani di Londra e Westminster il diritto di caccia, dal tramonto all’alba, sulla riva sinistra del Tamigi, nelle riserve comprese tra Hyde Park e Tower Hill. Confidando nella vostra dedizione alla cosa comune degli Indiani delle Colonie e della Madrepatria, noi siamo, fratello, Vostri sudditi e umili servitori. Taw Waw Eben Kaladar II Imperatore dei Mohock di Londra e Westminster Crediamo non ci sia molto da aggiungere circa l’identità degli autori di questa lettera. Si tratta con certezza dei famigerati Mohock di Soho, che la gente di Londra ha già ribattezzato sohock. Il titolo di Imperatore infatti, peraltro del tutto incongruo a una nazione indiana, è lo stesso che compare nelle testimonianze del gentiluomo di Mayfair e del taverniere dell’Occhiosolo. Già per questo i due arrestati dell’altro giorno dovrebbero rimanere all’Albergo Reale di Newgate, in attesa della giusta condanna. Per sovrappiù, una lettera di tal fatta costituisce di per sé un crimine grave poiché, con l’artificio retorico dell’essere indiani per analogia, si finisce col sobillare in maniera evidente una vasta categoria di individui. Siamo certi che il principe Thayendanega è ben lungi dal considerare con simpatia le farneticazioni di questi Sohock, tuttavia non possiamo fare a meno di notare che la sua presenza ha scatenato nella peggior feccia di questa città un pericoloso sentimento di rivalsa. Le Sei Nazioni sono senz’altro un alleato prezioso di Sua Maestà imperiale. Il loro valore militare è indiscusso, basti leggere i resoconti di quei Francesi che ebbero la sfortuna di combattere les iroquois. Ciononostante, riceverli a corte in pompa magna, presentarli come l’ago di una delicatissima bilancia e dedicar loro Spettacoli e Festeggiamenti, fa sì che molti pensino di meritare attenzioni simili. «Ma come? – si domanda all’improvviso un garzone di macelleria. – Forse che Re Giorgio considera i selvaggi più importanti dei suoi stessi sudditi? Forse che il mio fucile non può servire la causa dell’Inghilterra meglio delle frecce dei primitivi? E allora perché non vengo ricevuto anch’io nel Palazzo di St. James, dove peraltro non mi azzarderei mai a svilire Sua Altezza, negandogli la giusta riverenza?» Questi sono i discorsi che sentiamo fare per le vie di St. Giles e Whitechapel, a Soho e nel Garden. Per quanto contorti e irragionevoli, essi ci mettono sull’avviso. Non è forse che per ingraziarsi un alleato, importante quanto si vuole, i ministri della Corona rischiano di guastare l’alleanza tra il re e il suo popolo? È un rischio, questo, che si dovrebbe valutare con maggiore attenzione. panifex 20. Joseph allungò il giornale con un gesto veloce, come se temesse di essere spiato da qualcuno. – Guarda qui. Philip osservò il compagno. Sembrava stupito. Prese i fogli della gazzetta e cominciò a leggere. Joseph guardò oltre il parapetto. La cupola di St. Paul si innalzava sui tetti della City. Era l’architettura più grande che avesse mai visto. Gli occhi la cercavano sempre, la sua imponenza era una conferma. Il piccolo traghetto risaliva il Tamigi in un traffico simile a quello delle strade. Joseph e Philip avevano accettato il consiglio di un cameriere del Cigno. Il solo modo per vedere Londra standosene tranquilli, aveva detto. Non c’era voluto molto a capire che il proprietario e pilota del battello era un suo parente ma, fatta eccezione per l’odore che saliva dal fiume, si era rivelato un buon consiglio. L’acqua sciabordava sulle fiancate. Dalle rive giungevano echi lontani. Alla fine Philip spezzò il silenzio. – Questa gente crede che tu sia un re. – Accadde anche a Hendrick. Philip fece un gesto con la mano. – Non è solo questo. Ci sono persone, qui, che vorrebbero sottomettersi a te, alle Sei Nazioni. – Sono solo dei pazzi. – Tu sai cosa pensa la nostra gente: spesso il Padrone della Vita parla per bocca dei folli. Ciò che abbiamo veduto di questa città è quel che ci hanno fatto vedere. Le parole risuonarono nell’aria. Philip riconsegnò il «Daily Courant». Gabbiani si abbassarono sul battello mandando lunghe strida. Philip guardò il fiume che scorreva placido e i natanti attraccati ai pontili, dondolati dalla corrente. Joseph sentiva la stanchezza delle ultime giornate. Era stato un susseguirsi di ricevimenti, visite, interviste. Parlò con voce roca. – Ho accettato questa parte per schiudere la porta del re. Ho ottenuto il suo rispetto, l’impegno a difenderci. Il resto non ha importanza. Philip prese a caricare la pipa in silenzio. – Quando torneremo indietro verrà il momento delle scelte, – riprese Joseph. – La Lunga Casa dovrà decidere quale bandiera issare. Qualcuno dovrà convincere i guerrieri. Potrebbe farlo Piccolo Abramo? Shononses? Un altro qualunque dei sachem? – No, – rispose Philip. – Io sono Joseph Brant Thayendanega del clan del Lupo, parente di Sir William Johnson, interprete del Dipartimento indiano, amico del re d’Inghilterra e beniamino della gente di Londra. C’è qualcuno nella Lunga Casa che può vantare titoli più validi? – scosse il capo. Attese la risposta di Philip, che non arrivò. Il battello scivolava lento nella luce del pomeriggio. I raggi del sole colpivano l’acqua, accecando chi guardava a occidente. 21. Stridore di ruote cerchiate su ciottoli e lastre di granito, fracasso di assali su buche e canali di scolo. Ferri di cavallo sul lastricato. Urla di vetturini, richiami di venditori, pianti di bambini. Violini scordati, canzoni ubriache. Litanie di mendicanti, rosari strascicati di lamentazioni incessanti, scuotere di bussolotti e spiccioli: l’aria feriva l’olfatto e l’udito, ma anche la vista doveva attraversare una prova. Corpi di miserevole bruttezza, rivestiti di cenci, impegnati in oscillazioni del capo e del tronco, regolari come un pendolo, gesti buoni per tenersi caldi più che per impietosire il prossimo. Batter di denti, imprecazioni, litigi per una bottiglia. Adunate macilente, elemosina accordata più per timore che per compassione. Sembravano vagare come larve inquiete, alla ventura. Dalle finestre mani distratte gettavano avanzi. Mendici raccolti in patetiche orchestrine strimpellavano e ululavano, accennando passi di danza. I più fortunati difendevano miseri domini personali, quasi un’autorità avesse concesso in perpetuo un angolo di strada, un pezzo di lastrico. Quale che fosse la condizione toccata in sorte, uomini e donne mostravano tutti lo stesso colorito cinereo, come se il cielo lattiginoso che gravava sulle teste avesse preso possesso della carne. Ognuno, mendicante o vetturino, servo o signore, sembrava perduto in un’occupazione d’importanza vitale. Ma non si trattava che di prolungare a tempo indefinito l’esistenza: mangiare abbastanza per non crepare di fame, bere abbastanza per non pensare, avere addosso abbastanza stracci per non morire. Philip camminava lungo Drury Lane, diretto a nord, dove la città finiva. A tratti tornavano alla mente le frasi della lettera scritta dal capo degli «indiani» di Londra. I cosiddetti onest’uomini ci considerano selvaggi e amano attribuirci le più crudeli malefatte, per poi ricordarsi di noi quando hanno bisogno di carne da cannone… La via brulicava di ogni genere di persone. La pancia della capitale si apriva lurida e vociante. Aria pregna di polvere di carbone, greve di feci umane e animali. Aveva percorso i primi cento passi con un fazzoletto bianco accostato al naso; dopo poco, però, aveva rinunciato al velo protettivo, per non dare troppo nell’occhio. L’ultima cosa che voleva era attrarre l’attenzione: gli sguardi già si fermavano su uno straniero che nascondeva parte del volto, la pelle ramata dal sole. Camminare senza metter piede su merde di cavallo, del resto, era già un’impresa. Inutile renderla più difficile. Un tempo eravamo anche noi un popolo fiero e coraggioso… ma gli onest’uomini ci hanno sottratto la terra e con essa boschi, alberi, animali e acque, costringendo i nostri nonni ad abitare quartieri malsani e a divenire servi… Un destino che gli Inglesi d’America vorrebbero riservare anche al vostro popolo… Giungere alla fine della metropoli, poi alla campagna, la stessa che aveva intravisto a Vauxhall. Riempire i polmoni di aria buona e rinfrancare il corpo, messo alla prova non solo dal fumo e dalla puzza, ma anche dal cibo e dalle bevande. Bere acqua significava sorbire il flusso disgustoso che correva nelle tubature sotterranee in legno d’olmo, esposte a ogni sorta di lerciume, forse anche a quel che saliva dal Tamigi, liquame contaminato da tutta la sozzura di Londra e Westminster. Oltre agli escrementi umani, in quelle acque erano diluiti gli acidi, i minerali e i veleni di officine e manifatture. Per non parlare delle carcasse di animali e uomini, e gli scarichi di vasche da bagno, cucine e orinatoi. Philip, che odiava l’ebbrezza, aveva dovuto piegarsi alla birra, il meno deleterio dei liquidi che dissetavano i Londinesi. Il corpo iniziava a gonfiarsi e dolere. Sentiva il bisogno di respirare. Trascorrere una giornata da solo, nei campi attorno a Londra, magari approntare trappole, catturare un uccello, dormire sotto un albero. All’incrocio di High Holbourn Street, alcuni ragazzini lo circondarono. Scappellandosi e tendendo le mani, mostravano di voler chiedere l’elemosina. Uno di questi estrasse un piccolo pugnale, tanto per sollecitare lo straniero a non esser parco nel donare ai poveri. Philip mostrò loro il grosso coltello da caccia che teneva nascosto sotto la giacca. Imprecando, la muta di ragazzini ruppe l’accerchiamento. Quello che sembrava il capo, un moccioso dal pelo rosso e arruffato, gli lanciò uno sguardo carico d’odio. Lo sguardo di una bestia cattiva. Quando i ragazzini sciamarono lungo Red Lyon Street, Philip riuscì a vedere il volto del capobanda per ciò che era. Tratti che si sommavano nel presagio di un destino incombente, occhi senza speranza, una fine inutile come unica certezza, l’abitudine a se stessi come unico conforto. L’inverno non lo avrebbe risparmiato. Più avanti, una famiglia di disperati trasportava una cassa di legno inchiodata alla meglio. L’uomo, di età indefinibile, piangeva. La donna, scheletrica e coperta da uno scialle nerastro, aveva un’espressione attonita. Reggendo il fardello, procedevano a passi malcerti. Dietro veniva una torma di bambini seminudi. Un cane monco barcollava su tre zampe. Al loro passaggio qualche anima pia levava il cappello, o dava calci al cane. Era un corteo funebre. Philip si augurò di raggiungere presto la campagna. Il viaggio si rivelava insopportabile. Il peso che opprimeva il petto era compassione e disgusto. A quanto aveva udito e letto, nel corso degli anni la città non aveva cessato di ingrandirsi, precipitato urbano dell’Impero. Un destino che gli Inglesi d’America vorrebbero riservare anche al vostro popolo. Mentre assisteva al procedere del corteo, Philip ebbe una visione: Londra estesa quanto il mondo. Un’unica enorme escrescenza, fatta di palazzi e torri svettanti, abituri fatiscenti, slarghi scenici, fontane e giardini, intrichi di viuzze dove il sole non giungeva mai. Un mondo edificato, messo in opera, pavimentato, lastricato, puntellato; un mondo in costruzione, stratificato, rovinoso, marcescente; un mondo di luce artificiale e molte tenebre, salvezza per pochi e condanna per la maggioranza: la nobile città di Londra e Westminster. Pisciò l’ultima pinta contro un muro di mattoni e riprese la camminata, finché il paesaggio dei sobborghi lasciò il posto alla campagna. Philip giunse in cima a una salita e si guardò alle spalle. Le ultime case di Londra distavano mezzo miglio. Sulla città gravava un manto plumbeo. L’uomo si guardò attorno. C’era nell’aria un vago sentore di primavera. Decise che era giunto il momento di tagliare per i campi. – No, non qui. C’è qualcuno laggiù, sotto quell’albero. L’uomo aveva appena deposto una piccola cassa di legno e stava passando sulla fronte un fazzoletto sudicio. – Che vuoi che gli importi, donna? Qui va bene. Guarda i bambini, sono stanchi. Non mangiano da ieri mattina. E neanche io, se è per questo. I cuccioli umani si erano seduti in riva al fosso, esausti e infreddoliti. Stracci bisunti, capelli arruffati, stretti l’un l’altro per tenersi caldi, grumo di carne smagrita e ossa. La donna era il ritratto di una miseria rassegnata. L’uomo era un triste spaventapasseri. Mostrava macchie di pelle grigiastra sotto toppe cucite alla meglio, ma non rinunciava a un’assurda, antiquata parrucca. – Tu e la tua mania per le formalità, – proseguì. – «Dobbiamo dare l’addio a Billy tutti assieme». Certo, madamigella. Ma io dico che era meglio lasciare i pargoli a casa, a mendicare, in modo che magari stasera riempivamo la pancia. Guardali, poveri bastardi: non ce la fanno più. La donna scoppiò a piangere. – Fammelo guardare per l’ultima volta. L’uomo assunse un’espressione compunta. Levò dal capo il tricorno e aprì la cassa. Un corpicino secco, vitreo, coperto alla meglio da una blusa rattoppata e nient’altro. Impossibile dargli un età. Poteva avere quattro, cinque, sei o sette anni: dipendeva da quanto cibo era riuscito a inghiottire prima di rompersi. Mentre la donna piangeva e i bambini si lamentavano, giunse sul luogo delle esequie l’ultimo della famiglia, barcollando su tre zampe. – Non so che mi trattiene dal farti arrosto, – disse l’uomo mollando un calcio al cane. L’animale guaì senza convinzione. L’uomo estrasse una piccola vanga dalla fascia legata in vita. Il pianto della donna si fece più alto. – Dio, Dio, perché hai voluto prendere il mio Billy? – Va bene, vediamo di sbrigarci, – tagliò corto l’uomo. – Voglio portare i bastardi sul Tamigi per la bassa marea, per vedere se trovano qualcosa di buono da vendere. O come è vero Iddio, finisce che vendo loro. La donna continuava a piangere. L’uomo aveva scavato mezza buca e già si era accasciato privo di forze. Uno dei bambini lo tirò per la manica. Qualcuno si avvicinava. Lo sconosciuto alzò la mano destra in cenno di pace. Per tutta risposta, l’uomo brandì la vanghetta, gli occhi spiritati. – Che volete da noi? Non abbiamo bisogno di nulla! – ringhiò. – Vorrei terminare il lavoro che avete iniziato, signore. Il nuovo venuto indicò la fossa. Un movimento impercettibile, uno spostamento d’aria: la vanghetta cambiò proprietario. La donna portò il palmo destro alla bocca ed emise un mezzo grido. – Voglio solo aiutare, – disse il nuovo venuto. L’uomo, stremato, crollò a sedere. La donna riprese a piangere. L’estraneo finì di interrare la cassa. Poi ristette in piedi davanti alla piccola tomba. – Guarda, marito. Sta pregando… – disse la donna. L’uomo deglutì. – Sì, moglie. Preghiere papiste. Oi, dico, vorrete mica che nostro figlio vada all’Inferno? Fece per alzarsi, ma la moglie lo trattenne. – Lascia perdere –. I suoi occhi arrossati erano gonfi di pena e rassegnazione. – Credi che per Billy faccia differenza? L’uomo reclinò il capo, mentre il sole impallidiva ancora. 22. Una luce grigia filtrava dalle tende. La camera era quieta, in penombra. Nancy chiuse la porta alle spalle, con delicatezza: amava veder dormire le bambine. I piccoli corpi erano divisi in due letti, la più grande da sola. Sotto le coperte, si intuiva il ritmo del respiro. Nancy sorrise. Attraversò la stanza fino alla finestra, scostò le tende. Le bambine si mossero. – Sveglia! È ora di lavarsi e di fare colazione! Le piccole si misero a sedere, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. Tutte tranne una. – Esther! Sveglia, non sarai proprio tu a dare il cattivo esempio! Nancy si accorse che il letto della maggiore era vuoto. – Dov’è Esther, bambine? – La voce tradiva preoccupazione. Le bambine non risposero. Si limitarono a guardare Nancy con gli occhi assonnati. – Esther! Dove sei? Dove ti sei cacciata? La donna si accostò al letto, levò le coperte. Sul lenzuolo si allargava una macchia di sangue. Aveva dormito in un recinto di pecore, dopo aver chiesto il permesso al pastore. L’uomo era stato cordiale, lo aveva perfino invitato nella sua catapecchia, ma Philip aveva preferito stare all’aperto, sotto le stelle, appena visibili in quella nottata britannica. L’uomo si era fidato, anche le pecore e i cani avevano accettato il nuovo venuto. Si era spinto abbastanza lontano e alle prime luci si sarebbe dovuto alzare, per essere all’appuntamento. Era stato un sonno agitato. Gli ronzavano nella testa dei versi in latino: pulvis es et in pulverem reverteris. Aveva sognato di alzarsi e uscire dall’ovile, seguendo un’ombra familiare. Era lo spettro di sua moglie, sorridente, gli sfiorava i capelli come un alito di vento e lo conduceva in mezzo al campo, dove c’erano due casse da interrare, una molto piccola. Nel petto il cuore era pesante, come gravato da una pietra. Tua figlia, aveva sussurrato il fantasma. Tua figlia. Philip aveva guardato nella cassa più piccola. Sul fondo c’era solo un oggetto: il bottone di un’uniforme da tamburino legato a una ciocca di capelli biondi. Aveva provato a interrogare il fantasma, ma i suoi tratti erano mutati alla luce della luna. Un volto ovale dalla pelle ancora liscia, la bocca sottile e la lunga treccia nera, con alcuni fili bianchi ben visibili. Philip l’aveva riconosciuta, per metà donna e per metà ragazza. Molly lo aveva guardato severa, poi aveva indicato la luna rossa come il sole al tramonto. La luna sanguina. Un animale è stato ferito. Aveva aperto le palpebre di colpo, come se fino a quel momento avesse finto di dormire. Un chiarore a est annunciava l’alba. Ora camminava di buon passo sulla via del ritorno. Gli altri lo aspettavano all’albergo dei Johnson, per andare all’udienza con Lord Germain. Philip non ne aveva alcuna voglia. Il sogno occludeva i pensieri. Questa foglia è gialla e l’ha dipinta Nonno Inverno. Questa foglia è bruna e l’ha dipinta Nonno Inverno. Questa foglia è rossa… No. No. No. E adesso? Era arrivato il momento. Quale momento? No. Questa foglia è gialla e l’ha dipinta Nonno Inverno. Il sangue, come la mamma. No no no. Forse doveva pregare, di sicuro zia Nancy lo avrebbe detto, chiesto, ordinato, ma da qualche tempo Esther aveva paura di Dio. Aveva paura anche di ammetterlo, pensarlo, sentirlo. Dio. Paura. Il sangue in mezzo alle gambe. Voleva toccarsi. Paura. Doveva morire come la mamma? No. Non stava morendo. Freddo liquido colava tra le gambe. Non voleva pregare. La canzone dei colori della mamma. Questa foglia è gialla e l’ha dipinta Nonno Inverno, questa foglia è rossa… La filastrocca diceva il Signor Inverno, ma a Esther piaceva Nonno e nel tempo la mamma la cantava così. Nonno Inverno era Sir William, anche se lo sapeva che non era vero, ma era lui. Nonno. Mamma. Dove siete? Chi verrà a prendermi? Non stava morendo. Quando si era svegliata, accorgendosi di quel disastro, lo aveva pensato, ma ora non più. Certe cose si sentono. Certe cose lei le sentiva: come vedere i fantasmi, o le cose brutte in arrivo. Nonno William, per esempio, lei lo vedeva, ogni tanto. Era proprio lui, ma non ne aveva parlato con nessuno. Le sorrideva, con un sorriso buono. Una volta aveva fatto un gesto con la mano, poi le aveva detto di andare avanti. La mamma invece no. Non ancora, ma ci sperava, sarebbe arrivata anche lei. L’importante era rimanere zitta, non parlarne a chicchessia. Anche di quella cosa di Dio. Se no avrebbero capito che era cattiva. Qualcuno sarebbe venuto a prenderla? Zia Nancy, suo padre? Dio? Il Diavolo? Freddo e stanchezza indurivano le membra, ormai era giorno. C’era una luce gialla, sporca di fumo, che entrava dalle finestrelle del capanno dove si era rifugiata. Era sporca. Aveva i piedi intirizziti e infangati. La coperta sopra la camicia da notte non scaldava abbastanza. In ogni caso, non sarebbe uscita. Dovevano aiutarla, ma non avrebbe chiesto aiuto. A nessuno. Non stava morendo. Era confusa, sporca. Chiuse gli occhi, strinse le spalle scosse dai brividi. Vide la casa dove era nata, di là dal mare. Il grande fiume, la valle, i boschi. Poi una sagoma di donna, il volto nell’ombra. La salutava prima della sua partenza. C’era anche Peter, era sulla soglia di Johnson Hall vestito da generale, le faceva cenno di entrare. Diceva: «Prendi il tuo posto». La visione scomparve. Sarebbe tornata alla vecchia casa? Quando? Qual era il suo posto? Dalla morte di Nonno William il mondo si era messo a tremare, sempre di più. Il verde dei prati della Mohawk Valley diventava rosso sangue. Perché? Di nuovo brividi lungo la schiena. Esther decise che avrebbe dovuto saperne di più. Sul sangue. Per provare a vincere il terrore. Per non avere paura di toccarsi tra le gambe. Per non sentirsi sporca. Per trovare il suo posto. Per tornare a casa, ai prati verdi. Sempre che qualcuno arrivasse a prenderla, perché certo non avrebbe chiesto aiuto, e tanto meno sarebbe uscita da sola. Colse l’agitazione appena varcata la soglia. Al centro della grande sala la figura magra di Nancy Claus gridava ordini alle domestiche. Nelle pause portava una mano alla bocca e la mordeva, mentre con l’altra premeva lo stomaco. Quando lo vide andò verso di lui, ma si immobilizzò subito, rimase a distanza. – Signor Lacroix, vi hanno aspettato tanto. Si chiedevano… mio Dio, non c’è tempo, non posso spiegarvi. L’indiano si avvicinò, puzzolente di stalla e sudato. – Cosa è successo? – Sono dovuti andare tutti da Lord Germain, vi hanno aspettato tanto… – Si morse di nuovo il dorso della mano. Gridò a una serva di cercare ancora, di rivoltare l’albergo. – Cosa è successo? – ripeté Philip. Nancy trasalì, come se in un attimo avesse dimenticato la presenza dell’indiano. Philip notò che era ancora in camicia da notte, coperta solo da uno scialle di lana; i riccioli le spuntavano scomposti da sotto la cuffia. – Esther, – disse. – Scomparsa –. Trattenne un singhiozzo. – Guy non voleva andare via, è stato Daniel a costringerlo, siamo venuti a Londra per questo, per questa udienza, non potevano… Questa volta il morso lasciò un segno sulla mano. Philip si fece indicare la stanza delle figlie di Guy Johnson, salì le scale in fretta e raggiunse il letto insanguinato. Annusò. L’odore di Londra gli aveva intorpidito l’olfatto, ma poteva ancora riconoscere il sangue di luna. Un taglio che non si rimargina. Tornò di sotto e rimase fermo sull’ultimo gradino. Cosa fa un animale ferito? Si rintana. Si nasconde. Guardò attorno. Nancy gli stava dicendo qualcosa, non le prestò attenzione. L’uscita più vicina non era quella principale, ma una piccola porta di servizio. Una volta aperta rivelò un cortile, polli e oche starnazzanti. Nel fango impronte di piccoli piedi portavano a un casotto basso in fondo allo spiazzo, di certo la legnaia. Philip entrò cauto. Il soffitto costringeva a chinarsi, l’odore di segatura accorciava il respiro. Appena oltre la soglia, prima che gli occhi si abituassero al buio, sentì la sua voce. – Stai lontano. Philip si accovacciò in silenzio. I veleni dell’aria cattiva lo assalirono ancora. Tossì, provò nausea e fastidio. Polvere sei e polvere ritornerai. Chiuse gli occhi e riportò la calma dentro di sé. – Hai bisogno di aiuto? – domandò alla penombra. Ancora silenzio. – Sono sporca. Il Gran Diavolo parlò con voce tranquilla: – Anch’io. Questa città è sporca. – Come hai fatto a sapere che ero qui? – chiese la voce in tono sospettoso. – Ho fatto un sogno, – replicò l’indiano. – Nella tomba di mia figlia c’era una ciocca di capelli, biondi come i tuoi. Lei oggi avrebbe la tua età. – È morta appena nata? – chiese Esther lasciandosi intravedere dietro un intrico di rami secchi. Philip si appoggiò a una catasta di ceppi. – Era molto piccola. – Anche mia madre è morta. E mio fratello. C’era sangue dappertutto, tutto il sangue del mondo. L’indiano incrociò il suo sguardo in uno spiraglio tra i legni. – Anch’io ho perso tanto sangue. Morirò? – chiese Esther sfregando i piedi arrossati dal gelo e lerci di terra umida. – Un giorno, come tutti, – rispose l’indiano mentre si alzava con un movimento lento. – Ma non oggi. Vado a dire a tua zia che venga a prenderti. Appena si voltò, i rami secchi scricchiolarono. – Perché ti chiamano il Grande Diavolo? Philip si girò. – Perché in guerra gli uomini amano farsi paura. Poi la guerra finisce e la paura rimane. Fece per voltarsi di nuovo, ma lei parlò ancora. Sembrava non volesse farlo uscire, come se temesse che una volta fuori di lì la sincerità sarebbe svanita. – Anch’io sogno le persone morte. A volte sogno nonno William. Philip annuì senza dire nulla. La ragazza aveva il dono, era vicina agli spettri. L’aveva percepito la prima volta scrutando gli uomini formica dal pennone dell’Adamant. Adesso era lì davanti a lui e lo fissava, come in attesa di risolvere un enigma. Lo fece senza pensare. Sfilò il bracciale di wampum e glielo porse. – Ti proteggerà. Dai vivi e dai morti. Lei lo raccolse e lo strinse nel pugno. Poi lasciò scivolare la mano candida in quella ruvida del cacciatore. Una sensazione antica riaffiorò con un brivido. Philip condusse la bambina fuori dalla legnaia. Sfarfallio di impressioni e timori riempiva la testa di Guy Johnson, intento a tornare all’albergo. Guy Johnson, americano, colonnello, commissario, suddito di, successore di, genero di, padre. Un valletto gli aveva consegnato un messaggio all’uscita dall’udienza. Guy e Daniel ancora sulla soglia, penosi rimasugli dei sorrisi d’etichetta a impiastricciare i volti. Formali e maldestri, sussiegosi per celare la paura. Non avevano il saper fare di Joseph, uno stile sicuro e trasognato, sonnambulo di potere e sfarzo. A Londra, l’indiano di Canajoharie era rinato animale da cerimonia, esotico campione di mostra canina. Nessuna nuova vita, invece, per il tedesco e l’irlandese: solo la politica, un compito da svolgere con un peso a schiacciare il petto, un risultato da afferrare e portare a casa. Casa investita da una tromba d’aria, aria che vorticava e schizzava sangue intorno. Bandoka. Il biglietto era scritto da Nancy: avevano trovato Esther. Philip Lacroix l’aveva trovata. Per la seconda volta doveva ringraziare il Grande Diavolo. Stava bene, ma non era più una bambina. Doveva ricordarselo: il sangue cambia tutto, c’è un prima e c’è un dopo. La lama di ghiaccio che aveva tagliato in due il cervello si era sciolta, e il viaggio di ritorno era meno penoso. Riusciva addirittura a parlare, a commentare l’udienza, benché una parte di attenzione continuasse a fuggire, altrove, lontano e indietro, di là dal mare. Ogni tanto serrava le labbra tra i denti, il futuro era denso di fumi, decisioni da prendere, richieste e aspettative. In compagnia di chi lo avrebbe affrontato? Che prova di sé avrebbe dato, e di fronte a quale pubblico? Sapeva di avere una parte, e non si sentiva attore. Spaventata dal suo stesso sangue, Esther si era nascosta nella legnaia. Non era più una bambina, e a maggior ragione Guy doveva punirla. Doveva punirla, mostrare di avere polso, in questa circostanza e in altre. Aveva causato disordine e preoccupazione. Aveva violato una regola di obbedienza, era scappata. Era scappata e doveva punirla. Avrebbe dovuto, per dare un esempio alle più piccole. Per dare un esempio a tutti. Era quanto ci si attendeva da lui: punire chi scappa spaventato dal proprio sangue. Ne andava della sua autorità. Sapeva di avere una parte, ma non si sentiva attore. Prevaleva il sollievo di saperla sana e salva. Entrò nella stanza, lei sedeva sul letto, alzò il mento, con quella che a lui parve corrucciata indifferenza. Si avvicinò con le spalle curve, come pronto a cingerla con le braccia. Lei non si mosse. La chiamò, lei scosse il capo come per negare il proprio nome. Il padre alzò la voce, lei non rispose. Lui si chinò per guardarla occhi negli occhi, le sollevò il mento con la mano. Di nuovo la chiamò per nome. Vergogna, stanchezza, sfida, rancore, paura, amore filiale, distanza… cosa c’era nell’occhiata di sua figlia? Guy la strinse forte. Lei mosse appena le braccia, appoggiò le mani sui fianchi di suo padre, abbraccio riluttante sospeso a mezz’aria. Restarono così, senza dirsi nulla, nella stanza di un albergo della città più grande del mondo. 23. Londra, 19 di marzo 1776 Onorato cugino John, vi scrivo poiché ho appena appreso della provocazione orchestrata contro voi e la nostra famiglia dai ribelli di Albany. Al ministero delle Colonie è giunta notizia che gli indiani di Fort Hunter hanno accompagnato il gen. Schuyler fino a Johnson Hall, per controllare che nulla venisse fatto contro di voi, se non privarvi delle armi e della polvere. Credo che lo spregevole comportamento degli indiani si possa spiegare soltanto con un’offerta di denaro, liquore o altro. Vi prego di verificare quest’ipotesi e soprattutto di sincerarvi se i ribelli, al contrario di quanto si pensava, possiedono beni a sufficienza per intrattenere con gli indiani una parvenza di commercio. Nel qual caso, bisogna senz’altro ricompensare per la loro fedeltà i Mohawk di Canajoharie con regali di valore almeno doppio, in modo che gli altri vedano dove risiede la convenienza. A proposito della fedeltà degli indiani, vi pregherei di darmi notizie circa le attività di Butler a Niagara e i rapporti che intrattiene con i capi Seneca. Quanto a noi, lo scopo che ci eravamo prefisso con questo viaggio è ormai raggiunto. Dopo due mesi d’attesa, abbiamo avuto l’onore d’essere ricevuti da Sua Maestà e dal ministro delle Colonie. Egli si è mostrato così contrario alla condotta del governatore Carleton, che ha voluto porgere a Joseph Brant le sue scuse ufficiali per quanto accaduto in Canada. L’incarico di commissario, infine, mi è stato conferito per mano stessa del ministro. La sorte del signor Daniel Claus, tuttavia, resta incerta. È dunque necessario rimanere ancora a Londra, onde chiarire meglio la questione della sua nomina. Inoltre, Joseph Brant deve conferire una seconda volta con Lord Germain, per avere risposte sulle controversie territoriali che gli ha presentato. Non vi nascondo che la presenza dei nostri indiani, ben più dei prigionieri catturati a Montreal, ci è stata di grande utilità. La gente di Londra li considera al pari di principi ed essi sono diventati una tale attrazione per l’aristocrazia, che ormai nessun intrattenimento può fare a meno di includerli tra gli ospiti d’onore. Non ho altro da aggiungere, ma resto, con stima e premura il vostro affezionato col. Guy Johnson Dopo aver firmato, il commissario soffiò sull’inchiostro, sollevò il foglio e rilesse dall’inizio. Era una buona lettera. Eppure, sentiva ancora un nodo in fondo alla gola. Non c’entravano la politica, la diplomazia, gli indiani. Il fatto era che di tutte le cose, quella che più lo opprimeva non poteva confessarla né mostrarla a nessuno. Il colonnello Guy Johnson aveva paura. La spedizione a Johnson Hall era a tutti gli effetti il primo atto di guerra nella Mohawk Valley. Il nuovo commissario per gli Affari indiani delle colonie settentrionali sarebbe rimasto volentieri a Londra fino all’inverno successivo, e forse anche oltre. Non fosse stato per tutte le ricchezze che aveva accumulato nel Nuovo Mondo, sarebbe tornato in Irlanda, dalla sua gente. Dove avrebbe portato le figlie? L’esodo e le fatiche del viaggio avevano già ucciso Mary e il bambino, l’erede che doveva chiamarsi William ed era morto prima di avere un nome. Esther e le piccole erano l’unica famiglia che gli restava. Non poteva permettere che la guerra travolgesse anche loro. Doveva lasciarle a Londra, al sicuro. Trovare un buon collegio, tornare in America da solo. Vedere di persona, giudicare, preparare un approdo. Riconquistare in fretta le terre dei Johnson, scacciare i ribelli, tornare a vivere. Il colonnello Guy Johnson aveva paura. Odiava i cannoni. Non gli piaceva nemmeno la caccia. A Londra te lo potevi permettere: nessuno pretendeva dal conte di Warwick che fosse bravo a sparare. A Londra potevi essere nobile, mercante, giudice, ministro. In America eri prima di tutto un guerriero, come gli indiani. In America sapevi, prima o poi, che ti sarebbe toccato combattere, rischiare la pelle. In America la ricchezza, il potere, il prestigio stavano sulla canna del fucile. Avere paura non era permesso. 24. – Dovete convenirne, Doughty. La scienza non può che essere obiettiva. – Obiettiva nell’ideale, ma soggetta alle circostanze, come ogni faccenda umana. – In questo caso, si tratta di opinione. – Eppure ricorderete la disputa tra Wilson e Benjamin Franklin. – Quella sul parafulmine? – Esatto. È più funzionale un parafulmine lungo e acuminato o corto e smussato? – Non ricordo chi dei due avesse ragione. – Perché gli esperimenti non sono riusciti a dimostrarlo. Tuttavia il re decise di dare ragione a Wilson e adesso le sue teorie stanno nei manuali scientifici e i suoi parafulmini sui nostri campanili. – Non capisco dove volete arrivare. – Be’, non potranno mai convincermi che quella scelta sia dipesa solo da ragioni scientifiche. Wilson era tory, Franklin whig. Uno era londinese, l’altro coloniale. Uno era protetto da Lord Vattelapesca, l’altro era il rappresentante commerciale della Pennsylvania. Credete che abbia pesato di più l’oggettività scientifica o la ribellione nel New England? Scommetto una ghinea che in Pennsylvania issano parafulmini a punta come noi qui li abbiamo tondi. Peter smise di origliare la discussione tra i due gentiluomini, che continuarono imperterriti a dibattere. Osservava la sala triangolare della Royal Society col naso rivolto al soffitto, agli scaffali di legno, alle file di libri allineati, fitti come mattoni, che sembravano sostenere le pareti. Camminando a testa in su rischiò di urtare altri ospiti, che lo guardarono risentiti. Si scusò e girò al largo. I titoli sulle grandi scaffalature erano roboanti e incutevano timore. I pochi presenti a quell’ora del giorno discutevano a gruppi di due o tre, a voce bassa. Avevano l’aria di dover risolvere dilemmi fondamentali, affrontandoli con riverenza, in punta di piedi. Lord Warwick, benefattore e membro della società per tradizione di famiglia, gli aveva procurato l’ingresso non appena aveva saputo di quella passione. Per Peter era un interesse risalente all’infanzia a Johnson Hall e ai microscopi di suo padre, che l’avevano sempre affascinato. – A Londra c’è un posto dove gli scienziati dibattono le loro teorie e i loro esperimenti. Il re li protegge e assicura che tutti possano giovarsi delle nuove scoperte e delle invenzioni. Il ragazzo rivide il volto di Sir William sollevarsi dal microscopio e invitarlo ad avvicinarsi per guardarci dentro. Un ricordo nitido, di quando era bambino. Aveva sentito la mano calda e pesante sulla spalla, mentre guardava minuscoli esseri muoversi sotto la lente. – Corpuscoli, Peter, – aveva detto suo padre. – Microbi. Esseri talmente piccoli che l’occhio umano non riuscirebbe a vederli senza l’ausilio di questa invenzione. Capisci? Peter aveva annuito. Nella Stanza della Scienza aveva trascorso pomeriggi interi, eterni come possono esserlo soltanto a quell’età. Il tempio dell’incredibile, dove ogni oggetto poteva svelare un lato recondito della natura. Modellini meccanici per il moto perpetuo, trottole a vapore, la camera oscura che mostrava la realtà capovolta. Di nuovo pensò al microscopio. Quanto spazio c’era sopra un vetrino? Quante cose potevano starci? Un intero mondo, un universo. Non era differente dal guardare le stelle e immaginare quante fossero o quanto fosse grande il cielo. – Si muovono. Si riproducono. Muoiono, – aveva detto la voce dietro di lui. – L’aspirazione di ogni scienziato è scoprire il segreto della vita. Peter aveva alzato la testa e guardato serio il padre. – Il pastore Stuart dice che è un mistero di Dio e che volerlo sapere è una bestemmia. Sir William aveva sorriso. – Dio ci ha dato gli occhi, le mani e l’intelletto. Credi che l’avrebbe fatto se avesse voluto tenerci nell’ignoranza? Peter sedette su uno degli scranni nella sala delle conferenze. L’odore forte di legno lucidato gli era sempre piaciuto. La puzza di Fleet Street non raggiungeva le auguste sale di Crane Court. La commozione gli gonfiò il petto. Essere lì, nel posto descritto da Sir William tanto tempo prima, era un omaggio alla sua memoria e agli anni felici trascorsi a Johnson Hall, nella valle che era stata tutto il mondo, fino a quando non lo avevano mandato a studiare a Philadelphia. Per quello era voluto andare lì, cogliendo al balzo l’offerta di Lord Warwick. Da solo, accompagnato soltanto dai portatori messi a disposizione dal conte. Peter aveva camminato, a rischio di infangarsi le scarpe, e i due l’avevano seguito con la portantina vuota e l’aria perplessa, fermandosi ad aspettarlo fuori dall’edificio. – Noi non bestemmiamo quando cerchiamo di conoscere le leggi che Dio ha imposto all’universo. Rendiamo omaggio alla sua intelligenza creatrice e ne esaltiamo l’operato. Non pretendiamo di conoscere la ragione divina che ha dato origine alle cose, ma indaghiamo il loro intrinseco meccanismo. La lunga catena di cause ed effetti che le rende come sono. Capisci? Peter ricordava di avere annuito per compiacere il padre. Il concetto non gli era molto chiaro, ma gli esseri che si dibattevano sotto la lente attiravano la sua curiosità e tanto bastava. Solo crescendo aveva capito che la fede di Sir William era qualcosa che si stagliava al di sopra delle confessioni e allo stesso tempo le attraversava tutte. Nella sua valle c’era posto per chiunque. Il re d’Inghilterra e il papa erano molto lontani, e il Padrone della Vita adorato dai Mohawk non era indegno d’essere chiamato Dio, anche se ci si rivolgeva a lui in modi selvatici e pittoreschi. Fin da piccolo Peter sapeva che non tutte le cerimonie nella foresta erano indiane. La notte di San Giovanni, nel fitto della boscaglia, si accendevano piccoli fuochi e si parlava gaelico, celebrando messe che la luce del giorno avrebbe proibito. I profughi scozzesi e i coloni irlandesi di suo padre s’intendevano con dialetti antichi come le rocce. La Lingua della Notte. Sir William la usava quando voleva dirgli qualcosa di intimo, che altri non dovevano cogliere. – È la lingua della fede, del sangue e della guerra, – diceva. – Non la si parla per caso. L’inglese invece serviva a comandare, a scrivere e a capirsi da un capo all’altro della valle. A Philadelphia gli avevano insegnato anche il francese, la lingua del nemico. Ma era il mohawk l’idioma che preferiva. Il mohawk odorava di rum e di pellicce. Era la lingua del commercio e della caccia; dei concili e della diplomazia. Ma prima di tutto, per lui, quella delle ninne nanne. Gli apparve il volto severo di Molly e sentì la presa delle mani piccole e forti, così diversa da quella di suo padre. La Stanza della Scienza non era mai stata il suo mondo, eppure affascinava anche lei. Considerava gli strumenti di Sir William come interpreti, capaci di raccontare la Natura nella lingua dei bianchi. Molly si interessava al legame tra microbi e malattie, all’elettricità come cura, alle pratiche dei dottori inglesi. «È una buona medicina, – diceva, – ma lascia ammalati i sogni». Sogni, amuleti, danze rituali. Peter aveva imparato ad apprezzare anche quelli, come parte della vita nella valle. La madre sembrava esserne il centro, importante quanto il fiume o i prati. Era come se tutto laggiù gravitasse intorno a lei. Non era solo la sua percezione di bambino: crescendo quell’idea si era rafforzata, e anche se non poteva comprendere tutti i misteri di Molly, capiva che il suo potere gettava radici nella notte dei tempi. Le canzoni che per anni l’avevano addormentato erano state composte all’ombra degli antichi pini e si tramandavano dall’inizio del mondo. D’un tratto si scoprì nostalgico e triste. Le notizie da casa non erano buone. Se i ribelli si erano spinti fino a Johnson Hall, potevano arrivare a Canajoharie in una giornata di marcia. Molly era in pericolo. Si disse che no, la gente della valle l’avrebbe protetta, sua madre era troppo scaltra per farsi sorprendere. Magari sarebbe partita, come la moglie di zio Joseph, portando i suoi fratelli e le sorelle in un posto più sicuro. I ribelli non potevano prendersela con donne e bambini, era piuttosto John a rischiare, il suo fratellastro maggiore. Peter rabbrividì al pensiero che la casa dei suoi primi anni di vita potesse essere saccheggiata. Da sempre i coloni invidiosi non aspiravano ad altro che svuotarla di ogni suppellettile, razziare le dispense, i magazzini, l’armeria e le scuderie, rubare gli schiavi. Avrebbero rubato anche il microscopio e i marchingegni nella Stanza della Scienza, e lui non poteva fare nulla per impedirlo. Certo la pensavano come il pastore Stuart, o anche peggio. Avrebbero infranto le preziose lenti di suo padre, disperso i vetrini e le provette, sfasciato la camera oscura. Il loro Dio non lasciava spazio a niente, era piccolo, gretto e ottuso. A immagine e somiglianza dei suoi fedeli. Si alzò a contemplare la grande Stanza della Scienza voluta da Sua Maestà Giorgio III. Era tempo di tornare indietro. Bisognava combattere quella gente, ricacciarla nel pantano da cui era uscita, impedire a ogni costo che distruggesse quello che suo padre aveva costruito. Ora la cattura di Ethan Allen sembrava poca cosa. Doveva sparare diritto. Difendere il suo paese. 25. Fare il portinaio non era poi così male, pensò Lester. Lavoro di merda come tanti, ma uno straccio di mancia lo rimediavi sempre. Adesso, con i carbonai scioperati da due settimane, qualche penny d’avanzo poteva farti comodo. C’è differenza tra pagare uno per portarti a casa le chicche e doversela fare fino ai dock con il carriolino, andata, ritorno e schiena in cocci. Uno straccio di mancia, sì, anche nel buco di culo più lezzo della città, l’ospedale di Santa Maria di Betlemme. Per tutti Bedlam, il Posto dei Matti. Lester si vantava d’averla inventata lui, la mancia di Bedlam, ma non era vero un cazzo. Il brevetto spettava al suo vecchio padrone, chiavatore sopraffino, che aveva infornato la pagnotta a una lavandaia di St. Giles. Lester s’era preso la colpa e Lord Garfield l’aveva dovuto licenziare, come si fa coi servi che ciulano tra loro. In cambio, gli aveva trovato quel lavoro, da custode di villa a custode dei matti, che detta così era un’inculata a sonagli, ma poi era saltata fuori la storia della mancia, che cioè a Londra c’erano un sacco di madamine e milordoni che morivano dalla voglia di vedere i maniaci, sentirli urlare e soprattutto studiarseli da nudi. Tra questi sciroccati, manco a dirlo, c’era lo stesso Lord Garfield, che in cambio dell’ingresso gratuito vita natural durante, avrebbe portato orde di amici pronti a sborsare il dengo. Pochi mesi dopo, il lord era schiattato, così a Lester non era rimasto che allargare il giro. Ormai raccoglieva le prenotazioni, regolava le visite per non dare nell’occhio, intascava la mancia neanche fosse a teatro. Una carrozza inattesa si fermò davanti al cancello. Scesero in cinque e fecero segno di avvicinarsi. Lester si buttò il pastrano sulle spalle e imboccò il viale d’ingresso, ridotto a un sentiero dall’erba che lo assediava. Quattro merli e una passerina. Loro, parrucche e bottoni dorati; lei, un monte di capelli che stava su per miracolo e in cima una cuffietta minuscola. Se era gente col grano, di certo spendeva poco per sistemarsi le zanne. I mezzi sorrisi che accolsero Lester avrebbero scacciato uno stormo di pipistrelli. – Siamo qui per i matti, – disse l’elegante del gruppo, appoggiato al bastone con aria saputa. – Il posto è quello, signore. – Questo lo so da me, caro. E so anche di un portiere che organizza visite scientifiche nell’ospedale, non è così? – L’ho sentito dire. Ma credo ci sia bisogno di fissare un orario d’entrata, sapete? E di farsi introdurre dai membri anziani del Club. – Capisco, – sghignazzò quello, mostrando gli zughi come fossero perle. – E ditemi: pensate che una ghinea possa bastare? Una ghinea? Merda santa. – Credo proprio di sì, signore. Prego, da questa parte. Un posto da paura, pensò Neil. Se davvero i milord scoreggini si divertivano a locchiare là dentro, erano più sbroccati loro dei matti nelle gabbie. Meglio sbrigarsela in fretta, dio scannato, e spera che nella bolgia non ne scappa fuori qualcuno, che questi se ti mordono ti attaccano la schifezza. Il portinaio faceva da guida in mezzo a una stanza gigante, simile ai baracconi di Spitalfield dove aveva lavorato da martino. Ma qui invece che telai c’erano griglie, griglie di ferro a destra, griglie a sinistra, e dietro facce, biffe di tutti i tipi, bianche come fantasmi o sguanate di croste, grinzose o insaccate di ciccia; e poi gli occhi, pisoloni o incarogniti, strabici o pallati; trugli che sgolano i peggio strilli o mugugnano per i cazzi loro, bavosi o col ghigno; braccia in croce o sventolate, granfie che fanno ciao e mandano vaffanculo; gnucche che dicono sì, che dicono no, che sballonzolano solo e non dicono una fava; zampe che ballano e calciano, in ginocchio o in piedi, nasi che smoccolano e annusano, culi al vento e sotto coperta, cazzi sguainati e cazzi a riposo, da asino e da nano, da sodoma e da ciondoli. Un posto da paura. Cosa ci trovavano i milordini, si domandò Neil. Ti fai un giro intorno all’Abbazia e ne trovi quanti ne vuoi, di ’sti malcichi fuori di brocca. Presi uno alla volta ti fai pure delle ghigne, non dico di no, ce n’è uno che basta gli dici un nome da passera e quello zac, si cala la braga e ce l’ha già in tiro che puoi infilarci le ciambelle, ma tutti assieme no, così ammucchiati fanno scago, altroché, sembra l’inferno dei mortiammazzati, metti che viene giù una griglia, ti saluto, hai finito di ghignare. A Rob e a Cole dev’essergli venuto un crampo a forza di tenere le chiappe strette, pensò Neil. O magari no. Magari tra scimuniti c’è rispetto, roba che non si fanno male tra loro, tipo così. Non che siano scimuniti, Rob e Cole, ma quegli altri, gli scimuniti coi fiocchi, mica lo sanno, basta che stai dalla parte giusta della griglia e più che sbavarti la spalla o pisciarti nei piedi non fanno. Invece se stai di qua, metti che all’improvviso viene giù tutto, meglio sbrigarsela in fretta, altroché, pigliare fuori Rob e Cole e darsela di scuffia per la campagna. Che cazzo ci trovavano, i milordini del Sucashire… Cominciano i giochi, pensò Dave, l’Imperatore. Aveva locchiato i malcichi dentro il gabbione in fondo sul lato destro. – Signori, signora, se siamo qui oggi è per riparare a un’odiosa ingiustizia. Una mossa repentina e s’era voltato verso i soma con aria sguanosa e sborona. Stava di fianco all’anfitrione, che lo locchiava con una biffa perplessa. L’Imperatore, ancora per il momento nelle palandre di un poldo pieno di plata, con tanto di parrucca e ammennicoli assortiti, dava inizio al suo numero, con i soma di ganga come sempre all’oscuro dei particolari piccanti. – Sì, miei cari, – appoggiò la granfia destra sopra la spalla del portinaio, – una terribile, tragica ingiustizia. Di certo i miei amici staranno pensando ai due nostri fratelli, Rob e Cole, forse i migliori tra noi, che giacciono imprigionati in questa valle di atroci sofferenze. E come dare loro torto? – strinse forte la presa sulla groppa del portiere. – Rob e Cole! Due sinceri patrioti, giudicati folli e rinchiusi per avere osato difendere la dignità propria e del popolo di cui sono parte. Folli, Pazzi, Picchiatelli, Scardinati, Mentecatti, Sbroccati, Sciroccati, Depravati, Dementi! Ecco cosa sono! Il molto che lo stolto non comprende egli lo chiama Follia. Ecco la verità. È per questa verità che siamo qui oggi –. Fece un profondo inchino davanti a Sgancialamancia Lester, rinscemito. Anche i soma non campanavano un granché. Terminò la pausa da attore consumato. – Troppo facile, troppo comodo sarebbe per noi reclamare i nostri amati fratelli alle nostre cure. Riprenderci coloro che ci sono stati sottratti con la forza e il sopruso. Giusto, sacrosanto. Ma poca cosa. Un compito più grande ci attende, oggi. A quel punto il povero Lester l’aveva capito che era il caso di intervenire, che il poldo era strano e sprolava, sprolava, e da qualche parte doveva pur andare a parare. Gli venne un gran scago, vuoi vedere che va tutto a puttane? Il poldo non si fermava più. Con chi cazzo ce l’aveva? – Signori, le leggi e le consuetudini concedono ad alcuni uomini il diritto di valutare lo spirito umano. Noi non stiamo qui a questionare sul valore della vostra scienza o piagnucolare sulle vostre scelte, se sono giuste oppure no. Invece, noi ci leviamo contro il diritto attribuito agli onest’uomini di decidere l’incarcerazione a vita negli ospedali. Luoghi che non sono altro se non delle spaventevoli prigioni. Questo non lo si può mica tollerare. I Pazzi sono le vittime per eccellenza. Sono uomini, questi qua. Su questi uomini, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che la forza. È per ribaltare questo vantaggio che siamo qui noi. Mio caro, allunga le chiavi dei gabbioni. Tirò il pomo che faceva da manico al bastone e ne estrasse una lama, lunga e sottile, che puntò al collo di Lester, e spalancò il truglio pieno di zughi dorati, affettando stupore. Che razza di scardinato, pensò Betty, detta la Mangiona, stretta a fatica dentro panni di donna dai solidi natali. Nonostante ne avesse viste e passate tante da far arrossire una legione di puttanieri, non riusciva a trattenere, lei sì, un sincero stupore. Delle ragioni in tutte quelle sguanate dovevano esserci, perché se un matto come l’Imperatore era rimasto fuori da lì, allora era chiaro che le cose non funzionavano. Però aveva forza. Si era fatto dare le chiavi, tutte, e aveva aperto i cancelli dei gabbioni, tutti. Si era messo a scricciare come quel selvaggio che era. I soma erano schizzati subito fuori. Rob e Cole, lezzosi e sciancati, saltabeccavano come quaglie lungo il corridoio e verso l’uscita, che le palandre cagate si vedevano a leghe. Dave però non se ne dava per inteso, s’era attaccato alle sbarre dei gabbioni e sprolava che uscissero fuori, che il momento era giunto, la giustizia arrivata. Il custode frignava, chiedeva pietà, strillava che era pericoloso. Circondato dai soma del capo degli indiani di Londra, più che piagnucolare non poteva. I picchiatelli sembravano impauriti. Qualcuno, seminudo, s’affacciava di là dalle sbarre, ma senza convinzione, nessuno s’era precipitato verso il portone di uscita. Fu allora che Betty capì la parte che aveva in commedia. Faticò a credere ai suoi snicchi. Quel poldo scraniato le stava dicendo di tirare fuori la mercanzia e cominciare lo spettacolo. Sì, proprio, sbattere in mostra le minne e farci quei giochi che le riuscivano così bene a Tottenham. Era proprio pazzo. Intanto, tutti i malcichi della ganga s’erano voltati a locchiarla, e per le biffe che avevano non era facile distinguerli dagli altri. Che merdaio. Betty rivolse a tutti una smorfia disgustosa e poi, cosa doveva fare?, diede inizio al suo numero, ché tanto gli ubriaconi lezzosi delle stamberghe di Soho non erano certo meglio. Bastava fare finta di stare da Occhiosolo a sguanare e fare bisboccia. Ché poi non era mica la danza di Salomé quella che faceva, erano solo quelle porcate con le minne che arrazzavano tanto i poldi rattusi. Palparsele, muoverle, scrollarle, portarle alla bocca e passarci sopra la lingua, le solite sguanate. L’Imperatore fece centro. Gli scoppiati vennero fuori dai gabbioni, quasi in file ordinate, mentre il mohock di Londra faceva cenno a Betty di arretrare verso l’uscita. L’Imperatore aveva brancato una torcia, e mentre il lungo corridoio si riempiva, indirizzava il gregge come un pastore. Alzava il tono della ciangotta, li spingeva a prendersi la libertà, ma erano le minne enormi di Betty il segreto dell’esodo da Betlemme. Ma guarda che storiaccia porca. C’era da avere paura a fare il verme da esca per quel branco di cefali andati a male che la seguiva come un cucciolo. Gesù, nerchie di tutte le fogge e misure, staccate dalle figure dei loro padroni, rette da granfie giganti, Gesù, questo vedeva, da non crederci! Il portone di Betlemme si spalancò su Londra. 26. – Se garantiamo la libertà ai negri e l’America agli indiani, cosa ci rimane, signori? – Già. A chi venderete i vostri schiavi africani, se la sentenza Somerset diventa legge? – Per parte mia, signor Pole, potrei chiedervi dove procurerete il legname per i vostri cantieri di New York, se le foreste dell’entroterra restano in mano ai pellerossa. – Touché. Ma la radice dei due problemi è la stessa: si chiama America. – Oh, no, signor Gilbert. L’America sarebbe la soluzione. È la miopia il vero flagello: per avere il monopolio commerciale finiremo col perdere l’intero mercato. – Suvvia, non siate pessimista, si prepara la controffensiva di primavera. Sua Maestà invia truppe per chiudere i conti con questi ribelli. – Ho sentito, sì. Mercenari tedeschi, a quanto pare. È iniziato così il declino dell’Impero Romano. – Mio Dio, quanto siete tetro. – Ancora non abbastanza, Cavendish. Mi aspetto il peggio. Ma, come si dice, un uomo d’affari deve saper guardare lontano. Bisogna lasciar passare la bufera. Allora verrà il nostro momento. – Discorsi impegnativi per quest’ora del pomeriggio. Propongo di passare ad altro, signori. È vero che il nostro Corsica Boswell si è appartato nel privé con il principe degli indiani? – Sì. Credo si tratti di un’intervista. – Niente meno, signor Whitebread. La concorrenza vi ha battuto allora. – Poco male. – Magari Boswell smetterà di tediarci con i suoi amici corsi e inizierà a propugnare la causa indiana. – Se così fosse, signor Pole, potete scommettere che lo vedremo presto con le penne in testa. – A proposito, corre voce che abbiano affiliato il selvatico guerriero alla Loggia del Falcone. – Capo Joseph Brant, frammassone? Dev’esserci un equivoco. Sono certo che appartenga al clan del Coccodrillo. – Buona questa. Chi avrebbe mai detto che avremmo assistito a un tale scempio? – Negri, corsi o indiani, questa mania per l’esotico deve finire. Come avevamo previsto, inizia a fare danni seri proprio sotto il nostro naso. Avrete letto dei fatti di Bedlam, tre notti fa. – Certo, ha dell’incredibile. – Pazzesco. – È il caso di dirlo. Donne aggredite in mezzo alla strada. Uomini intenti alle più sordide sconcezze contro stipiti e lampioni. – Atti contro natura… con cani e pollame. Ci sono voluti due giorni per riacchiapparli tutti. – L’avevamo ben detto che questi indiani di città erano un pericolo. – Ma il flatus vocis non basta, signori. E nemmeno la penna affilata del nostro amico Panifex, qui presente. Bisogna fare pulizia. – Cosa intendete dire? – Gli eventi ci hanno dato ragione. Questa confusione deve cessare. Forse non potremo impedire che si abolisca la schiavitù. Ma niente più indiani in giro per Londra. Né a Soho. Né al nostro club. Ci bastano i ventimila negri che affollano i tuguri dell’East End, grazie. – La delegazione indiana ripartirà presto. Non c’è da preoccuparsi. – Bene. Molto bene, signor Whitebread. Auguriamoci allora che insieme a essa spariscano anche i suoi epigoni. 27. Dal «Daily Courant» dell’8 maggio 1776. il saluto del principe thayendanega al ministro delle colonie, lord george germain Il giorno 6 appena trascorso, per la seconda volta dal loro arrivo in città, il commissario del Dipartimento per gli Affari indiani, col. Johnson, e il principe dei Mohawk, Joseph Brant Thayendanega, sono stati ricevuti dal ministro delle Colonie. Al termine del colloquio ho avvicinato il col. Johnson per avere dettagli sull’incontro, ma egli non ha voluto trattenersi e ha invece pregato il suo segretario di farmi avere una copia del discorso che il principe ha rivolto a Lord Germain. Lo riporto qui, così come l’ho ricevuto, sperando di far cosa gradita ai nostri lettori. Fratello (così il principe Thayendanega si è indirizzato al ministro delle Colonie!), nel nostro ultimo colloquio ci hai risposto con poche parole, dicendo che ti saresti occupato dei reclami delle Sei Nazioni riguardo alle loro terre, in particolare quelle dei Mohawk, e li avresti risolti; che tutto questo si sarebbe sistemato con nostra piena soddisfazione non appena i disordini in America fossero terminati, e che ti auguravi che le Sei Nazioni continuassero a comportarsi con quell’attaccamento al Re che hanno sempre manifestato; nel qual caso potevano confidare nel favore e nella protezione di Sua Maestà. Fratello, noi ti ringraziamo per la tua promessa, ci auguriamo di vederla mantenuta e di non restare delusi, com’è accaduto così spesso, nonostante la calda amicizia dei Mohawk nei confronti di Sua Maestà e del suo governo; essa è stata così tante volte ricordata dalle Sei Nazioni che la loro incapacità di ottenere giustizia è motivo di sorpresa per tutte le Nazioni Indiane. Fratello, il disordine che prevale in America e la distanza che ci separa dal nostro paese, ci consente solo di dire che al nostro ritorno informeremo i Capi e i Guerrieri di ciò che abbiamo visto e sentito, per unirci a loro nel prendere le misure più sagge per fermare questi tumulti. Fratello, presto partiremo per il nostro paese dopo essere rimasti qui a lungo, ti chiediamo di non ascoltare tutte le storie che si possono sentire sul conto degli indiani, ma soltanto le decisioni che arrivano dai nostri Capi e dai saggi del Concilio e che ti verranno comunicate dal nostro Commissario. Appare evidente, nonostante il riferimento agli antichi trattati e alla calda amicizia, che anche gli indiani delle Sei Nazioni si sono conformati ormai alla nostra maniera di fare alleanze, non tanto in nome di un’astratta lealtà ma piuttosto in vista di un guadagno. Ne prendiamo atto, considerandolo un segnale della loro progressiva civilizzazione, la quale, come sanno bene certi filosofi, non può che seppellire una certa purezza di spirito. Ciò che non capiamo, piuttosto, è come si sia giunti alla paradossale situazione nella quale Sua Maestà e il governo dovrebbero attendere la decisione dei capi tribù circa l’intervento indiano nei disordini delle colonie, quando ci risulta che tale intervento non sia mai stato richiesto e che siano dunque i capi tribù nella condizione di dover attendere un proclama di Sua Maestà per poter schierare i loro guerrieri tra le file dell’esercito. La differenza può apparire sottile, ma è in realtà capitale e nasce, crediamo, da un malinteso circa le parole del ministro, che ha domandato al principe Thayendanega di preservare l’attaccamento degli indiani al loro re, con ciò non intendendo senz’altro formalizzare una richiesta d’appoggio militare. Non nascondiamo che le vicende americane non ci sembrano richiedere l’intervento di alleati, dall’una o dall’altra parte. Come diceva Sallustio, «vi sono alleati che è meglio non schierare». Gli unici indiani che ci auguriamo di veder combattere con le Giubbe Rosse sono quei Sohock di cui Londra ha tanto parlato negli ultimi mesi. Sono ormai due settimane che non si registrano delitti attribuiti a questi selvaggi – senz’altro meno civilizzati dei loro presunti fratelli – e svariate voci li vorrebbero catturati da una press gang e imbarcati su una nave della Marina in partenza per le colonie. Presto Londra saluterà anche gli indiani autentici. In capo a un mese la delegazione guidata dal principe Thayendanega salperà alla volta di New York. Ci auguriamo che il loro impiego in battaglia non induca, anche oltre l’Atlantico, la feccia e i farabutti a commettere crimini e domandare riconoscimenti. Se non ricordiamo male, erano proprio travestiti da indiani Mohawk i delinquenti che assaltarono le navi del porto di Boston per gettare a mare il tè della Compagnia delle Indie. Un simile spirito di imitazione ha già prodotto abbastanza turbamento. Non è certo il caso di soffiare sul fuoco. panifex 28. La truppa schierata alle spalle del ragazzo presentò le armi. Peter avanzò verso il generale. Tamburi e pifferi scandirono i passi. Il sole splendeva alto, nuvole correvano verso est. Bandiere garrivano. Era magnifico. Tutta la bellezza della vita marziale racchiusa in una sola scena, la volta del cielo come quinta di teatro. Al termine del discorso, il generale Burgoyne appuntò la medaglia: il cerimoniale consentiva al decorato una parola di ringraziamento. Guy Johnson sorrise. Senza dubbio il mezzosangue rendeva onore al nome dei Johnson. La soddisfazione traspariva dal volto del commissario: ancora un successo da aggiungere al carniere. Dietro l’impassibilità, invece, solo un altro Mohawk avrebbe potuto scorgere il compiacimento negli occhi dei due indiani. Peter aprì la bocca. Il commissario, il principe e l’eremita tesero le orecchie. Una lunga folata percorse la piazza d’armi. Il vento portò via la voce. Giunsero limpide solo le ultime parole. – … sono ancora molti, e ben più pericolosi di Ethan Allen. Conosco il mio dovere, e per questo chiedo a Vostra Eccellenza l’onore di poter servire il re e il mio paese entrando a far parte del vostro reggimento. Gli occhi del ragazzo brillarono. Gli Americani rimasero di sasso. Bastò scambiare un’occhiata per capire che Peter aveva tenuto tutti all’oscuro. Il momento sembrò eterno. Fasciato dall’uniforme rossa, Burgoyne guardò a lungo il giovane, come per valutare il peso della richiesta. Poi tradì un ghigno soddisfatto. E rifiutò. Peter incassò il colpo senza muovere un muscolo, ma il generale parlò ancora. La voce abituata al comando tagliò la piazza d’armi da un’estremità all’altra. Ogni soldato di Sua Maestà combatteva per il regno e per la propria casa, disse. Per questo il portabandiera Peter Johnson non si sarebbe arruolato in un reggimento che salpava alla volta del Canada, bensì nei rinforzi del 26esimo Cameronian, appena distaccati nella colonia di New York. Sarebbero partiti entro due mesi. Il giovane eroe avrebbe potuto combattere per la sua terra natale. Peter sembrò ergersi ancor più sull’attenti, come dovesse staccarsi da terra. Gli eventi l’avrebbero trovato saldo al suo posto. Aveva fatto la scelta migliore. Sua madre sarebbe stata fiera di lui, la memoria di suo padre sarebbe stata onorata dalla vittoria sui nemici di sempre. Era giusto così. Era il momento di battere il proprio sentiero di caccia. Philip osservò il volto del ragazzo e ne intuì i pensieri. Era pronto. Non era più voglia di avventura, non c’era nulla che volesse dimostrare. Aveva varcato la soglia. Aveva trovato un motivo per combattere e l’avrebbe fatto fino in fondo. Era successo lo stesso a lui e a Joseph, tanti anni prima. – Toccava a noi portare in guerra il ragazzo. Philip aspettava una reazione simile. Nemmeno lui era contento. Al termine della giornata la malinconia lo attraversava, gravava sulle spalle, ineluttabile. Joseph era scuro in volto. Aveva rifiutato la carrozza e preteso di tornare a piedi. Philip aveva deciso di accompagnarlo nella luce del crepuscolo. Le strade non erano sicure. – È ciò che abbiamo fatto. Per questo Ethan Allen è in catene e il ragazzo può camminare da solo, – disse mentre cercava di evitare le pozzanghere. Si fermò davanti a Joseph e lo guardò negli occhi. – Tu hai detto che dovevamo combattere per il re. Joseph contrasse la mascella. – Io sono fiero che mio nipote combatta nell’esercito del re, – disse. – Ma lo volevo al mio fianco. Volevo che combattesse insieme ai nostri guerrieri. Joseph si mosse. Philip lo trattenne per il braccio e continuò a guardarlo in faccia. – Ha scelto di combattere tra i bianchi, la gente di suo padre. Ogni uomo ha una strada assegnata dal cielo. Per un attimo Joseph parve aver perduto l’orientamento. Ombre mostruose strisciavano lungo i muri, insidiose come serpenti. Faceva buio, e i lampionai non avevano ancora ultimato il giro. La notte incalzava. Senza più parlare affrettarono il passo. 29. Un volo d’anatre attraversava le nuvole, una in coda all’altra, punta di freccia alla ricerca dell’orizzonte. Il conte di Warwick considerò come quegli uccelli avessero veduto molte più terre di lui. Un paio d’ali poteva più dei quarti di nobiltà e della ricchezza. La natura impone a certe specie la migrazione. Anche a certi uomini, forse. Altri sono sedentari, le catene che li legano ai luoghi sono pesanti, rugginose, solo in certi casi dorate. Warwick provò invano a contare gli uccelli: troppo mobili. Il piacere della gregarietà non li avrebbe mai abbandonati. Sarebbero rimasti un branco d’anatre fino alla morte, fino alla prossima generazione d’anatre, e i loro simili non sarebbero mai venuti loro a noia. Il conte di Warwick studiò l’uomo che posava per il signor Romney: diadema di piume, camicia bianca, bracciali d’argento a fermare le maniche. Il ritratto del principe Thayendanega sarebbe rimasto nella sua tenuta di campagna, eloquente testimonianza della loro amicizia. – Siete in buone mani, signor Brant. Il signor Romney riesce a infondere la luce della vita negli occhi dei modelli. L’anima traspare in punta di pennello. La voce di Warwick era piana, senza ombra d’eccitazione. Il pittore si schermì. Era il gioco delle parti a imporre la reazione: Romney era ben consapevole della propria maestria. Ogni gesto rarefatto e ammantato di sacralità. Stemperare i colori. Traguardare il bersaglio da ritrarre col pennello. Stendere vapori di pigmenti diversi sulla tela: tocchi rapidi come la lingua di un cucciolo che lecchi una ciotola di latte, pennellate ampie come la corrente di un fiume quando raggiunge la pianura. – Abbiamo quasi finito, – disse il pittore. – Prego, sollevate un poco il mento, signor Brant. Warwick tornò a guardare fuori. La luce del pomeriggio era tersa, preannunciava la bella stagione. – Avete mai sofferto di malinconia, signor Brant? Io sì. Mi prende sempre, a quest’ora. In tempi antichi si sarebbe detto che la mia vita è sotto il dominio di Saturno. Esiste un rimedio indiano per questa disposizione d’animo? Joseph rispose con sicurezza. – La caccia. Giacere con una donna. Giocare con i bambini. Fumare la pipa. Danzare. Oppure sedersi e guardare l’orizzonte. È strano, ma cose diversissime sembrano curare lo stesso male. Warwick annuì. – Ditemi. Non avete mai nostalgia? A cosa pensate quando la mente torna verso casa? Davanti a Joseph comparvero i volti di Susanna e dei bambini. La fattoria. Canajoharie. Molly. – Al respiro di mia moglie, di notte, accanto a me. Alla pelle dei miei figli. Agli odori. Profumo di mirtillo nei boschi lungo il fiume, mais abbrustolito e sciroppo d’acero. Odore di buone cose nell’emporio di mia sorella. Warwick sembrava sul punto di piangere. – Se appartenessi a un posto differente da questo, anch’io avrei nostalgia. Vi confesso di provare qualcosa di molto simile, alle volte. Nostalgia dell’ignoto, del non visto, del non immaginato. Nostalgia delle vite altrui che hanno incrociato la mia. – Siete stato generoso con noi, – disse Joseph. – In cambio avete preteso niente più che la mia immagine dipinta. Questo è… – cercò la parola giusta in un anfratto della mente, – lusinghiero. Spero un giorno di sdebitarmi avendovi ospite in America. Sareste il benvenuto. Cureremmo la vostra malinconia. Warwick sogghignò. Vide se stesso attorniato da un branco di donne e bambini indiani, ma subito si accorse di non sapere come rappresentarseli: l’unico indiano che aveva conosciuto era davanti a lui. La commozione serrò la gola e inumidì gli occhi. Parlò con voce roca. – Sapete, in vita mia non ho mai viaggiato. Lontano da quest’isola mi sentirei perduto. Io e Londra siamo due vecchi amanti bisbetici. Ci punzecchiamo, ci concediamo ancora fugaci tradimenti. Ma non ci lasceremo mai. Si riscosse e chiese al pittore di ruotare il dipinto in modo da poterlo rimirare all’ultima luce del giorno. Romney eseguì. – Avete superato voi stesso, – commentò Warwick dopo un attimo di silenzio. – Ecco l’anima dell’eroe americano. Il pittore fece un inchino riverente e si congedò. Sarebbe tornato l’indomani per gli ultimi ritocchi. Quando se ne fu andato, Warwick notò l’aria perplessa di Joseph davanti al quadro. – Credete che abbia mentito? L’indiano lo guardò. – Credo di non essere io, – indicò il dipinto. – Quell’uomo è un bianco come voi. L’uomo ritratto era un americano irreale, la pelle e i tratti del viso erano quelli di un europeo. Solo gli occhi appartenevano a Joseph Brant, vivi come fiamme. – Al contrario, signore. L’artista ha colto l’essenza, il concetto, l’idea stessa che voi incarnate, – sfiorò rapito la tela. – Vedete? Sotto i panni del capo indiano appare il gentiluomo. La nobiltà non è prerogativa del nostro vecchio mondo, c’è qualcosa di più antico, di primigenio, che non dipende dai blasoni. È la nobiltà d’animo, la virtù che fu degli Ateniesi e degli Spartani, e che si ritrova in questo volto, – si girò a guardare Joseph. – In voi. Fece un inchino, che Joseph ricambiò. – Tra pochi giorni partirete, – riprese il conte. – Almeno avrò una traccia tangibile del vostro passaggio tra queste mura. – Forse quando la guerra sarà finita e l’alleanza tra le nostre nazioni consolidata, allora ci rivedremo, – disse Joseph. – Forse, – commentò il conte in tono amaro. – O magari saremo troppo cambiati per ricordarci di cosa siamo ora –. Scacciò il manto tetro che l’aveva avvolto e si riscosse. – Credo che a un guerriero sia consuetudine regalare arnesi del mestiere –. Si avvicinò a un mobile ed estrasse una cassetta di legno lunga e stretta. Sollevò il coperchio in modo che Joseph potesse vedere il contenuto. Due pistole dal manico intarsiato erano deposte su un panno di velluto verde. – Sono state usate soltanto una volta, da mio zio, in un duello. L’onore del casato venne difeso da un tiro di precisione che ancora fa parlare di sé nelle riunioni di famiglia –. Sorrise. – Sono certo che ne farete un uso migliore di quanto potrei farne io. Joseph accolse il regalo con un gesto sicuro. Accarezzò le pistole, le impugnò, ne saggiò il peso. – Quando spareranno contro i nemici del re, sarà come se foste voi a fare fuoco. – Per fortuna no, – disse il conte. – La mia mira non compete con quella di mio zio buonanima. Non colpirei una vacca che entrasse dalla porta. Ma vi ringrazio lo stesso del pensiero. Joseph non seppe cosa aggiungere. Lanciò ancora un’occhiata al suo doppio, che scrutava la scena dal cavalletto, poi strinse con vigore la mano del conte. 30. Quando suo padre la sciolse dall’abbraccio, Esther si sentì gelare. Ancora una volta quell’uomo la lasciava indietro, come a Oswego. Lo guardò abbracciare zia Nancy e stringere la mano a zio Daniel, che restava a Londra in attesa della nomina. Sarebbe rimasta con loro fino al momento di tornare in America, a guerra finita. Il padre si accingeva a ripartire e lei non provava niente. Un tempo quell’uomo grasso e nervoso le aveva suscitato reverenza e affetto. Osservò ancora suo padre congedarsi da Peter. Il ragazzo indossava l’uniforme rossa, era diventato un soldato del re. Sarebbe partito anche lui per l’America, ma più tardi, con l’esercito, per combattere i ribelli. Suo cugino ricevette l’abbraccio di Joseph Brant, che gli parlò nella loro lingua, la faccia seria, ma un tono intimo, paterno. I servitori finirono di caricare i bagagli sulla diligenza. Qualcuno disse che era ora di andare. Le navi li attendevano a Falmouth. Anche se era giugno faceva freddo, a quell’ora del mattino. Il sole non era ancora spuntato sui tetti e una bruma lieve ammantava la metà inferiore del mondo. Esther si strinse nella pelliccia e sentì un formicolio alla base della nuca, che la costrinse a voltarsi. Philip Lacroix era lì. La ragazzina toccò d’istinto il bracciale che le aveva donato nella legnaia. Lo portava sotto la manica del vestito. Col pensiero, gli chiese di portarla via di nuovo. Di non lasciarla in quella città scura e nebbiosa. Lo chiese all’angelo custode, non al Diavolo. Si avvicinò: – Non ci rivedremo mai più, vero? Philip guardò lontano, oltre la diligenza, oltre la strada e il porto. Esther attese che frugasse il futuro. Sperò che potesse smentirla. – Se accadrà, ne sarò felice, – rispose, prima di montare a cassetta di fianco al vetturino. Esther sentì i piedi come catene, le gambe di pietra. Pianse. La diligenza si mosse. Suo padre salutò ancora dal finestrino, ma lei non lo vide. 31. La guerra sarebbe stata musica. Il reggimento era la formazione più grande che si potesse comandare a voce. Peter marciava e marciava gonfiando il petto, mentre tamburi e cornamuse accompagnavano le evoluzioni sulla piazza d’armi. Nei primi giorni la fatica era stata improba: sostenere lo stendardo del reggimento richiedeva vigore e dimenticanza di sé. Man mano che i giorni passavano il corpo si abituava e la tempra di giovane uomo dei boschi si rafforzava. Ogni compagnia aveva uno o due tamburi, e una o due cornamuse. Marcia Lenta, Marcia Veloce, Strathspey, Reel: quando più compagnie si univano, i musicisti venivano accorpati per scandire i passi e sostenere la fatica degli uomini. La musica dava forza alle gambe, rilassava le braccia contratte, scacciava i pensieri dalla testa. Era magnifico. Peter pensava che avrebbe potuto marciare per sempre. Finite le consegne della giornata, la truppa vagava per le vie della cittadina in cerca di birra. Prima dell’ora di cena, tamburi e cornamuse battevano le strade per avvertire i venditori che era ora di chiudere. Peter tornava al campo, sazio di birra ma affamato di cibo. Capitava che finisse tra le braccia di una donna di truppa, ma non ritrovava mai quel che aveva provato insieme alla fata della Torre di Londra. La musica apriva e accompagnava le giornate. E le chiudeva, almeno finché qualcuno non si lamentava. Dopo cena, c’era tempo per esercitare le dita e far volare la mente. – Come si chiama questa marcia, ragazzo? Il sergente Bunyan aveva infilato la testa nella tenda senza chiedere permesso. Era un uomo corpulento e in là con gli anni, stretto nella divisa color aragosta. Peter posò il violino e si rivolse all’intruso con tono gelido. – An Faire, sergente. È una doppia giga. E vi prego di non chiamarmi ragazzo. – Certo, scusate. È che vi vedo così giovane, signor Johnson. L’età di un tamburino, più o meno. Non intendevo mancare di rispetto. Peter vide che l’uomo era in buona fede. Decise che quella faccia segnata gli piaceva. – Accetto le scuse, signore. Il sergente aprì il volto in un sorriso, piega più larga in mezzo a quelle che solcavano il volto. – Vi ringrazio, e avanzo una richiesta, se non sono troppo sfacciato: non potreste suonare buona musica scozzese? Peter sorrise. – Signore, la buona musica scozzese è musica irlandese. Il sergente sorrise a sua volta e si accomiatò. Il ragazzo era in gamba. Era uno dei detti preferiti di Sir William. «La buona musica scozzese è musica irlandese». E anche: «Le famiglie scozzesi più note hanno tutte sangue irlandese». Sir William era orgoglioso delle sue origini. Era anche orgoglioso di essere Warraghiyaghey. E di servire la Corona. Sapeva fin troppo bene quello che certuni pensavano degli Irlandesi, della loro dubbia fedeltà. Sapeva anche che gli Scozzesi non erano visti in modo molto diverso. A Londra aveva sentito dire che gli Scozzesi più in vista formavano una lobby che controllava il re. I Londinesi chiamavano «politica» quelle dicerie. Ma Sir William diceva che la forza di Britannia è quella di essere un Regno Unito: il tempo avrebbe detto quali fossero i sudditi migliori e più leali. L’archetto fece vibrare le corde del violino. An Faire. La musica preferita da suo padre, il violino nuovo donato da sua madre. Suonare quella musica non gli era piaciuto, un tempo. Roba da vecchi: ma ora le semplici scale di cinque note e i ritmi di danza uditi mille volte durante l’infanzia affioravano spesso sulle corde del violino, come salendo da quelle dell’anima. Nostalgia della madre. Difficile ammetterlo per un soldato, non per un giovane Mohawk. Nostalgia di Sir William, anche. Di Johnson Hall e dei boschi. 32. La storia l’aveva raccontata Gwenda, una mignotta di Soho Square che si piazzava sempre da Occhiosolo a farsi il cicco prima di attaccare. Era stato la sera prima, proprio sotto da lei. Stava in finestra per attizzare la mossa, tutti malcichi e zavagli, ché da quando c’erano su gli indiani, la polderia col dengo girava al largo, il gagno era stringato e toccava darla ai peggio lerci di Soho. A un botto, dall’altro lato della piazza, spunta questa portanta, con quelli dentro che li senti cantare e quelli che sgroppano stirati fini, coi mantelli e i guanti bianchi, tirare avanti tranquilli, come se stanno a Vauxhall per l’ora del tè. Lei s’era sborsata le minne, le aveva apparecchiate sul davanzo e s’era messa a sgolare un’aria porca, di quelle che le senti e hai già voglia di ficcare. Stava appena all’inizio, che alla ciangotta sua e di quegli altri se ne mescola una terza, uno scriccio da bestie scannate, e subito una quadriglia vestita da Adamo spurga nella piazza, con l’arco, le frecce e tutte le menate dell’anno indiano. Quelli dentro la portanta saltano giù; quelli che sgroppano mollano lì e vanno a imbucarsi in una rughetta buia, con gli indiani attaccati alle chiappe. A quel punto, dalla finestra di Gwenda non si sgama più nicchia, solo due tizi che s’affacciano dalle topaie sul vico e uno versa broda da una tinozza, l’altro cala giù un quale che non si capisce, ma subito senti gli amen che pare di sotto li stanno strippando. Dopo dieci minuti buoni di sgolo e pavane, il vico li spurga fuori, in fila come soldati, davanti i due scarriolini, poi quattro snudati, che devono essere gli indiani, ma adesso ci hanno la gnucca dentro un sacco e una rete addosso che li tiene insieme e dietro altri cinque o sei zavagli, che quando sono passati sotto da Gwenda, uno le ha pure mandato un tiro e lei l’ha riconosciuto, pare che è uno fisso, un infame che incassa il truciolo con una ganga da recluta delle più sguanate. Così l’anno indiano era durato solo sei mesi, pensò Occhiosolo Fred. L’Imperatore e i suoi soma finivano in Marina, magari spediti nelle colonie, a schioppettare gli indiani veri. I selvaggi di Londra erano troppo feccia per farsi nazione, ma abbastanza leccati da infilare una divisa. L’incontrario di quelli di là dall’oceano. Abbastanza feccia per servire all’armata ma troppo leccati per… boh, insomma, l’incontrario. Occhiosolo pensò che la taverna era di nuovo sua e questa volta, se non voleva regalarla al primo stronzo, doveva studiarsela bene. Certo, il primo stronzo che andava lì dentro con quattro soma armati e sguanosi, se la pigliava di sinistro, la taverna. Tutto stava nel non farceli venire. Se c’era qualcosa che gli avevano imparato, quelle teste sbroccate, era la frase che l’Imperatore ripeteva più spesso. La paura è l’anima del commercio. Tanto per cominciare, un’insegna. Taverna di Occhiosolo, magari, per dirla chiara da subito. No, macché, Occhiosolo Fred, ormai, faceva paura giusto ai fringuelli. Piuttosto, La taverna dell’Imperatore, come per ricordarti che quello, prima o poi, poteva pure tornare. I preti andavano avanti da centenni a tenere giù i fedeli con una stronzata del genere, perché non doveva riuscirci lui, per quegli anni micragnosi che gli avanzavano da fare? Se la paura era l’anima del commercio, il commercio aveva molto da imparare dalla Chiesa di Cristo. La taverna dei Mohock, bello, sì, o La taverna dello scalpo, ecco, ché quello sciroccato dell’Imperatore gliel’aveva fatto tenere, lo scalpo di Dread Jack, non si sa mai, e adesso infatti tornava buono, lo poteva inchiodare al muro dietro il banco, sotto un paio di accette incrociate, dove teneva il ritratto a carbone che gli avevano fatto in galera. Magari con la taverna indiana poteva smerciare ancora quella broda schifa, gin, melassa ed estratto di menta, che l’Imperatore glutava di continuo, e i suoi soma c’erano costretti, perché diceva che quello era il cicco preferito di suo nonno e di quegli altri indiani che erano venuti dalla regina Anna, prima che i crucchi si pigliavano il trono. Anche la broda tornava buona, per ricordare che lì, alla vecchia Taverna Occhiosolo, ora Dello scalpo, la Settima Nazione continuava a trovarsi, fintanto che l’Imperatore non tornava dall’America, con pelli di castoro e figa per tutti. Venti galloni di sciroppo alla menta. Se riusciva a darli via prima che mettevano i vermi, se lo faceva tatuare sul culo. La paura è l’anima del commercio. Il ritorno 1776 Nessuna traccia del Lord Hyde. Il brigantino di Joseph e Lacroix si era staccato dal convoglio durante la tempesta. Guy Johnson scrutava l’orizzonte sperando di vederne spuntare gli alberi. Prima di allora, tedio e fatica l’avevano accompagnato come un’ombra bifronte. Il tedio era un retaggio di Londra, la fatica, forse, un’anticipazione delle prove a venire. Giorni e giorni di mare, passeggiate per sgranchirsi le gambe, distratte letture, visite alle altre navi, pasti vomitevoli. L’odore che saliva dalle stive e dagli alloggi dell’equipaggio feriva le narici. Guy ebbe nostalgia del grasso d’orso. Si appoggiò alla murata, le onde erano lunghe, vertiginose. Gli avevano consigliato di guardare lontano, un punto sull’orizzonte, oppure avrebbe reso l’anima agli abissi conato dopo conato. La via per l’America. Una scia di rifiuti gettati dal ponte, una traccia di merda e vomito. Si sentiva come l’uomo-macchina di quei libri francesi che aveva sfogliato a Londra. Bisognoso d’olio in tutte le giunture. L’uomo-statua, collegato al mondo esterno da un tunnel di sensi, nascosto entro una massa di materia inerte. Guy Johnson sapeva che l’impalcatura d’ossa era troppo esile per reggere il peso della carne e del grasso in eccesso. E se su carne e grasso si appoggiava il peso della responsabilità e della preoccupazione, ecco: il castello di carte crollava, albero marcio percosso dal fulmine. Oltre l’orizzonte, per non vomitare. Oltre l’orizzonte, dove Marte percorreva la Terra. Sentì che tedio e fatica poggiavano su qualcosa di più profondo. Paura. Figlia dell’incertezza, ma anche della consapevolezza di sé. Pensò a Esther e alle bambine. Pensò al primogenito maschio, che non avrebbe mai chiamato per nome. Pensò all’ombra della moglie. Pensò a tutto quello che aveva già perso, e a quello che ancora rischiava di perdere. La sottile linea scura non era la costa americana, ma l’isola di Bermuda. La sentenza del capitano Silas venne accolta da un rosario di imprecazioni tra i denti e scaracchi per terra, in spregio alla sorte avversa che li aveva trascinati a sud. La tempesta in mezzo all’Atlantico li aveva separati dal resto del convoglio, spingendoli seicento miglia fuori rotta. Erano a galla. Erano vivi. C’era soltanto da rimboccarsi le maniche. Il mare tradisce, pensò Philip mentre ascoltava il capitano parlare. Non ci puoi poggiare i piedi sopra, sei sospeso sull’abisso, ostaggio degli elementi. Sul mare scivoli. E quando il vento increspa la superficie, la pianura diventa montagna, valanga che ti fa rotolare come una biglia. Dal mare sorgono mostri. Le bestie sataniche delle Scritture vengono da Oceano, così come il serpente che divorò Laocoonte e i suoi figli. Il mare è infido e infernale. Morire in mare significa non avere una tomba, un posto dove riposare. Eppure l’oceano gli aveva restituito il colore del volto. Il pallore di Londra apparteneva al passato: dopo la burrasca, il cielo si apriva sulla nave, azzurro denso solcato da altissime nubi. Poter guardare lontano, riabituare la vista agli spazi aperti dopo quelli angusti della capitale, significava provare a rimuovere il velo che ammantava i giorni futuri. Pensare a ciò che sarebbe stato aiutava a dominare il senso del passato, quello lontano e quello appena trascorso. Da quando erano in mare aveva respinto i tentativi di conversazione di Joseph. Si limitava a poche parole: sì, no, forse. Ma adesso si ritrovavano uno accanto all’altro, appoggiati alla murata. – A cosa stai pensando? – chiese Joseph. Il volto di Philip fu attraversato da un’ombra. – Due palazzi di Londra potrebbero contenere tutta la nostra gente. Se qualcosa andasse male, il nome dei Mohawk andrebbe perduto per sempre. L’espressione di Joseph si fece dura, decisa. – Saprò convincere la Lunga Casa. L’esercito del re è sconfinato, gli uomini che prenderanno le armi per lui sono impossibili da contare. Noi vinceremo. Philip non ribatté, l’attenzione attratta da un profilo lontano. Una vela. I due indiani osservarono l’enigma stagliarsi davanti a loro. – Non sembra una delle navi del convoglio, – disse Joseph. Philip scosse la testa. Forse proveniva dalle isole. Il nome inciso sulla prua si intravedeva appena alla distanza. Argos, gli sembrò di leggere. Joseph non s’intendeva di grossi bastimenti, ma era stato barcaiolo abbastanza a lungo per notare che aveva un pescaggio molto basso. Niente carico. Era più leggera e veloce del Lord Hyde e procedeva spedita verso di loro. Il grido piovve dall’albero di maestra. – Ci rubano il vento! Con una manovra brusca il brigantino era entrato nella loro scia. Joseph sentì le vele sgonfiarsi con il rumore di un sacco svuotato. Poi uno scoppio in lontananza preannunciò la colonna d’acqua che si sollevò davanti alla prua, investendo il ponte di spruzzi. Il capitano Silas urlò. Gli uomini corsero dappertutto. Spuntarono le armi. Joseph si voltò verso Philip. Stava già caricando il fucile. Una seconda cannonata sbragò la velatura. Silas ordinò di virare, offrendo il fianco al nemico e puntandogli addosso i cannoni di bordo. La nave pirata rispose con una manovra rischiosa, scivolò a lato del Lord Hyde, tanto vicino da impedire il cannoneggiamento. Le due fiancate scorsero a poche iarde di distanza, i marinai spararono da dietro le murate, qualcuno lanciò biglie di ferro e chiodi con la fionda. Una voce gridò: – Arrendetevi agli Stati Uniti d’America! Consegnate il carico e la nave! La Argos tentò di tagliare la rotta del Lord Hyde. Con la velatura danneggiata, il timoniere fece il possibile per evitare l’impatto. Le due navi si trovarono di nuovo affiancate, fino a sfiorarsi. Prima partì la salva di fucileria, poi un lancio di rostri e rampini, che i marinai del Lord Hyde si affrettarono a sganciare e tagliare, coperti dal fuoco dei tiratori. Joseph e Philip presero di mira le sagome che spuntavano sul castello di poppa e spararono all’unisono. Il fumo si fece troppo denso per distinguere un qualunque bersaglio. Gli uomini attesero, le canne dei fucili appoggiate al parapetto. Joseph pensò che sarebbe stato triste morire lì in mezzo al mare. Non rivedere casa. I figli. Susanna. Non era così che doveva compiersi il suo destino. Se non poteva opporsi alla volontà di Dio, avrebbe venduto cara la pelle. Mormorò una preghiera. L’eco delle esplosioni e delle urla cominciò a diradare. Il silenzio conquistò lo spazio oltre le murate. Sciabordio, vento. Si intravide la sagoma scura della nave corsara in allontanamento. Li avevano respinti. Insulti volarono fuori portata. Il nostromo ristabilì l’ordine a spinte e calci, muovendosi in mezzo al puzzo di merda e polvere da sparo. «Stati Uniti d’America», pensò Philip. Il Leviatano li aveva raggiunti in mezzo all’oceano. Vide Joseph avvicinarsi. Stringeva ancora il fucile. Capì che la morte gli aveva attraversato la mente, scacciando la paura. Portava sul volto la fermezza di un re d’Israele. Non servivano sogni per sapere cosa li aspettava sulla terraferma. Terza parte Cuore Freddo Freddo 1776-79 1. Il Palo della Libertà svettava alto, dritto verso il cielo. Il tronco di betulla era stato levigato con molta più cura e issato di nuovo tra canti, balli e rinnovati auspici. Il giuramento era corso di bocca in bocca: nessun tacco di possidente lealista avrebbe profanato quel simbolo. La bandiera del Congresso sventolava, rossa come il sangue dei primi martiri. Si diceva che altrove avesse preso a sventolare un’altra bandiera, ma nella valle nessuno l’aveva ancora vista. Il cielo era percorso da nuvole ovattate, il caldo era opprimente. Il colonnello della milizia Nicholas Herkimer sedette, facendosi aria con un fazzoletto bianco. La gente, i patrioti, un nuovo popolo in fieri riempiva la piazza di fronte alla chiesa. Molti tradivano impazienza. Da quando John Johnson e i suoi sgherri se n’erano andati, la milizia e il comitato di salute pubblica tenevano in pugno quella zona della valle. I giorni della paura sembravano finiti, o meglio: continuavano, ma per l’altra fazione, con perfetta simmetria. Herkimer era stato capitano durante la guerra franco-indiana, aveva sempre fatto il suo dovere nei confronti della colonia. Proprio per questo si era schierato dalla parte giusta. I motivi erano ideali, oltre che concreti. La libertà era quello che aveva sempre contraddistinto i sudditi del re d’Inghilterra. Da anni, invece, Giorgio III si comportava da tiranno, applicando tasse infami e balzelli umilianti, tenendo in spregio ogni richiesta di rappresentanza da parte delle colonie d’America. I sudditi, dunque, non erano più tali. Non avevano più alcun obbligo. Il documento che teneva tra le mani lo comprovava. Era una versione a stampa della dichiarazione che il Congresso aveva formulato poco tempo prima. Da quel momento non c’erano più sudditi. C’erano cittadini, e le colonie erano una nuova Atene, una nuova Roma repubblicana. Il superbo Tarquinio inglese non poteva più decidere delle loro vite. Il novello Dario che giungeva con uno sterminato esercito avrebbe conosciuto la sua Maratona. Ora si trattava di spiegarlo, o meglio, di tradurlo ai convenuti. In maggioranza immigrati tedeschi e olandesi, per loro l’inglese era lingua semisconosciuta. Herkimer si chiese se sarebbe stato in grado di esprimere quegli alti concetti in mohawk dutch, il dialetto locale, misto di inglese, tedesco e olandese, pronunciato in modo inaccessibile agli stranieri. Si guardò attorno, e si chiese se la maggioranza avrebbe capito, anche con la miglior traduzione possibile. Ancora una volta, Herkimer non poté fare a meno di pensare che tutti i problemi nella valle avevano a che fare con un’assenza. Sir William: lo aveva conosciuto bene, avevano combattuto insieme, e nessuno poteva convincerlo che un uomo simile avrebbe voltato le spalle al richiamo di libertà che si alzava da tutta la colonia. Ai tempi dello Stamp Act, giusto due anni dopo la fine della guerra franco-indiana, Sir William non si era pronunciato a sfavore delle richieste dei whig. Si era limitato a dichiarare che quelle ragioni rischiavano di essere portate avanti in modo improprio. Negli anni successivi aveva sempre fatto formale atto di sottomissione alla Corona, nella sua posizione non avrebbe potuto fare altro. Ma era morto prima che la situazione precipitasse, prima che la madrepatria prendesse a violentare e a frustrare le legittime richieste delle colonie. Quanto dicevano alcuni patrioti, che Sir William sarebbe stato dalla loro parte, era forse eccessivo. Di certo, però, sarebbe stato abbastanza intelligente e lungimirante da non schierarsi dalla parte di un tiranno. I figli, gli eredi, i suoi indiani erano stati molto meno lucidi. Avevano avuto paura. Herkimer passò in rassegna i volti che affollavano la piazza. – Cari amici, vedo con piacere che siamo tutti presenti. Quando la campana della libertà suonò i primi rintocchi, eravamo certo molti meno. Tutti ricordiamo bene cosa successe la prima volta che innalzammo il palo. La prepotenza e l’arbitrio spinsero ancora più persone ad abbracciare la nostra causa. Noi oggi… Ricordiamo? Innalzammo? Jonas Klug sporse le labbra in una smorfia perplessa. Se l’era sentita raccontare mille volte, la storia del palo. Gente come Rynard non perdeva occasione di gonfiare le penne: «io c’ero». Come a dire: tu no, tu sei arrivato dopo, ti sei svegliato tardi, quando serviva meno coraggio. Mille volte, e in nessuna di quelle compariva Nicholas Herkimer. Pure lui s’era svegliato tardi, ma nessuno dei coraggiosi si azzardava a correggerlo, muti come sassi. Quello intanto spiegava, diceva qualcosa a proposito dell’indipendenza, che il re non aveva più alcuna autorità sulla colonia, che i cittadini degli Stati Uniti d’America erano liberi e avevano diritto alla felicità. Belle parole, come no, ma poi dietro il fumo l’arrosto era poco. Altro che liberi. Volevi dare una lezione a un lealista borioso? Spiacenti, niente iniziative individuali, ordine del colonnello Herkimer. Volevi far capire ai selvaggi che la musica era cambiata? Niente da fare. Se andavi a Canajoharie, dovevi andarci disarmato. Lo aveva promesso Herkimer alla strega indiana, magari in cambio di una ripassata, o magari anche no. Quando sei ricco sfondato e la terra buona ti esce dalle orecchie, non è poi così difficile fare il gentiluomo, rispettare il nemico, concedere quartiere e le altre smancerie da ufficiale. Il sermone finì tra applausi e voli di cappelli. Quando il tumulto si placò, Klug schiarì la voce e chiese la parola. – C’è una cosa che non mi è chiara, colonnello. I selvaggi che vivono nello Stato libero di New York. Sono cittadini anche loro o cosa? – Se per selvaggi intendete gli indiani, signore, allora no, non lo sono, ma devono decidere se essere amici o nemici della libertà. – Scusate, colonnello, – ribatté Klug, – ma se non sono cittadini, perché possono abitare la nostra nazione? Se compro una casa per andarci ad abitare, ma poi ci trovo dentro della gente, io li faccio sloggiare, fuori dai piedi. Le parole di Klug sollevarono un brusio di approvazione. Herkimer fece un cenno con la mano e prese la parola. – Dimenticate che questo è un paese di giusti, signore, che prende a modello i fasti di Roma e di Atene. Atene? Si domandò Klug. Mai sentita. Roma? Non era la città del papa? Che c’entrava il papa con la nuova nazione? Non c’era nessun papista tra di loro, e per fortuna. – Le proprietà e l’incolumità degli indiani saranno salvaguardate, a meno che non agiscano in modo esplicito contro il Congresso e contro gli Stati Uniti d’America. Prima che i nostri avi giungessero qui dall’Europa, essi abitavano già questa terra. Il nostro compito è civilizzarla, non espropriarla. Klug fece segno che non aveva altro da chiedere, ma la risposta non lo aveva soddisfatto. I selvaggi erano in America da prima di tutti, che scoperta. Anche gli scoiattoli, allora, eppure nessuno chiedeva il loro permesso, prima di abbattere un bosco e coltivarci segale. Klug ne era sempre più convinto: bisognava liberarsi dai musi rossi una volta per tutte. Presto o tardi, un generale gentiluomo con la passione per le squaw si sarebbe convinto che anche gli indiani avevano diritto alla felicità. Anche i negri. Anche gli scoiattoli e i boschi. Se si andava avanti così, gli Stati Uniti d’America avrebbero avuto un orso per ambasciatore, un negro per ministro e Sorella Zucca seduta in Congresso. 2. Il vento comandava l’esercito di fiamme. La città di legno subiva assalti furiosi, le case sembravano lottare, dimenarsi per non essere prese dal fuoco, ma il nemico era più forte e in breve tempo le conquistava, le accendeva, le offriva in tributo alla notte finché non crollavano. Restavano colline di cenere. Peter era sbarcato da un solo giorno. Dal Bronx era arrivato a Manhattan, giusto in tempo per vederla bruciare. L’armata di Sua Maestà aveva occupato New York dopo la battaglia di Long Island. I ribelli di Washington si erano ritirati nella nebbia, marciando verso nord lungo l’East River. O forse no: forse si erano mutati in fiamme. Sul grande prato al limitare della città, profughi dai visi anneriti contemplavano la distruzione. Avevano scelto di non fuggire, di non lasciare che New York diventasse una città di spettri, soldati e desolazione. Questa era la ricompensa. L’incendio durava da molte ore, si muoveva verso nord e non trovava ostacoli, il cielo era acceso di bronzo e pirite. Impossibile capire se il sole fosse pronto a levarsi. Tra gli sfollati circolavano notizie, tutti davano la colpa ai ribelli. Il fuoco era partito da una taverna nei pressi di Whitehall, nella punta meridionale dell’isola, e s’era spinto a nord e a ovest sull’arido soffio di Eolo, distruggendo ciò che incontrava tra Broadway e lo Hudson. La vecchia Trinity Church non esisteva più, il fuoco aveva divorato il magnifico organo. Valeva ottocentocinquanta sterline. Alcuni dicevano che i focolai erano stati più d’uno, e almeno un incendiario era stato fermato. Aveva brandito un coltello e ferito al braccio una donna, poi aveva avuto la peggio. Il cadavere, appeso per i talloni, doveva ormai essere cenere. Era stato lui a recidere i manici dei secchi? E chi aveva vuotato le cisterne dell’acqua? Chissà quanti avevano congiurato per appiccare l’incendio. Avevano colto la città di sorpresa: non vi erano più campane per avvertire del pericolo. I ribelli le avevano fuse per farne proiettili. Man mano che arrivavano i profughi, le storie si arricchivano e intrecciavano. La folla aveva spinto altri incendiari, tutti whig, nelle fiamme che essi stessi avevano attizzato. Giungevano voci di esecuzioni sommarie. Nel rogo di New York, il vento sollevava braci che un tempo erano uomini, giudicati colpevoli in un attimo e fucilati, lapidati, pugnalati, calpestati. L’anno prima, dal salone panoramico di Lord Warwick, Peter aveva visto fuochi d’artificio variopinti. La messinscena di un grande incendio, l’annuncio della guerra che nulla risparmia. Aveva dovuto attraversare di nuovo l’oceano, per capire a cosa alludessero quei mastri fuochisti venuti dall’Italia. E adesso era un soldato. Appena sceso a terra aveva cercato di rintracciare Joseph, senza fortuna. Era salito sulla nave che gli avevano indicato, ma Joseph non vi alloggiava più da diversi giorni. Tutti ricordavano il capo indiano arrivato da Londra, nessuno sapeva dire dove fosse. A detta di alcuni, aveva combattuto a Long Island insieme agli uomini del generale Howe. Secondo altri, aveva preso parte soltanto alla risalita di Manhattan, insistendo che l’esercito ribelle andava incalzato e raggiunto. Dicerie. Suo zio disseminava leggende dietro di sé come se gli scivolassero di dosso, abiti troppo larghi o ingombranti. Prima del tramonto, un ufficiale di Marina gli indicò la nave dove alloggiava Guy Johnson. Peter approfittò del poco tempo che gli rimaneva prima dell’adunata del Cameronian e salì a bordo. Una voce nota rispose ai colpi sulla porta. – Chi è? – Peter Johnson, signore. L’uscio della cabina si spalancò sulla sagoma corpulenta di Guy Johnson. – Ragazzo mio, quando siete arrivato? – Ieri mattina. Si strinsero forte la mano. Peter notò che quella di Guy era sudata. Il commissario lo fece accomodare all’interno. Lo spazio era poco, in buona parte occupato da bauli e valigie. – Che razza d’inferno. Non avete idea di cosa stia succedendo qui. Ho chiesto di tornare a bordo. Almeno una cosa è certa: il fuoco non attraversa l’acqua. Guy spostò un paio di borse e liberò una sedia per offrirla a Peter. Lui sedette sulla cuccetta. – Credete che siano stati i ribelli ad appiccare l’incendio? – chiese il ragazzo. Guy Johnson scrollò le spalle. – Così dicono. Mosse una mano nervosa verso la bottiglia aperta sul tavolino e riempì due bicchieri. Ne porse uno a Peter, che lo accettò senza bagnarsi le labbra. – Ho cercato mio zio Joseph, ma non c’è traccia di lui. Potete darmi notizie? – Non è più in città, – rispose Guy dopo aver trangugiato il rum. – È partito da due settimane, diretto a Oquaga, credo, dalla famiglia. – Lacroix? – Partito anche lui. Punta su Canajoharie. È tutto quello che so –. Si versò altro liquore. – Le colonie hanno dichiarato l’indipendenza. L’entroterra è nel caos, banditi e razziatori la fanno da padroni. Peter appoggiò il bicchiere e guardò oltre l’oblò che si apriva sulla parete. Poteva scorgere un pezzo di cielo e la linea scura degli edifici del porto avvolti nella caligine. Faceva caldo, il sudore si addensava sotto la giubba di lana. Pensò ai due uomini in viaggio attraverso una terra ostile. Pensò alla madre, che non aveva sue notizie da mesi. Lacroix l’avrebbe raggiunta, ne era sicuro. Si riscosse. Guy aveva domandato qualcosa. – Prego? – Vi ho chiesto del vostro reggimento. – Siamo aggregati al comando del generale Howe. – Bene. Molto bene. Guy sembrò accorgersi per la prima volta dell’uniforme del ragazzo e delle mostrine. Gli concesse un sorriso forzato. – E voi che farete? – chiese Peter. L’altro si rabbuiò subito. – A essere sincero, non ne ho idea. Guy si alzò e guardò fuori, le colonne di fumo che ancora si alzavano a nord. – L’America brucia, ragazzo mio, – disse il commissario in tono grave. – Domare questo incendio non sarà un’impresa facile. 3. Fuori dall’emporio non c’era anima viva, solo polvere e ciuffi d’erba bruciati dal sole. Il battello dei Graaf aveva scaricato cinque giorni prima, come ogni settimana. La merce era finita a mezzogiorno. Andava così da almeno tre mesi, da quando i ribelli di Albany avevano preso il controllo del fiume e non c’era barca, sul basso corso del Mohawk, che sfuggisse alle loro attenzioni. Il signor Graaf riceveva un trattamento speciale, in nome di parentele e antichi favori. La sua mercanzia era la sola a navigare senza disturbi oltre Fort Hunter, e dunque la sola a rifornire l’emporio. Poche ore d’assalto, trattative, scambi, razionamenti e già si raccoglievano le prenotazioni per il carico successivo. Rum, farina di segale e carne di porco erano i primi a finire. Ma anche corde, munizioni, coperte di lana e coltelli: con l’esercito che assediava New York, ci si aspettava che anche Graaf potesse restare a secco, prima o poi. Fino ad allora, l’arrivo del battello avrebbe continuato a richiamare famiglie lontane, facce che al villaggio s’erano viste forse una volta, gente che abitava a molte miglia di distanza, lungo le valli secondarie, oltre i crinali che chiudevano l’orizzonte. Molly vide la sconosciuta attraversare lo spiazzo. Non era lì per fare acquisti. Chiuse il registro dei conti, ordinò a Juba di preparare la cena e scese le scale. La donna si presentò, disse che veniva da Schoharie e in poche parole spiegò il motivo della visita. Le macchie sul volto della figlia erano comparse quella mattina. Dopo una notte di febbre e lamenti, sotto il velo di lacrime e sudore, piccole pustole avevano ricoperto le guance. Non troppo fitte, ma abbastanza per non lasciare dubbi. L’ultima grande battaglia contro il vaiolo era vecchia di almeno dieci anni, prima che quella bambina vedesse la luce. Molly rovistò i cassetti di un mobile massiccio, avvolse in un ritaglio di stoffa una manciata di erbe, lo chiuse con due giri di spago. – Non posso fare molto per tua figlia, – disse alla donna porgendole l’involto. – Il dottor Brennon ha lasciato la valle quest’inverno. Fu lui a segnare la nostra gente per conto di Sir William, dieci anni fa. Non conosco altri che sappiano fare l’operazione e, anche se fosse, il marchio serve a tenere lontana la malattia delle macchie, non a cacciarla fuori. La donna accolse la notizia con rassegnazione. Il lungo viaggio si rivelava una fatica inutile. – Perdonami, signora, – la voce di Juba spezzò il silenzio. – So di cosa parlate. La signora ha ragione, il marchio non guarisce, ma può fermare molte morti. Juba può farlo. – Tu conosci il modo? La nera annuì. – Nella mia terra si fa, quando il morbo arriva. Mio padre lo faceva. Basta la punta di un coltello e un po’ del liquido che sta nelle macchie. I primi a ricevere il marchio furono i figli di Molly. Nei giorni successivi ebbero febbre e vomito, ma a nessuno comparvero le macchie. La bimba alloggiava in una casa fuori del villaggio. Era malata in modo lieve e il morbo che Juba toglieva dalla sue pustole aveva la giusta forza per preparare il corpo alla battaglia senza ucciderlo nell’esercitazione. Molly mandò messaggeri su e giù per il fiume, alle pendici dei monti Adirondacks e nei villaggi Oneida sulle rive del Susquehannah. Lei stessa andò a parlare con Nicholas Herkimer, che era stato un buon amico di Sir William e comandava la milizia ribelle della contea. Gli spiegò che nel giro di poche settimane, nei giorni che il battello dei Graaf attraccava al villaggio, uomini e donne da tutta la valle sarebbero giunti a Canajoharie, molto più numerosi del solito. Disse che niente di strano si andava macchinando, se non che il vaiolo minacciava i figli e le figlie dei Mohawk ed essi avevano deciso di difendersi. Chiunque fosse sceso all’emporio per vendere o comprare avrebbe ricevuto il marchio che allontana le macchie. Herkimer aveva sentito parlare spesso della cura che i medici chiamavano «inoculazione». L’ultima volta pochi mesi prima, quando le Giubbe Rosse avevano salvato Québec grazie a un’epidemia di vaiolo scoppiata tra gli assedianti. Si diceva che i soldati di Sua Maestà fossero tutti inoculati e che Washington volesse diffondere la pratica anche tra i suoi volontari. Il vento buttava a terra le prime foglie, lo stormire dei rami confondeva le voci. Fuori dall’emporio, una folla mai vista. Betsy, la figlia maggiore di Molly, stava sulla porta e regolava il passaggio, scrutava volti e braccia per fermare chi già era vittima delle macchie, spiegando che no, la cura serviva soltanto ai sani e non ai malati, come invece molti speravano d’aver inteso. Dentro, la consueta penombra era attenuata da due grosse lampade. Molly accoglieva chi entrava, sbrigava acquisti e scambi, poi indicava una sedia e faceva cenno a Juba di procedere. L’operazione era semplice. La punta del coltello graffiava la pelle, un sorso di rum rinfrancava lo spirito. Mentre una vecchia impaurita si accomodava sulla sedia e Molly trovava il modo di farle accettare il marchio, le voci di fuori si accesero in uno scoppio d’eccitazione. Pareva un litigio e Molly si disse che era normale, che prima o poi doveva succedere, un malato che non vuole allontanarsi, qualcuno che si stanca d’aspettare o il solito ubriaco. Tranquillizzò la vecchia e s’avviò verso l’ingresso. Parole emergevano dal baccano, ma non fece in tempo a distinguerle, a mettere insieme una brandello di senso. L’ombra nel vano della porta era una figura nota. Ronaterihonte era di nuovo a Canajoharie. 4. L’emporio era un cimitero di scaffali vuoti e sacchi sgonfi. Oltre i vetri opachi delle finestre, i ragazzini del villaggio facevano capolino. Philip gettava loro un’occhiata e le piccole teste sparivano, ma soltanto per un battito di ciglia. Molly sedette con le mani in grembo, pronta ad accogliere qualsiasi notizia. – Siete partiti in molti e soltanto uno ritorna, – disse. – Il mio cuore trema. Philip lasciò che le sue membra stanche si sciogliessero nell’abbraccio della sedia. – Non ne ha motivo. I tuoi stanno bene, Molly Brant. La donna trasse un sospiro di sollievo. Philip indicò la fila davanti all’emporio. – Non si può dire lo stesso di voi. Molly annuì. – Il vaiolo ha attaccato la valle, ma l’abbiamo fermato in tempo. Dovrai farti segnare anche tu. Ma prima dimmi. Perché mio figlio e mio fratello non sono con te? Philip raccontò della scelta di Peter, arruolato nell’esercito inglese, e di Joseph, in viaggio sulla via di Oquaga per raggiungere la famiglia. Raccontò anche di Daniel Claus, rimasto in Inghilterra, e di Guy Johnson, a New York. – La compagnia si è sciolta, dunque, – commentò Molly. Philip non disse nulla. – Le cose non vanno bene, – riprese Molly scuotendo la testa. – Contro l’epidemia della ribellione non conosco cure. I coloni hanno dichiarato l’indipendenza dall’Impero, le loro milizie si ingrossano giorno per giorno. Si arruolano in molti, anche persone che non ci aspettavamo diventassero ostili –. Si incupì. – Poi ci sono quelli come Jonas Klug, che da tempo attendevano un’occasione come questa. La foresta non è sicura, il fiume non è sicuro, nessun luogo lo è più. Anche Johnson Hall è caduta in mano alla milizia. È successo a maggio. Sir John ha dovuto rifugiarsi in Canada. Ha lasciato qui la moglie con il figlio piccolo e un altro in grembo, insieme a una scorta. Pochi giorni dopo i miliziani hanno circondato la casa. Hanno preso la moglie di Sir John insieme al figlio, ora sono prigionieri ad Albany. Hanno portato via anche la moglie e i bambini di John Butler. Smise di parlare, gli occhi tristi guardavano il pavimento. Li risollevò con fatica. Poi parve richiamare alla mente qualcosa che teneva in serbo da tempo. – Com’è il re degli Inglesi? – domandò. Sembrava davvero curiosa di saperlo. – Un uomo che vive lontano dalla sua gente, – rispose Philip. – In un palazzo grande come un campo di baggataway. Molly giunse le mani e si lasciò andare sullo schienale. – Tu vuoi che io ti ascolti. Parla con sincerità. – Non possiamo vincere, Molly, – disse Philip. – Puoi fermare le loro malattie, ma non il contagio che portano nell’animo. I bianchi ci distruggeranno come distruggono se stessi. Non fa differenza quale sia la bandiera. Sono un gorgo che si allarga e sprofonda ogni cosa. Questa volta il sospiro di Molly fu grave e prolungato. – Gli uomini pensano alla sconfitta come al sole che si spegne, il mondo che finisce. Le donne sanno che non è così. Philip si voltò: le sagome dei bambini guizzarono via, colse nel movimento barlumi di sorrisi. – Faremo ciò che è necessario, – riprese Molly. – Se è guerra ciò che ci attende, l’affronteremo, come abbiamo già fatto. Sangue sarà versato, ma io ti dico che il Popolo della Selce non morirà, se i suoi figli non lo rinnegheranno –. Si alzò e gli poggiò una mano sulla spalla. – Sei tornato. È bello averti di nuovo qui, Ronaterihonte. Ci aiuterai a superare l’inverno. – È per questo che mi hai richiamato? Perché possa essere con voi nell’ora del tramonto? Il volto di Molly rimase impassibile. – Ti ho chiamato perché ogni cerchio va chiuso. Cosa questo significhi per ciascuno di noi non possiamo saperlo dall’inizio. Philip si alzò. Sentiva un grande affetto per quella donna e sapeva che i loro cuori sarebbero rimasti legati per sempre, fino al giorno della fine. Cercò le parole per dirglielo, ma lei lo prevenne. – Nel tuo viaggio è accaduto qualcosa che non mi hai detto, – gli lanciò un’occhiata di sbieco, mentre si chinava a rimestare il fuoco. – Al tuo polso non c’è il wampum della tua adozione. – L’ho donato a una persona che aveva bisogno di buona sorte. La donna annuì ancora. – Sei un uomo generoso, Philip. L’ultima volta che quel bracciale è passato da una mano all’altra ha intrecciato i destini di due persone. Philip si rivide ragazzo, piccolo tamburino sotto il coltello del carnefice. – Dio ti benedica, Molly Brant. Le rivolse un cenno di commiato e raggiunse la stanza delle inoculazioni, sollevando la manica della camicia. 5. Il respiro del bosco era un grido di spettri. Joseph camminava da settimane, solo, vestito da cacciatore, nulla di indiano che potesse tradirne l’origine. Passo dopo passo, la sensazione di pericolo montava, cresceva nella pancia, appesantiva le membra più del carico d’armi e provviste. Muscoli contratti in nodi dolorosi, respiro incapace di distendersi. I sentieri per Oquaga erano una sola, interminabile ascesa. Un orso incrociava la sua pista da giorni: l’aveva udito nel dormiveglia, ne aveva veduto i segni sui tronchi di pino, zampate lasciate a mo’ di firma. Era l’orenda del nemico, odio mutato in zanne e artigli. La presenza della fiera si avvertiva tutt’attorno, in certi momenti sembrava di poterne cogliere l’odore. L’orso seguiva le tracce, a volte anticipava il cammino dell’uomo. Joseph si aspettava di vederlo apparire nell’ombra del sottobosco. In realtà l’orso, animale solitario, era la minaccia meno grave che percorreva quei boschi. La più pericolosa delle fiere si muoveva in gruppi, senza alcuna accortezza, lasciando tracce evidenti, come non temesse nulla, come a sfidare la sorte: uomini bianchi, miliziani whig, ribelli, razziatori a caccia di bottino. Si sentivano padroni in terra indiana, e si sentivano al sicuro: il respiro del bosco era un coro che non potevano udire. Voci di antenati, generazioni trascorse, carne divenuta vermi e cibo per animali, schiere d’uomini falcidiate dal vaiolo e dalle guerre combattute per conto di alleati distanti. Quei boschi, pensò Joseph, appartenevano ancora agli indiani. Avrebbero rigettato gli estranei come il corpo, con l’aiuto di una buona medicina, scaccia la malattia. Quella terra custodiva le ossa degli avi, e gli avi di Joseph erano stati fedeli alla Corona: la medicina che avrebbe risanato la terra era l’armata del re. Joseph Brant era stato educato ad amare gli Inglesi. Ora che i ribelli si facevano chiamare Americani, si sentiva sollevato. L’umidità impregnava i vestiti. Il cibo era consumato in fretta, la marcia non conosceva soste, fatica che legava le gambe e pesava sul petto. Joseph si fermò per bere e prese fiato, appoggiato al fucile. Una fuga di uccelli fece stormire i rami dei pini. Doveva muoversi in fretta, al limite delle capacità di un uomo. Il mondo era un luogo pericoloso. Doveva raggiungere la meta. Oquaga e Unadilla erano villaggi amici, i parenti prossimi e lontani si contavano a decine. Da lì sarebbe partita la riscossa. Doveva raggiungere la madre, la moglie, i figli. Guardare in faccia la carne e il sangue, il versante vivo e concreto dell’ideale per il quale aveva scelto di combattere. Se si fosse distinto in quella guerra, gente come Klug non avrebbe più potuto allungare mani rapaci sulla roba dei Mohawk. La madre sarebbe morta in pace, e sarebbe stata terra Mohawk a custodirne le ossa. Joseph pensò al suo popolo. Dai giorni della sua infanzia erano morti molti più Mohawk di quanti ora fossero in vita. Philip aveva ragione: due palazzi di Londra avrebbero potuto contenere tutto il Popolo della Selce. Era ormai sera, la luce arancione del sole filtrava tra i rami. I giorni a venire si preannunciavano oscuri come la marcia nel folto del bosco. Joseph desiderò avere al proprio fianco le Grand Diable. L’orso apparve d’improvviso, in piedi, troncando la rincorsa di pensieri. I peli si rizzarono sulla schiena, Joseph spianò il fucile. L’orso mandò un bramito, voltò le terga, sparì nel folto del bosco. Joseph passò il dorso della mano sulla fronte. Un piccolo orso nero, dall’aspetto ben poco minaccioso. Gli occhi dell’uomo e quelli dell’animale si erano incrociati. Forse non era un presagio cattivo, forse voleva dirgli qualcosa, metterlo all’erta. Doveva procedere con cautela, stare attento a non lasciare tracce, rinunciare al riposo finché le narici non avessero fiutato aria di casa. Erano molti, occupavano tutta la radura. Joseph trattenne il respiro, nascosto dalla siepe di rovi che copriva il fianco della collina. Rinunciare al grasso d’orso era stata una buona idea. Da quella distanza, se il vento fosse mutato, l’odore avrebbe tradito la sua presenza. Nel gruppo c’erano molti indiani. Joseph non poteva dire a quale nazione appartenessero. Nella semioscurità non riusciva a coglierne i tratti: potevano essere Mingoes, o Delaware, addirittura Oneida. Erano distanti quaranta passi, e parlavano piano. Non così i bianchi, che scambiavano commenti ad alta voce mentre allestivano il campo per la notte. L’incontro aveva cancellato la stanchezza dalle membra e conferito nuova lucidità alla mente. Retrocedere senza fare rumore, allontanarsi dalla radura, fare un giro largo, riprendere il sentiero molte miglia più a ovest. Joseph si raccomandò alla clemenza divina e si mosse. Percorse l’ultimo tratto del viaggio con la circospezione di una lince. La vicinanza di casa lo rendeva sempre più forte. Tra poco, la solitudine del viaggio sarebbe stata alle spalle. La solitudine, il destino più triste per un uomo, sarebbe rimasta nella pancia del bosco. I cani abbaiavano, ma Joseph era tranquillo. Presto lo avrebbero riconosciuto, e l’avrebbero accolto appoggiando le zampe sul petto, cercando di lavargli la faccia a linguate, come facevano sempre. La luce fioca di una lampada a petrolio filtrava dal legno sconnesso che chiudeva la finestra. La porta si aprì, lasciò intuire l’ambiente domestico, liberò odori di vita pacifica. Un ragazzino robusto uscì all’aperto con un bastone in mano e si rivolse all’estraneo mentre i cani facevano ridda attorno alle sue gambe. – Chi è là? Joseph sorrise, ma la voce uscì cupa e severa. – Non riconosci tuo padre, Isaac? Il giovane rimase muto, in piedi. L’abbraccio di Susanna sciolse la tensione del viaggio. Joseph annusò il profumo dei suoi capelli e cullò il respiro caldo sulla spalla. La moglie gli accarezzò il volto, come volesse sincerarsi che fosse davvero lui. Le dita sfiorarono rughe e cicatrici, percorsero il profilo, in una lenta sequenza di tocchi e carezze. – Joseph. Era troppo stanco anche per parlare. Abbandonò la sacca sul pavimento e crollò su una vecchia sedia. Christina si avvicinò titubante al padre, che la prese sulle ginocchia. La bambina nascose la faccia nel suo petto. Isaac continuava a fissarlo, i tratti serrati in un’espressione enigmatica. Susanna si affrettò a portare cibo caldo. Gli occhi di Joseph incontrarono quelli della madre. L’anziana donna era seduta nell’angolo più lontano della stanza, avvolta in una coperta azzurra. – Quanti scalpi francesi hai portato, Joseph? 6. Scese di sotto orientandosi nella luce ancora scarsa che filtrava dalle finestre. Sentiva il bisogno di aria aperta e pulita. Aria fradicia di rugiada e pioggia imminente. Nuvole basse, gonfie come otri, rumoreggiavano vicine. Il cane lo accolse nel cortile con un guaito di gioia, Joseph gli accarezzò la testa. Sollevò il secchio del pozzo per bere e lavare via il sonno dal viso. L’acqua gelida lo rinvigorì, correndo sul collo e sotto la camicia. Gli edifici del villaggio erano masse scure che iniziavano a prendere forma. Il fiume scorreva placido poco più in là. I fuochi della guerra non lambivano Oquaga. Almeno per ora. Voltandosi per rientrare, individuò una sagoma sul limitare dell’orto. Si irrigidì, prima di riconoscere sua madre, i capelli bianchi scompigliati dalla brezza. – Margaret, – la chiamò a voce bassa, per non spaventarla. – Margaret, cosa fai qui? La vecchia fiutava l’aria. Doveva essersi alzata dal letto senza che Susanna se ne accorgesse. – Lo senti? Joseph annusò, ma non riconobbe nulla che non appartenesse ai boschi e ai campi coltivati. – Cosa, Margaret? Lei inspirò ancora a fondo. – Puzzo di carogna, – disse. – Lo porta il vento da est, insieme alla pioggia. Joseph non sentiva niente. – È meglio rientrare o ti ammalerai. La vecchia si voltò a guardarlo. – Sei tornato, Joseph. – Sono tornato. – Perché non mi riporti a casa, allora? – Presto, Margaret. Adesso è pericoloso. Dobbiamo aspettare. – Sei sicuro? – Sì, Margaret. – Qui c’è puzzo di carogna. – Passerà appena gira il vento. La vecchia scosse il capo. – Sono i bianchi, – arricciò il naso. – Loro non passano. Si lasciò guidare in casa. Susanna era scesa a cercarla e appena li vide sulla soglia si affrettò a riportare la vecchia di sopra. Joseph sedette davanti al camino annerito. La brace rosseggiava debole sotto la cenere. Prese il mantice e iniziò a rianimarla. Poco dopo Susanna ridiscese le scale e mise a bollire l’acqua per il tè. Joseph percepì la densità dei suoi pensieri, le domande che covava dalla sera prima, quando l’aveva visto arrivare lercio di viaggio e foresta. – Devo ripartire presto, – le disse. – Isaac e Christina crescono senza padre. Soprattutto Isaac ha bisogno che tu lo guidi. Ha bisogno di imparare e di crescere. – Ha anche bisogno di un posto dove questo sia possibile, – ribatté Joseph. – Deve sapere che suo padre combatterà per lui e per i Mohawk. Susanna non riuscì a sollevare lo sguardo dalla teiera. – Io vivo come una vedova. Joseph si alzò e si avvicinò a lei. – Verrà il momento di fermarsi e posare le armi, – disse. Lei strinse il bricco senza versare il tè. – Quando? Joseph prese il bricco e colmò le tazze. Il profumo denso riempì le narici e destò sensazioni corpose che non provava da settimane. – Quando avremo vinto. 7. Arrivarono tre giorni dopo. Non aveva ancora smesso di piovere e il mondo era ammantato di grigio. Per le strade del villaggio si sprofondava nel fango fino alle caviglie, camminare costava uno sforzo enorme. La gente restava in casa, o nelle stalle ad accudire gli animali. Un ragazzino andò ad avvertire Joseph. Era più di un’ora che quei tre se ne stavano appollaiati sulla staccionata come corvi. Nessuno aveva capito cosa aspettassero. Curvi sotto le incerate, i tricorni afflosciati dalla pioggia, lo osservarono avvicinarsi senza muovere un muscolo. Solo Henry Hough allungava di tanto in tanto il collo da tartaruga, per sputare grumi di tabacco in una pozzanghera. Lo sguardo ebete di Johnny faceva il paio con quello affilato di Daniel Secord. Quando Joseph fu molto vicino saltarono giù dalla palizzata e si piantarono nella mota. – Salute, Joseph Brant, – disse il più anziano degli Hough. Rivolse loro un cenno del capo. – Abbiamo sentito del tuo ritorno, – proseguì l’altro. – Quasi non ci speravamo più. Dicono che in Inghilterra hai incontrato il re. Joseph annuì. – Miseria ladra, non era una balla! – commentò Johnny. Il fratello lo colpì con il gomito. – Allora forse puoi cavarmi questa curiosità, – spinse la faccia in avanti. – Risponde al vero che Sua Maestà ha nove figli? – La regina era incinta del decimo. Henry Hough annuì tra sé: – Una grande nazione, per Dio. Il vigore del nostro monarca non ha eguali nel mondo. – Il re ha mandato le truppe, – disse Joseph. – La controffensiva è massiccia. – Le ha mandate a New York, – ammiccò Secord. – Qui non si sono viste. Joseph lo squadrò a lungo. Portava ancora gli amuleti seneca, era pallido ed emaciato. – Qui la guerra è compito mio, – disse. – Sono tornato per questo. Il collo di Henry Hough si protese ancora. – Sono le parole che volevamo sentire. Dio ti benedica, Joseph Brant, e benedica re Giorgio. Quando cominciamo? – Quando saremo pronti. – La lista è già bella lunga, – disse Johnny. Questa volta il fratello non lo inibì. – Da Unadilla a qui abbiamo contato almeno cinque fattorie di traditori. Tre paia d’occhi si fissarono sull’indiano. Joseph sapeva che da quel momento ogni sua parola avrebbe avuto un peso diverso. Era preparato, i due mesi di stallo a New York gli avevano dato tempo di pensare e studiare un piano. – Servono polvere da sparo, munizioni, provviste, denaro, – li vide annuire. – E uomini disposti a combattere. – Possiamo radunare parecchia gente in gamba, – disse Hough. – Sinceri lealisti. – Gente determinata, – ribadì Secord. – Fatelo. Io andrò a Fort Niagara a procurare quello che ci serve. Chiederò l’appoggio delle Nazioni. L’appuntamento è qui per l’inizio della primavera. Henry Hough simulò un colpo di tosse. – Con rispetto parlando, Joseph Brant. Noi quattro siamo pochi per questo compito. – Siamo più che sufficienti, se lasciamo diffondere la notizia. – Quale notizia? – chiese Johnny. Joseph lo squadrò col cipiglio di un ufficiale che passa in rassegna un sottoposto. – Che capo Joseph Brant combatterà i ribelli di Albany in nome del re. E che non si fermerà finché non li avrà sconfitti. Sulle facce dei tre uomini si stampò un ghigno avido. Isaac si sentì afferrare per la collottola e prese a dimenarsi come un animale al laccio. Susanna lo strattonava. Era corso fuori di nascosto per raggiungere lo spiazzo centrale del villaggio, dove si stavano radunando tutti gli abitanti. Invece di nascondersi, era rimasto in piedi a guardare i vecchi avvolti nelle coperte tribali, i giovani che ostentavano giacche di lana logore e cappelli malconci, i bambini oneida che occhieggiavano tra le gambe degli adulti. Qualcuno aveva gettato delle assi sullo spiazzo, perché non si affondasse nel fango. Suo padre impugnava il bastone da passeggio, tenendolo alto, per chiedere silenzio. Al suo fianco, un po’ discosti, c’erano quei tre uomini. Isaac l’aveva capito subito cosa erano venuti a fare. Erano venuti a prendere suo padre per portarlo via di nuovo. Così lui sarebbe rimasto ancora solo con le donne. Susanna, Christina, nonna Margaret. Suo padre prese a issare sull’asta la bandiera che aveva portato da Londra. Gliel’aveva mostrata la sera prima, quando lui era sgattaiolato di sotto, incapace di prendere sonno, attratto dai rumori. L’aveva trovato che svolgeva il pezzo di stoffa con le due croci incrociate. – È la bandiera del Regno, – aveva detto. – Tuo cugino Peter la porta per il suo reggimento. Era bella. Isaac aveva pensato che quando fosse toccato a lui andare in guerra si sarebbe dipinto la faccia con quei colori. Rosso, bianco e blu. Il vento lambì la stoffa e lo schiocco risuonò nell’aria. Suo padre scandì le parole: – Questa è la bandiera del re inglese, la conoscete tutti. Da oggi è anche la bandiera di Joseph Brant Thayendanega. Abbatterò chiunque voglia abbatterla. Accoglierò sotto il mio comando chiunque voglia difenderla. Dio salvi re Giorgio e le Sei Nazioni Irochesi. Estrasse il coltello e incise nel legno il simbolo del clan. 8. New York, 19 dicembre 1776 Madre carissima, colgo l’occasione di scriverti grazie al signor Lorenz, l’armaiolo di Albany, che lascia domani New York e si stabilisce a Oswego, per non dover più vendere i suoi fucili ai nemici della Corona. È questa la terza lettera che mi riesce di spedirti, spero tu abbia ricevuto le altre, così da poterti risparmiare le notizie che già contenevano. Al mio sbarco, ho saputo che il signor Lacroix era partito da poco per raggiungere Canajoharie, dove spero sia arrivato e ti abbia descritto ogni cosa riguardo al nostro soggiorno nella città di Londra. Per parte mia, ho saputo che Sir John è stato costretto a lasciare Johnson Hall nelle mani dei Bostoniani, che ora cercano zio Joseph e minacciano di portarti ad Albany per costringerlo a consegnarsi. Questi avvenimenti mi riempiono il cuore di rabbia, e se non fosse per i miei doveri di soldato, farei qualunque cosa per essere al tuo fianco e difendere i miei fratelli, le nostre proprietà e la tomba di mio padre. Al momento non faccio nulla di interessante o utile e sarei ben contento se l’esercito di Sua Maestà si conformasse alla consuetudine della nostra gente, cioè combattere una battaglia e poi lasciare che i vivi ritornino alle loro famiglie, alla caccia e ai commerci. Quando mi ricevette, re Giorgio si augurò di incontrarmi di nuovo con i gradi di generale e questo suo auspicio ha contribuito molto alla decisione di arruolarmi. Se un giorno il Signore volesse concedermi quel privilegio, sarei di certo il primo generale mohawk a comandare le truppe del regno e credo che mio padre sarebbe fiero di suo figlio, lui che fu irlandese di nascita e capo guerriero delle Sei Nazioni. Quando sogno quel giorno, immagino di diffondere tra i miei sottoposti alcune abitudini guerriere del nostro popolo, così che non sia solo il numero dei fucili a fare la differenza tra due schieramenti, ma anche il coraggio e l’abilità di chi li imbraccia. Ho partecipato alla mia prima battaglia combattendo con le truppe indiane, a Fort St. Johns, in Canada, e poi di nuovo vicino a Montreal. Ora ne ho sostenute altre due, con l’uniforme rossa e la bandiera in mano, a New York e White Plains. Tutte si sono concluse con la nostra vittoria, ma mentre le prime saprei raccontartele un attimo dopo l’altro e ricordare in ogni gesto le imprese dei guerrieri, delle ultime posso dirti solo: ho tenuto alta la bandiera, e dei miei compagni so che hanno sparato e niente più. A un certo punto mi hanno ordinato di rientrare al campo e se qualcuno non mi avesse detto che i nemici erano in fuga, potrei ancora interrogarmi sull’esito della battaglia. Ora come ora, non so nemmeno quale sia la nostra prossima destinazione. Dicono che siamo in procinto di trasferirci, forse a Philadelphia, ma certo non sarà un concilio a stabilirlo e nessuno di noi soldati potrà ascoltare i generali mentre discutono il da farsi e prendono la decisione. Per questo non so dirti dove scrivermi, se mai ti sarà possibile, ma cercherò di farlo io quanto prima, poiché sono in grande apprensione e sarei molto felice di avere vostre nuove al più presto. Non ho il tempo per aggiungere altro ma rimango sempre il tuo affezionatissimo figlio peter johnson Ti prego di ricordare il mio affetto a Betsy, a tutti i miei fratelli e sorelle e di salutare per me gli amici di Canajoharie. Che il Natale vi porti serenità. 9. Presto giungerà Ohséhrhon, la fine dell’anno, l’inizio dell’inverno. Di notte, il Grande Mestolo sarà a picco sulle nostre teste. Attenderemo la prima luna, passeremo cinque notti di sonno e il mattino dopo inizieremo le cerimonie. Ringrazieremo gli spiriti: le piante e gli animali, il vento, il sole e le stelle più distanti. Ringrazieremo Dio. Bruceremo tabacco nel fuoco. Le Grandi Teste andranno di casa in casa rimestando le braci e ravvivando i focolari. Danzeremo, e la notte sogneremo forte. Al risveglio sacrificheremo un cane bianco, per ribadire la nostra fedeltà agli spiriti e al Padrone della Vita. Inventeremo indovinelli e giocheremo a condividere i sogni. La notte passerà come una nube portata dal vento, e il terzo giorno danzeremo agghindati di piume. Il quarto giorno canteremo: cominceranno i Custodi della fede, poi i sachem, poi le matrone dei clan, infine tutti gli altri. Dopo le canzoni, daremo i nomi ai bambini. L’indomani sarà il giorno dei tamburi. L’ultimo giorno giocheremo coi dadi di noccioli di pesca, divisi per clan. Divertiremo il Padrone della Vita sfidandoci, scherzando, scommettendo. La squadra che avrà vinto condurrà l’ultima danza. Di nuovo parleremo e ringrazieremo gli spiriti, così avrà inizio l’anno nuovo. Molly sapeva cosa avrebbe portato l’anno nuovo. Guerra e stenti, solitudine. I sogni del villaggio andavano in una sola direzione. Tranne quelli di Ronaterihonte: lui affermava di non sognare, ma tutti sognano. Il guerriero taceva la verità con la bocca, e intanto la diceva con gli occhi: non voleva raccontare le proprie visioni. Ogni giorno pranzava con Molly, poi si dileguava come un’ombra. Chissà dove passava i pomeriggi. Certo non aveva bisogno di nascondersi: i whig non venivano mai a Canajoharie. Era il patto di Molly con Herkimer: non sfidate ancora lo spettro di Sir William. Ora dormite in casa sua, su tappeti preziosi, con stivali lordi di fango. Abusate in ogni modo della sua ospitalità. Se mio marito non ha chiesto a Dio di poter scendere a sterminarvi, per tornare in Paradiso carico di scalpi, è perché sa che la pagheremmo noi, la sua gente. Gli spettri tornano nell’aldilà, la rappresaglia si compie sui vivi. Ma se importunerete la sua donna, madre dei suoi figli, madre di quel figlio che si è distinto al cospetto di re Giorgio, nemmeno il Padrone della Vita potrà trattenerlo. Molly lo sapeva: Ronaterihonte dormiva nella casa vuota di Thayendanega. Sotto quel tetto, sarebbe stato impossibile dormire senza sogni. La neve era un pavimento di ghiaccio, milioni di scaglie di ghiaccio, milioni di minuscoli riflessi a comporre il bianco che aggrediva gli occhi. Nel rigore dell’inverno, il campo di baggataway si mutava nella pista del Gawasa, il «serpente delle nevi», gioco comune alle nazioni indiane a oriente e a settentrione dei Grandi Laghi. Philip ci aveva giocato da ragazzo, con i Caughnawaga della missione. Sulla neve gelata, i giocatori lanciavano un bastone diritto e levigato, simile a un pattino da slitta. Il bastone piombava a terra e scivolava via, veloce. Vinceva chi arrivava più lontano. Lo avevano invitato Oronhyateka e Kanenonte, i due giovani guerrieri reduci della spedizione in Canada dell’anno prima. Non vedevano il Grande Diavolo da molte lune, ma lo avevano accolto con foga e impazienza. Le cose peggioravano di giorno in giorno, gli avevano detto. Mentre i più malvagi tra i bianchi assediavano la nazione, la voglia di combattere dei guerrieri marciva alla catena, schiava della prudenza delle donne e dell’irresolutezza dei sachem. Johannes Tekarihoga trascorreva le giornate stordito dal rum. Grazie al suo lignaggio, era l’unico cliente dell’emporio a poter ignorare il razionamento. I Mohawk di Fort Hunter, dal canto loro, erano pavidi e insinceri, sempre pronti ad accordarsi coi nemici. Fosse stato per il loro sachem Piccolo Abramo, presto non ci sarebbe più stata una nazione da difendere. Philip pensò che, quand’era ragazzo, non avrebbe mai parlato di un sachem in modo irriverente. Stava per dirlo a voce alta, ma Kanenonte lo anticipò. – Diciamo cose dure, ma è perché si è indurito il cuore dei giovani, e i muscoli sono freddi come questa neve. – I nostri sachem sono figli di giorni trascorsi, – aggiunse Oronhyateka. – Il loro passo era saldo e veloce ai tempi di Hendrick, ma ora camminano col bastone. La guerra è terreno per i giovani. Così la pensavano Oronhyateka e Kanenonte, e non soltanto loro. Sospetto e inquietudine riempivano l’animo dei guerrieri di Canajoharie. Tutti descrivevano gli Oneida come infidi e distanti, silenziosi, subdoli. Di certo preparavano qualcosa, incantati com’erano da quel loro reverendo, Samuel Kirkland, che appoggiava i coloni ribelli. Il loro sachem Shononses era bravo a parlare, i suoi discorsi erano sciami di farfalle svolazzanti, dalle ali di mille colori. – Le farfalle non si difendono, – aveva detto Oronhyateka. – Non combattono. Combattono le api e i calabroni, ma quel genere di insetti non è mai sulle labbra di Shononses. Kanenonte guardò lontano, strizzò gli occhi e parve vedere, in fondo alla spianata, il gawasa lanciato da Oronhyateka. Prese il suo tra pollice e indice, lo fece oscillare e lo gettò. Il serpente di legno guizzò nel bianco. Fu Oronhyateka a parlare: – Dobbiamo impugnare le armi, Ronaterihonte. Anche a Fort Hunter ci sono guerrieri validi e coraggiosi, che non sopportano più di stare fermi. Verrebbero con noi, se ci mettessimo in cammino. Verrebbero con le Grand Diable ad attaccare la milizia e liberare Johnson Hall. I nemici sono tanti, ma possiamo attirarli nel bosco e ucciderli uno a uno. – E dopo? – lo interruppe Philip. – Arriverebbero rinforzi, da Albany o da chissà dove. Persone senza scrupoli, non come Herkimer. Si scatenerebbe la vendetta. Hanno in ostaggio donne e bambini. L’avventatezza è una grave colpa. Dobbiamo aspettare primavera, fratelli. Attendere il ritorno di Thayendanega e, soprattutto, un nuovo concilio delle Sei Nazioni. I due giovani non dissero nulla. Dal campo si alzarono soltanto i rumori della partita. Infine, Kanenonte parlò: – Degonwadonti ha sbagliato ad avvertire Herkimer del vaiolo. La cosa giusta da fare era portare le macchie tra i ribelli, per distruggerli. I bianchi lo hanno fatto, nei tempi andati. Perché non farlo anche noi? Philip rabbrividì: – Il vaiolo non cerca alleati. Non distingue le vittime. Se il male si fosse sparso nella valle, avrebbe ucciso tutti, senza ostilità né amicizia per nessuno. Molly Brant lo ha fermato. Ha avvertito il comandante dei ribelli per poter curare la nostra gente senza provocare reazioni. Tacquero ancora. I due giovani continuarono a lanciare, finché Kanenonte non si rivolse a Philip con un sibilo e un mezzo sorriso. – Ronaterihonte, anche per giocare al gawasa devi attendere Thayendanega? Philip raccolse da terra uno dei bastoni. Lo soppesò. Scrutò la coltre di bianco che copriva erba pronta a rinascere. Infine, si risolse a scagliare il serpente. 10. I bastioni a cuneo che proteggevano il lato sudest di Fort Niagara erano una freccia puntata contro la colonia di New York e le città della costa. I Francesi, per non allarmare le popolazioni circostanti, avevano costruito la fortezza in modo che somigliasse a un enorme emporio in muratura. In realtà si trattava di una costruzione difficile da espugnare. I bastioni erano alti, le casematte piene di cannoni. Joseph passò accanto a tende e baracche che i profughi della Mohawk Valley avevano eretto ai piedi delle fortificazioni. Volti noti, uomini e donne che erano partiti con lui l’anno prima per combattere in Canada. Ora dipendevano dal governo di Sua Maestà e dalla benevolenza della guarnigione. Il suo popolo non aveva un altro posto dove andare. La piazza d’armi era un caotico mercato. Gente di ogni razza e religione cercava di accaparrarsi le ultime provviste disponibili per superare l’inverno. Un vecchio cacciatore dagli occhi spiritati cercava di vendere pellicce a un gruppo di indiani che prestavano scarsa attenzione: nei modi dell’uomo c’era qualcosa di folle. Il bianco sbatté a terra la pelliccia che stava magnificando e iniziò a imprecare. Gli indiani arretrarono, fissandolo con aria interrogativa, preoccupata. Tra la folla si fece largo un gruppetto di uomini. Erano Seneca, ma li capeggiava un giovane bianco. Si chinò a raccogliere la pelliccia. La esaminò, la consegnò a uno degli indiani e tirò fuori alcune monete dalla tasca del giaccone. – Ti pago un buon prezzo, ora non farti più vedere. Il cacciatore si allontanò bofonchiando. Il giovane bianco si girò: era Walter, il figlio di John Butler. – Che Dio mi fulmini: Joseph Brant! Sapevamo che eravate tornato, mi chiedevo solo quando vi avremmo rivisto. L’uomo avanzò, contornato dal drappello che lo scortava. Sotto il giaccone, una collana di wampum testimoniava l’amicizia dei Seneca. Alla cintura, una coppia di pistole. – Come state? – domandò Joseph. – Bene, direi. Sono tempi duri, ma con l’aiuto dei Seneca e della guarnigione del forte manteniamo la presa su questo territorio. I Seneca fissavano i compagni di Joseph senza spendere gesti di benvenuto. Uno degli uomini scandì le parole in lingua Onondaga, in modo che tutti i presenti potessero capire. – Così tu sei Lega Due Bastoni. Quali sono dunque le parole del Grande Padre Inglese per i Seneca? Joseph rispose con la massima calma. – Sono parole di alleanza. Non soltanto per i Seneca, ma per tutta la Lunga Casa. Le udirete per esteso al concilio, in primavera. Il Seneca annuì. Walter Butler fece cenno a Joseph e ai suoi di seguirlo. – Venite, vi accompagno da mio padre. Ma a cena riservate un po’ di tempo per me, Joseph. Voglio sentire le notizie dalla madrepatria. Il gruppo si mosse e attraversò la folla. Il giovane Butler camminava impettito. Joseph sentì su di sé occhi freddi e silenziosi. – Mio figlio esagera. Stiamo facendo un buon lavoro, ma i sachem sono lontani dall’aver deciso da che parte stare. Vengono qui perché abbiamo provviste, fucili, coperte e rum, ci considerano di casa. Hanno il loro tornaconto, ma sono restii a portare la nazione in guerra. John Butler si alzò dalla sedia e prese a girare per la stanza a larghi passi. L’alloggio spartano rispecchiava l’aspetto del vecchio irlandese, più coriaceo e canuto di quanto Joseph ricordasse. – Difficile dargli torto. La guarnigione del forte conta pochi effettivi. Le notizie degli sbarchi a New York e a Québec arrivano da troppo lontano. I Seneca e i Tuscarora non vedono dispiegata la forza dell’Inghilterra, non capiscono quale convenienza ci sia nel prendere parte al conflitto. Joseph indicò a est. – La porta orientale della Lunga Casa subisce già gli assalti del nemico. Per questo sono qui. Per chiedervi di sostenere me e gli uomini che sto radunando. Ci servono polvere, fucili e vettovaglie. – Una milizia lealista? È questo che avete in mente? – Sì, – rispose Joseph. Butler si risedette. Joseph notò lo scranno di legno intarsiato e inciso con scene dalla passione di Cristo. Butler batté il palmo sul bracciolo lucido. – Un regalo dei Seneca. Era di un abate francese. Sembrò meditare a fondo, infine disse: – Io ho un compito qui. La sua riuscita dipende dalla quantità di beni che riesco a smistare –. Assunse un tono grave. – L’inverno è alle porte e ho roba appena sufficiente per i miei. Se rimango sprovvisto i Seneca mi volteranno le spalle, questo è certo. L’unico modo di tenerli dalla nostra parte è approvvigionarli. Joseph rimase impassibile. – Mi negate il vostro sostegno, capitano? Butler sospirò. – Quando sarà il momento avrete tutto il sostegno che servirà. Ma se volete il mio parere, la vostra iniziativa mi sembra affrettata. Non abbiamo ricevuto ordini dall’alto comando e non è ancora indetto il concilio delle Sei Nazioni. Joseph trattenne l’impulso di alzare la voce. – Nella valle del Mohawk i ribelli fanno già quello che vogliono. Johnson Hall è stata requisita, la moglie di Sir John è in prigione. È tempo di difenderci. Dite che dovremmo aspettare gli ordini, ma io ho la parola del re in persona. – Non vi arrabbiate, Joseph Brant, – disse Butler alzando la mano aperta. – Non servirà a farmi cambiare idea. So bene cosa accade a casa nostra. Anche mia moglie e i miei due figli piccoli sono stati presi dai ribelli e condotti ad Albany. Io non ero là a difenderli, ma qui, a fare il mio dovere di buon lealista. L’indiano rimase muto. Butler si alzò e raccolse dal tavolo uno scettro di legno. Era un bastone di comando, intagliato e dipinto di rosso e nero. Diversi scalpi adornavano l’impugnatura. – Un altro dono dei sachem seneca, – disse il vecchio capitano. – Un oggetto mirabile, non trovate? Emana forza, autorità –. Accarezzò uno dei ciuffi di capelli con un gesto delicato delle mani ruvide e nodose. – Paura. Si avvicinò a Joseph, tenendo il bastone bene in vista. – Cosa siete disposto a fare? – chiese. – Sacrificare la famiglia? Siete disposto a perdere i vostri cari, la discendenza? – Guardò l’indiano senza aspettarsi una risposta. Joseph vide passare davanti agli occhi i volti di Susanna, Isaac e Christina. – Dio solo sa se non vedo l’ora di agire, – continuò Butler, il tono basso e cupo. – Ma so che quando accadrà, sarà terribile quanto la collera di Nostro Signore, e tutti noi dovremo esserne all’altezza. Accettare i sacrifici che Dio ci imporrà. Trasformarci in flagello –. Una smorfia d’odio gli storse la bocca. – Quel giorno strapperemo le viscere ai rinnegati. Agghinderemo il viale di Johnson Hall con le loro budella. D’un tratto parve scuotersi. – Rinnovo l’offerta che vi feci a Montreal: restate qui con noi. Al momento opportuno guideremo insieme la riscossa. Joseph si alzò dalla sedia. – Mi dispiace, non posso aspettare. La mia decisione è presa. Butler annuì rassegnato. – Capisco. Non ripartite a mani vuote. Abbiamo confiscato un carico sul lago. Una dozzina di fucili e quattro barili di polvere. Non è molto, ma… Prendeteli, vi serviranno. Joseph sentì il sangue ribollire di rabbia, ma riuscì a contenersi. Era meglio di niente e non era nelle condizioni di rifiutare. Osservò a lungo la mano tesa dell’irlandese, prima di decidersi a stringerla. 11. Ripartì da Fort Niagara in silenziosa solitudine. Una cascata di spilli scendeva dal cielo bianco e annunciava il gelo. Joseph guardò la pista stretta e lunga davanti a sé. Decise che non sarebbe stata la via del ritorno, ma quella del pellegrino. L’inverno non l’avrebbe fermato, avrebbe annunciato alle Nazioni la sua novella, il vangelo di Joseph Brant Thayendanega. Se John Butler aveva la polvere da sparo e la carne salata, lui aveva una storia da raccontare, talmente bella da incendiare gli animi. Quella di un indiano che, come Hendrick tanti anni prima, aveva raggiunto l’isola d’Inghilterra e aveva parlato al Grande Padre Inglese. Non li avrebbe certo convinti a combattere in mezzo alla neve, ma il primo caldo avrebbe risvegliato gli istinti e la voglia di cimentarsi, se non altro nei più giovani. Poi qualcosa sarebbe successo, ne era certo. Gli eventi l’avrebbero aiutato a convincere gli indecisi, Dio sarebbe stato dalla sua parte. Raggiunse Geneseo il giorno di Natale. La curiosità degli abitanti lo accolse con un abbraccio caldo. La sua fama si diffondeva e lo precedeva fino ai laghi delle Cinque Dita e alla Mohawk Valley. Toccò i villaggi Seneca, scendendo a sud, fino alle pendici dei monti Allegheny. Ai vecchi raccontava del Saggio Padre Bianco che gli aveva affidato il compito di combattere in suo nome. Ai giovani raccontava dell’esercito più forte del mondo. Ai bambini, dei fuochi d’artificio. Il primo giorno dell’anno nuovo era a Buck Tooth, poi a Conewango, poi la neve lo fermò e lo costrinse a tornare indietro. Si spostò a est, verso le Cinque Dita, e attraversò i villaggi, fermandosi in mezzo alle case, intorno ai fuochi, a riferire le parole del re. A Cayuga lo colse la febbre e dovette fermarsi per due settimane. Fuori dal suo alloggio una fila di persone aspettava il racconto del re e della città dai palazzi immensi, che potevano contenere centinaia di persone. Joseph accontentava tutti. Si mostrava fiero, ma non vanaglorioso. Fingeva d’essere in salute, respingendo gli attacchi di tosse come bocconi amari da deglutire. Quando fu di nuovo in forze ripartì alla volta di Onondaga. Torme di ragazzini urlanti e canti di donne annunciarono il suo arrivo. Ai custodi del Fuoco Sacro della Confederazione chiese di presenziare al concilio di Oswego per la primavera. I sachem acconsentirono, in cambio del racconto dettagliato del suo viaggio oltre oceano. «Come Hendrick», mormoravano i più vecchi seduti in circolo, e il nome di Thayendanega volava da una porta all’altra della Lunga Casa. Un vecchio capo decrepito gli chiese quanti fossero gli abitanti di Londra. Joseph rispose che erano più delle termiti in un termitaio e i sachem ne discussero per un giorno intero, chiusi in conclave come vescovi papisti. – Fratelli, questa ribellione è la minaccia più grave che le Sei Nazioni abbiano mai dovuto fronteggiare. Gli Inglesi d’America si sono dichiarati indipendenti dall’Inghilterra, non riconoscono più l’autorità del re. Questo significa che considerano decaduto il limite posto alla loro espansione sulle nostre terre. Dilagheranno verso ovest come un mare. Solo combattendo possiamo sperare di salvarci dalla catastrofe. Combattere per l’Inghilterra è combattere per noi stessi. Qualcuno annuiva, ma i più restavano perplessi e cogitabondi. Nessuno lo seguì. Riprese imperterrito la sua via solitaria e si lasciò alle spalle i villaggi insieme all’inverno. Arrivò a Oquaga alla fine di marzo, tirandosi dietro due muli carichi di ciò che era riuscito a procurare. Era solo. Era l’indiano più famoso delle Sei Nazioni. 1777 12. Si allontanavano senza chiasso, verso il tramonto inondato d’oro. Trascinavano via due mucche, il cavallo da tiro, sacchi di mais. William Adlum contemplò il granaio mezzo vuoto e pensò alla fatica che gli era costata riempirlo. I figli sbirciavano dalla finestrella del sottotetto, dove si erano rintanati quando gli uomini erano comparsi sul cortile. Il loro capo aveva parlato con gentilezza, chiedendo viveri e bestiame in nome di re Giorgio. Nel mentre, gli altri ceffi mostravano i fucili. Due generali avevano bloccato il fronte della guerra: Inverno e Vaiolo. Nella bruma di quel mattino d’aprile era chiaro che il primo cedeva ormai il passo, mentre l’altro non offendeva più con la stessa virulenza. Ora toccava ad altri ufficiali impugnare il bastone del comando, prendere le decisioni, andare alla resa dei conti. Joseph Brant completava la vestizione, nella casa di Oquaga, con lentezza e cura particolare, consapevole del tempo ormai giunto al compimento, così come del ruolo che si era scelto. Il comando. Non aveva i gradi di generale ma questo non aveva alcuna importanza, la guerra nominava sul campo i suoi massimi esecutori. Prendere l’iniziativa al momento giusto poteva ribaltare le gerarchie con facilità. La scelta del tempo dell’azione era il fattore decisivo di molti conflitti. Il valore e il coraggio dei guerrieri facevano il resto. Joseph era conscio delle difficoltà. L’equipaggiamento scarso, pochi i fucili, mancavano polvere da sparo e denaro. Tutto ciò che serve a vincere le guerre. Il contingente di uomini non era abbastanza numeroso, ma poteva aumentare con le vittorie. L’entusiasmo e la voglia di bottino avrebbero ingrossato le file. Se i volontari che scendevano in battaglia al fianco di Joseph Brant avessero guadagnato una solida ricompensa, senza costare un penny alle casse del re, in pochi mesi sarebbero diventati legione. Joseph infilò per ultima la giubba rossa dell’esercito imperiale, un gesto meticoloso e solenne ad allacciare ogni bottone, tendere ogni piega o sgualcitura, favorire l’aspetto marziale e autorevole. Era pronto ormai. Fuori i raggi del sole spezzavano la nebbia del mattino. Si accorse solo in quel momento che Isaac, alle sue spalle, lo scrutava, torvo e rapito. Fissò il ragazzino per alcuni secondi, quanto bastava a suscitare in lui inquietudine. – Vieni con tuo padre. Dobbiamo parlare agli uomini. Il ragazzo gli schizzò dietro come un cane. Le facce raccontavano storie. Parlavano di vite consumate a rivoltare zolle e seminare terra selvaggia; ferite d’artiglio e di coltello; espressioni stolide di contadini e cacciatori. Abitavano l’interno della colonia e Joseph sapeva di poter contare sul loro odio per l’Assemblea di Albany e gli affaristi di New York. Davanti a tutti, i fratelli Hough e Daniel Secord stavano appoggiati ai lunghi fucili. Salutarono l’arrivo di Joseph toccandosi le tese dei cappelli. Qualcuno li imitò. Joseph, una mano sulla spalla di Isaac, si piazzò sotto la bandiera, come aveva fatto l’autunno precedente. – Siete venuti per vostra volontà, – disse in inglese. – Io non posso darvi una paga, come fanno gli ufficiali dell’esercito, perché non ho denaro. Non posso rifornirvi di armi e munizioni, né passarvi un rancio. Ma posso dirvi che ubbidirete a un solo capo e a nessun altro. E potrete andarvene in ogni momento. Soltanto l’onore della vostra parola vi lega a questa compagnia. Il nostro scopo è uno soltanto: combattere i nemici del re. I nostri nemici. – Hurrah per i Volontari di Brant! – urlò Henry Hough. – Hurrah! – ripeté Johnny. Seguì un silenzio rotto soltanto da colpi di tosse e scaracchi di tabacco. – Stabilisco qui il nostro quartier generale, – proseguì Joseph. – Ma per combattere dobbiamo procurarci viveri e munizioni. – Sappiamo dove andarli a prendere, capitano Brant, – era di nuovo la voce gracchiante di Henry Hough. – Alle fattorie dei traditori. I furbi che non appoggiano la ribellione a viso scoperto, ma lo fanno nell’ombra. Menagrami e spioni. Requisiamo il loro bestiame e i loro granai. Prendiamo le armi e la polvere. – E se ti sbagli e invece sono patrioti? – obiettò un ragazzone lentigginoso dalla chioma rossa. Henry Hough sputò il tabacco per terra e gli lanciò un’occhiata maligna. – Se sono buoni patrioti la roba ce la daranno senza lamentarsi. Siamo paladini del re. Un mormorio d’approvazione percorse il gruppo. Joseph alzò una mano e ottenne silenzio. – Dio ci assista. William Adlum ringraziò Dio d’essere vivo, con il resto della famiglia. Le ombre del drappello si allungavano sulla terra fino a lambire ancora la fattoria. Erano fantasmi di ritorno alla Gehenna. No, erano ladri e vigliacchi. La moglie lo chiamò dalla soglia di casa. I bambini piangevano. William Adlum strinse i pugni e si voltò per rientrare. Il mondo crollava, non restava che pregare. Il Giorno del Giudizio doveva essere vicino. 13. New York era pioggia e sagome grigie. Le ruote della carrozza affondavano nel fango di Wall Street, mentre il cavallo arrancava fradicio sotto i colpi di frusta del cocchiere. Guy Johnson pensava alla lettera giunta il giorno prima. Da quando era tornato in America aveva visto i sodali di un tempo partire uno alla volta per il Grande Incognito che iniziava sull’altra sponda dell’Harlem River. Era rimasto solo, accampato su un lembo di Nuovo Mondo che non era nemmeno terraferma. Ora gli eventi presentavano il conto di quell’inattività. Le giunture erano tornate a scricchiolare: ruggine tra le vertebre, sensazione di goffaggine e lentezza, emicranie. Era tempo di muoversi, serviva un colpo di reni. Il generale Howe, l’eroe di Boston, l’avrebbe senz’altro ricevuto. Tra loro era nata una sorta d’intesa. Adesso andava a chiedere il permesso di armare una nave e salpare. Non si muoveva uno spillo a New York senza il benestare del generale. Lo si poteva paragonare a un dittatore dei tempi antichi, che reggeva la città nell’unico modo possibile, con il pugno di ferro e l’appoggio della flotta comandata dal fratello, l’unica persona di cui davvero si fidasse. Una coppia scomoda, gli Howe. I newyorkesi avevano dovuto impararlo a proprie spese. Del resto erano gente riottosa e indisciplinata, tutti contrabbandieri che avrebbero preferito continuare a fare affari senza pagare dazi alla Corona. Non per niente allo scoppio dell’insurrezione avevano fuso la statua di re Giorgio per farne proiettili da regalare a Washington. La carrozza rallentò davanti a un drappello di soldati in giubba rossa che pattugliava la strada. La gente si scostava per farli passare, lanciando occhiate indifferenti. Poco più in là, un paio di ceffi incatenati alla gogna, coperti di lordura. Uno di loro sembrava fissare Guy. Sull’altro lato, una seconda pattuglia di soldati: le stesse divise rosse, la pelle scura. Negri che cercavano di arruolarne altri. Il mondo cambiava in fretta, pensò Guy. Un giorno sei schiavo, il giorno dopo soldato di Sua Maestà. Alti e bassi. Tornò a pensare alla lettera ricevuta. Daniel Claus comunicava che era tornato da Londra. Un anno di anticamera gli aveva fatto guadagnare il comando degli irregolari indiani nell’imminente controffensiva. Scriveva da Montreal, dove si era ricongiunto a Sir John per reclutare volontari. Lo invitavano a raggiungerli entro l’inizio dell’estate. Il destino sapeva essere beffardo: Guy aveva lasciato il tedesco al punto più basso e adesso era lui che gli offriva un posto al suo fianco. Claus scriveva che avrebbero aspettato le truppe regolari per dare inizio alla spedizione. Era convinto che questa volta avrebbero portato in guerra parecchi indiani. Anche Joseph Brant sarebbe stato della partita. Joseph. Il suo traduttore, pensò Guy. L’interprete del Dipartimento. Il vecchio Sir William aveva visto giusto quando l’aveva scelto come pupillo. A Londra quell’indiano era diventato famoso e sicuro delle proprie possibilità. Partendo in capo a pochi giorni poteva farcela. Raggiungerli e cogliere la sua parte di onore militare, per gentile concessione di Daniel Claus e Sir John Johnson. Il pensiero gli scavava lo stomaco. Avrebbe potuto riabbracciare le figlie. Claus le aveva con sé. Riportate da Londra perché si ricongiungessero al padre. Scriveva che Esther era cresciuta ormai, che non l’avrebbe riconosciuta. Guy si chiese se le piccole ricordassero la sua faccia. Viaggiare attraverso la colonia era impensabile. I ribelli tenevano l’entroterra, bande di irregolari correvano in lungo e in largo a caccia di bottino, spie e ostaggi. Doveva ottenere il permesso di armare una nave, risalire fino alla baia del San Lorenzo e a Québec. Imboccare il fiume. Un viaggio lungo e difficile. La carrozza fermò davanti alla residenza del governatore militare. Guy scese lesto, fece il saluto alle sentinelle di piantone che lo lasciarono entrare. – Credevo che il clima inglese fosse ingrato, prima di trascorrere un’estate e un inverno a New York. Il generale Howe era in piedi accanto alla finestra. Da quella posizione godeva la vista della distesa di tetti, interrotta dai pennoni delle navi ormeggiate davanti alle banchine. Gabbiani dal piumaggio sporco si riparavano dalla pioggia sotto i cornicioni, scrutando le strade sottostanti, in attesa di un boccone insperato. – Il maltempo mette Vostra Eccellenza di cattivo umore? – No, signore, sono fin troppo al sole, per dirla col principe di Danimarca. – Quando Vostra Eccellenza cita Shakespeare, di solito la faccenda è grave. Howe indirizzò un’occhiata sfuggente a Guy. – Mi stanno mettendo da parte, colonnello Johnson. Come dovrebbe essere il mio umore? – Vi prendete gioco di me, generale. Re Giorgio non ha ufficiale migliore di voi. Howe fece un sorriso storto. – Dimenticate che sono anche membro del Parlamento. Del partito sbagliato. Indicò a Guy una sedia dall’alto schienale di legno. Lui sedette. Notò la bottiglia di sherry vuota a metà, lasciata aperta sul tavolo. Il generale lo invitò a servirsi, ma lui rifiutò con un inchino del capo. – Guardatemi, colonnello Johnson, – disse Howe continuando a fissare la città. La voce era arrochita dall’alcol e dai pensieri. – Avete davanti l’uomo che ha salvato Boston. Espugnare Breed’s Hill è costato il sangue di tanti buoni soldati. Per due volte ci hanno respinti con i tiri da lontano. Quanti ufficiali avrebbero ordinato un terzo attacco? Uno ce l’avete davanti. Abbiamo preso quella dannata collina e poi tutto il maledetto promontorio –. Sfiorò il vetro con un gesto delicato in netto contrasto con l’uniforme e il tono aspro. – Poi è stata la volta di New York. Una corsa a tappe forzate, per precedere Washington. I miei uomini tenevano la città quando i rinforzi dall’Inghilterra dovevano ancora arrivare. Abbiamo combattuto qui a Manhattan, a White Plains, abbiamo espugnato i forti, cacciato i continentali. Ho spedito Cornwallis dietro Washington, perché lo inseguisse fino all’Inferno, ma questo dannato paese è molto più grande dell’Inferno. Si interruppe per concedersi un sospiro. – Nessuno ha gettato l’anima in questa guerra più del sottoscritto, colonnello Johnson. Credete l’abbia fatto perché la ritengo una guerra giusta? Vi sembrerà strano, ma non è così. Io sono stato eletto per il partito whig, ero contrario alla politica del nostro governo in America. Ho agito per il bene dell’Inghilterra e perché sono un suddito fedele di Sua Maestà. Ho compiuto il mio dovere di soldato anche se non ero d’accordo. E qual è la ricompensa? Spedire Burgoyne a prendere il comando dell’offensiva di terra –. Ghignò amaro. – Dopo tutto quello che ho fatto sul campo, non si fidano di me. Temono che diventi troppo ingombrante, capite? Così mi accusano di attendismo, di ritardare l’attacco verso l’interno. Le voci nascono alla Camera dei Comuni, ma si odono bene anche da qui. Si volse e prese posto sullo scranno foderato di broccato rosso. – Facciano pure. Si spingano nell’entroterra, pieni della loro tracotanza –. Guardò Guy Johnson. – Non voglio offendervi, colonnello, ma la sicumera dei tory è foriera di leggerezza. E Dio solo sa quanto la guerra sia pesante. Con un gesto ampio della mano il gentiluomo lo invitò a proseguire. Non si sentiva per niente offeso. Fin dall’inizio le loro discussioni politiche si erano fondate sul reciproco rispetto. Era stato Guy a suggerire che se a Londra Samuel Johnson frequentava lo stesso club di Edmund Burke, un Johnson assai meno famoso poteva fregiarsi di conversare con un generale di fede whig. Howe osservò la bottiglia di sherry senza toccarla, come valutasse il da farsi. – Burgoyne conosce poco questo paese, – continuò. – Crede di scendere dal Canada e incontrare qualche banda di agricoltori armati di forconi e vecchi schioppi. Vorrei tanto sapere come pensa di mantenere linee di rifornimento lunghe duecento miglia –. Scosse la testa. – Per quanto mi riguarda, mi terrò sempre a portata della costa. Parola mia, in America una buona flotta di copertura è l’unica garanzia. Anche noi attaccheremo. Ma a sud, verso Philadelphia. Prima dell’inverno espugnerò anche quella città –. Sollevò appena le spalle. – Sempre che me lo lascino fare, – aggiunse. – Così tutti i porti del Nord saranno nostri. Tenere i porti significa tenere i commerci e le vie di comunicazione con l’Europa. Cos’altro serve a una potenza navale come l’Inghilterra? Bussarono alla porta. Un attendente entrò con un plico di fogli, che sottopose all’attenzione del generale. Howe impugnò la penna e la intinse nel calamaio. – Dovete perdonarmi, colonnello. Avete certo chiesto udienza per un motivo e io vi ho annoiato con le mie elucubrazioni. Guy si schiarì la voce, ma le parole non uscirono. Pensava all’offerta di Claus e al posto di comprimario che gli sarebbe toccato. Pensava alla Mohawk Valley in mano alla milizia ribelle, a Johnson Hall trasformata in caserma. Chissà chi dormiva nelle stanze di Guy Park. Bifolchi e stallieri, ladri e razziatori. La loro puzza doveva avere contaminato i muri, non se ne sarebbe più andata. Chissà se avevano trovato il tesoro di famiglia. Pensava ai lunghi giorni di navigazione, ai pirati che assaltavano i bastimenti in nome di una nazione nuova e affamata. Pensava alle zanzare e di nuovo a Daniel Claus che gli tendeva la mano. Guardò la città oltre il vetro, alle spalle del generale. Un raggio di sole aveva forato le nubi e investiva in pieno la finestra. – Sono qui per portarvi i miei omaggi, Eccellenza, – disse, – e sincerarmi che la vostra salute sia buona. E certo per rimettervi i miei servigi, qualora potessero esservi utili. – Ve ne sono grato, signore, – rispose distratto Howe, mentre iniziava a siglare le carte. – So di poter contare sul vostro appoggio. La mia salute è ottima, non preoccupatevi, a parte il cuore avvelenato. Ma adesso vogliate scusarmi, devo firmare le condanne a morte di quest’oggi e non è un’attività che inclini alla conversazione. Guy si alzò, fece un inchino e si diresse verso l’uscita. – Colonnello, – lo richiamò il generale. – Eccellenza, – disse Guy voltandosi. Howe teneva la penna d’oca a mezz’aria, sulla punta l’inchiostro, nero e denso come il sangue che avrebbe fatto versare. – Tornate a trovarmi prima che anch’io mi getti in questa grande offensiva, – stirò un sorriso. – Berremo una bottiglia di cognac e parleremo un po’ di Londra. Guy annuì e imboccò la porta. Aveva scelto. Si sentiva più leggero, non certo migliore. 14. Erano arrivati una mattina di giugno, dopo un giorno di marcia e una notte in riva al fiume. La gente di Unadilla s’era rifugiata in chiesa, pregando che se ne andassero in fretta. Sulla porta s’era fatto avanti il reverendo, per dare il benvenuto nella casa del Signore. Joseph lo conosceva, uno di quei bianchi che a sentir parlare di indiani si carezzano lo scalpo e brandiscono la croce. Senza bisogno di scomodare Dio, i Volontari erano ripartiti prima di sera, con una decina di vacche, tre pecore e un sacco a testa di legumi e carne secca. La milizia ribelle non s’era fatta vedere. Una settimana dopo, molte fattorie della zona erano già abbandonate. I coloni scappavano a Cherry Valley, a German Flatts e ad Albany, per supplicare generali e colonnelli di non lasciarli soli, alla mercé degli indiani. Nicholas Herkimer s’era offerto di aiutarli. Aveva mandato un messaggio a Joseph per chiedere un incontro, in nome della loro antica amicizia. A Unadilla, per la metà del mese. Sotto raggi bollenti che sapevano d’estate, Daniel Secord s’incamminò sulle zolle. Il campo di alfalfa separava i Volontari dalla Milizia di Tryon. Chi li aveva visti scendere lungo la sponda del Susquehannah, parlava di almeno trecento armati. Il generale gli venne incontro a cavallo, spalleggiato da cinque uomini, e si fermò ad aspettare nel verde, al centro esatto dell’appezzamento. Secord sentì l’odore del tabacco macerato nello scotch e pensò che solo un pazzo poteva fumare la pipa con quel sole in testa. – Il capitano Brant vi manda i suoi saluti e chiede di conoscere il motivo dell’incontro. Herkimer tirò una lunga boccata e svuotò la pipa battendola contro la sella. – Siamo da sempre buoni amici, – rispose. – Dicono che ha parlato con re Giorgio e Lord Germain. Mi piacerebbe sentire che idea s’è fatto della causa delle colonie. – E i vostri miliziani? Anche loro vogliono parlare col capitano? Sarà un colloquio lungo. – Sarà un colloquio amichevole, – ribatté il generale. – Avete la mia parola. – Molto bene. Tornerò tra un’ora con la risposta alle vostre domande. Avete altro da chiedere? L’indice di Herkimer rimase come incastrato nel fornello della pipa, mentre pressava il tabacco. – Volete dire che il capitano Brant non ha intenzione di incontrarmi? – Voglio dire, signore, che un incontro con trecento uomini armati non è un «colloquio amichevole», si chiama battaglia. Se è questo il genere di riunione che avete in mente, siamo pronti ad accontentarvi. Questa volta il generale parve non sentire. Finì di caricare la pipa e la portò alla bocca senza accenderla. – Riferite al vostro capitano che farò costruire un riparo in questo punto preciso. Sarò qui domattina, con cinque uomini disarmati. Col caldo che fa, sono certo che il capitano Brant non vorrà farmi aspettare invano. Chiacchiere di indiano, la merce più svalutata che ci fosse sulla piazza. Herkimer voleva portarsene a casa un centinaio di libbre. – Ditemi se sbaglio, – disse Jonas Klug, mentre scorticava un ramo a colpi di coltello, – non abbiamo fatto tanta strada per ascoltare un selvaggio. – Giusto, – rispose la bocca di Rynard affiorando dal buio. – Oltretutto, so pure cosa dirà, ci scommetterei un dollaro spagnolo. – Sono d’accordo con voi, signori. Forse insieme possiamo convincere il generale. – Il generale non cambierà idea, capitano Neuman. Lui per le parole ci va matto. Con un movimento brusco, il coltello del tedesco tagliò il ramo in due. La parte recisa atterrò nel fuoco e prese a consumarsi nelle fiamme. – Se volete il mio parere, l’unica cosa che conta è avere lo scalpo di Joseph Brant. Il resto è fatica sprecata. L’oscurità inghiottiva i volti. Sembrò fare lo stesso con le parole. – Se si combatterà, vi lasceremo l’onore, – commentò Neuman. – E che bisogno c’è di combattere? Se io stessi nella delegazione, domani, risolverei il problema una volta per tutte. Klug strinse la lama per la punta, soppesò il coltello e lo mandò a conficcarsi in mezzo ai piedi di Rynard. Fu ancora il capitano Neuman a parlare per primo. – Se mi dite che Joseph Brant è un pericolo da eliminare, sono con voi. Ma uccidere un uomo a tradimento è un disonore. – Un uomo? Un selvaggio, dico io. Pensate a quanta miseria, distruzione e morte risparmiereste al popolo americano. E anche si trattasse di un bianco, che patriota siete, se preferite il vostro onore al bene della Nazione? Una pigna atterrò nel fuoco e sollevò uno zampillo di braci. – Ha ragione lui, – commentò Rynard. – Se un grande sbaglio porta grandi vantaggi, non è più uno sbaglio. – Herkimer e il suo amico indiano parleranno, – riprese Klug, – poi torneremo a German Flatts e un giorno ci diranno che Joseph Brant ha scorticato viva la gente di Unadilla. Quel giorno verrò a chiedervi come vi sentite, capitano Neuman. L’uomo rovistava la sabbia con la punta dello stivale. Schiacciò uno scarafaggio che tentava di riemergere e sollevò la testa. – Che pensate di fare? – Levare di mezzo l’indiano, che altro? Mi offrirei io, ma la mia mira non è all’altezza. C’è bisogno di qualcuno capace di tirare lungo e preciso. Quando Brant si fa avanti, bang! il problema è risolto una volta per tutte. – Per una cosa del genere si rischia la forca. Fossi in voi starei attento. Klug si guardò intorno. – Perché, state dicendo che ci sono spie, qui? State attento voi, piuttosto. Calò un silenzio freddo. – Calma, signori. Mai visto nessuno finire sulla forca per aver accoppato un indiano, – proclamò alla fine Rynard, nella pausa tra due sputi. – Ce n’è parecchi che gli darebbero una medaglia, a chi fa fuori il selvaggio che ha incontrato il re. Un brusio di approvazione corse attorno al fuoco. – Ho sentito molti vantarsi di essere il miglior cacciatore di German Flatts, della Valle, dell’intera colonia –. Klug si alzò in piedi. – Non c’è nessuno che ha voglia di dimostrarlo? Nessuno si fa avanti? Tu, Keller? Oppure tu, Rumsfeld? L’ultimo chiamato in causa deglutì, poi fece un cenno col capo. – Ci penso io. Klug sorrise. – D’accordo, allora. Siamo tutti della partita? Il silenzio ristagnò. Gli uomini soppesarono le parole appena udite. A uno a uno, si dichiararono. – Bene, signori. Ora dormiremo il sonno dei giusti. Dolore, dolore alle costole: erano calci, capì Klug. Lo stavano svegliando a calci. E ci voleva molto poco per svegliarsi a quel modo. Il cuore gli balzò in gola, fece per mettersi a sedere ma sentì la suola di uno stivale premere sul petto. Mise a fuoco. Una baionetta. Proseguiva in un fucile, e in un miliziano che sembrava divertirsi un mondo. Klug girò gli occhi attorno. Anche Rumsfeld e Keller subivano lo stesso trattamento, anche Rynard. Spalleggiato dalle sue guardie, Herkimer lo fissava. Sul volto era dipinto disgusto, più che rabbia. – Dovrei farvi impiccare per sedizione, signori. Ma mi riterrò soddisfatto con molto meno. Tu, Rumsfeld, quindici nerbate. Klug ne avrà dieci. Gli altri se la cavano con nove. Poi ve ne tornate a casa. Non attraversate più la mia strada. Il fumo della pipa rotolava denso contro la tettoia. Gli uomini grondavano sudore e polvere. Il generale Herkimer teneva una Bibbia aperta sulle ginocchia e rileggeva le stesse quattro righe. Non era l’impazienza a distrarlo, né la preoccupazione per quel che avrebbe detto. L’incontro era l’ultimo atto di un cerimoniale: il significato stava nel gesto, non nelle parole. Finché un patriota americano avesse fatto cento miglia per discutere con un indiano lealista, il tempo dei massacri non sarebbe arrivato. Una schiera di nubi inseguiva il sole, quando Joseph Brant uscì allo scoperto attorniato dai suoi. Herkimer ripose la Bibbia, si alzò e li fece accomodare. Gli uomini del seguito sedettero su due panche disposte a mezzaluna. Brant rifiutò la sedia da campo e rimase in piedi. Alle sue spalle, il più vecchio dei fratelli Hough stirò un sorriso di sufficienza e diede di gomito a Daniel Secord. Joseph Brant salutò i presenti e fissò Herkimer. – Il vostro coraggio è ammirevole, signore. Sapete bene che potrei spazzarvi via con un gesto. Le mie forze sono in soprannumero –. Fece una pausa retorica, in modo che le parole si stampassero bene nella mente dei convenuti. Poi proseguì. – Ho dovuto faticare non poco per trattenere i miei guerrieri. Ho dovuto dir loro che voi, signore, siete un vecchio amico, e che tra i vostri ci sono vecchie conoscenze e compagni di scuola. Per questo mi accontenterò di una dozzina di vacche come offerta di pace, e del ritiro immediato delle vostre truppe. Herkimer fece un cenno con la mano per zittire i suoi. – È una bella fortuna avere amici come voi, signor Brant. In ogni caso vorrei verificare di persona le condizioni della gente di Unadilla. – Non se ne parla, signore. Ricordate che siamo in guerra, e non l’abbiamo voluto noi. Ritenetevi fortunato di non essere condotto a Unadilla in catene. Herkimer annuì, senza distogliere gli occhi da quelli dell’indiano. – Come volete, signor Brant. Vi ammonisco, però. Non lasciate che si commettano atrocità in questa guerra. Non saranno tollerate. – Stavo per dirvi la stessa cosa. Il colloquio è finito. La prossima volta che ci incontreremo, non sarà per parlare. 15. Era bello giungere a Oswego dal lago, come venire dal mare. Non sembrava nemmeno lo stesso luogo, quando era apparso all’orizzonte. Il convoglio acquatico era maestoso, imponente. Una grande nave, in nulla dissimile a quelle che solcavano l’oceano, faceva da punta di lancia a una flotta di imbarcazioni più piccole, diretta alla volta del concilio delle Sei Nazioni. Esther guardava il vertice di quell’aguzza geometria: a indicare la direzione stavano John Johnson e Daniel Claus, impettiti a prua del Barrymore, che trasportava un carico di uomini e vettovaglie. Sir John aveva preparato un rientro da Montreal in grande stile: giungeva al concilio con centinaia di uomini, una milizia che aveva battezzato Royal Green. In più, il Barrymore traboccava di viveri, cannoni, fucili, polvere da sparo, rum. Esther era arrivata in Canada con gli zii all’inizio della primavera. Doveva riconoscere che da quando, nella capitale, aveva ottenuto l’incarico, zio Daniel sembrava un’altra persona. Anche i suoi modi erano cambiati, più risoluti: tirato alla moda di Londra nel vestire, perfino l’accento tedesco era meno marcato. Ovunque si parlava di guerra, nessuno pensava ad altro. Esther osservava volti, espressioni decise. Ascoltava discorsi, parole inequivoche. «Vendetta implacabile», «Rompere le ossa», «I Johnson torneranno a comandare», «L’esercito di Sua Maestà ci raggiungerà tra dieci giorni». Quando il convoglio era stato avvistato dai bastioni di Oswego, una folla si era radunata sulla riva ad attenderli, mentre altri cercavano di salire a bordo di barche e canoe per andare festanti a salutare e scortare la carovana fino all’attracco. L’entusiasmo era irrefrenabile, Esther aveva provato una forte emozione e molti sentimenti le avevano affollato il cuore. Durante lo sbarco e la frenesia delle operazioni di scarico, uomini e donne erano accorsi a dare una mano. Esther aveva approfittato del trambusto per dileguarsi nella confusione generale. C’era qualcosa che doveva fare da tanto tempo. Il piccolo cimitero dietro la cappella era deserto. Il vento portava via i rumori dell’accampamento e della massa d’uomini che approntava la guerra. Le folate si insinuavano tra le croci, portando fin lì l’odore del lago. La figura esile spiccava in mezzo alle tombe, davanti alla piccola targa di pietra, fiori di campo stretti tra le mani giunte. Madre, sono tornata. Sono di nuovo a casa, madre mia, anche se casa è lontana. Amo questi alberi, l’acqua, i nostri fiumi. Ci sono molti indiani. I nostri indiani. C’è un concilio importante, si decide la guerra. Dicono che un grande pericolo grava su di noi, ma io non rimarrò nascosta a piangere. Non più. Eccomi, sono tornata. Ho attraversato di nuovo l’oceano, per essere qui da te. È passato tanto tempo e io sono diversa. Sono cresciuta. A Londra ho appreso molte cose. Potevo rimanere, zia Nancy non lo avrebbe impedito. Ho preferito tornare. A prendere il mio posto, come avresti voluto. Come avrebbe voluto il nonno. Zia Nancy e zio Daniel dicevano che ci sarebbe stato anche mio padre, ma non l’ho visto. Non ci sarà. Da tempo ho smesso di aspettarlo. Ho imparato a vivere senza di lui. Altri hanno preso il mio dolore sulle spalle. Uno di loro spero di incontrarlo qui, un uomo coraggioso e buono. Anche per questo sono tornata. Madre, questi fiori freschi sono l’amore sempre vivo. Sono il sorriso e la speranza anche nei momenti difficili. Sono la stretta che scaccia la paura e il dolore. Mi chiamo Esther Johnson, figlia di Mary, nipote di William. Questa è la terra dove sono nata, questa è la mia gente. 16. Philip pensò che soltanto due anni prima percorreva la via da Canajoharie a Oswego per finire a combattere in Canada. Adesso la guerra era dappertutto, eppure si partiva sempre da lì, dalle sponde del grande lago, dove gli Irochesi si erano dati convegno ancora una volta. Oronyhateka indicò il fumo che saliva oltre le cime degli alberi. Erano vicini ormai. Erano appena una trentina, gli ultimi uomini validi rimasti a Canajoharie, più il vecchio sachem Tekarihoga. Era stato un viaggio silenzioso e invisibile, senza fuochi né soste prolungate, in un territorio ormai ostile. A ogni tappa, Philip aveva sentito il martellare del picchio. Li seguiva, volava avanti e sopra di loro, controllando che le piste fossero libere, e col suo battere li incitava a proseguire, a fare in fretta. Quando le prime tende apparvero ai margini della radura, Kanenonte lanciò un grido che annunciava il loro arrivo. Kanatawakhon e Sakihenakenta gli fecero eco, mentre Philip riempiva i polmoni del fervore che bruciava l’aria. Alcuni Highlander estrassero pezzi di carne bollita da un pentolone ammaccato. Philip sedette accanto al fuoco e ringraziò. Guardò le fiamme sotto il recipiente danzare sulle braci. Pensò a ciò che rimane dopo la combustione: una sostanza polverosa, secca. Schegge annerite, cenere grigiastra. Il fuoco vivifica, eppure consuma. Il legno si disfa, diviene scheletro nerastro, relitto inutile, muta polvere. Era una strana estate, i temporali si susseguivano rabbiosi, spezzavano i rami degli alberi, mutavano la terra in fango viscido. Al sole la pelle del volto scottava, all’ombra il corpo rabbrividiva. Le cime dei pini oscillavano in tutte le direzioni, teste di frati impegnate a cantare ognuno una strofa diversa. Tutte le canzoni erano dolenti. Il sapore della carne era stopposo. Dall’altro lato della piazza d’armi una figura attrasse la sua attenzione. Una giovane donna camminava verso di lui. Philip sentì una voce interna pronunciare un nome. Esther avanzava, unica macchia chiara nel grigiore dell’accampamento. Sul volto un sorriso lieve, imperscrutabile. L’ampia gonna, serica tonalità tra il rosa e il giallo, lambita dal fango; una cuffia orlata di pizzo a proteggere l’acconciatura. Irradiava una tenacia che Philip aveva colto in potenza quel giorno, a Londra, quando le aveva preso la mano, e che adesso sembrava dispiegata. Intorno al polso, il bracciale che le aveva donato. Philip si alzò in piedi. – Signor Lacroix. La voce si era fatta matura. Era una donna. Ne avvertiva l’odore. Philip non seppe come rivolgersi a lei. Rimase zitto. Esther lo guardò dal basso in alto. – La bambina che si nascondeva nella legnaia, ricordate? Ho quasi quindici anni adesso. – Cosa fate qui? – riuscì a chiedere Philip. – C’è la guerra. – Mio zio, il signor Claus, presumeva che avrei potuto incontrare mio padre. Doveva raggiungerci da New York. Ma io sapevo che non sarebbe venuto. Philip aggrottò la fronte. – Lo sapevate? Il volto di Esther si tinse di un’ombra cupa. – Non tutti gli uomini sono coraggiosi, – puntò gli occhi in quelli di Philip. – Solo qualcuno lo è abbastanza anche per gli altri. E sapevo che l’avrei incontrato qui. Philip si chiese come fosse possibile che quella giovane donna fosse lo stesso essere impaurito che aveva lasciato in Inghilterra. Era passato appena un anno. Poi ricordò che a quell’età il tempo si conta a giorni, e che giorni come quelli che avevano affrontato rendevano adulti in fretta. – Ora devo andare, signor Lacroix. Zia Nancy mi starà cercando. Philip si risedette presso il fuoco. Non poté formulare pensieri, perché qualcuno gli si accovacciò accanto. Non si vedevano da un anno, ma Joseph parlò come per riprendere un discorso appena interrotto. – Molly non è voluta venire, allora. – Crede di poter essere ancora utile laggiù. Joseph annuì. – Lo immaginavo. – Il tuo messaggio diceva che c’erano tutti, – disse Philip. – Ma gli Oneida non ci sono. – Ha importanza? Ognuno sceglie per sé, – rispose Joseph. – Facciamo parte di un grande esercito. Entro l’autunno saremo a casa –. Inforcò un pezzo di carne, ci soffiò sopra e l’azzannò. Dopo aver masticato a lungo, sputò il boccone nella polvere. – Questa carne è di legno –. Si alzò e sfiorò la spalla dell’amico con la mano. – Si parte tra due giorni, – disse. – Andiamo a prendere Fort Stanwix. Ci saranno anche i Seneca –. Fece per allontanarsi, ma si trattenne e si abbassò di nuovo. – Sono contento che tu sia qui. Philip lo guardò attraversare lo spiazzo a passi sicuri. C’era riuscito. Era un capo. 17. Nelle foreste attorno a Canajoharie, mirtillo e fragola erano maturati in anticipo e le donne uscivano all’alba per raccoglierli freschi di rugiada. Tempo rubato a lavori più utili e un cesto di bacche come bottino, buono giusto per addolcire la lingua a una famiglia di bocche affamate. Eppure nessuno avrebbe rinunciato ai sapori del bosco, rito che iniziava l’estate, garanzia di ordine e bellezza. Nell’ultimo anno la valle s’era spalancata su un baratro, terra di conquista per una nuova nazione, ma i piccoli frutti profumavano ancora e tappezzavano l’orlo del precipizio. Dolci come speranze, pensò Molly. Rossi e neri come la guerra. Forse era per questo che la grande visione di due estati prima era tornata, limpida come l’aria dopo la prima neve. Il funerale di Sir William, la terra troppo dura per essere scavata, la bara che scivolava sulle acque, verso la sorgente. Secondo le altre matrone era una profezia di quanto accadeva. Ciò che va controcorrente è destinato a ritornare e Capo Grandi Affari sarebbe tornato nei panni della sua discendenza, occorreva prepararsi ad accoglierlo. Così Molly aveva deciso di restare, anche se Joseph l’aveva invitata a raggiungerlo. Così Ann poteva mangiare mirtilli, con le labbra cerchiate di viola e gli occhi accesi di novità. Spinse i due figli piccoli tra cespugli e macchie di sole. Ann e George si accomodarono in ginocchio e presero a mangiare senza tregua. Molly ne approfittò per allontanarsi, a distanza di voce, fino a una roccia di granito nascosta dagli alberi. Si augurò che il ragazzo non tardasse. Di certo l’assenza era già stata notata. Da tempo i whig la spiavano, controllavano i suoi spostamenti, le persone che entravano e uscivano dall’emporio e da casa sua. Ma non esistevano occhi capaci di frugarle nei sogni, infilarsi sotto ogni sasso del bosco, perquisire uno a uno i clienti dell’emporio. Le spie ribelli guardavano senza vedere e Molly, sorvegliata stretta, continuava a smistare notizie, informazioni, dispacci. Nell’ultimo messaggio, Joseph la informava della grande offensiva pianificata dagli Inglesi. L’attacco alla colonia di New York sarebbe giunto da due lati, per stringere i ribelli in una morsa. Mentre il generale Burgoyne scendeva dal lago Champlain, Joseph si trovava al seguito delle truppe del colonnello St. Leger, che da due settimane tenevano sotto assedio Fort Stanwix. La situazione era di stallo, ma presto o tardi i ribelli si sarebbero arresi. Quello che Joseph non sapeva era che la notizia aveva viaggiato lungo il fiume Mohawk, fino a raggiungere gli insediamenti dei coloni. Quella notte il generale Herkimer era partito alla testa di settecento uomini della milizia ribelle, in direzione del forte, per portare soccorso agli assediati. La colonna s’era affidata a guide indiane, per evitare il fiume e non farsi notare. L’unica via secondaria per un contingente così numeroso era l’antico sentiero oneida che passava dal villaggio di Oriskany. La marcia sarebbe stata molto lenta e un corriere veloce poteva precedere i ribelli di almeno tre giorni. Questo avrebbe dato a Joseph il tempo sufficiente per studiare una contromossa. Molly colse un fruscio alle sue spalle e si fermò, in attesa. Il giovane spuntò dal bosco e le sorrise. – Dio ti protegga, Degonwadonti. La donna si avvicinò e gli consegnò la lettera, poche righe vergate quella mattina, che il ragazzo infilò sotto la camicia. – Devi raggiungere Thayendanega. Corri senza fermarti. Corri fino a scoppiare, se necessario. L’immagine del cadavere deturpato di Samuel Waterbridge le attraversò la mente, ma la scacciò subito e strinse il braccio del ragazzo. – Torna sano e salvo. Lo guardò sparire rapido tra gli alberi. Si affrettò a riempire il cesto di bacche e richiamò i figli per tornare al villaggio. Mentre camminava lungo il sentiero, rivide Nicholas Herkimer nel salotto di Johnson Hall, intento a parlare con Sir William e sorseggiare tè nero. Poi lo rivide più vecchio, quando era passato dall’emporio l’ultima volta, per convincerla a tenere il suo popolo fuori dalla guerra. – Pare che Benjamin Franklin l’abbia presa da voi Irochesi, l’idea di una confederazione, – le aveva sorriso il tedesco. – Se il Congresso volesse rubarci solo le idee, – aveva risposto Molly, – l’ascia di guerra dei Mohawk sarebbe ancora sotto terra. Per un attimo sperò che suo fratello e Nicholas Herkimer potessero ancora evitarsi, ma sapeva che era troppo tardi. La valle non sarebbe mai più riuscita ad accogliere entrambi. Il mondo di Warraghiyagey era mutato per sempre. Guardò le proprie mani e quelle dei figli tinte dal succo delle bacche. Ebbe paura. Visioni di sangue che arrossava il fiume e inondava la foresta la investirono con forza. Prese a mormorare una preghiera tra le labbra. Pregò per Joseph. Pregò il Padrone della Vita di concedergli la vittoria sui nemici. 18. Quando Nicholas Herkimer tentò di ricaricare la pistola si accorse che le mani tremavano. Dovette appoggiarsi al tronco, guadagnare i respiri necessari, inserire lo stantuffo nella canna, puntare l’arma alla cieca oltre l’albero e premere il grilletto. L’unico rumore che seguì fu quello del cane che scattava a vuoto. La gamba ferita cedette, scivolò a terra e rimase steso sotto la pioggia che stillava dai rami e gli colpiva il volto. Mani lo afferrarono e lo misero a sedere, la schiena appoggiata alla corteccia. Vide l’acqua scendere a rivoli fino a mescolarsi al sangue in una piccola pozza. Non ricordava più da quante ore lo avevano ferito al ginocchio, la gamba era un pezzo di legno. Il dottor Van Hoek gli sfilò lo stivale. Herkimer cercò di non pensare al dolore. Ascoltò il capitano De Jong sparare insulti dietro l’albero accanto. Il cognato, volontario lealista, lo bersagliava con gli stessi proiettili da poche iarde più in là. Stava risalendo l’intero albero genealogico della famiglia, fin da prima che salpassero da Rotterdam. Herkimer pensò che doveva esserci anche suo fratello dall’altra parte. E i cugini di Williers. E quei gran figli del diavolo degli Hough. Conosceva quella gente, alcuni di loro avevano combattuto con lui durante l’altra guerra, insieme a Sir William Johnson. Buoni tiratori, Cristo santo. Doveva ringraziare Dio per il temporale che aveva concesso la tregua. Osservò i corpi stesi intorno a lui, alcuni con il cranio rosso di sangue. I lamenti dei feriti contrastavano il silenzio della morte. Uno di loro protendeva le braccia al cielo, implorava aiuto con la voce che restava. Gli sembrò di riconoscere Sanders. L’avevano scalpato, ma era ancora vivo. Gli avrebbe concesso il colpo di grazia, se solo le armi da fuoco avessero funzionato. Le urla di Neuman erano strazianti. Giaceva a pochi alberi di distanza con un proiettile nelle viscere, il sangue che grondava tra le dita strette sul ventre. Lo tenevano fermo in due, ma non riuscivano a farlo smettere di invocare Dio e la propria madre. Soltanto poco prima quegli uomini erano in piedi, vivi. Il tempo era precipitato all’improvviso, ma la luce diceva che era giorno inoltrato. «Non disperdetevi, serrate i ranghi! Fuoco a volontà!» Aveva urlato gli ordini in mohawk dutch, per essere certo che tutti capissero. La milizia aveva obbedito, si erano comportati bene, come soldati, come un vero esercito. Pensò che avrebbe dovuto scriverlo a Schuyler e a Washington. Dovevano sapere. Li avevano respinti, per Dio. C’erano anche indiani là in mezzo, e parecchi. Demoni della foresta, spuntavano dalla terra stessa. «Non disperdetevi, restate uniti!» L’attacco era partito dai lati della pista. Un’imboscata. Li stavano aspettando, qualcuno li aveva avvertiti. Il primo a crollare era stato Jansen, colpito al petto. In un attimo la fucileria aveva cancellato il bosco. Accecati dal fumo, si erano stretti in falange. «Su due file, divisi per coppie, uno spara e l’altro ricarica!» Sparare e ricaricare a turno alternato, senza lasciare ai diavoli il tempo di avvicinarsi. Tenerli a distanza. Con gli indiani non c’era scampo nel corpo a corpo. Herkimer lo sapeva, l’aveva imparato durante l’altra guerra. Quelli raggiunti dai tomahawk erano a faccia sotto. Spostandosi piano, tutti insieme, come un gigantesco ragno, si erano rintanati nella macchia. La salvezza: per ogni uomo un riparo di solido legno, una postazione per rispondere al fuoco, un buco da cui vendere cara la pelle. Herkimer sentiva il morale degli uomini traballare, la paura insinuarsi tra gli alberi, silenziosa e letale. Prima o poi la pioggia sarebbe cessata e le polveri si sarebbero asciugate. Avrebbero respinto un secondo attacco? Era la domanda che ciascuno custodiva dietro il proprio riparo, accompagnandola a una preghiera. Pensò a Gansevoort, bloccato a Fort Stanwix, a poche miglia da lì. Avrebbero dovuto portargli soccorso, allentare l’assedio. Bisognava resistere come stava facendo lui dietro i bastioni. Il libero Stato di New York era in pericolo. Se avessero ceduto, gli Inglesi sarebbero dilagati nella Mohawk Valley e avrebbero potuto attaccare Schuyler sul fianco sinistro. Dovevano aspettare che la luce calasse e poi farsi guidare dagli Oneida fuori dal bosco, per organizzare la difesa più a valle. I lamenti di Neuman presero a martellare i timpani ancora più forte. Si dimenava, scalciava per allontanare la morte che lo ghermiva. Emanava panico, mentre dall’altra parte gli indiani facevano eco con versi animaleschi. – Fatelo tacere, per Dio! – urlò qualcuno. Herkimer pensò che dovevano resistere a ogni costo. – Capitano De Jong! – Agli ordini, signore. Il luogotenente strisciò fino all’albero, vide la calza e il gambale intrisi di sangue. – Passate la voce, – ordinò Herkimer ignorando il dolore. – Ogni uomo resti al suo posto. Rimanere uniti. Chi si sbanda nel bosco è spacciato. Se non lo trovano prima gli indiani, morirà di fame e sete. De Jong eseguì. Le parole viaggiarono sopra le frasche fino a perdersi nel fitto della boscaglia. Il dottor Van Hoek scosse il capo. – La ferita è infetta. Avete il proiettile nel ginocchio da troppe ore. Herkimer sbirciò la ferita a denti stretti. Schegge d’osso spuntavano dalla carne. Tutto il dolore del mondo si concentrava sullo stesso punto. – Fate quello che dovete. Il dottore annuì. – De Jong! – gridò Herkimer col fiato grosso. – Agli ordini. – Che fine hanno fatto i nostri scout? – Signore, gli Oneida sono laggiù. Dicono che hanno già sparato abbastanza. Dicono che l’accordo era di farci da guide. Non vedono convenienza nel combattere ancora. – Riferite questo, – sibilò il generale. – Se riescono ad aprirci una via d’uscita mi impegno a fargli avere due fucili a testa. Lanciò un’occhiata al dottore che versava rum sugli arnesi. Strinse ancora la spalla del capitano. – De Jong, assicuratevi che i ranghi rimangano serrati. O si resta compatti o è la fine. In quel momento una voce risuonò dall’altra parte. – Ehi, Herkimer! Mi senti? La prossima te la pianto in mezzo agli occhi. Il generale riconobbe il timbro e l’accento. Tossì e prese fiato. Riuscì a rispondere con voce sicura. – Allora ce ne andremo al Creatore insieme, Henry Hough. Lo strazio di Neuman riprese più forte. Una mano clemente gli tappò la bocca, trasformando le urla in un ringhio sommesso. Herkimer pensò al morale dei suoi uomini. Fece cenno al dottore di aspettare e appoggiandosi a De Jong riuscì a rimettersi in piedi. Parlò con quanta voce aveva. – Milizia della contea di Tryon! Un coro sparso di voci rispose dalla foresta intorno. Tutti dovevano ascoltarlo. Anche i lealisti dall’altra parte. – Li sentite? Pensano di spaventarci. Invece ci incoraggiano. Che vengano! Li abbiamo respinti una volta, lo faremo di nuovo. Questo bosco sarà la loro tomba. – Sarà la tua, Herkimer! – gracchiò Henry Hough. Il generale si avvinghiò alla spalla di De Jong. – Ricordate che dietro di noi c’è Albany, – gridò più forte. – Se anche dovessimo morire tutti quanti in questa dannata foresta, una cosa è certa: non passeranno! Una bordata di incitazioni si sollevò dalle file ribelli. Herkimer si lasciò andare giù. Van Hoek mostrò la sega, ma il generale lo bloccò. – Procuratevi un’ascia, dottore. Non c’è tempo da perdere. 19. Joseph osservava una grossa formica camminare su un ramo. L’insetto trasportava una foglia grande come una carta da gioco. Se gli uomini avessero tanta forza, pensò, potremmo abbattere a mani nude gli alberi che abbiamo davanti e snidare la milizia di Tryon in pochi minuti. Era stato uno scontro duro. Dopo le prime scariche di fucileria i guerrieri si erano lanciati all’assalto. Gli uomini di Herkimer avevano retto l’urto sulla radura, poi si erano lasciati incalzare nella boscaglia. Lo slancio degli indiani e dei Volontari si era disperso in mille rivoli, fino a fermarsi. Lo scontro era diventato un caos indistinto di colpi sparati da un tronco all’altro, a pochi passi di distanza. Joseph aveva attestato i Volontari dietro gli alberi, mentre i guerrieri ripiegavano furenti. Anche i Royal Green di Sir John tenevano le posizioni, ma in quella mischia era difficile capire chi sparasse a chi. Il risultato era che vivi, morti e feriti si trovavano sparsi su un’area di svariate centinaia di iarde quadrate di bosco. Solo il temporale aveva interrotto il combattimento. Mentre l’odore di foglie marce e legno bagnato copriva quello della polvere da sparo, Joseph si interrogò su come interpretare lo stallo. Quello doveva essere il suo giorno. Mentre i soldati inglesi assediavano Fort Stanwix, lui e Sir John guidavano il contingente lealista contro la colonna di Herkimer. Gli Inglesi si fidavano di lui, l’indiano che aveva conosciuto il re. Qualcuno avanzò nel sottobosco e lo distolse dai pensieri. Sir John e McLeod. Sulla nuova uniforme verde, lo scozzese indossava ancora il berretto floscio. – Brutta faccenda, – disse Johnson livido. – Herkimer è un tedesco dalla testa dura, lo conosco. Toccherà stanarli uno alla volta. – Abbiamo già perso molti uomini, – disse Joseph. Sir John annuì. – Anche Herkimer. E non conosce questi luoghi bene quanto noi. Può soltanto provare a sgattaiolare via col buio. Molti dei suoi si perderanno nel bosco, ma tanti altri potrebbero farcela. – Con licenza, signore, – intervenne McLeod. – Gli stessi che l’hanno condotto qui, possono tirarlo fuori. Le guide Oneida sono la sua salvezza. Joseph annuì. Le informazioni raccolte dicevano che quegli scout erano rinnegati delle tribù, mercenari senza onore. Bisognava pensare anche a loro. Nessuno li avrebbe rimpianti. Butler lo raggiunse, seguito da Walter e dal capo dei guerrieri Seneca. Fino a quel momento i suoi indiani avevano assistito allo scontro dal margine della boscaglia. – I Seneca sono impressionati, – ammiccò Butler, parlando in inglese. – Dicono che oggi gli uomini di Joseph Brant hanno dimostrato di non temere la morte. Joseph annuì e rispose nello stesso idioma, fissando il capo del gruppo guerriero. – Riferite a Sayengaraghta le mie parole, capitano Butler. Ditegli che Joseph Brant vuole che lui e i suoi se ne stiano in disparte come donne e contemplino il nostro coraggio. Così non dovremo dividere con nessuno l’onore di questo giorno. Butler storse la bocca in un ghigno. Il Seneca ascoltò la traduzione e strinse la mascella con rabbia. Per un attimo sembrò sul punto di scattare, ma Joseph gli diede le spalle. Ascoltò l’aria. Una quiete sinistra permeava la foresta. Capì che quello era il momento. Guardò negli occhi i bianchi, uno dopo l’altro. Quelli di McLeod brillavano di eccitazione. Sir John annuì torvo senza dire nulla. Butler rimase incerto, come non fosse sicuro di avere inteso cosa stavano pensando gli altri. Le palpebre ridotte a fessure scrutarono le intenzioni dell’indiano. – La polvere non è ancora asciutta, – obiettò. Quando non ricevette risposta si rese conto di avere inteso bene. Suo figlio Walter brandì l’accetta. Il vecchio capitano si calcò il cappello sulla testa. – E va bene, maledetti pazzi. Facciamola finita. Philip Lacroix non si era dipinto il volto, eppure emanava un’aura di forza e minaccia. Durante il primo assalto aveva impedito ai giovani di scagliarsi alla cieca contro i nemici, aveva rallentato il loro slancio e trovato buoni ripari per bersagliare la milizia. In principio i giovani avevano scalpitato e inveito, ma si erano zittiti dopo che molti guerrieri erano caduti nella radura, falciati dai proiettili. Avevano preso a tirare da dietro gli alberi e le rocce. Philip scrutò la macchia d’abeti dove si erano arroccati gli scout oneida di Herkimer. Poco dopo, una ventina di giovani Mohawk si muoveva silenziosa, guidata dal Grande Diavolo. L’ululato tagliò l’aria bagnata. Joseph alzò il tomahawk e alle sue urla si unirono quelle dell’intero contingente lealista. Il segnale attraversò la foresta, replicato da un albero all’altro. Un secondo coro risuonò al margine della vegetazione. I Seneca scendevano in battaglia. Il loro capo Sayengaraghta gridava a Joseph Brant che gli avrebbe mostrato come sapevano morire i Seneca. Joseph si sentì soddisfatto ed eccitato. Si lanciò in avanti tra gli alberi, Kanatawakhon e Sakihenakenta a coprirgli i fianchi. Al suo passaggio, i Volontari saltavano allo scoperto e lo seguivano urlando il suo nome. Impattarono contro la prima fila di miliziani, avvinghiandosi a chi si parava davanti, e rotolarono a terra, in una cascata di foglie e fango. Philip aspettò di essere alla distanza giusta, da dove poteva contare gli avversari. Erano una trentina, bene armati e in guardia. Aspettavano di capire come sarebbe ripresa la battaglia, per decidere il da farsi. C’erano anche alcune donne, per trasportare viveri e munizioni. Philip poteva avvertire l’odio dei guerrieri per gli Oneida. Individuò il più grosso, una mole impressionante, quindi uscì da solo allo scoperto, armato di mazza e coltello. Quando lo vide avanzare, il gigante accolse la sfida con ampi cenni d’assenso. Philip schivò la sua accetta e lo pugnalò al fegato. In quell’istante i Mohawk si lanciarono all’attacco. Royathakariyo, gli occhi bianchi e spaventosi sul cranio dipinto di rosso, piovve per primo in mezzo ai nemici, spaccando teste con il calcio del fucile. Niente sembrava poterlo fermare, finché una delle donne spuntò alle sue spalle e gli piantò un coltello nella schiena. Oronhyateka, due mani stampigliate sul petto, simili alle ali di un’aquila, si lanciò a terra e con due colpi netti recise i tendini delle caviglie dei guerrieri, che caddero come marionette. Kanenonte raggiunse la donna che ancora brandiva il coltello e le colpì il volto con il tomahawk. Sangue e denti schizzarono in aria. Sir John dispose che i Royal Green indossassero le uniformi rivoltate, per essere bersagli meno riconoscibili. Diede l’ordine d’attacco e uscirono dai ripari con le baionette innestate sui fucili. Gli Highlander impugnarono le sciabole. Cormac McLeod baciò i simboli runici sull’elsa. L’arma era appartenuta a suo padre; i segni incisi risalivano a prima del regno di Maria Stuarda, a prima che esistesse un re di Scozia e d’Inghilterra, quando il segreto della forza si tramandava attraverso formule magiche che soltanto pochi conoscevano. Sollevò la spada al cielo. – Bualidh mi u an sa chean! – gridò. Gli Scozzesi lo seguirono con l’impeto di antichi guerrieri. Herkimer guardò ancora il cielo, l’anima sbalzata fuori dal corpo, sospesa quanto bastava a notare che la luce era più intensa e le nuvole si diradavano, per subito precipitare nella gabbia di carne con un singulto di dolore accecante. I sei uomini che lo tenevano fermo si aprirono come i petali di un fiore. Van Hoek cauterizzò il moncherino con la lama rovente. Herkimer svenne. Quando tornò cosciente, si accorse che poteva ancora respirare e udire il fragore dello scontro che frantumava il bosco. Rami spezzati, corpi gettati a terra, urla, sagome veloci che correvano in ogni direzione. I miliziani gli fecero scudo, mulinando i fucili come clave, ma vennero subito affrontati da Henry Hough e dai suoi. Il generale si sentì sollevare e trascinare via. Riuscì ancora a vedere De Jong arretrare dal groviglio di cani rabbiosi, la sciabola in pugno, gridando ordini ai difensori per ricomporre una fila ordinata. Le forze cedettero, Herkimer lasciò cadere la testa all’indietro. Vide le cime degli alberi scorrere sopra di sé, alternate a sottili strisce di cielo chiaro. Dovevano resistere ancora un poco, e la polvere si sarebbe asciugata. I rumori giungevano più attutiti, adesso, coperti da un ronzio sordo. – Generale Washington, – mormorò. – Oggi, 7 agosto dell’anno 1777, io Nicholas Herkimer, generale della Milizia della contea di Tryon, scrivo a vostra eccellenza, chiamando Dio a testimone. Sulla linea di difesa De Jong trafisse un avversario e gli piantò uno stivale nel petto per liberare la lama. Una valanga indistinta di corpi travolgeva piante e terriccio, scheggiava ossa e corteccia, spruzzava sangue e budella. – Eccellenza, oggi i miliziani volontari di Tryon hanno resistito all’imboscata di un contingente misto di lealisti e guerrieri indiani, di pari entità se non superiore per numero. De Jong parò l’affondo di un soldato in giubba verde che era riuscito a superare lo sbarramento, con la spada gli trapassò la gola di netto. Gridò ancora ai miliziani di serrare i ranghi, di non farli passare. – Nessuno di loro è arretrato di un passo. Ogni patriota sotto il mio comando ha restituito colpo su colpo, preferendo cadere nell’abbraccio mortale con l’avversario piuttosto che cedere il campo. De Jong ricevette un fendente alla testa. Il capitano rotolò su se stesso, si rialzò, accecato dal sangue che gli colava sugli occhi. Si toccò la fronte, lo squarcio arrivava all’osso. Riuscì ancora a trascinare la spada, poi crollò in ginocchio. – Generale. In fede vi chiedo di proporre la milizia di Tryon per la medaglia al valore del Congresso. Dio salvi l’America. De Jong cercò di sollevare la spada, ma il braccio ricadde inerte. L’affondo gli mozzò il fiato. L’ultima cosa che vide furono le rune incise nel metallo che gli spuntava dal fianco. Oronhyateka era una freccia che fendeva il bosco. Philip correva parallelo a lui, poche iarde indietro. Lo vide raggiungere un Oneida, sgambettarlo e farlo cadere. Con un solo movimento gli saltò sulla schiena e recise lo scalpo. Lo brandì in alto, gridando insulti ai nemici. Quattro guerrieri camminavano all’indietro, schierati a protezione di un Oneida zoppicante. Quello in mezzo vide Philip e gridò: – Tu sei il Grande Diavolo, ti ho riconosciuto. Io ti sfido. Io sono Honyere Tehawengarogwen. Oggi ho raccolto dodici scalpi. Ti ucciderò e tutti conosceranno il mio nome! L’ultima sillaba fece appena in tempo ad abbandonare le labbra. Philip scattò in avanti roteando la mazza, pietra di fiume incastonata in una clava. Calò un fendente e sfondò il cranio del guerriero. Rumore di ossa pestate in un mortaio. Percepì un movimento di fronte a sé e si abbassò di colpo, con un calcio spazzò a terra il secondo Oneida, gli balzò addosso, lo pugnalò alla gola e subito rotolò via. Il terzo gli fu sopra, ma un colpo di mazza dal basso gli spaccò la faccia. Mentre Philip si rialzava, il quarto Oneida lo colpì di striscio col tomahawk. Si avventarono l’uno sull’altro. Philip gli squarciò l’addome dall’inguine allo stomaco. Si ritrovò in piedi a guardare negli occhi l’ultimo nemico rimasto. Shononses, sachem degli Oneida. Il vecchio capo ansimava, l’orenda perduto in battaglia, l’onore dissolto con la fuga. Oronhyateka si era bloccato, fissava il Grande Diavolo con aria sbigottita. L’intero scontro era durato lo spazio di un pensiero. – Uccidilo! – gridò. – Uccidilo, Grande Diavolo! Philip guardò Shononses. L’anziano respirava a fatica, una sorta di gorgoglio. Costole rotte avevano forato i polmoni, che ora si riempivano di sangue. Cercò di alzarsi, col tomahawk in pugno. Philip attese che fosse in piedi. Sollevò la clava e colpì il vecchio con tutta la forza. Le grida di Oronhyateka salutarono l’osceno scrocchio, simile a una bestemmia senza parole. Kanatawakhon si fermò dietro un albero, prese la mira e fece fuoco. D’istinto Joseph allungò il passo, sotto il peso di Sakihenakenta. I muscoli dolevano e il sudore lo accecava, ma non avrebbe mai lasciato il corpo del guerriero ai corvi. Era morto al suo fianco, meritava un funerale e una degna sepoltura. Non ricordava il momento esatto in cui le armi avevano ripreso a sparare. Aveva scaricato le pistole di Lord Warwick contro i nemici, talmente vicini da vederne il colore degli occhi. I proiettili fischiavano tra i rami, gli uomini cadevano. La milizia continentale ancora resisteva. Se voleva essere un capo doveva essere saggio. Se voleva comandare doveva saper prendere le decisioni giuste. Aveva fatto risuonare l’ululato del clan, ripetuto da Kanatawakhon con quanto fiato aveva. L’aveva fatto prima che i gesti di quel giorno di sangue perdessero senso, cancellati dalla mattanza. Uccidere e morire doveva mantenere un significato nel quadro della guerra e nel ciclo delle cose, oppure ogni sforzo sarebbe stato vano e il caos sarebbe prevalso. Raggiunsero un dosso al riparo degli alberi e Joseph posò il corpo di Sakihenakenta tra le felci. Si voltò a guardare i Volontari, sparavano ancora mentre arretravano. Il sangue li aveva resi ebbri. Uno di loro brandiva una testa come trofeo. 20. Muscoli dolenti, carne squarciata, buchi di pallottole. Sangue rappreso tra palpebre e occhi, le orecchie contenevano tuoni. Per i guerrieri il giorno era finito così, con l’appello dei sensi caduti, feriti, dispersi nello scontro. Esausti, si erano accasciati a poche miglia dal luogo della battaglia. Dai giacigli di rami e coperte salivano gemiti e ronfi. Philip sedeva su un tronco fradicio di muschio, braccia conserte e gomiti a toccare i fianchi, incapace di prendere sonno. La notte bagnava la pelle, i fuochi erano mesti. Chissà se Joseph dormiva. Le sentinelle erano presenze remote. Dall’altra parte della radura qualcun altro vegliava. Guerrieri giovani, troppo eccitati per dormire. A tratti una frase sbrecciava l’aria: «… gli Oneida credevano…» «… non è più tempo di…» Rumori nella notte, nulla di più. Di fianco a lui sedette qualcuno. Philip non aveva sentito passi calpestare l’erba. L’uomo parlò in Mohawk, ma con un accento che riempì Philip di malessere. La voce era roca, un colpo di tosse protratto nel tempo. – È sempre così. Ricordo com’ero io dopo la prima battaglia: avrei potuto parlarne per giorni. Buffo: oggi di quello scontro ricordo ben poco. Philip non rispose, né si girò per vedere chi fosse il suo compagno di veglia. Continuò a guardarsi i piedi. Rimasero in silenzio per lunghi minuti. Philip si fece più curvo e si strinse nelle braccia: sentiva freddo. Dall’altra parte del campo, le voci si erano spente. I giovani avevano trovato il sonno. – Adesso devo andare, – disse lo sconosciuto. – Ti auguro una buona nottata, Grande Diavolo. Aveva parlato in oneida. Philip si volse a guardarlo. Shononses aveva la testa sfondata, un’orbita vuota, il viso coperto di sangue. Si alzò e scomparve nella notte. Philip pensò: alla buon’ora è successo. Sono diventato pazzo. Raccolse un bastone e andò a rimestare le braci del fuoco più vicino. Le fiamme presero corpo, asciugando l’aria in uno scampolo di notte. Di fronte a Philip, una bambina allungò le mani per scaldarsi. Una bambina. Philip la conosceva. La conosceva bene. Le labbra tremarono, la mandibola serrò l’anima in una morsa, le lacrime travolsero gli occhi. Un taglio le attraversava la gola, il vestito era lordo di sangue. Dietro di lei una donna, altrettanto malconcia. Con una mano le accarezzava la testa e scompigliava i capelli. Philip cadde in ginocchio, le braccia inerti, piangendo come un cucciolo. La bambina gli sorrise. – Non è possibile, – disse Philip, implorando moglie e figlia. – Siete morte tanto tempo fa. La bambina si avvicinò e tese le mani. Voleva che il padre la prendesse in braccio. Philip voleva farlo. Avrebbe voluto. Lo desiderava da tanti anni, con tutte le sue forze. Non era passata notte senza che avesse sognato di stringerla ancora. Il volto del guerriero, devastato dal pianto, si mobilitò per formare un sorriso, un sorriso disperato, vieni, bambina mia, vieni, ma la madre la richiamò: – Andiamo, amore. Andiamo. La bimba agitò il braccio a salutare il padre. Il cuore di Philip esplose. Madre e figlia si allontanarono mano nella mano. Il fuoco continuava a bruciare. Era stato un brutto sogno? Il più brutto della sua vita. Il più brutto della vita di chiunque, di tutte le vite messe insieme. Philip si rialzò, si asciugò gli occhi con la manica. Giunse il singhiozzo a squassare la gola, e la notte era più fredda che mai, anche accanto al fuoco. Una mano si posò sulla sua spalla. Leggera. Philip si volse e vide Sir William. Il vecchio era quasi trasparente, incorporeo. Sorrideva. Paterno. Triste. Con lui c’era un gentiluomo dall’aspetto austero, solido, opaco come i vivi, senza nulla che facesse pensare alla morte. A parte la gamba mozzata, che ancora spillava sangue. Si teneva in piedi grazie a una stampella. Sir William si congedò con un cenno del mento. Ora di andare. Si allontanò con lo sconosciuto. Philip li seguì con lo sguardo fin dove terminava la radura. Scomparvero, e non riapparvero più. 21. Il bene delle Sei Nazioni. Tutti quanti lo volevano. Ogni parola era detta per il bene delle Sei Nazioni. Ogni iniziativa era proposta per il bene delle Sei Nazioni. Le Sei Nazioni dovevano vivere. Per vivere, dovevano guarire dal male del tradimento. Per guarire dovevano purgarsi ed espellere i traditori, escrementi avvelenati che torcevano le viscere. I traditori erano gli Oneida. Colpire gli Oneida era necessario. Questa era la posizione dei giovani guerrieri mohawk. Kanenonte la esponeva con fervore e occhi inondati di lacrime, schiaffeggiandosi il petto coperto di lividi, tra salve assordanti di «Oyeh!» Joseph ascoltava in silenzio. In passato avrebbe tradotto quelle invettive a beneficio dei bianchi. Adesso no. Quella che si parlava era una lingua universale, la lingua dell’odio e della vendetta. La si parlava con gli occhi, le rughe sulla fronte, le pieghe intorno alle labbra, il movimento di braccia e gambe. La si parlava con le gocce di sangue che stillavano da ferite appena cucite. La si parlava con dita strette a pugno, digrignare dei denti, lacrime. Nessuno avrebbe alzato la mano per interrompere e dire: «Non ho capito». La testa di Joseph era un alveare di dubbi. Un piccolo villaggio oneida, non più di cento abitanti, era a poche miglia di distanza. Vecchi, donne, bambini. La proposta era di saccheggiarlo. Per il bene delle Sei Nazioni. Prese la parola Oronhyateka: gli Oneida avevano guidato i ribelli di Herkimer e combattuto insieme a loro, contro i guerrieri del Popolo della Selce. Non si trattava di pochi reietti, come avevano creduto all’inizio, ma dei più validi uomini di quella nazione, e persino di un loro sachem. Era una condotta disonorevole. Avevano tradito. Si erano lasciati sobillare da Kirkland e avevano spalleggiato i ladri di terra indiana, la marmaglia che violava con disprezzo la casa di Warraghiyagey. Joseph scrutò l’espressione di John Johnson, ma il viso dell’erede di Sir William era indecifrabile. Di fianco a quest’ultimo, Daniel Claus teneva gli occhi puntati nel vuoto. Joseph provò a figurarsi i loro pensieri. A Oriskany, indiani e volontari bianchi avevano superato la prova della battaglia e seminato il terrore tra i nemici. Avevano fatto la loro parte. Lo stesso Herkimer doveva essere morto, o moribondo. Ciò era buono. Niente rinforzi per i ribelli assediati a Fort Stanwix. Toccava al colonnello St. Leger e all’esercito di Sua Maestà finire il lavoro e dilagare fino ad Albany. Purché l’assedio non durasse troppo. Se non avessero preso Fort Stanwix, la vittoria di Oriskany si sarebbe rivelata inutile. Una schermaglia tra indiani era l’ultima preoccupazione di Claus e Sir John. Se proprio non si poteva evitare, andava considerata una piccola tassa, un incidente periferico. Un pedaggio per poter viaggiare su quella strada, come accadeva in Europa. Il tradimento degli Oneida era una piaga da incidere e cauterizzare subito. Altrimenti, il pus del rancore l’avrebbe gonfiata e fatta marcire. L’infezione si sarebbe estesa in guerra aperta, i Mohawk avrebbero sprecato vite ed energie a uccidere altri indiani anziché combattere i whig. Lasciar fare, dunque. E Joseph? Che decisione avrebbe preso? Dall’altra parte del cerchio di uomini, John Butler stava in piedi a braccia conserte appoggiato a un albero. Seduto a poche iarde di distanza, suo figlio Walter, impaziente, contrariato. Per i Butler, «finire il lavoro» significava anche liberare il resto della famiglia, ancora prigioniera dei whig. Per Walter, starsene seduti a parlare dell’onore indiano era una perdita di tempo, mentre la madre e i fratelli marcivano in prigione, vittime di chissà quali abusi. Glielo si leggeva in faccia. Estirpava fili d’erba e li strappava fino a ridurli in poltiglia. I polpastrelli delle dita erano verdi. Oronhyateka proseguiva: gli Oneida si erano alleati coi vigliacchi che da anni rubavano le terre dei Mohawk, con l’inganno e contro le leggi. Gli Oneida andavano puniti. Subito, senza aspettare. In nome della Grande Pace, dell’onore della Lunga Casa, dello spirito di Sakihenakenta, Royathakariyo e gli altri caduti. «Oyeh! Oyeh! Oyeh!» Qualcuno chiese il parere dei bianchi presenti. Cormac McLeod disse che era un affare tra indiani. Gli Highlander se ne chiamavano fuori, non avrebbero aderito a una rappresaglia né l’avrebbero impedita. Da scozzese, sapeva cos’era una guerra tra clan. Ciascuno doveva sbrigarsela come meglio credeva. Henry Hough si alzò e disse che lui e gli altri Volontari avrebbero seguito Joseph Brant, qualunque decisione avesse preso. Tutti guardarono Joseph, si aspettavano che parlasse, ma non lo fece. Con un cenno comunicò distacco, attesa, ascolto. Guardò per un momento Butler. L’uomo di Fort Niagara non ricambiò l’occhiata. Nessun altro bianco parlò. A nome dei Seneca, prese la parola Sayengaraghta. Parlò con solennità. Disse che i suoi guerrieri erano arrivati a Oriskany soltanto per vedere, ma nell’infuriare dello scontro si erano dovuti unire ai fratelli Mohawk. Disse che tanto sangue di coraggiosi era stato versato, che l’onore guerriero dei Mohawk e dei loro amici aveva impressionato i Seneca. Aggiunse che il ricordo di una battaglia così bella non poteva essere sporcato da tentennamenti soltanto un giorno dopo. Una delle nazioni della Lega si era comportata in modo spregevole. I fratelli minori avevano alzato i tomahawk e acceso le polveri contro i maggiori. Seneca e Mohawk erano i guardiani delle porte della Lunga Casa. Insieme, avrebbero compiuto il loro dovere e punito i traditori, indegni di rimanere sotto quel tetto. Il villaggio oneida andava razziato, per il bene delle Sei Nazioni. Joseph ascoltava, soppesava, rifletteva. Vide il Gran Diavolo alzarsi, guadagnare la prima fila e appoggiare al centro del cerchio la mazza che aveva ucciso Shononses. – I traditori sono morti sul campo. La vendetta è già compiuta. Il silenzio rimase inviolato. Philip non aggiunse altro, tornò a sedersi in disparte e caricò la pipa. Domande stupite scivolarono da una testa all’altra, senza bisogno di risposte. Le braccia di Oronhyateka caddero lungo i fianchi, negli occhi l’espressione incredula di chi ha ricevuto una coltellata invece di un abbraccio. I Seneca sembravano divisi tra ripulsa e rispetto. Joseph guardò l’amico e pensò che al suo posto avrebbe fatto lo stesso. Nessun guerriero della Lunga Casa aveva mai versato il sangue di un sachem. Se c’era un uomo che aveva chiuso in battaglia i suoi conti con gli Oneida, si chiamava Philip Lacroix. Gli equilibri tra le Sei Nazioni erano una questione da capo. Una questione per Joseph Brant, l’indiano del Dipartimento che aveva smesso di essere un semplice interprete. Non doveva più riportare, adattare, abbellire le parole di altri. Le parole più attese erano le sue. Se non avesse appoggiato la vendetta, avrebbe ferito l’orgoglio dei guerrieri e scontentato i Seneca. Tutto avrebbe preso a sfaldarsi. Doveva concedere soddisfazione. Doveva mostrarsi all’altezza del compito che si era addossato. Si alzò e raccolse l’arma di Philip. 22. I primi ad arrivare furono i Royal Green e gli indiani canadesi. Dal bastione del forte, Esther osservò i fanti in divisa verde sfilarle davanti, bramosi di una branda e di un focolare. Alcuni avevano un braccio al collo o la testa bendata. Altri erano trasportati su lettighe di fortuna. In testa cavalcava Sir John, su un frisone nero. Il gentiluomo le indirizzò un’occhiata sfuggente, sul volto la stanchezza della marcia, la giubba polverosa. Zio Daniel seguiva a breve distanza, sul margine della colonna, anch’egli a cavallo. Zia Nancy lo attese all’ingresso e scambiarono un rapido abbraccio. Quella notte, Esther li sentì parlare fitto. Zio Daniel raccontava di una battaglia furiosa, oltre il lago Oneida. Erano morti quasi duecento uomini per parte, molti altri erano rimasti feriti. I ribelli assediati a Fort Stanwix ne avevano approfittato per compiere una sortita contro l’accampamento britannico, razziarlo e fare prigionieri. Come se non bastasse, si era sparsa voce che un secondo contingente ribelle era in arrivo di rincalzo agli assediati. Questo aveva scoraggiato gli indiani, che avevano deciso di tornare indietro. St. Leger aveva tolto l’assedio per riorganizzare le forze. Il pomeriggio del giorno seguente arrivarono i regolari. Una fila ordinata e scarlatta sbucò dalla pista lungo il fiume, coppie di muli trascinavano cannoni e vettovaglie. Il colonnello St. Leger non guardò nessuno degli astanti usciti sulla spianata ad accoglierlo. Filò dritto sulla piazza d’armi e poi agli alloggiamenti degli ufficiali, seguito da Claus e Sir John. Esther scese dai bastioni con gli occhi che bruciavano per aver scrutato l’orizzonte tutto il giorno. Dimenticò di dire le preghiere e lasciò volare il pensiero verso l’entroterra, in quella landa di acqua e foresta che restituiva gli uomini un po’ alla volta, mai tutti insieme, di rado tutti interi. Si sforzò di sognare, ma ottenne soltanto un sonno breve e agitato. Due giorni dopo arrivarono i volontari di Joseph Brant. La loro marcia silenziosa attraversò il tramonto. Il cavaliere che li guidava montava una giumenta grigia. Quando passò sotto la sua postazione, Esther lo riconobbe, la giubba rossa con i gradi di capitano, la bandiera del regno che pendeva sotto la sella, il cranio calvo con il ciuffo lungo e pennuto. Impressionante e massiccio, era come se il mastice avesse fissato i tratti di Joseph Brant in una maschera. Lo seguiva John Butler, tetro e spettrale. Suo figlio non c’era. Quella sera Esther avrebbe saputo che Walter si era lanciato in un’impresa folle. Scendere lungo il Mohawk con pochi uomini, a caccia di ostaggi da scambiare con la madre e i fratelli, ancora prigionieri ad Albany. Molti volontari bianchi vestivano alla maniera indiana, portavano colori di guerra sul viso e scalpi alla cintura. Puzzavano di bestie selvatiche e carne putrida. Erano predatori stanchi. Uno di loro portava sotto il braccio un sacco sanguinolento, assediato dagli insetti. Esther non volle immaginare cosa potesse contenere. L’aria fresca della sera s’insinuò tra le pieghe della veste. La ragazza tremò. Era l’ultimo giorno di agosto, presto l’autunno avrebbe lambito il lago. Le sponde si sarebbero tinte di giallo e arancione, in attesa che il vento del Nord spazzasse il terreno per prepararlo alla prima neve. Esther pensò ancora alle parole di zio Daniel: quella «ritirata strategica», così l’aveva chiamata, significava che non avrebbero rivisto casa prima dell’anno seguente. Zia Nancy aveva chiesto se avrebbero svernato a Oswego. – No, – aveva risposto zio Daniel. – Torniamo a Montreal con Sir John e i suoi uomini. – E gli indiani? – Vanno a Fort Niagara con Butler. I reduci della spedizione conservavano un segreto. Sul fiume Mohawk doveva essere accaduto qualcosa di terribile. Qualcosa che li aveva cambiati per sempre e si sarebbe ripercosso sui loro destini. Quella notte non chiuse occhio. Sentiva che lui era vivo e che sarebbe arrivato. Una voce della mente suggeriva che poteva essere morto, ma lei non ci credeva. Poco prima dell’alba cadde in un dormiveglia agitato. Sognò il riflesso delle foglie sull’acqua, la prua di una barca che solcava il lago. Si destò di colpo e seppe dove andarlo a cercare. Senza farsi sentire da zia Nancy e dalle serve, sgattaiolò fuori. Avvolta nello scialle, i capelli sotto la grande cuffia bianca, attraversò l’accampamento nel chiarore che precedeva l’alba. Passò tra le tende e le baracche, animate dai primi colpi di tosse e mugugni. Quel giorno, voci a proposito di un fantasma che si aggirava tra i bivacchi avrebbero percorso l’accampamento. Scese al molo rapida e silenziosa. Le navi erano colossi addormentati, le pance lambite dalle onde. Sul pontile scorse due figure fronteggiarsi. Scambiavano parole che non riuscivano a raggiungerla. Quando una delle due si allontanò, Esther si nascose sotto i pilastri di legno e attese che passasse sopra di lei. Sbirciando riconobbe Joseph Brant, la stessa espressione dura di quando era arrivato il giorno prima. Raggiunse lesta il fondo del pontile, dove l’altro uomo stava attrezzando un’imbarcazione leggera. Quando Philip Lacroix si accorse della sua presenza si voltò a guardarla torvo. Esther lanciò un’occhiata in direzione di Joseph Brant che risaliva al forte. Guardò la barca. – Dove state andando? Philip tolse il cappuccio alla vela arrotolata. – Dove andrà la mia gente. A Fort Niagara. – Portatemi con voi, – disse lei senza esitare. Philip smise di ispezionare il fondo in cerca di infiltrazioni e alzò il capo. La fissò, come volesse valutarne la determinazione. – Dovete restare con la vostra famiglia. – Mia madre è morta. Mio padre è a mille miglia da qui. Le mie sorelle sono come estranee. A Londra, ogni volta che pensavo al ritorno, non era per nessuno che fosse ancora vivo. Eccetto voi. Philip sembrò non volerla più ascoltare, risalì sul pontile, slegò la fune che teneva attraccata la barca e prese ad arrotolarla. – Vi prego, vogliono riportarmi a Montreal, – aggiunse lei. – In Canada sarete al sicuro. – Anche a Londra lo ero, ma ho deciso di tornare. – Forse non dovevate farlo, – disse Philip. – Adesso risalite, prima che qualcuno si metta in allarme. Saltò dentro l’imbarcazione e puntò un remo contro il pilastro del pontile. Esther lo vide guadagnare iarde verso il largo, nel ritmo placido della bassa marea. Guardò giù, poi di nuovo l’orizzonte. Gli occhi raccolsero la luce del giorno nascente, riflettendo il verde del lago. La brezza sollevò i bordi della cuffia che non riusciva a contenere i lunghi capelli biondi. La barca si allontanava. Saltò. Un buio gelido e sordo l’avvolse, mozzò il fiato, compresse i polmoni, contrasse gambe e braccia. Esther riemerse, tentò di nuotare, ma nessuno gliel’aveva mai insegnato. Tornò sotto, l’orizzonte scomparve e riapparve ancora, annaspò, inghiottì acqua. Il peso dei vestiti la portò a fondo, i muscoli rigidi di freddo, la sottana si aprì come un fiore nel lago. Una statua vestita, la polena candida di un relitto. Esther. In un anfratto della mente una voce di donna pronunciò il suo nome. Esther. Aprì gli occhi e riprese a muovere le braccia e a scalciare verso la superficie, si sentì trainare da una forza invisibile. Emerse all’aria, ai suoni, alla luce, in un conato di vomito e vita. Con un singulto tornò a respirare e a tossire. Strinse il mezzo marinaio che le aveva agganciato la veste, mentre una mano l’afferrava e la trascinava sul fondo della barca. Tossì ancora, vomitò acqua. Quando il respiro riprese regolare guardò l’uomo da sotto le ciocche fradice. L’espressione di Philip non tradiva emozioni. Esther vide la sponda allontanarsi: non stavano tornando indietro. Un sollievo profondo le inondò il cuore, mentre i denti iniziavano a battere forte. Lui le lanciò una pelliccia arrotolata. – Togliti i vestiti e avvolgiti con quella. La ragazza rimase bloccata, indecisa se cedere al pudore o alla paura della polmonite. Senza aggiungere niente, Philip svolse la vela e la frappose tra loro, lasciando che la brezza la gonfiasse. L’imbarcazione prese a filare più rapida. Esther si spogliò in fretta e si strinse nella pelliccia calda, lunga fino ai piedi. Scrutò la superficie del lago e vide riflesse le foglie come nel sogno della notte precedente. Navigavano lungo la costa meridionale inseguiti dai raggi del sole. Aironi e strolaghe battevano le sponde a caccia di cibo, alzando il capo per guardarli passare. Accoccolata a prua, la testa che spuntava dal vello scuro, lasciò che il tepore placido le scaldasse il corpo e l’anima. Le orecchie scottavano, le dita dei piedi e delle mani tornavano a muoversi una alla volta. La voce di Philip ruppe il silenzio. – Saresti morta. – Sapevo che non l’avresti permesso, – rispose lei. – Tu pensi di sapere troppe cose. Esther scosse il capo. – Sono qui per ritrovare il mio posto. – Allora dovevi andare a Montreal con i Johnson. La ragazza guardò l’Ovest, oltre la prua. – Sono la nipote di Sir William. Vado dove sarebbe andato lui. Il giorno seguente attraccarono presso un insediamento di pescatori cayuga. Philip scambiò con loro poche chiacchiere, volevano sapere della battaglia di Oriskany e di Fort Stanwix. Uno di loro domandò del Grande Diavolo. Philip disse che a quanto sapeva era caduto sul campo. La notizia li impressionò, rendendoli laconici. Fumarono in onore del guerriero illustre. Philip barattò una scatola di tabacco con un vestito e un paio di mocassini di ottima fattura. La mattina dopo, quando risalì sulla barca, trovò Esther con addosso i nuovi indumenti. Si era anche raccolta i capelli in una treccia e sedeva davanti, brandendo il remo. Philip si soffermò a guardarla, poi saltò a bordo e si mise al timone. 23. Molly incastrò un sasso sotto la porta dell’emporio, affinché il vento non la chiudesse. Estate piena, il sole si allontanava per poche ore, l’alba spezzava le notti prima che il buio si infittisse e pesasse sulle spalle. Alle sei di mattina, il disco dorato e brillante, dai nitidi contorni, fluttuava un palmo sopra la foresta scossa dal vento. Era un fuoco ancora pallido, gli occhi potevano affrontarlo senza provare dolore. Un’ora dopo, la luce avrebbe ferito ogni sguardo. Molly alzò le braccia sulla testa e respirò. A Canajoharie iniziava un’altra giornata. Durante la notte aveva sentito spari, lontani. Subito oltre l’orizzonte, bagliori, forse incendi, una scorribanda oneida. Vendetta nutriva vendetta, il fratello aggrediva il fratello, le fattorie andavano in fiamme. Non c’era «marchio» per un simile contagio, nessuna inoculazione poteva difendere corpi e anime. Forse la febbre doveva sfogarsi fino in fondo, scottare la carne, accendere visioni. Dopo, sarebbe stato necessario un concilio, da tenersi al centro della Lunga Casa. Presto avrebbe mandato un messaggio ai sachem degli Onondaga, custodi del fuoco sacro. Stava per rientrare, ma colse un movimento e si girò. Li vide in fondo al sentiero. Cinque, uno dietro l’altro, ancora distanti. Forse miliziani. Da tempo i whig non mettevano piede al villaggio. Nessuno aveva subito molestie, Herkimer era stato leale. Ma Herkimer era morto dopo la battaglia di Oriskany. Morto senza una gamba, col sangue trasformatosi in marciume. Chissà dov’era adesso. Chissà se aveva già incontrato William. Venivano per lei, ne era sicura. Per dirle qualcosa, o farle qualcosa. Gli uomini erano tutti lontani, non poteva chiamarli. Non con la voce. Sospirò e decise di attendere sulla soglia, a braccia conserte. A volo di freccia, oltre duecento miglia separavano Johannes Tekarihoga dal suo villaggio. Dopo il concilio di Oswego, il sachem – troppo vecchio per combattere a Fort Stanwix, troppo provato dal duro viaggio per tornare subito a Canajoharie – aveva raggiunto Fort Niagara. Saggia decisione. Al suo arrivo, lo aveva accolto a braccia aperte il parente più caro, l’amico più indulgente, il fratello più premuroso: il rum. Nella stanza all’interno del forte, stordito e coricato su una branda, l’anziano Mohawk guardava il soffitto scuro e si godeva il silenzio del primo mattino. L’età e il liquore confinavano il sonno a un pugno di ore inquiete, le nottate estive erano sature di chiacchiere e canzoni, nuvole di suoni e rumori aleggiavano sui bivacchi, miscelandosi al fumo dei falò. Dalle finestre aperte, riverberi di parole e latrati di cani entravano cavalcando i quieti refoli di vento. Verso l’alba tutto si quietava, in attesa del cambio della guardia: i rumori della notte lasciavano il posto a quelli del giorno. Toc! Toc! Toc! Tekarihoga si girò verso la finestra. Un picchio, penne nere e cresta rossa, batteva col becco sullo stipite di legno. Toc! Toc! Toc! Si alzò dalla branda. Le giunture del corpo cigolarono, in fondo alla schiena un fascio di muscoli ululò. La testa era pesante, la lingua rimestò una bocca che sembrava zeppa di sterco. Toc! Toc! Toc! Tekarihoga si avvicinò all’uccello. – Sei venuta per me. Il picchio alzò il becco, girò la testa di qua e di là, si spostò dallo stipite, batté le ali ma non spiccò il volo. – Sei venuta da questo povero vecchio, sapevi dove trovarlo. Sapevi che non ha niente da fare, e avrebbe ascoltato. Il picchio tornò a usare il becco come un martello. Toc! Toc! Toc! Un gruppetto di irregolari. C’era anche un Delaware con uno strano berretto di pelliccia pezzata. Non certo un copricapo estivo. Il primo della fila era Jonas Klug. Era stato cacciato dalla milizia, ed era stato Herkimer in persona a farlo, ma si dava ancora arie da patriota. Giunto di fronte a lei, il tedesco parlò. La voce era una sega che grattava il marmo. – Sei soddisfatta ora, strega indiana? Molly non disse niente. – Lo sappiamo, puttana rossa, sei stata tu a informare tuo fratello, quel porco, quello che due anni fa mi fece aggredire in casa mia. A Oriskany sono morti tanti bravi patrioti. Prega il tuo dio selvaggio che non ci venga la voglia di ammazzarti qui come una cagna, davanti al tuo bell’emporio! – Perché non lo fate? – domandò Molly. Klug aggrottò la fronte. Le labbra della donna non si erano mosse. La voce era giunta da un’altra direzione. Da dietro. No, da sopra. Gli uomini, stupiti, si guardarono intorno, alcuni alzarono in fretta il fucile, pronti a puntarlo verso nuovi arrivati, ma non c’era nessuno. Il mormorio preoccupato fu interrotto da Klug: – Silenzio! – poi affrontò la donna: – Pensi di spaventarmi coi tuoi trucchi? Non so come lo fai, ma ti garantisco che… – Andate via. Stavolta non c’era dubbio: la voce era venuta da dietro, ed era quella di un uomo. Klug dovette girarsi. Il vecchio capo ubriacone. Tekarihoga. Ma non era partito con gli altri? Gambe larghe, braccia abbandonate lungo i fianchi. Pareva sobrio. Klug lo ricordava più basso e curvo. Gli puntarono addosso i fucili, ma il vecchio li ignorò. Fissava Klug dritto negli occhi. Il tedesco tornò a rivolgersi a Molly Brant: – Faresti meglio a dire al nonno che… La vedova di William Johnson aveva gli occhi rossi di collera e le labbra tese, sbiancate. Tremava. Klug seguì lo sguardo: il bersaglio del suo odio era il Delaware. Che diavolo stava succedendo? La donna mohawk guardava il cappello. Guardava le mani. Guardava il sacchetto per il tabacco appeso in cintura. L’indiano si sentiva attraversato, letto riga dopo riga. Come un libro. Come una lettera intercettata. La donna era dentro la sua testa. – Quel cappello era un cane. Il Delaware sgranò gli occhi, aprì la bocca, vacillò. – Si può sapere che succede? – strillava Klug. – Quel sacchetto era un uomo del Popolo della Selce. Il Delaware si girò verso Nathaniel Gordon, il suo capo, come per cercare aiuto. Gordon lo ignorò, gli occhi fissi sul sacchetto di pelle, il mento tagliato in due da un filo di bava. – Si chiamava Samuel Waterbridge. Le tue mani hanno tagliato la sua pelle, lembo dopo lembo. Gordon urlò. Fu l’ultima cosa che il Delaware udì prima di svenire. I tagliagole si scambiavano occhiate intimorite. Stavano abbassando le armi. – Che state facendo? Vi siete rimbecilliti? – gridò Klug, poi si rivolse a Nathaniel Gordon e al resto della sua banda. – Vogliamo farci fermare da un vecchiaccio e da una ciarlatana? Lasciate dormire il vostro indiano ammaestrato, entriamo in questa latrina e sfasciamo tutto. Che i selvaggi sappiano cosa succede a chi fa la spia! Nessuno rispose, nessuno si mosse. Molly Brant allungò un braccio e con il dito indicò un campo, una spianata al limitare del villaggio. – Jonas Klug, la tua testa rotolerà su quell’erba. Il tedesco deglutì. Un grosso bolo di saliva e polvere sforzò le pareti della gola. – Ora vattene. Non tornare più a Canajoharie. Quanto a voi, – e indicò Nathaniel Gordon, – anche voi morirete. Proverete tutto il dolore di questa terra. La vostra agonia non lascerà spazio a un solo istante di dignità. Klug fece un passo in avanti, stava per alzare il pugno ma qualcuno afferrò il polso. Il vecchio. La sua stretta era forte. – Andate via, – ripeté. La voce veniva da lontano. Klug si trattenne a stento dal vuotare le viscere. Molly era esausta, sfibrata. Non aveva mai fatto nulla di simile. Si accasciò sulla sua poltrona preferita. Al forte, Tekarihoga si accasciò sulla branda. Il picchio era volato via. – Io ti ringrazio, donna, – disse. – Che il Padrone della Vita ti protegga sempre. Prima che il sorriso finisse di inarcare le labbra, il vecchio sachem si era già addormentato. Canajoharie non era più un luogo sicuro. Sarebbero tornati in forze: gli irregolari, gli Oneida, tutti quanti, insieme o separati. La fermezza di un sachem e una reputazione da strega non erano una difesa sufficiente. Sarebbe partita, portandosi dietro chi era disposto a seguirla. Donne e bambini. Sarebbero partiti a piedi, lungo i sentieri nascosti nel bosco, perché il fiume era ormai pericoloso. Dovevano raggiungere Onondaga. Là, Molly avrebbe parlato ai sachem, avrebbe raccontato tutto. Avrebbe lasciato al sicuro donne e bambini, e proseguito il viaggio. Raggiungere Fort Niagara. Con l’aiuto di William ce l’avrebbe fatta. Attesero la fine del tramonto nell’emporio, poi partirono. Molly e Betsy condussero fuori dal villaggio una quindicina di donne tra cui Juba e altre due schiave, tre uomini anziani che potevano camminare e dieci bambini, i più grandi per mano e i più piccoli sulla schiena, addormentati o svegli. A parte gli otri di pelle pieni d’acqua e i sacchi di frutta e carne secca, lasciavano a Canajoharie tutto quel che possedevano, per poter camminare nei boschi senza intralcio, scostare rami con entrambe le braccia, evitare buche, scavalcare radici. Subito prima di entrare nella macchia, Betsy chiamò la madre. Molly si volse. Erano sulla collina, si vedeva l’intero villaggio. – Madre… – Sì, Betsy? – Guarda. C’è un lume acceso nell’emporio. Era vero. Quando si erano chiuse la porta alle spalle, l’emporio era al buio completo. I whig, o le loro spie, non avevano perso tempo. 24. Marciavano lungo sentieri nascosti tra gli alberi, guidati dalla donna più potente del villaggio. Si fidavano di lei, le loro vite erano nelle sue mani. Leggevano segni dove un bianco non avrebbe visto niente, raccoglievano i frutti del bosco, si fermavano quando i più deboli rimanevano senza fiato. Nelle radure il caldo ingialliva l’erba, ma sotto il tetto di rami l’aria era fresca e i cespugli soffici, del sole restavano solo spruzzi luminosi, terra coperta di lentiggini d’oro. Da quanto tempo camminavano? La sera del terzo giorno avevano incontrato un cacciatore tuscarora. Era sbucato da una fossa nell’erba, aveva salutato il convoglio alzando le braccia, la voce impastata di sonno. Molly lo conosceva, era stato all’emporio diverse volte, a scambiare pelli con altre merci. – Non andare a Onondaga, Degonwadonti. È una città di spettri. – Cos’è accaduto? – Il vaiolo è passato di corpo in corpo, rapido come una freccia. Strade e case sono piene di morti, mosche e formiche li ricoprono. Gli altri sono andati a ovest. Un mormorio di sgomento attraversò il popolo di Canajoharie. – Che ne è del fuoco sacro? – domandò Molly. – Spento, – rispose il cacciatore. – I guardiani sono morti. Non andare a Onondaga, Molly Brant. Prosegui sulla tua via. Onondaga abbandonata. Il fuoco sacro estinto dopo cinquemila lune. Un crepaccio largo e profondo ingoiava la storia delle Sei Nazioni. – Come sai tutto questo? Sei stato là? – chiese qualcuno. – No, ma credo a chi me l’ha raccontato. E anche voi crederete a me. Continuate a camminare verso ovest, e già all’alba sentirete il puzzo della morte. Non fermatevi. Il cacciatore aveva ragione. Quando il cielo tra i rami si fece più chiaro, il lezzo dolciastro li aggredì all’improvviso. Fu come un agguato: dove gli alberi diradavano, una brezza pestifera fendette la foresta, portando a nasi e bocche notizie di corpi gonfi, esalazioni, vermi che succhiavano carne marcia. La milizia strisciante di Vaiolo. Non si avvicinarono alla città. Poiché non volevano dormire accanto allo scempio, marciarono finché il sole non fu alto. Il sonno calò ma li prese a fatica, dopo molti assalti scomposti. Molly vegliò. La marcia doveva proseguire fino a Fort Niagara, con donne, vecchi e bambini, alcuni piccolissimi. Chiese a Warraghiyagey di darle la forza, e di mandarle un segno. Nel pomeriggio, sul sentiero che avevano appena percorso, sentì passi e spezzarsi di rami. Afferrò un fucile e scattò in piedi. Dal bosco uscirono una donna e due bambine. Erano Oneida. Videro Molly e trasalirono. La donna si chinò e fece scudo alle bimbe col proprio corpo. – Non sparare! Noi ti conosciamo, tu sei Molly Brant di Canajoharie. Stiamo andando a Canandaigua, dai nostri parenti Seneca. Abbiamo paura della guerra. Non abbiamo niente contro i Mohawk, tu sei nostra sorella maggiore. Molly abbassò l’arma. Aveva chiesto un segno e forse l’aveva avuto. – Andiamo a Fort Niagara. Potete viaggiare con noi. La donna si chiamava Aleydis, le sue figlie Myrte e Marjolin. Aleydis aveva appreso della fine di Onondaga da un missionario evangelico, poco dopo aver lasciato Canowaroghare. A sentire lui, il fuoco sacro non si era estinto per via dell’epidemia. I custodi avevano deciso di spegnerlo finché Mohawk e Oneida non avessero smesso di uccidersi tra loro. Molly aveva molti dubbi su quella versione dei fatti, ma la prese come parte del segno inviato da William: le Sei Nazioni dovevano proseguire insieme. Ripartirono al tramonto. Molly guidò il convoglio verso Fort Niagara, verso Thayendanega, lasciando la morte alle spalle. 25. Mezzo miglio prima del forte, serpenti di fumo guizzavano al vento, sotto un cielo di nubi. Le baracche di corteccia spuntavano da una spianata, tra stecchi di vimini incrostati di fango. Visto dalla strada poteva essere un villaggio seneca, non molto diverso dai tanti che Molly aveva attraversato fin lì. Bisognava avvicinarsi e distinguere i volti per capire cosa fosse davvero. Volti esausti e laceri, spalle curve, gesti frettolosi, occhi spalancati per nascondere la stanchezza. Un drappello di corvi si aggirava tra i fuochi, mentre bambini sudici e impauriti stringevano al petto la loro pannocchia. Tre anni prima, in un’altra terra, avrebbero messo i chicchi sul palmo, per invitare gli uccelli a beccare dalle mani. I cuccioli di cane non giocavano a rotolarsi con quelli dell’uomo, ma seguivano il branco nervosi, a caccia di rifiuti. Vanghe e zappe arrugginivano, dimenticate sul retro delle capanne. Ovunque brandelli di casse sfasciate, pentole sparse attorno ai falò, botti e barili, grovigli di corda, tronchi marci, mucchi di segatura bagnata, pozzanghere larghe quanto uno stagno. Un accampamento di profughi, dove anche lo spirito degli uomini diventava provvisorio. Grida di benvenuto si alzarono dai bivacchi, più alte dei latrati e dei tuoni sordi che echeggiavano sul lago. Lacrime e sorrisi avevano il sapore di un ritorno a casa, come se Canajoharie stesse rinascendo, quattrocento miglia più a ovest. Come se il fiume, i campi di mais, i pini sulle colline, le tombe degli antenati, fossero un arto che si può tagliare dal corpo della nazione senza farla morire. Lo sguardo scivolava da una famiglia all’altra, per ricostruire storie, lutti, nascite e matrimoni. Molly si ricordava di tutti loro, quand’erano partiti e cos’avevano lasciato, eccetto una ragazza giovane, di aspetto curato, che osservava immobile dalla porta di una baracca. Era bianca, certo l’unica dell’intero accampamento, e i grandi occhi chiari avevano un’espressione familiare. Sul polso destro, la ragazza indossava un bracciale. Troppo distante per vedere il disegno, ma Molly non ne ebbe bisogno. Altri sensi le diedero la risposta. Il wampum d’adozione di Philip Lacroix. Molly si accorse che le voci si erano zittite. Gli occhi delle donne mohawk erano freddi, trasudavano minacce. Una di loro sputò per terra. – Degonwadonti, vedo che ci porti in dono mogli e figlie di traditori –. La donna si piazzò a gambe larghe di fronte alle Oneida. – È da troppo tempo che non mangio carne. Due giovani cuori andranno bene. Aleydis sostenne il suo sguardo, il corpo tremava. La risata di Molly spazzò il campo come vento d’autunno. – Ora ci sono io, le razioni saranno adeguate. Quale famiglia di Canajoharie non ha parenti Oneida? Per me, la Legge è ancora valida, queste sono mie sorelle. Divideranno i giorni amari che attraversiamo, e quando la nostra gente vincerà, faranno festa con noi. Questo è ciò che ho da dire. Molly si guardò intorno. Un sorriso terrifico piegava le labbra, negli occhi c’era tempesta. Ci furono mormorii d’approvazione. La donna affamata fece un cenno con la mano, voltò le spalle e se ne andò. L’attenzione della folla si spostò su un carro che saliva dal lago. Dal coro di voci confuse emersero frasi, donne che si auguravano un carico di provviste e vestiti, uomini che pregustavano il rum. Il carro giunse alle prime baracche. Sotto la tela cerata, si intuivano casse e barili ammassati senza cura. I bambini si fecero largo tra le gambe degli adulti, subito inseguiti dai cani. Molly riconobbe John Butler, seduto a cassetta, molto più vecchio di come lo ricordava. Al suo fianco un ufficiale inglese, tricorno nero in bilico sulla testa. Avanzarono fin dove i corpi lo permettevano, poi Butler tirò le redini, si alzò in piedi e parlò con voce stanca. – Ascoltate. Il colonnello Bolton e io veniamo a porgere il nostro saluto a Molly Brant, in nome del Dipartimento indiano e della guarnigione di Fort Niagara. Il suo arrivo è un evento prezioso, molto gradito a noi tutti, ed è nostro desiderio che lo si festeggi come si deve. Il Grande Padre Inglese ha messo a vostra disposizione un carico più ricco del solito. Troverete salsicce, salmone affumicato, gallette di grano e rum –. Butler zittì gli entusiasmi, si schiarì la gola e riprese. – Mi è giunta notizia che l’ultimo carico ha suscitato grande scompiglio, con episodi vergognosi che non vi fanno onore. Per questo, voglio che restino qui soltanto cinque uomini, a svuotare il carro, e che tutti gli altri se ne tornino ai loro affari fino a quando non ci saremo allontanati. In un biascicare di proteste, la gente di Canajoharie abbandonò lo spiazzo, mentre cinque giovani robusti scioglievano le funi del carico. Molly pensò che mai, prima di allora, aveva visto la sua gente tanto schiava dell’elemosina dei bianchi. John Butler saltò a terra, insieme all’ufficiale inglese. – È davvero un sollievo avervi qui, – esordì. – La vostra gente è sbandata, c’è bisogno di ordine. – Anch’io sono contenta di vedervi. Avete notizie di vostra moglie e dei bambini? Il capitano scosse il capo. – No, purtroppo. E c’è di peggio. I whig hanno catturato anche Walter. Tutta la mia famiglia è in catene. – Questo mi addolora. La guerra ci allontana dai nostri cari. Da due anni non vedo mio figlio e mio fratello. – Joseph è qui al forte. Abbiamo stanze e provviste anche per voi. La pancia scura delle nubi incombeva sulle capanne, donne e bambini fissavano la montagna di casse sorta al centro del campo. La voce di Ann chiamò mamma, impaurita dal tuono. – Vi ringrazio, – disse Molly. – Accetto la vostra ospitalità. – Siete la benvenuta, – si affrettò a rispondere il colonnello Bolton, poi si voltò, vide che gli scaricatori avevano terminato il lavoro e fece segno di andare. Le prime gocce bagnavano la terra. Molly si voltò a cercare la ragazza, ma la porta della baracca era chiusa. 26. Per oltre due anni Joseph era stato un foglio di carta, una grafia tozza, presenza da rintracciare nei sogni. Due anni di parole senza voce, incontri senza corpo, domande ancora senza risposta. Ora la voce si era fatta più secca, come asciugata da un’arsura. Il volto sembrava lo stesso, solo le tempie erano appena imbiancate. Nuove domande mettevano in ombra il passato. La stanza era modesta. Una branda, due sgabelli, un tavolo robusto, una finestra stretta. Joseph indossava giacca e pantaloni di lana, il collo della camicia chiuso da un fazzoletto nero. Sciolto l’abbraccio, chiese subito notizie di Canajoharie. Molly sedette sullo sgabello e massaggiò le gambe indolenzite. – Da quando Herkimer è morto nessuno tiene a bada i ribelli, – rispose. – Rimanere era troppo pericoloso. Joseph s’incupì. Estrasse la pipa e la tenne tra le mani senza caricarla. – Come va la guerra? – chiese Molly. – Non bene. Il generale Burgoyne è stato sconfitto a Saratoga. L’offensiva dal Canada è fallita. Siamo costretti a svernare qui, mentre il fronte si sposta a sud. Seguì un silenzio fitto di pensieri. I rumori del campo rimanevano lontani. Fu Molly a parlare di nuovo. – Il Fuoco Sacro si è spento. Il fratello trattenne un moto di rabbia. – La Lunga Casa cade a pezzi, – disse. – Gli Oneida stanno con i ribelli e i Tuscarora si lasciano tentare. Dio li maledica. – Anche tua moglie e i tuoi figli sono Oneida. Li farai venire qui? – Sono già in viaggio. Joseph raggiunse la piccola finestra per guardare fuori. – Soltanto la paura può ricacciare indietro i coloni, – proseguì. – Se vogliamo riprenderci la valle dobbiamo isolarli, lasciarli senza cibo né aria. Molly intuì l’urgenza che aleggiava sulle parole. Rivide il sangue che inondava il bosco. La frontiera sarebbe diventata un campo di battaglia. Se questo era ciò che li attendeva, dovevano prepararsi a tempi ancora più duri. – Strani segni costellano i giorni, non è facile interpretarli. Perché Esther Johnson è qui? – È arrivata insieme a Philip, – rispose Joseph. – Vive nascosta all’accampamento, non vuole che i bianchi la rispediscano a Montreal. – Lui dov’è? Joseph indicò l’esterno: – Sempre nei boschi, a cacciare. I Seneca hanno concesso i loro territori a patto che sia lui a guidare le battute. Raccontano strane storie sul suo conto. Dicono che la notte non dorme e al mattino torna al bivacco con prede enormi –. Tornò a sedersi e a guardare la sorella. – Qualcosa è cambiato in lui. È stato dopo Oriskany, dopo che ha ucciso Shononses. – Ho saputo. Ronaterihonte ha molti spettri al suo fianco. Joseph le sfiorò la spalla. – Anche i tuoi occhi sono cambiati. C’è qualcosa che mia sorella non mi ha detto. Molly assunse un’espressione dura. – Io e i miei figli abbiamo subito ingiurie e minacce. – Chi è stato? – Jonas Klug. Joseph serrò la mandibola. Molly chiuse gli occhi e lasciò che l’odio sgorgasse dal cuore. – Ho sognato di prendere a calci la sua testa. Ho sognato che tu me la portavi in regalo. Vide i muscoli del fratello contrarsi. – Verrà il giorno. 27. – Suonate per noi, signore. Quella giga irlandese, oppure qualsiasi altra cosa, purché si possa danzare. Il sergente Bunyan aveva la faccia smunta, affaticata. La voce era appena impastata dall’alcol. Il vecchio soldato reggeva marce forzate, cibo inadeguato, liquore scadente: quella tempra accettava ogni prova, purché non lo si privasse della musica o della paga. Il colonnello Percey aveva fatto distribuire il rum. I ribelli, in testa quel loro George Washington, si ritiravano verso Philadelphia, l’esercito di Sua Maestà incalzava. L’alcol ottundeva, smussava, stendeva una coperta sui corpi troppo stanchi, faceva cantare e ballare, ridere e piangere. Peter non aveva alcuna voglia di suonare. Posò la tazza piena di liquido giallastro. Conteneva un ordine implicito: siate felici. – Vada per An Faire, signor Bunyan –. Peter tracannò l’ultimo sorso e proseguì. – Lasciate che vi dica una cosa, signor Bunyan: se avete davvero voglia di ballare, siete un uomo di ferro. Bunyan ricevette le parole del portabandiera come un complimento. La bocca si atteggiò in un sorriso virginale che sembrava fuori posto su un volto rude e già avanti con gli anni. Dopo una breve esitazione, Peter aprì la custodia. Il legno mandava un buon odore, le setole dell’archetto sapevano di pece. Sembrava tutto in ordine: prese lo strumento e lo soppesò, come a valutarne la consistenza. Lo imbracciò, l’archetto passò sulle corde già consunte. Lo strumento era stonato. Peter non si prese la briga di accordarlo. Non suonava più volentieri. Il motivo della disaffezione non era la spossatezza, e nemmeno un cattivo umore passeggero. Giorni prima aveva captato una conversazione tra due guide, un Munsee e un indiano del Sud. Il Munsee diceva che il fuoco della Confederazione irochese era spento: Oneida, Mohawk e Seneca avevano sparso sangue di fratelli e cugini. Peter si era sentito gelare. Il pensiero era corso alla madre, allo zio Joseph, ai giorni di Canajoharie lontani quanto Londra, quanto la Cina o la Luna. Il mondo che aveva conosciuto si liquefaceva sotto i suoi occhi, neve al sole d’aprile. Uomini e volti viventi divenivano dolorosi ricordi. Peter sentì vibrare le note. I soldati accennarono passi di danza. Suonò come un automa, le dita trovarono gli accordi per virtù meccanica. La marcia era lenta, malinconica. Impossibile danzare. Dopo un buon minuto, Peter ebbe un sussulto. Si accorse dell’imbarazzo degli uomini. – Perdonatemi, signore. Non vi sembra troppo lenta come giga? Il giovane fece un cenno col capo. – Avete ragione, signor Bunyan. Non mi sento affatto bene, ho bevuto troppo. Vogliate scusarmi. Peter ripose il violino nella custodia, si accomiatò e sparì nella tenda, seguito da un brusio di delusione. Il lume ardeva lento, mandava ombre guizzanti. Steso sulla branda, Peter fissava un punto in alto, sopra la testa, oltre la stoffa incerata che copriva il corpo e i possessi terreni. Guardò la custodia del violino. Un tempo aprirla era stato dischiudere uno scrigno, all’interno un tesoro di immagini e ricordi. Ora provava riluttanza nel compiere quel gesto. A casa, lontano mille miglia, forse solo il fiume e gli alberi erano ancora al proprio posto. Sentì un brivido scuotere le membra: le immagini si mutavano in fantasmi, i ricordi trascoloravano in memorie. Giorno dopo giorno il corso degli eventi lo allontanava da se stesso. Si sentì un fungo nato dalla terra, schiuma sulla corrente. L’incertezza premeva sul petto come un macigno. Quale sorte aveva incontrato la sua gente? Voci interiori tessevano trame di pensieri, ma da quella cacofonia emergevano solo dubbi, presentimenti allarmati, fosche premonizioni. Era la stanchezza, decise, a impedirgli di cogliere il senso di quell’agitazione. Pregò che il sonno giungesse presto. Due ore più tardi era ancora sveglio, la testa percorsa dalle stesse ombre che il lume disegnava sulla stoffa, le gambe pesanti. Prese in mano la Bibbia, la sfogliò distratto. Lesse un passo a proposito degli uccelli, che non devono pensare a lavorare perché il Signore provvede per loro, e infatti non lo fanno, vivono, volano e basta. Dio provvede a tutte le creature. Uomini, gigli di campo, uccelli. Gli uomini però devono lavorare, e combattere, le donne soffrire per il parto. Gigli e uccelli non peccarono, in origine. Sua madre diceva che gli uccelli non sono animali come gli altri. Sono angeli che portano gli spiriti degli uomini. Peter immaginò un uccello che spiegava le ali su di lui, diventava sempre più grande. Le ali coprivano il sole, estese da un capo all’altro dell’oceano. L’uccello era un’ombra, nera come la notte, silenziosa e insondabile. 28. Quella notte, prima di andare a dormire, Molly pregò. Pregò i venti che soffiassero dolci. Pregò il sole che i suoi raggi illuminassero la loro vittoria. Pregò lo spirito di Hendrick che portasse saggezza alle sue decisioni. Pregò nonna Luna e il Padrone della Vita che non si spargesse troppo sangue. Che permettessero di tornare alle case, di pensare al futuro dei loro figli. Molly pregò William. Che guidasse i suoi occhi e i suoi sensi, che controllasse le passioni, la rabbia, l’orgoglio. Molly chiese aiuto, poi si addormentò. La chiesa è gremita. Occhi e teste sfiorano il soffitto, come sacchi di mais ammucchiati per l’inverno. Proprietari irlandesi, fittavoli scozzesi, guerrieri Mohawk. Orsi e lupi accovacciati sul pavimento di terra. Enormi tartarughe reggono l’altare sul dorso. Il pastore, in piedi sul pulpito, sfoglia il libro delle preghiere. Peter si alza in piedi. Imbraccia il violino: la vecchia marcia irlandese che suo padre faceva intonare alle cornamuse prima di dare battaglia. Due sachem in guanti neri e mantello da lutto si avvicinano alla bara per calarla sotto l’altare, ma la fossa non è ancora scavata. I fedeli si fanno avanti, uno per volta. Raccolgono una vanga e provano ad affondarla. Invano. La terra è più dura del ferro. Il manico del badile si spezza. Joseph impugna il tomahawk per usarlo come piccone. Ronaterihonte lo affianca, il volto in ombra. Scava con le unghie finché le dita non buttano sangue. Oltre il muro di schiene, la bara è ancora aperta, ma invece del corpo si vede soltanto un lembo d’azzurro. La chiesa scompare. Al suo posto, una foresta d’aceri in autunno. Seduto su un masso, Sir William benedice con un sorriso gli sforzi di Joseph e Philip. Ha un sonaglio di tartaruga e il volto dipinto. Mi avvicino, siedo sulle sue ginocchia, gli accarezzo le labbra. – Chi c’è nella bara, William? Lui risponde, ma è una lingua sconosciuta. Un vento di tramontana porta via le parole. Sul fiume appare una canoa. A bordo, una ragazza. William sale e mi porge la mano. – Accompagnami nel Giardino, amore mio, al centro dell’Acqua. Joseph e Philip caricano la bara, la canoa risale la corrente. Stringo la mano della ragazza. Al polso porta un bracciale d’adozione. Gli occhi hanno il colore del fiume. È Esther Johnson. 29. – La guerra non è davvero guerra finché il fratello non ammazza il fratello. È un detto francese, ma non so pronunciarlo bene quanto voi, signor Dalton. Quindi lo riporto nella nostra lingua, o meglio, nella lingua del regno per il quale dovremo combattere, uccidere e morire. Il colonnello Abercromby fece una pausa a effetto. – Ma noi non abbiamo fratelli dall’altra parte, vero? Magari qualche lontano parente. E comunque, anche se li avessimo, a quest’ora li avremmo già disconosciuti –. Passò il cannocchiale all’aiutante di campo e carezzò il collo del purosangue che montava. – Pare che per una volta gli yankee intendano tenere la posizione e resistere. Sono ben disposti, non c’è che dire, Sullivan sa il fatto suo. Un’artiglieria decente, qualche divisa francese ed eccoli mutati in armata. – Siamo appena fuori tiro, signore, – disse l’attendente. – Gli uomini sono in riga. – Molto bene –. Abercromby concesse un’altra carezza all’animale. – Non resta che attendere l’ordine di Howe, allora. Le nubi si erano addensate fin dalla mattina, gonfie di pioggia, ma il tempo reggeva, come per un maligno miracolo. Peter aveva dormito e mangiato male. Quella mattina, insieme al grosso dell’armata, aveva guadato il Brandywine a nord, compiendo un’ampia manovra per aggirare le truppe di Washington e attaccarle sul fianco. Nel frattempo i reparti di mercenari assiani simulavano un attacco sul guado più a sud, per distrarre i ribelli. Reduce da quella lunghissima marcia d’avvicinamento, il corpo giovane e rapido si era mutato in un peso, come la divisa, come l’asta della bandiera. Peter sentiva le braccia dolere. L’asta sembrava di piombo mentre il vento gonfiava e agitava il vessillo del Regno, vela esposta alla violenza degli elementi. Toccava a lui offrire il riferimento visivo al primo contingente di fanteria leggera che si apprestava ad assaltare la collina. La bandiera non era soltanto un simbolo, era l’ago della bussola, il vettore della disposizione in campo. La voce garrula del colonnello interruppe le considerazioni di Peter. – Tenente Johnson, oggi è il giorno buono per guadagnarvi una seconda medaglia. Portate l’Union Jack sul tetto del municipio di Birmingham e l’otterrete di certo. – Se Dio vorrà, signore. Non chiedo troppo alla buona sorte. Il colonnello gli sfiorò una spalla con la punta del frustino. – La prima l’avete guadagnata nei boschi, combattendo la petite guerre. Ma oggi, signore, oggi combattiamo la vera guerra –. Ridacchiò nervoso. – Con tutte le regole –. Scrutò il cielo. – E state sicuro che non sarà come a White Plains. Non pioverà. L’umore ciarliero di Abercromby tradiva nervosismo. Nessun altro aveva voglia di parlare lungo le file di fanti schierati. La tensione serpeggiava muta. Un rullo di tamburi fece vibrare l’aria. Ripetuto tre volte. L’ordine di avanzata. Gli stendardi dei reggimenti si mossero. Peter si voltò a guardare Osborn Hill. Sulla cima, i generali Howe e Cornwallis puntavano i cannocchiali verso la collina di fronte. I cannoni tuonarono, mentre il suono acuto e penetrante delle cornamuse invadeva la spianata. Peter rabbrividì. Nei pochi secondi prima di costringere il corpo a muoversi, prima che l’orribile meccanica della guerra lo travolgesse, vide il volto della madre. Era infuriata, terribile. Guerrieri la seguivano, alti, ben fatti, dipinti di colori vivaci, l’espressione di chi è deciso a guardare in faccia la morte. La madre gridava di portarle il suo stallone nero, ché non era più tempo di parole. Peter sentì le gambe muoversi. Il corpo sembrava in grado di marciare per conto proprio: in fondo non aveva fatto altro per mesi. Il dolore alle braccia era lontano, in un angolo della mente, più distante dalla coscienza del battere del sangue nelle orecchie. Le cannonate sconvolsero il terreno poco più avanti delle prime linee. Poteva vedere i sergenti chiudere le formazioni, rimettere i fanti al proprio posto, marciando a lunghi passi sui lati, sciabola sguainata, espressione torva. Il vento portava odore di paura. Rombi. Esplosioni. Grida. «Siete soldati di Sua Maestà, per Dio», «Prima o poi saranno a tiro». Peter pensò alle parole del colonnello. La guerra non è guerra finché il fratello non ammazza il fratello. Davanti ai suoi occhi, uomini, uomini e uomini andavano a morire in file ordinate. Marciavano finché il mondo non esplodeva, la terra sventrata, arti e teste volavano verso il cielo. La morte mandava odore di sangue, escrementi, terra bagnata. Le bocche da fuoco dei continentali tuonavano a ripetizione, aprendo crateri nello schieramento inglese, vuoti che dovevano essere riempiti di corsa dai rincalzi delle file posteriori. I picchieri avevano un bel da fare per tenere composte le formazioni, ufficiali e sottufficiali esortavano e incitavano, rossi in volto. Peter guardava la scena come in sogno, dimentico della stanchezza, della pena per la sorte della sua gente, della fine del suo mondo. Cadevano le bombe. Corpi schiantati si ammassavano. Una ventina di iarde sulla sinistra, un capitano dalla divisa macchiata di sangue alzò la sciabola e arringò gli uomini. Un’esplosione lo cancellò. Zolle di terra e brandelli di corpi raggiunsero il portabandiera. Peter si irrigidì, chiuse gli occhi. Sentiva le grida dei sergenti. – Avanti! Per il re! Avanti! Le prime file erano già sotto il fuoco di fucileria. Ma anche i loro artiglieri dovevano aver avvicinato i pezzi e aggiustato i tiri, perché iniziavano a centrare le difese dei ribelli, concedendo alla fanteria un po’ di copertura e margine di manovra. Peter riusciva a distinguere le sagome degli yankee sulla linea difensiva. Altri sparavano dalle finestre delle case del villaggio. Le prime due file di Giubbe Rosse si fermarono, una in piedi l’altra in ginocchio, e risposero al fuoco. Terza e quarta fila passarono davanti e ripeterono l’operazione, mentre gli altri ricaricavano. La marcia riprese inesorabile. – Portabandiera Johnson! – qualcuno urlava il suo nome. – Portabandiera! – Il colonnello lo sormontava dall’alto della cavalcatura. Peter si riscosse, cercò di trattenere il tremito. – Comandi, signore. – Voglio vedere le nostre insegne su quella collina! Avanti! Fate vedere di che pasta siete fatto, per Dio! Peter si spinse avanti, mentre i corpi gli cadevano attorno. Erano ormai fuori gittata dei cannoni ed era il tiro dei fucili a richiedere il maggior tributo di sangue. La fucileria dei ribelli era fitta e precisa. Dunque questa è la mia morte, pensò. Avanzò ancora. Dunque questa è la mia morte. Una palla ruppe l’asta della bandiera, il vessillo finì a terra. Peter provò un senso di tetra liberazione e si lasciò scivolare giù. Dunque questa è la mia morte. Qualcuno gli piombò addosso. – Alzatevi, Johnson! Raccogliete la bandiera! Era il sergente Bunyan, l’espressione pietrificata in una smorfia. Un proiettile lo centrò al petto, facendolo crollare a terra. Provò a rialzarsi, gli mancarono le forze. Riuscì soltanto a far leva sui gomiti, cercando l’aria a grandi boccate. Peter si tirò su in ginocchio. Sentì l’ombra delle grandi ali su di sé. Sotto gli occhi attoniti del sergente si levò giacca e camicia. Bunyan deglutì. – Che diavolo fate? – riuscì a dire a fatica. – Finirete sotto processo… Sotto processo. Peter non aveva mai udito parole più insensate. Quello era stato il giorno della morte insensata. Ma lui non aveva vissuto senza un senso. Il grande rapace scendeva in picchiata. Peter si chinò. Raccolse terra intrisa di sangue e con le dita sporche tracciò sul volto segni rosso scuro. I corni da guerra suonavano l’assalto alla baionetta. Le file si scomposero, la carica dei soldati inglesi sprigionò un urlo omicida che sembrò far tremare le barricate e il grappolo di case sulla collina. Peter si alzò in piedi, il petto nudo e la bandiera in pugno. La puntò in avanti come una picca. Il grido di guerra del clan del Lupo risuonò nell’aria. Il giovane guerriero mohawk si scagliò contro la linea dei ribelli, veloce come il pensiero che gli attraversava la mente. L’anima aveva messo le ali. 30. La caccia era andata male e Philip era inquieto, ma non si trattava di una novità, era così da giorni. La battuta insieme ai Seneca non aveva dato frutti: l’inseguimento di un grande cervo si era protratto per ore, erano certi di averlo circondato, quando si erano accorti che l’animale era scomparso, svanito al limitare di tracce dentro un fitto di rovi inestricabile. Avevano incrociato espressioni incerte, qualcuno aveva imprecato a voce bassa, come era usanza tra i Seneca. Tutti insieme avevano deciso che la battuta era terminata. Sulla strada di ritorno al forte, l’uomo di retroguardia alla fila disse che sul cammino c’erano alcuni uccelli morti, che nessun altro aveva notato. Philip chiese quali uccelli fossero, il cacciatore non rispose. Il silenzio accompagnò il drappello fino a quando giunse in vista del forte. Arrivati alle baracche dei profughi incontrarono un colono della Mohawk Valley e ricevettero la notizia, tremenda. L’uomo era scosso, parlò a Philip con deferenza e un filo di voce. Peter Johnson, il figlio di Sir William e Molly Brant, era morto in battaglia. I cacciatori pronunciarono parole di rispetto e dolore, Philip li congedò dicendo che sarebbe rientrato più tardi, gli uomini si allontanarono. Rimase solo, vicino a un grande acero, colto da uno smarrimento profondo di fronte al realizzarsi del più cupo dei presagi. Peter, il futuro e la speranza della nazione, Peter, il violino e la spada, Peter, studio e acconciatura mohawk, sogni ed elettricità. La Valle plasmata da William Johnson moriva con lui. I piedi lo condussero al forte. Gli parve di sentire pensieri addolorati vagare nell’aria fino a saturarla. Era scesa la sera, torce proiettavano ombre sinistre e deformi. Philip inspirò con forza l’aria pungente che raschiava le narici, s’incamminò senza una direzione precisa. La sagoma di Joseph spuntò dall’ombra. L’uomo che si era fatto capo gli si parò davanti. Guardava un punto indefinito alle spalle di Philip. Il volto era deformato dai riflessi delle fiamme e dalla sofferenza. – Non avrei dovuto lasciarlo andare, – la voce era ferro stridente. – Doveva restare al nostro fianco, sotto la mia protezione. – Aveva scelto il suo destino e nessuno poteva impedirglielo, – ribatté Philip. Percepiva il dolore dell’amico come una bestia annidata nell’animo, pronta a scattare. – Quello che gli dobbiamo è portare a compimento ciò che abbiamo cominciato. Un brivido spinse Philip a tacere. Joseph era un muro di pena e livore che assorbiva la luce delle torce fino a offuscarla. Una schiera di spettri danzava nell’oscurità alle sue spalle. – Andrò fino in fondo a questa guerra, insieme a chiunque vorrà seguirmi. Lo farò in nome di Peter e di ciò per cui combatteva. Lo farò per noi tutti. Dobbiamo riprendere ciò che ci appartiene. – Cosa significa? – chiese Philip. Joseph sembrò non aver udito la domanda. – Lascerò passare l’inverno. Lascerò che si sentano sicuri. – Cosa significa, Joseph? – Il tono di Philip tradì la preoccupazione. – C’è un solo modo per riavere le nostre terre, – rispose l’altro. – Fare come i Francesi e gli Huron durante l’altra guerra. – Attaccare gli insediamenti? – Razziare il bestiame, distruggere i raccolti. Dobbiamo colpirli nelle loro case, scacciarli uno a uno, se necessario. Costringere i coloni ad andarsene. – In quelle case ci sono donne e bambini, – obiettò Philip. – Pensi di onorare così la memoria di Peter? È questa la tua guerra? – È ciò che va fatto. – Mia moglie e mia figlia sono morte a causa di gente che la pensava così. Joseph lo guardò rabbioso. – La guerra non è mai stata altro che questo e tu lo sai. Philip si fece vicinissimo, fino a piantare gli occhi in quelli di Joseph. – Sì. So dove si perde il sentiero che vuoi percorrere. In una palude di sangue. – Io sono un capo, – ribatté Joseph. – Devo combattere per il mio popolo, devo dargli una terra. Se la durezza della quercia non basta, allora diventeremo roccia. Ma dobbiamo tentare, dobbiamo provarci. O non ci sarà un’alba per i Mohawk. Philip ripensò a quando avevano respinto l’attacco dei pirati in mare aperto. Quel giorno Joseph aveva lo stesso sguardo che ora vedeva puntato contro la notte. Parlò con il gelo nel sangue. – Molti anni fa ho inflitto ad altri ciò che io stesso avevo subito. Joseph sussultò, come si scoprisse sul ciglio di un baratro. Philip continuò. – Quando hanno massacrato la mia famiglia, la mia rabbia era cieca, quanto lo è ora la tua. Ho lasciato che mi guidasse alla vendetta. Ho restituito ogni colpo, senza fare distinzioni. Il mio tomahawk non si è fermato nemmeno davanti agli inermi e agli innocenti –. La voce era bassa e vibrata, le parole rotolavano tra i loro piedi. – Ciò che ho scoperto allora è che non esiste qualcosa che io non possa fare. Ho provato orrore di me stesso, di quello che gli uomini possono scatenare. Non ti seguirò, Joseph. L’altro non si mosse. Aveva ricevuto la confessione con lo stoicismo di un prete. La rabbia sembrava sbollita. I destini erano scelti. – Quando Molly mi ha chiesto di venirti a chiamare, ho pensato che non avrei saputo che farmene di te, – guardò Philip ancora una volta. – Mi sbagliavo. Sei tu che non sai che fare di te stesso –. Nelle sue parole c’erano desolazione e rammarico. – Buona fortuna, Ronaterihonte. Il buio lo inghiottì. La sagoma rimase impressa nel punto dove era sparito, sospesa nell’aria della notte. Philip avrebbe voluto raggiungere una meta, se soltanto ne avesse avuta una. Si avvicinò a uno dei bivacchi e sedette in silenzio, pensando che Peter non c’era più. 31. All’alba sono andata da lei. La donna che molti chiamano strega. La madre di Peter, mio cugino, morto in battaglia. La donna che ha dato a Sir William, mio nonno, otto figli. Stava pregando, le braccia larghe, i palmi rivolti in alto. Recitava frasi nella sua lingua, musica misteriosa. Dovevo parlarle del sogno. Timore e ansia mi hanno attanagliata la notte intera. È stata una strega anche per me, lo so bene. Ricordo la diffidenza, l’angoscia. Dicono che può fermare le rapide, deviare i fiumi, incenerire i nemici. Che può guarire i malati, favorire i raccolti, propiziare la fertilità. Richiamare i morti, trasformarsi in animale. Non sapevo come rivolgermi a lei, eppure dovevo. Sono rimasta a guardarla, seguivo i gesti della preghiera al sorgere del sole, fino a quando non si è accorta di me, che l’osservavo dall’altra parte della finestra, e ha fatto cenno di entrare. Ha messo l’acqua sul fuoco, ricambiato il mio abbraccio, ascoltato le mie parole di dolore. Le ho detto di aver sognato Peter. Mi ha guardato negli occhi, ha detto: – Racconta. Ho detto ciò che ricordavo: Peter scavava una fossa, ma la terra era dura, il badile si spezzava. Philip e Joseph Brant caricavano una bara su una barca. Nella barca c’era nonno William. Mi aiutava a salire. Mentre raccontavo, l’espressione di Molly cambiava, si faceva meno sofferente. Mi ha chiesto se il nonno diceva qualcosa. Ho risposto che non lo ricordavo. Mi ha detto che ci sono modi per aiutare il ricordo, rendere le immagini più chiare. Mi ha chiesto il bracciale, lo ha tenuto tra le mani vicino alle labbra che sussurravano frasi. Lo ha esposto al fumo che saliva dal braciere acceso, ci ha soffiato sopra prima di restituirmelo. Ha detto che il bracciale era prezioso e non era un caso che fosse giunto fino a me. Mi ha chiesto di Londra, di Peter, di ciò che avevo visto. Ha detto che stava per mandare i suoi figli a Montreal. Zio Daniel provvederà ai loro bisogni. Avranno una casa di pietra, cibo a sufficienza, lezioni di inglese e matematica. Mi ha chiesto se volevo partire con loro. Ha ascoltato la mia risposta: non sarei andata via nemmeno in catene. Ha sospirato e sorriso. – Vivrai in casa mia, – ha detto. – Non è bene che una donna della mia età rimanga sola. Il sole non era ancora alto, l’ansia era svanita. Una strana calma avanza dentro di me. 1778 32. Acquattato nell’ombra, le ossa contratte l’una nell’altra, non più alto di un ragazzino prima di diventare uomo, frugando tra i capelli alla ricerca dei pidocchi, tossendo, scaracchiando. Tutto quel che c’è da fare è mangiare zuppa, se c’è, drenare linfa vitale dalle pentole che non puoi più riempire né difendere. Solo mangiare e defecare, questo ti riesce bene, se non hai bevuto troppo. Tu hai gli ornamenti di un uomo di rango, il tempo ha lasciato un reticolo di solchi sul volto. Johannes Tekarihoga, ultimo dei Tekarihoga, capi spirituali del clan della Tartaruga fin dal tempo prima del tempo in cui Donna del Cielo piovve dall’alto, la gente nobile, che sostiene il mondo sulla schiena. Se il mondo gira fuori dall’asse, la colpa non è tua. L’esilio, anzi, sembra averti riconsegnato barlumi di un’antica dignità. I più vecchi dicono che somigli al Tekarihoga prima di te. Come possono saperlo? Nessuno è più vecchio di te, ormai. Solo chi è come una freccia trova la sua via, dicono. Forse può esistere una freccia barcollante, lenta, la punta sconnessa dal legno, eppure capace di percorrere bene l’aria fino a incontrare il suo destino. Il fianco di un cervo. Un bersaglio sistemato sul tronco di un albero. Il suolo, dopo aver bevuto l’aria finché le ali invisibili ti hanno sostenuto. Si parla di frecce diritte, non di frecce veloci. Si parla di frecce diritte, non di frecce giovani. Accadono cose misteriose nel limbo ovattato dove il tuo migliore amico, quello che si beve a pinte e damigiane, ti ha confinato. Accadono cose ogni giorno; gli spiriti hanno ali impalpabili che ti sfiorano spesso. Il tuo esilio alcolico è meno sguaiato, meno squallido di quello che molti si aspettavano. Così, quando l’andatura si fa barcollante, ti ritiri dalla vista delle donne, esci dal campo, vaghi nel bosco gridando sottovoce, imprecando tra te e te, oppure ridendo e ridendo, accennando passi di danza, levando le mani al cielo e ringraziando per un altro giorno di vita, ancora un altro giorno nonostante tutto, lunga vita a te e al tuo miglior amico. Molti ti considerano ancora saggio, e sei benvoluto. Le donne ti sorridono, i ragazzini ti salutano con deferenza: sei sempre stato un generoso. Tutti i doni passano dalle tue mani, hai sempre tenuto per te solo quello che serviva. Se Tekarihoga fosse ricco, ora, la sua gente non sarebbe alla fame. È per questo che ti amano, tu sei l’immagine dei giorni andati. Quando Donna della Terra sognò per la prima volta, fertili campi nacquero da quel corpo rigoglioso. Una nuvola da occidente prese diverse forme per compiacerla, finché non divenne un giovane uomo. Donna della Terra si innamorò all’istante e desiderò avere l’uomo nuvola dentro di sé. Ora Donna della Terra desidera solo che gli insetti cessino di sciamare, di formare colonne, di combattersi. Le nuvole da occidente hanno la forma di navi, di cannoni, di enormi uccelli funesti. Il mondo rotola fuori dall’asse, e tu sei come tutti gli uomini, insegui i pensieri, se sei allegro ridi e ridi, se sei triste, piangi e maledici il destino. Il vecchio era seduto su una roccia. Guardava la superficie rossastra delle acque, dove il sole sembrava spegnere la sua forza per costringersi a una notte d’esilio. Il volto era immobile, gli occhi sembravano pezzi di lago spediti a dare luce a un volto provato dalle stagioni. Tornando dalla pesca, Philip aveva potuto osservarne la figura per più di un’ora, mentre remava verso riva. Non si era mosso di un millimetro. Philip aveva legato la barca e si era avvicinato, avendo cura di rimanere in vista. – Come stai, vecchio? Tekarihoga girò il capo e lo guardò senza espressione. – Il lago è appena increspato. È molto strano in questa stagione. Philip annuì. – Il tempo cambierà con la luna nuova. Tekarihoga tacque. Philip sentì lo sciabordare dell’acqua sulle rocce, pigro, lento. Poi il vecchio riprese. – Non sono mai stato un buon pescatore, Ronaterihonte. Ci sono poche cose che so fare, a dire il vero. Philip era stupefatto. Convincere Tekarihoga a scambiare più di un monosillabo era difficilissimo. – Sei un buon capo, anche in questi giorni difficili. Tekarihoga alzò il sopracciglio. – Oh, non è difficile. I giorni sono pieni di segni, te ne sei accorto di certo. Dare buoni consigli è facile, basta prendere se stessi come esempi di follia. Un uccello notturno mandò un richiamo stridulo. Tekarihoga tornò a fissare la superficie delle acque. – Tu sei un buon guerriero, Ronaterihonte. I giovani maschi hanno paura della tua ombra, per questo non sanno cosa fare di te. Non puoi essere un padre, né un fratello: loro non capiscono le tue vie. – Lo so. Tekarihoga fece un cenno col capo. – Una volta, ad Albany, ho visto un macellaio olandese. Era molto più bravo e veloce del nostro miglior cacciatore. Non faceva altro tutto il giorno. Scannare, tagliare, disossare. Questo non è il tempo dei guerrieri, Ronaterihonte. Non è più il tempo dei Mohawk. Philip sorrise. Era come se la mente del vecchio avesse toccato la sua. La generazione presente poteva disapprovare la scelta del Grande Diavolo. Non aveva nessuna importanza, la follia pervadeva ogni cosa. Salutò il vecchio, mise i propri passi verso il forte. Quando si volse all’indietro, la figura si stagliava nel crepuscolo, immobile. 33. Durante l’inverno, auspici e preghiere avevano mantenuto incandescente la brama di vendetta. Ogni giorno i Seneca ricordavano i guerrieri caduti a Oriskany. Le lacrime dei Mohawk erano ancora calde per Peter Johnson. Appena i sentieri furono liberi dalla neve, Joseph lasciò Fort Niagara e raggiunse Oquaga. La bandiera del re spiccava ancora al centro del villaggio, fradicia di pioggia e incapace di sventolare. Grazie al rum requisito dagli Hough, dopo due giorni di festa il numero dei Volontari era già raddoppiato. Alla fine di maggio, in duecento assaltarono un gruppo di fattorie nell’alto corso del fiume Schoharie. Alcuni coloni fecero in tempo a scappare, gli altri furono catturati insieme al bestiame. Joseph ordinò di radunare donne e bambini dentro un granaio di Cobleskill. Quando i guerrieri se ne andarono, nel raggio di tre miglia nessun altro edificio era scampato alle fiamme. Sul sentiero del ritorno, Joseph trovò un messaggio infilzato su un bastone. Era firmato dal capitano McKean, a nome degli abitanti di Cherry Valley. Chiedevano che smettesse di minacciarli e affrontasse la milizia in uno scontro ad armi pari. Se non era un vigliacco, gli avrebbero mostrato volentieri come si trasformava un brant, un’anatra selvaggia, in un’oca da cortile. A Oquaga, Daniel Secord lo attendeva con tre spie ribelli catturate nei dintorni. Il primo stava rientrando a Fort Stanwix. Doveva informare Gansevoort che il giorno di Pentecoste capo Brant aveva ucciso e scalpato sei uomini nei pressi di Springfield. Il secondo era passato a Pentecoste dal lago Otsego e aveva visto con i suoi occhi le teste impalate di due noti ribelli e il simbolo di Thayendanega inciso alla base dei sostegni, sotto una pioggia di sangue ancora fresco. Il terzo informatore portava una lettera per il generale Schuyler. Il Comitato di sicurezza di Schoharie chiedeva l’appoggio dell’esercito contro i Volontari di Brant, che nel giorno di Pentecoste erano piombati sul villaggio e avevano torturato e ucciso uomini e bestie. Felice di aver ricevuto il dono dell’ubiquità, Joseph ripartì subito verso ovest. Butler e Sayengaraghta lo attendevano a Tioga per pianificare un attacco congiunto. In realtà i Seneca avevano già scelto da tempo il teatro della vendetta. La valle di Wyoming, una terra di sogno che i coloni avevano sottratto ai loro padri con l’inganno. Joseph decise di non seguirli, per non allontanarsi troppo da Oquaga. Le voci dicevano che i ribelli si preparavano ad attaccarla da un momento all’altro. John Butler e i suoi Ranger unirono i loro battelli alle canoe dei guerrieri. Joseph risalì il Susquehannah da solo. La notizia gli arrivò una settimana dopo, mentre guidava i Volontari verso nord. Fort Wyoming era caduto, insieme ad altre sette roccaforti. In meno di quattro giorni, il fuoco aveva distrutto un migliaio di fattorie, stalle e granai. Gli uomini di Butler rientravano a Tioga con quattrocento capi di bestiame, duecentoventisette scalpi e cinque prigionieri. La ferocia di «Mostro Brant» al Massacro di Wyoming era già oggetto di dispacci, maledizioni e articoli di gazzette. L’11 di luglio del 1778, quarto anniversario della morte di Sir William, Joseph si bagnò nelle acque del Mohawk dopo tre anni di assenza. Poi discese la valle ricolmo di orenda. Ad Andrewstown appiccò il fuoco alle case senza controllare se fossero vuote. Otto scalpi bruciacchiati ornarono le cinture dei Volontari e i tomahawk dei guerrieri. A Springfield risparmiò le fattorie dei lealisti e la chiesa. Fece fucilare un paio di spie, caricò quel che poteva trasportare e bruciò il resto. A German Flatts, i Tedeschi riuscirono a barricarsi nel forte e Joseph si maledisse per non aver portato un mortaio. Con i soli fucili, attaccare la palizzata era un’impresa impossibile. Jonas Klug sarebbe rimasto indenne, con l’unica sofferenza di dover guardare la sua casa divorata dal fuoco. Nel frattempo la Francia era entrata in guerra al fianco dei ribelli e George Washington aveva messo una taglia sulla testa di Joseph. Cento, duecento, forse anche cinquecento sterline. Nel Nuovo Mondo, nessuna strategia per arricchirsi era veloce e sicura quanto uccidere Mostro Brant. Era l’indiano più odiato dai tempi di Pontiac. 34. La legna per illuminare la festa era ammucchiata sul prato, tra l’erba ingiallita di fine estate. Nell’ultimo anno, lo spiazzo incolto tra Fort Niagara e le baracche dei profughi si era molto ristretto. Nelle tre lune invernali, uno zoccolo di neve dura lo aveva coperto senza interruzione. L’ultima chiazza bianca s’era sciolta a Pentecoste, giusto in tempo per accogliere nuovi sfollati. Incursioni e rappresaglie spurgavano profughi dai villaggi di frontiera. Butler e i Seneca erano appena tornati con un enorme bottino di scalpi e bestiame. Susanna aveva chiesto notizie di Joseph, per ottenere un’unica, banale certezza. Suo marito s’era staccato da loro e insieme ai Volontari avrebbe continuato a combattere. Per il resto, non una risposta che assomigliasse all’altra. Come per ogni domanda su Joseph Brant e le sue imprese. Susanna ricordava i prigionieri di Springfield, arrivati a Pasqua. Dicevano che capo Brant li aveva fatti chiudere in chiesa e da lì avevano assistito alla distruzione: campi devastati, bestiame sgozzato, il raccolto e le fattorie in fumo, gli alberi da frutto segati alla base. Poi aveva lasciato andare donne e bambini e portato via gli uomini. Tre settimane più tardi, un medico olandese in fuga da Cobleskill aveva descritto l’Inferno: la valle coperta da una foresta di pali, col simbolo di Mostro Brant inciso alla base e teste di ribelli infilate in cima. Due famiglie di schiavi s’erano presentate al forte a metà giugno. Dicevano di essere fuggiti mentre i Volontari di Brant assalivano la fattoria del padrone. Alcuni raccontavano eccitati che l’indiano aveva dato il vecchio in pasto ai maiali. Altri erano convinti che si fosse sparato per non finire in mano ai selvaggi e che Joseph avesse affidato le figlie a un amico che viveva nei paraggi. Dopo mille storie del genere, Susanna aveva smesso di chiedersi dove stesse la verità. Quando sgorga da una menzogna, l’odio è ancor più pesante, e suo marito ne portava addosso un carico insostenibile. La luce del sole indugiò ancora sulla giornata estiva. Le acque del lago divennero una gigantesca lastra di rame. Infine si accesero le innumerevoli stelle e un attimo dopo cinque fuochi, allineati lungo duecento iarde. La processione tracciò anelli e spirali attorno a ognuno e presto li avviluppò in un unico abbraccio. Uomini e donne danzarono al battere dei tamburi, si percossero il petto, pestarono la terra. Poi il corteo si raccolse e tutti sedettero in cerchio. Molly depose nel fuoco un cesto di tabacco e diede inizio alla liturgia degli scalpi. Si alzò un guerriero e danzò a gara con le fiamme. I nastri colorati appesi alle braccia frustarono l’aria come la criniera di uno stallone. Puntò al cielo un’asta agghindata di chiome e centinaia di gole gli resero omaggio. L’uomo raccolse il fiato e cominciò a declamare la storia dei suoi trofei. Dietro una fila di teste, un branco di giovani non smetteva di saltare e gridare in coro. Sembravano ubriachi e quando un vecchio si voltò a riprenderli scapparono via ridendo. Mentre si allontanavano, Susanna riconobbe la sagoma e l’andatura di Isaac. Fu tentata di andargli dietro, ma restò seduta. Non riusciva più a rincorrerlo, non in ogni occasione, e certi gesti perdono senso, quando perdono costanza. Terminato il racconto, il guerriero staccò uno scalpo dal bastone. Apparteneva a un colonnello, un uomo valoroso. Il guerriero dichiarò che Molly Brant gli era apparsa in sogno, gli aveva dato istruzioni su come sorprenderlo e aveva chiesto di portarle lo scalpo, per vendicare la morte di suo figlio Peter. Le teste si girarono verso la matrona, i tamburi ad acqua zittirono, per la prima volta dall’inizio della festa. Il volto della donna era un enigma di collera, gli occhi bruciavano. – Tieni il tuo dono per altri. Non basterebbero mille scalpi per placare la mia rabbia e non ne basterebbero diecimila per placare lo spirito di mio figlio, che ancora vaga sul campo di battaglia. Le altre matrone annuirono e venne il turno dei prigionieri. Un ragazzino biondo venne spogliato e avvolto in un mantello di lino azzurro, mentre i suoi vecchi abiti bruciavano nel fuoco. La sua nuova madre smise di piangere e gridare e gli andò incontro, come se fosse il figlio, tornato senza preavviso da un lunghissimo viaggio. Lo fece alzare da terra e lo condusse dai nuovi fratelli. Anche le altre donne chiesero figli e mariti. Nessuna scelse di dare la morte. Susanna pensò che era un evento raro, in un tempo tanto disperato e crudele. Una nazione di trecento profughi non poteva permettersi di sprecare una vita. 35. Nella prigione di Albany si cenava a pane rancido e acqua calda, una zuppa molliccia spesso arricchita dalla carne dei vermi. Se imparavi a cacciare, potevi permetterti una dieta migliore. Ragni e scarafaggi, topi, lombrichi. La lucertola era la preda più ambita. Mangiando a occhi chiusi, potevi convincerti che fosse anguilla. Per otto mesi, Walter non aveva toccato altro cibo. I carcerieri si annoiavano a morte. Tra i loro passatempi, la frusta era di gran lunga il più innocuo. Per otto mesi, Walter aveva subito umiliazioni che la lingua si rifiutava di raccontare. Poi, si era finto malato ed era riuscito a evadere. Strinse le redini e si guardò alle spalle per scacciare i ricordi. Duecento Ranger marciavano schierati lungo il sentiero, il grosso dei Seneca s’era sparpagliato nel bosco, per prevenire agguati. Sayengaraghta, avvolto in un mantello nero, chiudeva la fila in sella a un purosangue. L’animale era un regalo di suo padre al grande capo di guerra. Purtroppo John Butler non s’era potuto aggregare alla nuova spedizione, per via di una brutta polmonite, e così Walter aveva ottenuto il comando e il compito di reclutare lungo il cammino. L’esperienza del padre gli sarebbe mancata, questo lo sapeva, ma l’inverno era alle porte e non c’era tempo da perdere. La madre e il fratello erano ancora in galera, per riscattarli servivano prigionieri. Walter era affamato di vendetta ed era grande abbastanza per procurarsela da solo. Svernare a Fort Niagara non rientrava nei piani di Joseph. Avrebbe preferito Oquaga, una base più comoda, più ricca e meno gelata. Ma Oquaga non c’era più, e nemmeno Unadilla. I continentali e la milizia avevano attaccato i villaggi approfittando della sua assenza. Le più belle fattorie della contea ridotte a ruderi anneriti. Bruciate le provviste, le piante di mais decapitate. I frutteti erano filari di ceppi. Le bestie giacevano sgozzate nel sangue. Donne e bambini erano fuggiti per tempo, ma ora le famiglie erano disperse e con loro i Volontari. Joseph sapeva che radunarli di nuovo, a primavera, non sarebbe stato facile. Sulla strada verso occidente, lo seguivano a malapena un’ottantina di uomini, molti con i parenti al seguito. Altre bocche da sfamare per il campo profughi di Fort Niagara. Nel primo pomeriggio, Daniel Secord tornò dall’avanscoperta con la notizia. Il giovane Butler si era accampato a Tioga, con un reggimento di Ranger e almeno trecento guerrieri seneca. – Walter Butler? Non era prigioniero ad Albany? – Non più. È evaso ed è qui per incontrarti. Dice che la stagione di caccia non è ancora finita. Arrivarono dopo il crepuscolo, in un serpeggiare di torce. La notte era fredda e il vento odorava di neve. Walter Butler li accolse con entusiasmo e un piatto di fagioli per placare la fame. Mentre le bocche si riempivano fece la proposta. Unire le forze per un’incursione a Cherry Valley, l’insediamento più ricco dell’intera vallata. Pochi mesi prima, i ribelli ci avevano eretto un forte, ma si diceva che il colonnello Alden fosse più esperto di donne che di guarnigioni. – Ci vivono molti lealisti, laggiù, – osservò Joseph. – Brava gente come il giudice Wells. Bisognerà avvisarli, prima di attaccare. L’altro addentò una testa di capretto. – Meglio non rischiare. Date retta, Dio riconoscerà i suoi. Dio senza dubbio, pensò Joseph, ma non certo i Seneca. Il tono spavaldo del ragazzo non gli piaceva, il bersaglio prescelto nemmeno. L’istinto suggeriva di lasciar perdere. La ragione diceva che solo restando avrebbe evitato un massacro. – Verremo con voi, – disse alla fine. – Molto bene. Dite ai vostri uomini che la paga è generosa. Devono firmare entro stasera. Henry Hough alzò la faccia dalla scodella: – Firmare cosa? – L’arruolamento, – replicò il giovane, l’aria supponente di chi spiega un’ovvietà. – I Ranger di John Butler sono l’unica formazione autorizzata a combattere in questa zona. Joseph capì che il ragazzo non gli era andato incontro come semplice alleato. Il padre aveva un incarico ufficiale e riceveva una gratifica per ogni nuova recluta. Per lui, i Volontari di Brant erano un mancato guadagno. La voglia di alzarsi e andar via era sempre più difficile da dominare. – Non siate sciocco, Walter. I miei uomini sono volontari, hanno scelto di combattere con me e continueranno a farlo finché lo vorranno. Gli occhi del giovane ruggirono ma la bocca rimase chiusa. Lanciò nel fuoco il teschio del capretto. Si alzò in piedi. – E sia, – disse forte e chiaro. – Ma non devono portare insegne distintive, nemmeno quel laccetto giallo che tengono sui cappelli. E i bianchi dovranno evitare le pitture di guerra. Una cupola di silenzio racchiuse il bivacco. Dai fuochi vicini, grida e canzoni si alzarono in volo. Sayengaraghta aspettò la traduzione dell’ultima battuta, ma fu il primo a parlare. – Capitano Butler è giusto, fratello, – l’inglese del capo Seneca sembrava una ruota ammaccata. – Abbiamo visto a Oriskany questi tuoi bianchi che fanno battaglia con le pitture e dico che tutti noi combattiamo con più forza se ogni uomo è fedele ai suoi antenati. – Tuo nonno non conosceva il fucile, – sbottò Henry Hough. – Il mio sgobbava tutto l’anno per mantenere un parroco del cazzo. Si fottano, gli antenati. Gettò la scodella nella polvere, si alzò, spazzò i calzoni con la mano e sparì nel buio. Il fratello lo imitò, seguito dagli altri Volontari che sedevano attorno al fuoco. Per ultimo Daniel Secord: sputò un proiettile di tabacco e si accodò al gruppo. Joseph vide il piccolo corteo avvicinarsi agli altri bivacchi e ingrossarsi pian piano. Capì che a Cherry Valley sarebbe stato un capitano senza esercito. Di nuovo valutò il da farsi. Scelse di restare. 36. Durante la notte aveva nevicato, ma all’alba i fiocchi cominciavano a disfarsi. Una pioggia sottile, compatta, come la foschia che aleggiava sul fiume. I Volontari erano partiti in massa, diretti a Fort Niagara. Solo Kanatawakhon era rimasto al fianco di Joseph. Quando raggiunsero Butler sul dorso del monte, un raggio di sole fiacco illuminò la valle, gli scheletri dei ciliegi, la lingua d’acqua che leccava le sponde. Le case parevano elementi del paesaggio, silenziose come rocce. Anche in un giorno come quello, Cherry Valley non smentiva la sua bellezza. Smise di piovere e la nebbia risalì le colline per unirsi alle nubi. Gli uomini fremevano per attaccare. Walter Butler li trattenne, per assicurarsi che la polvere fosse abbastanza asciutta. – Noi abbiamo i tomahawk, – disse Sayengaraghta, e con un cenno d’intesa Butler lo lasciò partire. Joseph si accodò ai Seneca e li seguì tra gli abeti, fino a un intrico di rami e ginepro, ma mentre quelli lottavano per aprirsi un varco, tornò indietro di mezzo miglio e ridiscese in un’altra direzione. I cani di Cherry Valley cominciarono ad abbaiare. Il signor Mitchell si svegliò quando fuori brillavano ancora le stelle. Ruppe un uovo in una tazza di rum, aggiunse il caffè nero, il burro e lo zucchero d’acero. Mentre beveva, lanciò un’occhiata alla moglie e ai bambini, ancora avvolti dal sonno. Veniva giù neve fradicia, e bisognava raccogliere l’ultimo taglio di legna prima che restasse sepolto in un bozzolo gelato. Uscì, slegò la cavezza del mulo e si avviò su per la collina. All’uscita del bosco, Joseph vide le fattorie. I rumori del risveglio coprivano la distanza. Colpi d’ascia in una legnaia, voci, il richiamo delle vacche pronte alla mungitura. La residenza del giudice Wells era molto grande, una tenuta dalla parte opposta del paese. Iniziarono a correre, ma le zolle dei campi arati segavano il passo. I Seneca avevano attraversato la macchia e sciamavano allo scoperto come lupi. Un branco di trecento guerrieri. Corsero più forte, caddero, si rialzarono con le ginocchia ferite. La signora Wells era stata ospite a Johnson Hall e aveva regalato a Molly uno scialle di lana mohair. Videro il branco raggiungere la prima fattoria. Un gruppo si fermò, gli altri proseguirono. Joseph indicò a Kanatawakhon la casa successiva. Intanto anche i Ranger entravano nel villaggio a passo di carica. Il signor Wells aveva comprato un cavallo dal vecchio Butler e bevuto il liquore che preparava sua moglie. Anche a Walter doveva stare a cuore la salvezza del giudice. Lungo la strada scorreva una fiumana di bestie, uomini e sangue. I guerrieri Seneca scalpavano i fuggiaschi da tergo, senza smettere di correre. Un ingorgo di corpi si formò contro un cavallo rimasto zampe all’aria. Dal fiume giunsero le urla di chi aveva cercato scampo in acqua e adesso annegava nel gelo. Il signor Wells era appoggiato allo stipite, in ginocchio, le mani giunte sotto la bocca. In mezzo alla testa, l’osso bianco del cranio spuntava come una roccia da una palude nera. Un uomo si lanciò dalla finestra del primo piano, crollò sull’aia e prese a correre giù per la collina. – È il colonnello Alden. Non fatelo scappare. La voce proruppe dalle scale. Joseph non fece in tempo a voltarsi che due guerrieri Seneca uscivano dalla casa, ribaltando il cadavere di Wells per gettarsi all’inseguimento. Il giovane Butler raggiunse la porta e sparò un paio di colpi, ma senza successo. Gridò a quelli di sopra di scendere subito e prepararsi all’attacco del forte. Poi notò l’espressione di Joseph e indicò il giudice riverso nella polvere. – Nascondeva un colonnello ribelle. Ha avuto quel che meritava. Joseph lo spinse di lato ed entrò nella casa. In anticamera c’era il corpo di un giovane. Altri due nelle cucine. Un vecchio e una vecchia si abbracciavano accanto al camino. Scalpati. Fuori, il vento portava odore di carne bruciata e il fumo di decine di roghi. Walter Butler tentava di organizzare l’assedio del forte. Joseph guardò il giovane capitano sbracciarsi e sudare davanti all’indifferenza dei Seneca. Aveva creduto di usare i guerrieri per la propria vendetta e ora non sapeva come fermarli. Prima di mezzogiorno il signor Mitchell tornò verso casa. Al diradarsi degli alberi, scorse un fumo che non poteva venire dal camino. Si lanciò per la scarpata, in un franare di sassi e radici. La piccola stalla era divorata dal fuoco. La casa era in fiamme, ma l’incendio non aveva ancora attaccato le travi portanti. La moglie e i figli erano sotto le coperte, come l’ultima volta che li aveva guardati. Alla vista dei crani il vomito lo piegò in due. Mancava Eleanor, la figlia minore. Mitchell corse sull’aia, riempì due secchi dalla cisterna e cominciò a gettare acqua sulle fiamme, dentro e fuori, dentro e fuori, mentre chiamava la figlia con tutta la voce che gli restava. Quando lo schiaffo dell’acqua si abbatté sulla credenza, vide una mano spuntare tra le schegge e raspare il pavimento. Facendo leva con un pezzo di trave, liberò la bambina da sotto il mobile, l’abbracciò, la condusse fuori per farle riempire i polmoni. Con le dita lavò via dalla faccia lacrime e fuliggine, spostò ciocche di capelli, le carezzò una guancia, incapace di parlare. Di nuovo la strinse a sé, come se non lo avesse mai fatto prima, e in quel momento li scorse. Erano spuntati dietro il costone, a un centinaio di iarde, con addosso le giacche verdi della milizia lealista. Il signor Mitchell ringraziò il cielo che non fossero selvaggi e si disse che la cosa migliore era restare lì, senza tentare una fuga impossibile, alzare le mani e affidarsi a Dio. Sussurrò alla figlia di restare tranquilla. Joseph cercò la casa dei Mitchell, una famiglia modesta che aveva conosciuto anni prima. Spiò da una finestra e vide una sconosciuta seduta in terra, a sgranare pannocchie. I due figli avevano la stessa età di Christina e di Isaac: lei aiutava la madre, lui attizzava il fuoco sotto la pentola. – Cosa fate qui? Perché non scappate? – Noi stiamo con il re, – rispose la donna con voce tranquilla. Joseph spalancò gli occhi. – Nemmeno il re potrebbe salvarvi, ora. – Ho sentito gridare il nome di capo Brant. Se gli indiani sono con lui, non ci faranno del male. – Joseph Brant sono io, ma non ho potere su questi uomini. Si staccò dalla finestra e osservò la valle. Stormi di corvi planavano sui cadaveri. Vide Kanatawakhon e lo richiamò con un grido. Con un pugno di polvere scura bagnato di saliva tracciò sulle guance della famiglia due segni verticali attraversati da una croce sghemba. Il marchio dei prigionieri di Thayendanega. – Forse così sarete al sicuro, – disse alla donna, mentre affidava lei e i bambini a Kanatawakhon, perché li scortasse fino al fiume. Si allontanò e cercò ancora, finché non riconobbe una baracca. I fumi neri che si torcevano sopra il tetto gli dissero che era arrivato tardi. Entrò. La donna sembrava addormentata. I due figli erano sdraiati con lei. Il primo dei tre puntò il fucile addosso al signor Mitchell e gli intimò di non muoversi. Il secondo sollevò in alto una scure e la abbatté sulla testa della bambina. La bocca non emise un grido. Il terzo disse: – Rispondi, verme. È più brutto vivere così o morire come un cane? Il signor Mitchell non disse nulla. Il primo dei tre gli aprì la gola con un coltello da caccia. I Ranger entrarono in casa, per vedere se i selvaggi avevano lasciato qualcosa. Mentre si allontanava dalla casa, Joseph inciampò in una statua di carne. Il cadavere della bimba era stretto a quello del padre, come un diamante sulla sua montatura. 37. Il baule era ancora pieno, la roba in ordine. Joseph abbassò il coperchio. Pensò a Peggie, la prima moglie, seppellita con le sue cose in una terra che non era più dei Mohawk. Pensò a Peter. Si chiese cosa avrebbe scelto per lui, se non l’avessero buttato chissà dove, insieme ad altri mille. Il suo vecchio violino era rimasto a Canajoharie. I libri a Johnson Hall o magari bruciati. La spada di Ethan Allen, forse quella se l’era portata nella tomba. Non sarebbe tornato a Londra per offrirla di nuovo al re. Pensò a se stesso, al corredo funebre che un giorno gli avrebbero preparato i figli, a quello che avrebbe desiderato. Una copia del Vangelo che aveva tradotto. Le pistole regalate da Lord Warwick. Il bastone da passeggio col simbolo del clan del Lupo. Pensò a Susanna. Aveva riempito il baule per trasferirsi nella nuova casa e non aveva fatto in tempo a svuotarlo. Forse aveva capito che poteva servirle per l’ultimo viaggio. La polmonite aveva colpito prima gli abitanti delle baracche, gli affamati, quelli ancora senza rifugio, che per ripararsi dal vento dormivano dentro crateri scavati nella neve. Poi la malattia aveva scalato le mura del forte e Susanna era morta di febbre, tre giorni prima che lui rientrasse. L’attacco a Cherry Valley gli aveva impedito di abbracciarla per l’ultima volta. Guardò le travi del soffitto, i muri intonacati d’argilla, il pavimento di legno ancora lucido. Prima dell’estate, Molly aveva convinto il colonnello Bolton a costruire due fattorie. Una la abitava lei, con Esther Johnson, la servitù e il solito esercito di ospiti e pellegrini. L’altra doveva proteggere Susanna e i bambini dai rigori dell’inverno. Ora nessuno avrebbe piantato alberi da frutto, all’arrivo della primavera. Nessuno avrebbe raccolto il lino e preparato la terra ad accogliere le Tre Sorelle. Oltre i vetri della finestra, le acque del lago apparivano livide e una coltre di ghiaccio presidiava le sponde. Strade e sentieri erano crepacci sottili nel bianco dei campi. Ancora poche settimane e Fort Niagara sarebbe diventato un vascello immobile in un mare di gelo. A primavera, la nuova casa sarebbe rimasta vuota. Joseph doveva tornare a combattere. Isaac e Christina non potevano restare. Sarebbero andati da Margaret, sul lago Cayuga. Al ritorno non ci sarebbe stata Susanna, a spingere Christina tra le braccia di suo padre. Non ci sarebbe stata la sua voce, per raccontare le ultime imprese di Isaac e impedirgli di starsene zitto. Joseph si alzò e raccolse il baule. La porta di casa si aprì senza rumore e sulla soglia comparve proprio suo figlio, sporco e malfermo. Aveva gli occhi gonfi, la faccia e le scarpe infangate, la giacca di lana ridotta uno straccio. Restò immobile, appoggiato allo stipite con una spalla. Joseph aggirò il tavolo, lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro. – Che diavolo ti è successo? La faccia del ragazzo si illuminò d’orgoglio. – Ho picchiato un Seneca, perché mi ha offeso. – Conciato così, ti offendi da solo. Cosa ti ha detto? – Mi ha chiamato «Sporco Oneida». Joseph guardò il figlio negli occhi, lacrime si affacciavano sulle ciglia. Gli strinse una spalla e avrebbe voluto parlargli con calma, ma l’odore dell’alcol richiamò la collera. Lasciò la presa e gli mollò un ceffone. – Stai lontano dal rum, mi hai sentito? E adesso pulisciti, non voglio arrivare tardi. Le lacrime cominciarono a scendere. Joseph restò zitto, immobile, mentre il ragazzo singhiozzava. Voleva lasciarlo sfogare. Isaac si asciugò gli occhi e quando li rialzò non c’erano più lacrime, ma odio. Scoprì i denti, come una bestia impaurita, poi trovò il coraggio per ringhiare ancora. – Susanna è morta da tre giorni. Se non volevi far tardi dovevi pensarci prima. Voltò le spalle e fece per andarsene, ma Joseph lo afferrò per un braccio, lo scaraventò a terra e prima che riuscisse a rintanarsi sotto la tavola, lo bloccò con un ginocchio sul petto e prese a colpirlo con rabbia. Isaac si rintanò dietro un muro di gambe e braccia. Joseph si alzò di scatto e lo colpì con un calcio. Qualcuno bussò alla porta e una voce timorosa domandò se servisse aiuto. Joseph riprese il baule, cercò qualcosa da dire ma non gli venne in mente nulla e allora uscì. Fuori, un drappello di facce logore aspettava di entrare in scena per l’elemosina quotidiana. Molti s’erano preparati parole di cordoglio e recitavano un repertorio di pianti e disperazione. Era dai tempi di Londra che Joseph non riceveva una paga, ma ormai bastava poco per essere tra gli uomini più ricchi della nazione. Una casa solida, il pane quotidiano e il favore degli Inglesi. Attraversò la corte, mentre con gesti sbrigativi respingeva gli assalti. Un vecchio gli ricordò con stizza che un grande uomo sa donare tutto, fino all’ultima briciola. Joseph replicò che forse era per quello che di grandi uomini se ne trovavano sempre meno. Pensò che non gli importava più essere un grande uomo, un indiano ricco o un guerriero invincibile. Importava soltanto fare la scelta giusta, per Isaac e per Christina. Perché un giorno, sulla sua tomba, non dovessero portare un baule di rancore. – Un tempo, tu eri una donna nel fiore degli anni. Ora quei petali sono secchi e il loro profumo è nel vento che soffia. Ora dobbiamo lasciarti andare, perché non ci è più concesso di camminare insieme sulla stessa terra. Per questo lasciamo qui il tuo corpo, perché tu possa avanzare tranquilla verso il Padrone della Vita. Non permettere alle cose terrene di distrarti. Occuparti della famiglia era tuo compito sacro e gli sei stata fedele. Le feste e le danze ti hanno dato piacere, ma adesso non permettere a queste cose di confondere la mente e prosegui diritta sul tuo sentiero. Il mantello nero avvolgeva Tekarihoga come un’enorme conchiglia. Il vecchio sachem era un mollusco bianco e grigio che spuntava dalle valve dischiuse. Al suo fianco, Philip indossava abiti di pelle e una stringa di velluto nero stretta sul braccio destro. La folla riempiva tre file di un largo cerchio. C’era l’intera Canajoharie, i parenti Oneida di Susanna, Henry Hough e molte famiglie di Oquaga, i Butler e alcuni inglesi. I negri che avevano scavato la fossa osservavano la scena appena discosti. L’oratore riprese a parlare. – Anche voi, parenti e amici di questa donna, dovete perseverare nel vostro cammino. Per questo, con un filo di conchiglie vogliamo sgombrare il cielo dalle nuvole nere, perché il sole possa ancora guidarvi. Con un altro filo puliremo la terra, perché possiate seguire la via senza incertezze. Con il terzo, puliamo il cuore e le viscere dentro di voi, perché il dolore non vi renda distratti. Philip porse le collane di wampum all’uomo più nobile della nazione. Joseph capì che non erano solo gesti formali. Senza bisogno di parlare, Ronaterihonte stava dicendo qualcosa. Il dolore li riavvicinava. Tekarihoga agitò nella polvere una collana, roteò la seconda sopra la testa, con la terza toccò il ventre di Joseph. Poi le raccolse tra le mani e gliele mise al collo. Joseph alzò la testa e guardò ancora verso Philip. Anche lui aveva indossato tre collane. Gli pendevano sul petto appena sotto la croce. 38. Nonno William canticchia una canzone tra i denti. Seduta sulle sue ginocchia, Esther non capisce tutte le parole. Sono parole antiche, una filastrocca o una formula magica. Si trovano all’aperto, nel grande spiazzo davanti a Johnson Hall e si respira aria di pace. È una giornata luminosa, forse estate. Nonno William indica il cielo l’azzurro sopra di loro. – Cielo si dice speir, – dice alla bambina. Poi tocca il bracciolo della sedia. – Legno si dice adhamad. Aspetta che lei ripeta e sorride. La bambina gli sfiora le labbra con le piccole dita. L’elenco continua, ma Esther è già tornata al presente. Ha quindici anni, è in casa di Molly Brant, il ricordo è riemerso all’improvviso. O forse no, forse è stato seguire i passi di Molly che l’ha aiutata a portarlo alla luce, dopo che per molto tempo era rimasto sepolto. Molly le ha parlato molte volte del sogno. Il messaggio di nonno William ai vivi. La frase nella lingua della sua terra, parole portate via dal vento. Chi c’è nella bara? Ora le parole risuonano chiare. Esther corse fuori di casa. L’accampamento era immerso nella luce del primo pomeriggio, faceva caldo, il ronzio degli insetti cullava il sonno di piccoli e anziani. Le donne lavavano i panni o abbrustolivano il mais. Molly parlava con due matrone, al centro di un capannello di persone. Philip posò l’ascia e osservò la catasta di legna tagliata. Per quanta ne stivassero nei magazzini, aveva l’impressione che non sarebbe mai stata sufficiente. Asciugò il sudore che gli ricopriva il petto e la faccia e solo allora si accorse della ragazza. – Ti ho portato qualcosa da mangiare. Esther appoggiò il fagotto sul ceppo e lo aprì, rivelando un paio di pannocchie e una patata dolce. – Grazie. Lui infilò la camicia e sedettero su un tronco a sgranocchiare il mais. Godettero di quella tranquillità senza bisogno di dire nulla. Non c’era foschia. Sotto i bastioni del forte, dove il Niagara si gettava nel grande mare interno, l’acqua riusciva a riflettere il cielo limpido. – Ho sentito dire che la guerra non durerà più di un altro anno. Tu ci credi? Philip scrollò le spalle. – Per questa gente non fa molta differenza. Il loro sguardo non va oltre l’inverno. Gli occhi di Esther si fecero tristi. Philip la guardò. Finirono di mangiare in silenzio. – Che farai dopo? – chiese ancora la ragazza. – Ci sarà un dopo? – disse Philip senza aspettarsi una risposta. – Certo. L’inverno passa, torna la primavera. Tutto ricomincia. Esther rema a occhi chiusi. Al polso porta il bracciale d’adozione. La bara è sulla canoa. Insieme risaliamo la corrente. La ragazza bianca indica la via. Non è così, William? Tua nipote è venuta da me dicendo di ricordare. Ha decifrato le tue parole, quelle che io non riuscivo a sentire. «Nella bara c’è il cielo della Mohawk Valley e la cassa è fatta col legno della Lunga Casa». Dunque è questo che ci attende? Torna a trovarmi, William, per scacciare la rabbia e la paura che ho nel cuore. È ancora grande la prova che dobbiamo sostenere. Sorridimi nei sogni, perché siamo stati felici. Quando ci rincontreremo ricorderemo ogni cosa. I nostri giorni, i respiri, gli amplessi. Ci sarà anche Peter. Troverà la strada per raggiungerti, prima che io venga da voi. È questo il tempo, William. Ora che il nostro mondo si consuma nel fuoco. Ora che il ciclo si compie. La quercia diventa cenere, la cenere alimenta nuove radici. Ancora questo devo fare. Salire sulla canoa. Cercare il Giardino. 1779 39. ordini di george washington al general maggiore john sullivan 31 maggio 1779 La spedizione di cui vi è stato affidato il comando deve essere diretta contro le tribù ostili delle sei nazioni, compresi i loro sodali e clienti. L’obiettivo immediato è la distruzione totale dei loro insediamenti e la cattura del maggior numero di prigionieri di entrambi i sessi e di tutte le età. Sarà essenziale devastare i campi impedendo il raccolto in corso e quelli futuri. Consiglio e raccomando di insediarsi al centro del territorio indiano con una scorta sufficiente di vettovaglie e munizioni e da lì far partire le spedizioni contro i villaggi all’intorno, dando istruzioni di farlo nel migliore e più efficace dei modi, così che il paese non venga semplicemente saccheggiato, ma distrutto. Voi non presterete orecchio a nessun tentativo di pacificazione fino alla devastazione totale di tutti gli insediamenti. La nostra sicurezza futura risiede nella loro incapacità di danneggiarci e nel terrore che la severità della nostra punizione saprà instillare nelle loro menti. Uccelli, uccelli da preda. Anche i tratti e il modo di portarsi degli indiani li rendevano simili a volatili, incrocio tra galli e corvi, tra tacchini e aquile. Il modo di parlare poi, era simile a un gorgoglio, a uno starnazzamento, incomprensibile più dello spagnolo o del cinese. Ora i nidi bruciavano uno dopo l’altro: risalendo il Susquehannah lungo il territorio irochese, non un solo abituro, non un singolo fortilizio di selvaggi era rimasto in piedi. Goigouen, Chonodote, Kanadasega… che senso aveva dare ancora un nome alla desolazione, alla rovina, al deserto? Terra Vergine, così avrebbero dovuto chiamarla in futuro. Terra Redenta, consegnata a chi l’avrebbe messa a frutto. John Sullivan si atteneva agli ordini con il massimo scrupolo. Era un nuovo stile di guerra, dettato dalle contingenze, consentito dall’allentarsi della morsa britannica sulla colonia di New York. Fare terra bruciata, annientare il seme di nazioni riottose. Il compito era decisivo, anche se la potenza degli Irochesi era un ricordo lontano: Mohawk, Onondaga, Cayuga e Seneca scontavano con laghi di lacrime e fiumi di sangue la miopia e l’arroganza dei loro caporioni. Un tempo, i letterati delle città sulla costa avevano chiamato quei selvaggi «nobili primitivi» e «ateniesi d’America». La distanza geografica falsa la prospettiva: visti da vicino, i selvaggi erano loschi, sporchi, infidi. Pronti a prostrarsi ai tuoi piedi perché case, campi e possedimenti fossero risparmiati, pronti a spararti alle spalle alla prima occasione. Quegli esempi di nobiltà primigenia erano animali vendicativi: meglio andare fino in fondo, cancellarli una volta per tutte, in modo da proteggere i giorni futuri e la propria discendenza. Quello che stava accadendo era simile alle storie della Bibbia: interi popoli spazzati via, generazioni estinte dalla faccia della terra, città di cui non restava in piedi nemmeno una pietra. Tutto con la benedizione del Dio degli Eserciti, protettore di George Washington, il Distruttore di Città. Sullivan guardò nel cannocchiale il villaggio che bruciava mezzo miglio più a valle e si sentì sfiorato dall’ala terribile della storia. Schiere di fanti e convogli di artiglieria salivano la pista. Tamburi rullavano, pifferi trillavano. Colonne di fumo si alzavano sull’orizzonte. L’aria risuonava degli ultimi spari. Grida lontane. Bisognava essere accurati: questo preoccupava Sullivan. I nidi bruciavano, ma i selvaggi avevano ancora voglia di combattere, si ritiravano nei boschi, vivevano di radici e corteccia, smunti, secchi come scheletri, conservavano l’ultimo fiato che avevano in corpo per ficcarti un coltello tra le costole. Che scappassero pure. Non avrebbero trovato nemmeno un seme di miglio per calmare la fame. Alcuni villaggi erano fatti di case simili a quelle di gente civile, altri erano nient’altro che ammassi di baracche. Tutti avevano intorno palizzate, alcuni sembravano veri e propri fortini, con tanto di Union Jack a sventolare, ultima, inutile provocazione. Ma non si trattava di assediarli: ti appostavi, sistemavi cannoni e mortai, aspettavi l’ordine, incominciavi a far piovere sul nemico la giusta punizione. L’artigliere André Brillemann bevve un sorso e fece passare la borraccia. La pista che saliva dal villaggio era una lunga teoria di volti scavati, corpi dolorosi ed esangui. I prigionieri – vecchi, donne e bambini – procedevano in silenzio. Le donne coprivano il volto con il lembo delle coperte che portavano come sopravveste, infanti sulle spalle o aggrappati al petto. I vecchi tenevano gli occhi a terra, nella polvere e nel fango indurito. L’artigliere odiava quella parte del proprio dovere. Assistere alla sfilata dei vinti, di quei vinti, non lo esaltava. Il dolore è una specie di aura, di bolla maligna, stare troppo a contatto della sofferenza fa marcire gli umori del corpo, fa invecchiare presto. Le settimane di campagna sembravano mesi, anni. Quando si trattava di sistemare il pezzo, calcolare l’alzo, caricare e accendere il focone, André si sentiva bene, erano gesti ordinati, meticolosi, una specie d’arte. I serventi erano un’orchestra ben affiatata: un lavoro pulito. Ringraziò il destino che lo aveva voluto artigliere. Razziare villaggi e accanirsi su gente inerme non faceva per lui. Eccoli lì i fanti, invece. Spingevano i più lenti con il calcio del fucile, urlavano, inveivano, sghignazzavano. Una vecchia indiana inciampò e cadde a terra. Senza pensarci, Brillemann l’aiutò a rialzarsi. – Perché non le dài anche la tua giubba, Samaritano? L’artigliere si scosse. La voce apparteneva a un ex miliziano della Mohawk Valley che batteva la campagna al seguito dell’armata, insieme a una banda di brutti ceffi: un indiano Delaware, un ex mercante di Albany, due cacciatori di pellicce. Il volto dell’uomo era beffardo, ostile. A Brillemann tornò in mente il nome. – Che intendete dire, signor Klug? Dietro Klug si fece largo un altro dei ceffi. – Non sopporto chi spreca commozione per gente simile, – indicò la sfilata alle sue spalle, con un gesto veloce della mano. – Nessuno può dire di essere un patriota americano e provare pietà per quegli animali –. Il volto della guida trasudava odio. Dietro di lui il gruppetto di irregolari, facce spigolose, occhi ridotti a fessure. – Lasciate stare questo soldato. La voce bassa e decisa del sergente Harinck avrebbe dissuaso chiunque. Ma prima che potesse frapporsi tra l’artigliere e il suo persecutore, quest’ultimo si scagliò come una furia contro l’avversario. Brillemann cadde a terra, di schiena. L’avversario lo teneva fermo premendo con la mano sinistra sulla gola, tempestandolo di colpi con la destra. L’artigliere reagì con la forza della disperazione. I corpi presero a rotolare nella polvere, seguiti da urla, calci, imprecazioni, mentre attorno artiglieri e irregolari venivano alle mani. Il generale Sullivan era stato tentato dalla punizione esemplare. Almeno lui, però, si sarebbe attenuto al codice di guerra. Gli uomini che gli erano sfilati davanti avevano la faccia tumefatta, la divisa strappata. Nessuno aveva confessato la causa della rissa. Gli irregolari che sembravano averla provocata erano spariti. Avrebbe dovuto punire gli offesi, il codice di guerra parlava chiaro. Sullivan pensò al sangue che sarebbe uscito sotto i colpi di scudiscio. Poco male, quella terra ne era già intrisa. Firmò la sentenza. Gli uomini uscirono dalla tenda da campo, schiavettoni ai polsi, sospinti dai calci dei fucili. Era l’ultimo dovere della giornata. Chiamò l’attendente, ordinò di non fare passare nessuno. Versò un bicchiere di sherry. Alla luce del lume, sul tavolino che faceva da scrivania, Sullivan aprì il libro che l’aveva accompagnato nel corso di tutta la carriera. De bello gallico. Era adatto al contesto, riprenderne la lettura gli aveva concesso momenti di esaltazione, lo aveva indotto a riflettere, gli aveva fornito modelli ed esempi innumerevoli. Si avvicinavano a Fort Niagara, l’Alesia dei lealisti. La gloria del mondo è transitoria. Un tempo il crollo delle Sei Nazioni sarebbe stato impensabile. Ora l’agonia di quell’antico potentato si intrecciava con l’ascesa di una nuova nazione. All’inizio della guerra, il terrore aveva percorso le città della costa. Si credeva che orde di indiani potessero calare dai boschi e mettere a ferro e fuoco ogni cosa. Burgoyne, lo sconfitto di Saratoga, aveva cavalcato queste fantasie e messo in giro un sonetto in cui parlava degli indiani come di «diecimila cani dell’Inferno», pronti a vendicare l’onore dell’Inghilterra. Stupido. Un tiranno protetto da un branco di selvaggi, ecco la figura che aveva fatto fare al proprio re. Non c’era posto per il passato, in America. 40. Battere d’ali e vento tra le piume. La vista precede la discesa verso la colonna di fumo che presto oscurerà il sole. L’uccello sorvola la radura in fiamme. Tra i campi emergono scheletri che furono capanne, case, magazzini. Una città. Battito d’ali. Un altro giro sulle macerie. Cadaveri gonfi per il calore del fuoco o contorti come legni secchi. Su una catasta di corpi, unico superstite, un cane abbaia impazzito al serpente che risale la collina. Il picchio vola in quella direzione per vedere meglio. L’enorme creatura si muove sulla pista di nordovest, a caccia di nuova preda. Una scolopendra dalla coda acuminata e luccicante, la schiena irta di aculei. Il picchio distingue uomini, bestie, ruote, metallo. Si posa su un ramo per guardarli sfilare sotto di sé. L’odore che emanano fa paura, gli occhi, tanti quanti le stelle, riflettono ancora i bagliori dell’incendio, arrossati dalla caligine. Alla testa c’è un uomo su un cavallo nero come la notte. Indossa una divisa blu e il suo nome è Distruzione. Nella bisaccia della sella custodisce un libro. Nello sguardo trattiene il futuro. Al fianco porta una spada d’oro per la testa del suo nemico. Battito d’ali. Il picchio vola via spaventato, punta verso ovest. Supera l’armata, sorvola la foresta e la collina. L’aria è di nuovo fresca e pulita. Guarda giù, fruga il fitto degli alberi lungo il torrente. Una schiera di uomini risale il crinale, si spostano rapidi per guadagnare la posizione migliore. Il picchio si abbassa. Davanti corre un indiano, divisa rosso sangue aperta a mostrare i segni di guerra. Incrociate sul petto ha due grandi pistole, Odio e Vendetta. È un guerriero e un capo. In mille lo seguono, un branco di lupi, zanne esposte a digrignare rabbia in faccia alla sorte. Saettano tra gli alberi con un fruscio di frecce scoccate, spariscono e ricompaiono, spettri del bosco artigliati a un barlume di fortuna. Sono indiani. Sono bianchi. Combattono insieme da troppo tempo per riuscire a distinguerli. Ancora un colpo d’ali. Il picchio scarta di lato, compie un’ampia virata e torna sopra di loro, solo per vederli disporsi sulle rocce, fucili puntati e cuori in gola, in attesa dell’orizzonte che avanza. Battito d’ali. Il volo guadagna quota, sale a sorvolare ciò che rimane del territorio Seneca. Il mostro sbrana un pezzo alla volta. L’incendio arde le fondamenta della Lunga Casa e sale lungo i muri. L’uccello si spinge ancora più a nordovest, velocissimo, fino a intravedere la costa del grande lago e i tozzi bastioni del forte a picco sull’acqua. Passa sul campo di tende e baracche che cinge Fort Niagara in un abbraccio disperato. Vede le sentinelle inglesi gettare gli avanzi del rancio dalla palizzata, per la folla che si accalca là sotto. Bambini dal ventre gonfio di fame sgusciano tra le gambe degli adulti a caccia dei bocconi migliori. La discesa raggiunge una piccola nave appena salpata. Uno sforzo per rallentare e posarsi sulla murata. Il picchio guarda la donna avvolta in uno scialle di lana grezza, salda sul castello di prua. Il sole illumina i tratti decisi del volto. I marinai non si avvicinano né le rivolgono parola. Lei si volta e allunga la mano ad accarezzare il piumaggio dell’animale, che dopo un attimo spicca di nuovo il volo. Le visioni abbandonarono Molly. Tornò a guardare la distesa piatta che la separava dal domani, i pensieri affilati dall’aria fredda del mattino. Accompagnami nel Giardino, amore mio, al centro dell’Acqua. Sei vicino, lo sento, su questo lago che riflette anche il nostro cielo, il cielo della valle che non rivedremo. Lo porto con me, sul filo della speranza che regge il destino della nostra gente. Resta così poco. La vita è agli sgoccioli, dovrà iniziarne un’altra, se è questo che il Padre Celeste ha in serbo per noi. Fa’ che il vento soffi forte e gonfi le vele. Serve la rapidità del volo. Fino a Montreal e Québec. Dovranno aiutarci o ricevere la mia maledizione. Peter è morto per combattere i nemici del loro re. La mia famiglia s’è lasciata alle spalle terreni, proprietà, fattorie. Il mio popolo ha abbandonato il ventre della nazione. Dovranno concederci quello che ci spetta, non la loro pietà, o perdere l’ultimo briciolo d’onore davanti alle generazioni che verranno. Ci spetta una casa, per accogliere i figli che ancora ci restano. Ci spetta una terra, per piantare i semi che abbiamo salvato dalla distruzione. Per far crescere l’erba sopra di noi, quando sarà tempo. Ci spetta un nuovo cielo, sgombro dal fumo dei cannoni, per interrogare il futuro con la serenità del passato. 41. Arrivarono al forte a metà del giorno. In testa marciava Joseph Brant, seguito da uno sparuto drappello di Volontari e Ranger. Kanatawakhon, Oronhyateka e Kanenonte chiudevano la fila, cani di guardia a un gregge. I fratelli Hough e Daniel Secord erano rimasti indietro con il grosso della truppa, insieme ai Ranger di John Butler. Molti altri erano tornati alle fattorie e alle famiglie, troppo stanchi per continuare la guerra. Alcuni si sarebbero presentati a primavera, pronti a ricominciare. I guerrieri Seneca ancora disposti a combattere erano pochi, la maggior parte, stremata, voleva trattare una pace separata con i ribelli. Il colonnello Bolton aveva schierato la guarnigione per il presentat-arm. Mentre attraversava il campo e varcava il cancello del forte, Joseph colse soltanto miseria. La paura aveva abbandonato quei luoghi, per lasciare spazio alla rassegnazione. Profughi e prigionieri si mescolavano nella grande distesa di tende e baracche, schiacciati dallo stesso destino. Stagione dopo stagione le ondate di esseri umani si erano sovrapposte l’una all’altra, stratificate intorno ai bastioni, escrescenze di muschio su un tronco d’albero. Un altro autunno si avvicinava rapido. Le foglie scivolavano sul lago, formavano isole mobili di colore giallo e arancione. Joseph pensò che poteva essere l’ultimo per tutti loro. Bolton lo invitò nell’alloggiamento degli ufficiali. Joseph lo seguì, troppo stanco anche per rispondere. – Capitano Brant, – esordì Bolton quando si furono seduti. – Immagino non siate foriero di buone notizie. Joseph sollevò il mento per vincere il sonno che lo incalzava da giorni. La marcia verso Fort Niagara era stata senza soste. – Sullivan punta su Geneseo. A Newtown gli abbiamo teso un’imboscata, ma ha mangiato la foglia e ci ha preso a cannonate. Non abbiamo potuto fare altro che stare a guardare mentre distruggeva i villaggi Seneca uno dopo l’altro e bruciava i campi. Ha quattromila uomini con sé e l’artiglieria pesante. Stiamo organizzando l’ultima difesa. Sono venuto a reclutare tutti gli uomini validi. – Non userò giri di parole, capitano Brant. La situazione è disperata. Metà della gente non supererà l’inverno. È inutile dire che quando i continentali arriveranno potrò evacuare soltanto i miei uomini. – Dov’è mia sorella? Bolton sospirò. – È partita per il Canada. Vuole incontrare il governatore. Servono navi e un luogo dove portare la vostra gente. Joseph pensò alla massa di disperati là fuori. Pensò a Molly oltre il grande lago. Pensò ai figli, rifugiati con Margaret a Cayuga. C’era ancora qualcosa che poteva fare. Pendevano dalle sue labbra mentre mostrava loro come si prendeva la mira. Il bersaglio era un ceppo a quaranta passi. Uno alla volta i ragazzi provavano a fare fuoco e ricevevano i consigli di Philip. – Non bisogna mai restare fermi dopo il colpo, ma correre sempre dietro la preda. Uno dei più grandi obiettò che se l’avesse mancata, la preda sarebbe fuggita e certo non si sarebbe fatta raggiungere. Philip annuì. – Ma se l’avessi ferita? Correrà finché le forze non verranno meno. Allora tu dovrai essere lì accanto, a raccogliere la sua vita. Ringrazierai la sua anima, per averti concesso la carne e la pelliccia. Ringrazierai Dio e le tue buone gambe. Scorse la sagoma al margine della spiaggia e smise di parlare. – Quando ci porterai a cacciare il cervo? Philip ignorò la domanda. Una figura familiare si avvicinava. Alle sue spalle riconobbe Kanatawakhon, immobile come una statua, il fucile nell’incavo del gomito. I giovani maschi guardarono il nuovo arrivato con occhi grandi e attenti. Joseph parlò. – Non andrete a caccia di cervi quest’anno. Vi attende un compito più importante –. Il tono era fermo. – Un’armata minaccia il forte e le vostre famiglie. Dovrete combattere per loro. Calò il silenzio. – Chi ci guiderà in battaglia? – chiese qualcuno. Tutti si voltarono verso Philip, in attesa di una risposta, ma il cacciatore rimase impassibile. – Io, Joseph Brant. Il nome li colpì, lo conoscevano bene. Allungarono il collo, scambiarono mormorii. – Partiamo domani all’alba. Procuratevi un fucile. Ma qualsiasi altra arma può andare. Con un cenno congedò i ragazzi, che corsero via eccitati. Philip si alzò e si accostò all’acqua, lasciando che le onde lambissero i mocassini. Joseph lo raggiunse. Le loro orme si mescolarono nella sabbia, fino a che non si ritrovarono fianco a fianco, davanti alla grande superficie fluida. Philip notò che Joseph era invecchiato. La faccia segnata, il corpo pesante e massiccio. – Sei venuto a reclutare i ragazzini? – Anche i vecchi, – rispose Joseph. – Andiamo incontro a Sullivan. Sono venuto a salutarti. Potremmo non rivederci. Il sole iniziava ad allungare la scia di luce sull’acqua. Philip si disse che davanti a quella pace era strano pensare che il mondo finiva. Lunghi capelli biondi gli attraversarono la mente come una vampa. Qualcosa di remoto affiorava su quell’ultimo appiglio di terra, in quella lenta attesa della fine. Molly era andata oltre la distesa d’acqua, a caccia di futuro. Chissà se sarebbe tornata in tempo. – Ricordi tanti anni fa, quando scampammo all’agguato sul fiume? – chiese Joseph. – Uno di noi due sarebbe potuto morire allora. Invece fummo noi, non i guerrieri più esperti, a uccidere i nemici e a uscirne vivi. Philip guardò le onde che spianavano la sabbia e cancellavano le impronte. – Dopo tutto, percorriamo lo stesso sentiero fin dall’inizio, Joseph Brant. – C’è ancora un tratto da fare, – aggiunse Joseph. Philip tornò a scrutare il lago. 42. All’alba il drappello era pronto. Si riempivano le bisacce di provviste e munizioni. Ragazzi con fucili più lunghi di loro abbracciavano le madri. Uomini curvi sotto il peso del tempo sfoggiavano vecchi tomahawk e prendevano congedo dalle anziane mogli. Tekarihoga assisteva alla scena discosto, mormorando una litania. Avvolto in una coperta colorata e con la cresta di piume sul capo, ricordava un gallo rinsecchito. Gli inverni di Niagara gli avevano fatto perdere peso e parecchi denti. Un bambino di pochi anni si rintanò accanto alla cassa che fungeva da sedile e sbirciò i preparativi da dietro i lembi della coperta. Il vecchio lo inquadrò con la coda dell’occhio. Aveva uno sguardo intenso, adulto. La miseria e la fame fanno crescere in fretta. La guerra rende decrepiti. – Non farti vedere o daranno un fucile anche a te, – disse. Il bambino si ritrasse timoroso. – Padrone della Vita, ascoltami, – mormorò Tekarihoga, mentre Joseph usciva dagli alloggiamenti avvolto in un mantello di forza. – Guida il braccio di Thayendanega e mantieni sempre saldo il suo cuore. Portava la giubba rossa sopra pantaloni di cervo. Aveva rinnovato la rasatura, il ciuffo svettava sul cranio. – Fa’ che conduca questi uomini in battaglia come un grande capo, – continuò Tekarihoga. – E se dovesse essere il suo giorno, concedigli una morte onorevole. Joseph raggiunse il centro dello spiazzo, dove Kanatawakhon lo aspettava per porgergli le armi. Incrociò sul petto le fondine delle pistole e impugnò il fucile. In quel momento notò il vecchio sachem e si avvicinò. – Benedicimi, nobile Tekarihoga. L’anziano guerriero gli sfiorò la fronte con la mano. – Dentro ogni uomo si trova il giusto. Lascia che sia la tua stella lungo il sentiero –. Alzò il palmo e lo tenne aperto. – Io ti saluto, nobile Thayendanega. Joseph ringraziò il vecchio sachem con un cenno del capo. Si voltò verso l’adunata di occhi spauriti e stanchi. Non erano stati i sogni della notte a metterla in allerta. Si era svegliata prima dell’alba, nella casa di Molly, e aveva capito perché, la sera prima, aveva trovato una ghirlanda di spighe davanti alla porta. Era stata stupida. Si era lasciata entusiasmare come una bambina. Quel simbolo nuziale non era un dono, ma un messaggio. La gioia le aveva offuscato la mente. Adesso era tutto chiaro, anche se avrebbe dato qualunque cosa per sbagliarsi. Si bloccò sulla soglia della capanna. Philip stava infilando a tracolla la borsa, il fucile accanto, le armi bianche alla cintura. Esther sentì mordere la rabbia. – Perché? – chiese. Philip le si avvicinò e le sfiorò la mano. – Sono più giovani di Peter. Non li lascio da soli. Esther scosse la testa senza riuscire a parlare, sentì le lacrime ritrovare la via, dopo che per molto tempo erano rimaste sepolte in fondo all’anima. Le strinse la mano. Lei lo abbracciò, la bocca vicinissima alla sua guancia. – Portami via da questa distruzione. Philip le accarezzò i capelli e il viso. – Tieni pronta una barca. Io tornerò. Esther si avvinghiò a lui, respirando il suo respiro. – Noi dobbiamo vivere, Philip. Dobbiamo vivere per chi non può più farlo –. Il pianto le strozzò la voce. Lui le asciugò le lacrime con una carezza. Esther sentì il fiato mancare. Si accorse di non riuscire a pensare al momento successivo, all’ora che sarebbe venuta, al giorno dopo. Si sentì su un baratro, pietrificata, e implorò il cielo che accadesse davvero, che li tramutasse in statue, che niente potesse sciogliere quell’abbraccio. Philip la strinse più forte. – Tornerò a prenderti e andremo via. – Giuralo, – disse lei. – Te lo giuro, Esther Johnson. Sciolse l’abbraccio e le accarezzò di nuovo il volto. – Dillo ancora, – sibilò lei trattenendo i singhiozzi. – Te lo giuro. Lo sentì raccogliere il fucile. Non alzò gli occhi per vederlo andare via. Tekarihoga lo vide raggiungere il gruppo. I giovani sorrisero. Qualcuno sollevò il fucile e lanciò un grido di entusiasmo. Joseph diede l’ordine e partirono di corsa. Passarono davanti al sachem, rapidi e leggeri. – Guarda, piccolo, – disse il vecchio rivolto al bambino accucciato ai suoi piedi. – Guardali bene. Un giorno, quando io sarò morto da molto tempo, potrai dire di avere visto Thayendanega e Ronaterihonte correre insieme. 43. Quando sentì la scheggia conficcata sotto l’occhio, Henry Hough decise che non avrebbe fatto la fine del topo. Il tempo scorreva a vantaggio del nemico. Confidare sulla rapidità era stato l’unico errore di un piano semplice. L’avanguardia di Sullivan aveva perso contatto con il grosso dell’armata. I cannoni non erano riusciti a superare un guado e c’era stato bisogno di costruire un ponte. Quelli davanti, intanto, avevano guadagnato almeno una giornata di marcia. L’idea era di attaccarli sulla pista, farli prigionieri e poi riprendere posizione con gli altri per la grande imboscata. Se Joseph Brant fosse giunto in fretta con i rinforzi da Niagara, tanto meglio. Altrimenti avrebbero fatto da soli. John Butler aveva approvato l’idea. L’accerchiamento era andato liscio, ma quei venti bastardi s’erano rintanati dietro un pugno di rocce, e a quanto pare erano i tiratori più dritti d’America. Non c’era verso di snidarli, e prima che finissero le munizioni gli altri potevano essere lì. Quattromila uomini e una batteria di cannoni. La fine del topo. Hough raggiunse i Butler, che spiavano i nemici da dietro un tronco. – Possono tenerci qui quanto vogliono, – ringhiò. – Dobbiamo stanarli. Walter Butler lo guardò in cagnesco, mentre il padre stringeva la mascella nervoso. – Maledizione a noi, – urlò in faccia a Hough. – Se ci sfuggono, avvertono Sullivan e l’imboscata fallisce. Hough guardò oltre il fumo degli spari. Poteva distinguere i capelli rossi di uno dei cecchini. Valutò la distanza in una settantina di passi. Bisognava andargli addosso, non c’era alternativa. Costringerli a mollare quelle dannate rocce, spingerli ancora verso la squadra di Secord, come uccelli nelle reti. La superiorità numerica era schiacciante, se partivano insieme non avrebbero sacrificato più di venti uomini. Sperò di non essere nel numero. Lanciò il grido d’attacco e balzò allo scoperto. Mentre iniziava a correre con le armi in pugno, vide che gli altri lo affiancavano veloci. Fece fuoco davanti a sé, senza nemmeno puntare. Pochi passi e l’impatto rischiò di buttarlo a terra. I bastardi non s’erano lanciati verso la rete, ma contro i battitori. Gli uccelli non lo facevano mai. Vide suo fratello sputare sangue, infilzato da una baionetta. Sguainò il coltello da caccia e si scagliò in avanti, colpì l’avversario alla gamba, al braccio, al collo, finché non stramazzò. Si strinse al fratello che annaspava a terra. Gli cinse le spalle per sorreggerlo. Il sangue gli tinse le mani, la giubba, la faccia. – Cristo santo, Johnny. – Henry. Sto crepando, Henry… – Johnny –. Cercò di sollevargli la testa che ricadde inerte. – Johnny. Il corpo del fratello giacque esanime tra le sue braccia. La squadra di Secord rientrò per ultima all’accampamento. Portavano uomini malconci, con una corda al collo. – Abbiamo preso questi quattro, altri undici sono rimasti per terra, – disse Secord. – Se li abbiamo contati bene all’inizio, ne sono scappati cinque. Le ultime parole ferirono i guerrieri come una coltellata. I sopravvissuti avrebbero allarmato Sullivan, l’agguato sfumava e la capitale dei Seneca distava meno di dieci miglia. Senza poter contare sulla sorpresa, non c’era modo di evitare la distruzione. L’armata ribelle avrebbe svolto il suo compito, con lo scrupolo che la rendeva già leggenda. La porta occidentale della Lunga Casa sarebbe crollata, e dalla soglia i cannoni di Sullivan avrebbero puntato Fort Niagara. John Butler taceva tetro. Lanciò un’occhiata ai prigionieri. Ordinò di portare i due bianchi nella sua tenda e lasciò gli Oneida ai guerrieri, perché sfogassero la rabbia. Henry Hough gli si parò davanti. – Perché devono divertirsi soltanto loro? Butler lo fissò negli occhi e quello che vide lo fece rabbrividire. – È l’usanza con i prigionieri, – disse. – Gli indiani agli indiani. Secord spuntò alle spalle del compare, piazzandosi vicino all’ingresso della tenda dove avevano portato i ribelli. Walter Butler affiancò il padre, pronto a scattare. – I bianchi ai bianchi, – disse Hough. Butler capì. Lanciò occhiate intorno, nessuno faceva caso a ciò che stava accadendo. I guerrieri danzavano in cerchio. Avevano sfilato gli intestini dall’addome di uno degli Oneida e con quelli lo legavano al tronco di una quercia. Il sudore gli colò negli occhi. Anche Hough era madido, sollevò appena la tesa del cappello e passò una mano sulla pelata, per poi tornare a fissarlo. Butler sentì il figlio spostare il peso in avanti, ma lo fermò con la mano. – All’inferno, – sibilò, prima di allontanarsi trascinando Walter per la manica. Sulla soglia attesero che gli occhi si abituassero alla penombra. Riconobbero i prigionieri, seduti, le mani legate dietro la schiena. Secord andò a mettersi in un angolo, trovò dei sonagli di tartaruga e cominciò ad agitarli. Hough si accostò a quello biondo e lo guardò a lungo. – Sono il tenente Boyd, dell’esercito continentale americano. Mi dichiaro prigioniero del capitano Brant. Hough annuì serio. – Tenente. Vorreste diventare capitano? O magari colonnello? – Estrasse il pugnale e prese a pulirsi le unghie. Il prigioniero lo guardò incredulo. – Io no, – proseguì Hough. – Niente gradi, niente firma. Da questa guerra me ne vado quando mi pare e nessuno può dirmi niente. Si volse all’altro uomo legato, che occhieggiava la lama nervoso. Henry Hough fece uno scatto e gli tagliò di netto una narice. Il sangue schizzò sulla tenda. Le urla non richiamarono nessuno. Boyd si contrasse, la faccia pallida e terrorizzata. Secord agitò ancora i sonagli, con falsa allegria. – Io sono qui per due motivi soltanto, – riprese Hough. – Il primo era difendere casa mia, giù a Oquaga, ma qualcuno dei vostri l’ha bruciata. Si avvicinò ancora al tenente, gli afferrò i capelli sulla nuca e gli infilò in bocca una manciata di terra. Poi con l’indice prese a scavargli un occhio, con la stessa meccanica determinazione che avrebbe usato per cavare il nocciolo da una pesca. – Il secondo è che ci ho preso gusto, – disse mentre l’unghia affondava nell’orbita. Il tenente gemette, deglutì la terra, provò a parlare, ma una seconda infornata lo rimise zitto. L’altro si fece coraggio. Il sangue gli colava sul collo e sul petto. Disse che avevano informazioni da barattare in cambio della vita. Rimediò un pugno in bocca e l’invito a esprimersi con franchezza, se il labbro spaccato glielo consentiva. – Fateci parlare con il capitano Brant, – annaspò il tenente prima che l’altro parlasse. Hough li guardò, e senza una parola uscì dalla tenda. Tornò poco dopo. Secord non suonava più, i prigionieri erano nudi e uno singhiozzava. Il tenente parlò in tono concitato all’indiano che gli si parava davanti. – Capitano Brant, in cambio della vostra clemenza possiamo rivelarvi i piani del generale Sullivan. – Cosa dice? – chiese il Seneca rivolgendosi a Secord nella sua lingua. – Non importa. Vai avanti. L’indiano approntò le braci. Hough tirò fuori dalla bisaccia un sacchetto di orecchie di porco e si mise a masticarle insieme all’amico, godendosi la scena. Secord riacciuffò i sonagli e riprese a scuoterli, per coprire le urla. Alla fine, il tenente alzò una mano. Secord si interruppe. Hough deglutì il boccone, si avvicinò e raccolse i sussurri del prigioniero. – Bene, tenente Boyd, ci tenevate che il capitano Brant sapesse questo, – disse. – Glielò riferirò, avete la mia parola. – Pietà, – riuscì a biascicare Boyd. La testa cadde in avanti, sul petto di Hough, che prese ad accarezzargli i capelli dorati, ignorando le suppliche del prigioniero. – Ascolta. Casa mia non c’è più, questo te l’ho già detto, e nemmeno mio fratello. Era uno stupido, ma gli volevo bene ed era tutta la mia famiglia. Magari l’hai ucciso tu, magari no. Il caso ha voluto che tu capitassi sulla mia strada proprio oggi. L’insondabile volontà di Dio. Per noi due la guerra finisce qui. Ti porto con me a Geneseo. Accoglierai il tuo generale come si conviene. 44. Correvano da quattro giorni. Si erano concessi appena il tempo di mangiare e riposare, quanto bastava a recuperare le forze. I più vecchi iniziavano a rimanere indietro. Philip aveva deciso di marciare in coda alla colonna, per essere certo che nessuno crollasse. Anche i ragazzi erano stanchi. Non avevano mai affrontato una fatica simile. Non mancava molto ormai, Geneseo distava una ventina di miglia. L’indomani avrebbero raggiunto il campo di Butler per riunirsi al grosso del contingente. Poteva essere l’ultimo momento di riposo prima dello scontro. Seduto in mezzo al bivacco, Philip osservò i volti uno a uno, come davanti a un affresco. I corpi mandavano un’energia che non aveva il sapore del sangue e del piombo. Parevano gli abitanti di una città sconosciuta, in marcia per fermare un uragano o un’inondazione. Guardava i ragazzini dagli occhi increduli e non li immaginava lottare al coltello. Li vedeva nel bosco, a caccia del cervo, o a nuotare in un fiume. Guardava i guerrieri attempati e non si domandava quanti nemici potessero uccidere, ma dove avrebbero portato le famiglie all’inizio dell’inverno. Li vedeva circondati di figli e nipoti, morire nel villaggio dei padri, non coperti di polvere e sangue. Guardava i volontari bianchi che scortavano Joseph, e vedeva mercanti, contadini, fabbri e falegnami. Aveva occhi nuovi. Forse avrebbe visto le stesse cose anche sulla faccia dei nemici. Gli uomini di Sullivan erano tedeschi, olandesi, inglesi whig e irlandesi, esuli corsi, mercenari svizzeri, guide Oneida e Tuscarora. Di sicuro alcuni combattevano per un principio, altri per la paga, altri ancora per gloria o paura. C’era chi aveva seguito il fratello maggiore e chi s’era arruolato contro il parere del padre. Alcuni odiavano, altri cercavano un tornaconto. Philip sapeva del motto che Sullivan portava sugli stendardi: «Civiltà o morte». I suoi soldati lo gridavano in coro, per brindare alla distruzione. Lo gridavano alle case di pietra e ai campi coltivati, agli abiti di lana e ai fucili. Lo gridavano a un’alleanza di popoli che s’era data una legge di pace, in un tempo remoto. Lo gridavano, per dire che chiunque non fosse uguale a loro meritava lo sterminio. Eppure nemmeno tra loro si assomigliavano. Philip tornò a guardare la pianura. Dopo molte lune era di nuovo pronto a combattere, anche se non c’era più un popolo da difendere. Noi dobbiamo vivere, ripeté Esther nella sua mente. Se mai quello che stava per succedere gliel’avesse concesso, sarebbe tornato indietro a cercare quel nuovo inizio. Anche le sentinelle che segnalarono il loro arrivo sembravano contagiate dall’umore dell’accampamento. Aria di smobilitazione. Joseph condusse la colonna di vecchi e ragazzi intorno ai fuochi ancora accesi, perché riposassero e mangiassero qualcosa. Philip lo affiancò e gli sfiorò il braccio. Indicò i pali di guerra: sotto un nugolo di mosche, due Oneida sventrati. I più giovani li guardarono impressionati. Joseph si irrigidì e vide John Butler venirgli incontro. – Le novità non sono buone, Joseph Brant. In poche frasi raccontò dell’attacco fallito all’avanguardia nemica. Joseph resse il colpo. – Sullivan è troppo furbo per lasciarsi sorprendere, ora che è stato avvertito, – aggiunse Butler. – Non possiamo reggere una battaglia in campo aperto. Sono troppi. Geneseo è spacciata. Joseph guardò Philip. Vide la propria delusione riflessa negli occhi dell’amico. La corsa era stata inutile. Indicò gli uomini che toglievano le tende. – Dove vanno? – A casa, – rispose Butler, mentre osservava l’accozzaglia giunta da Niagara. – Rimanda indietro questa gente. Che tornino dalle loro madri –. Scorse le capigliature grigie. – E dai figli, – aggiunse. – Non possiamo fare più niente. È finita, Joseph. I Seneca combattevano per Geneseo, nient’altro. Ora torneranno a crepare di fame e di freddo a Fort Niagara –. Azzannò il tabacco. – Anche i nostri vogliono tornare a casa. Quelli che ne hanno ancora una. Gli altri li porto con me a Oswego. Quando Sir John scenderà da Montreal con i rinforzi, riprenderemo la guerra. – Abbandonate Fort Niagara? Butler sospirò e si fece più vicino, come se volesse condividere un segreto. – Abbiamo estorto informazioni ai prigionieri. Non è Niagara l’obiettivo di Sullivan. Joseph rimase zitto, valutando l’informazione più inaspettata. – Punterà a est, – aggiunse l’irlandese. Nel silenzio che seguì i pensieri di Joseph viaggiarono veloci, percorsero la pianura fino alle Cinque Dita, e poi ancora oltre, fino alla valle del Mohawk. – Vuole distruggere le altre città, – disse Butler. – Spazzare via tutto. Joseph fissò le braci. La tentazione di piegare le spalle era forte. La stanchezza del viaggio stava per avere il sopravvento. Le forze erano impegnate a tenere a bada l’angoscia. Pensò che le Sei Nazioni presto sarebbero state cenere. Abbandonate al loro destino dagli alleati. Prima Guy Johnson. Poi Sir John e Daniel Claus. Infine John Butler. Aveva combattuto al suo fianco fino all’ultimo, ma ormai anche per lui gli indiani erano una palla al piede di tremila affamati. La voce del figlio richiamò l’attenzione di Butler. Walter era pronto, i Ranger si stavano disponendo in colonna. – Vieni con noi, – disse il vecchio irlandese. Joseph restò immobile. – Ti aspetteremo a Oswego, – aggiunse Butler, scuro in volto. Dietro di lui i Ranger si misero in marcia, silenziosi e stanchi. Anche i Seneca partivano alla spicciolata, piccoli gruppi di guerrieri sparivano lungo il sentiero. Joseph controllò le provviste e l’acqua nella borraccia. – Sullivan va a est, – disse rivolto a Philip. – La prima città sul suo cammino è Cayuga. Ci sono i miei figli laggiù. Mia madre. – Sono quasi novanta miglia. – Riporta gli anziani e i ragazzi a Niagara, – ordinò Joseph. – Sono venuti fin qui. Troveranno la via del ritorno, – rispose l’amico, infilando la tracolla del fucile. – A Cayuga ci sono vecchi e bambini. Dobbiamo portare via tutti. – Noi due soltanto? Philip indicò alle sue spalle. – Sembra di no. Joseph si volse e vide Kanatawakhon fermo a pochi passi, appoggiato alla canna del fucile, pronto a partire. Senza altre parole i tre uomini si incamminarono verso il margine del campo, ma le figure di due guerrieri si pararono davanti a loro sul sentiero. – Volete andare contro Sullivan da soli? – chiese Oronhyateka. – Andiamo a salvare i miei figli, – rispose Joseph. – Un’impresa degna d’essere ricordata? – chiese Kanenonte. – Degna di un figlio del clan del Lupo. Kanenonte sorrise, mentre Oronhyateka lanciava l’ululato di guerra. Corsero attraverso la piana e nel fitto degli alberi, incalzati dal crepuscolo e dalla sorte, un’armata di cinque uomini e molti fantasmi. Corsero per salvare un pugno di anime dall’Apocalisse. Corsero, perché così era scritto. Ora che il tempo finiva, ogni cosa trovava compimento. 45. Gemello Sinistro è il ghiaccio. È il signore dell’inverno, freddo, scivoloso, tagliente cristallo di rocca. È una tempesta da nordovest, gelo che si insinua tra le fessure delle baracche. Uomo di Ghiaccio, Cuore Freddo Freddo, Specchio di Pietra: alcuni dicono che la sua vera natura sia il Turbine. Gemello Destro è il fuoco. È il signore dell’estate, caldo, umido, morbido terriccio. È vento tiepido da sudest, è fiamma che fa bollire l’acqua e cuoce il cibo. Padrone della Vita, Reggitore del Cielo, Dio Padre: alcuni dicono che la sua natura sia il Raggio di Sole. Anche Distruzione procede da sudest, ma è una nuvola carica di grandine che avanza occupando il cielo. Dalla pancia piovono lampi, i suoi messi devastano la terra. Nella nuvola c’è il fuoco, ma non appartiene a Gemello Destro. I Bianchi ne hanno usurpato la direzione, da quando passarono l’oceano tutto è confuso, e da est giunge spesso il lutto. Il rum, il vaiolo sul suo cavallo scheletrico, e ora questo: colonne di fucili, baionette e cannoni. Il fuoco spinge il cuore dell’uomo bianco. Sangue incessante, frenetico, nutre sterminate distese d’uomini, più di quanti sia possibile immaginare, più del più grande stormo di colombi migratori. Attendono Distruzione per riversarsi come locuste e porre fine ai nostri giorni. All’imbrunire di un giorno breve e freddo, il generale Sullivan prese la decisione. Una pioggia livida cadeva sulla cerata e sul tricorno, le froge del cavallo mandavano sbuffi di fumo. Gli uomini procedevano a capo chino. Niente tamburi, niente pifferi, le bandiere impregnate d’acqua. Stanchezza. Oltrepassata Geneseo, la tappa successiva non poteva essere che Niagara. Guarnigione inglese, profughi, molti guerrieri. Avevano certo ricevuto provviste, armi e munizioni dal Canada. L’inverno si preannunciava lungo e gelido. Sarebbe stato un assedio terribile, non solo per quelli all’interno. Sullivan pensò a mesi e mesi davanti al cuneo di fortificazioni. Le mura erano solide. Là, anche i tory avevano i cannoni. Sullivan ripensò agli ultimi avvenimenti. La guerra tra genti diverse, senza nessuna legge comune, è per forza crudele, gli episodi di pietà sono assenti, l’anima bestiale si mostra nelle forme più ripugnanti. Sullivan rivide il corpo del tenente Boyd legato a un albero, all’entrata di Geneseo. Decapitato, sviscerato in modo che le interiora fungessero da legaccio e macabro ornamento, orrida offerta ai demoni dei selvaggi. Sentì nel profondo dell’anima che l’impresa andava portata a termine, con intelligenza e freddezza, per liberare la futura nazione da vicini così scandalosi, così immorali. Sullivan aveva deciso. Si tornava indietro, proprio per non contravvenire all’ordine di Washington. Devastare in maniera definitiva il territorio delle Sei Nazioni, spargere il sale sulle rovine. Delenda Carthago. Ogni casa doveva essere distrutta, ogni campo rovinato, ogni traccia della presenza di indiani cancellata. La cosa giusta da fare. Deviare a est, verso Cayuga e la valle del Mohawk. In certi momenti la saggezza è follia, e l’incoscienza è l’unica saggezza. La morte di un uomo dona vita ai vermi e alle larve. Anche queste muoiono, e dalla terra grassa sorgono i fuochi dei villaggi. Bambini succhiano latte, giovani si dipingono la faccia pronti a dare la morte. Donna del Cielo chiese ai Gemelli: – Sapete da dove provenite? E sapete dove andrete quando il vostro viaggio su questa terra sarà terminato? Gemello Destro rispose: – So da dove veniamo. È dal cielo che siamo giunti, dal mondo al di sopra delle nuvole. Non lo dimenticherò. Quando verrà il tempo, tornerò nel luogo da dove sono giunto. Donna del Cielo si compiacque. – Ti chiamerò Reggitore del Cielo. Poi si rivolse all’altro. Gemello Sinistro disse: – Che bisogno ho di sapere da dove vengo e dove andrò quando lascerò la terra? Non datemi il mal di testa parlando di un altro mondo, perché adesso sono in questo. Sono giovane, sono forte, e qui in giro ci sarà da divertirsi. Facevano sempre così. Seguire l’armata, completare il lavoro. Sullivan si preoccupava di devastare, distruggere, sradicare: il saccheggio non era troppo accurato. Dietro l’ultima retroguardia, cominciava il lavoro degli irregolari. Quando i soldati avevano oltrepassato l’orizzonte, o si erano persi nella pancia fitta del bosco, le donne che erano riuscite a fuggire tornavano, per prime le più coraggiose. Giungevano alla spicciolata: se ti concentravi sul primo gruppo, avevi tutto il tempo di fare i tuoi comodi. Bastava rimanere al coperto, spiare i movimenti, vedere dove i selvaggi avevano nascosto le cose più preziose: di solito le seppellivano. Allora Nathaniel Gordon e i suoi uscivano allo scoperto: iniziava la danza. Non c’è guerra senza saccheggio, non c’è saccheggio senza stupro, un buono stupro va coronato con l’uccisione. I cadaveri delle donne sembravano vuoti manichini. Le zone di carne esposta al vento del Nord erano livide, oscene. La più giovane rivolgeva gli occhi al cielo, sembrava domandare qualcosa. Klug contava le monete d’oro estratte da un forziere in legno e pelle. C’erano bei soldi là dentro. Si ripeteva che la sua scelta era stata giusta: cacciato dalla milizia, aveva pensato che occorrevano ancora un po’ di guerra e di scalpi per tornare a German Flatts da patriota. Buttò un occhiata intorno. Nathaniel Gordon dava ordini agli altri, la guida Delaware rideva e correva dietro un cane. Il cappello con le orecchie cadde e rotolò nella polvere. A un certo punto il cane si fermò, girò su se stesso, zampe diritte, incominciò ad abbaiare e digrignare i denti. Il Delaware gli sfondò il cranio con il tomahawk. Cristo, che cosa stava facendo il selvaggio? Aveva tirato fuori il coltello, gli aveva aperto la pancia, lo stava scuoiando. La carcassa aveva i muscoli e il rado grasso esposto, al freddo. Gli altri avevano acceso un fuoco. – Ne vuoi anche tu, Klug? – Cristo, no! Non mangio roba da selvaggi, per Dio. Nathaniel Gordon ridacchiò. – Si vede che sei un contadino, Klug. Eppure pensavo che queste settimane ti avessero svezzato –. Puntò occhi freddi in quelli del tedesco. – Per quanto mi riguarda, questa carne è buonissima –. Addentò un brano del cane scoprendo denti giallastri. Masticò con espressione compiaciuta. – Dopo aver fatto la guerra, mi viene una fame del diavolo. Metterei arrosto anche cuccioli di selvaggio, se ne trovassi –. La compagnia scoppiò a ridere. Il Delaware si pulì i denti con la punta del coltello. Nathaniel Gordon proseguì. – Andiamo, Klug, non sai cosa ti perdi. Non vorrai offendere il nostro amico primitivo. Klug espirò con forza. I suoi compagni facevano paura. Troppo facile dispiacere a quella gente. Eppure non si era tirato indietro, nemmeno nelle imprese più ripugnanti. I corvi facevano giri larghi, sopra il fumo delle macerie. Una nube di vapore si formò davanti a bocca e narici, svanendo in fretta. Klug deglutì e accettò un pezzo di carne. Lo portò alla bocca e prese a masticare. 46. Ancora un mese, poi il gelo, la neve, il letargo. Le prede grosse erano rare nella stagione fredda e le foreste intorno al lago Cayuga non facevano eccezione. Quel mese avrebbe detto a tutti se Isaac Brant era un buon cacciatore. Abbattere il primo cervo a dodici anni, come i migliori guerrieri della nazione. Mentre puliva lo jaeger, studiò la giornata che lo attendeva. Veli di bruma attraversavano il villaggio. Le grandi case di tronchi squadrati apparivano a scorci e, oltre la palizzata che le proteggeva, creste di faggi squarciavano il grigio. Quando uscì, il sole era dietro le montagne e i rospi gioivano dell’aria fradicia. Tolse di tasca una piccola borraccia e versò in gola rum che sapeva di melassa e tabacco. Fece un ultimo controllo di polvere, cartucce e coltello, buttò giù un altro sorso. Poteva fare con comodo, nessuno lo aspettava, a parte il cervo che aveva sognato. Da mesi andava a caccia da solo. Non c’era molta scelta, a Cayuga: bambini piccoli, donne, vecchi dalla mira incerta che non volevano sfigurare davanti a un ragazzo. Quelli della sua età cacciavano in gruppo, ma facevano tanto chiasso che non prendevano mai niente. – Non è un buon giorno per uscire nei boschi. La voce di nonna Margaret lo colpì alla nuca. Isaac la vide e restò a distanza: il puzzo della vecchia gli dava il voltastomaco. Stava sempre infagottata in quella coperta, seduta in poltrona, tutto il giorno e anche di notte. – C’è una macchia scura nel sole e il vento odora di fuoco e carogne. Isaac si allontanò facendo scongiuri. Il sole non s’era ancora visto e il vento non spirava da giorni. Sulla strada, un bimbo lo salutò con la mano, da sopra le spalle di sua madre. Isaac accelerò il passo: un vero cacciatore ha occhi solo per la preda. Donne e marmocchi sono inutili distrazioni. Imboccò un sentiero nel bosco che incrociava una pista di cervi, cinque miglia più a monte. Non aveva camminato duecento iarde, che un rumore lo inchiodò. Piedi che correvano e spezzavano rami. Un trambusto che nessun cacciatore farebbe, nemmeno inseguendo un cerbiatto a rotta di collo. Isaac si nascose dietro un tronco, l’anima in tumulto. La metà destra sperava che fosse gente conosciuta, l’altra che fossero nemici. Sollevò il cane del fucile e proprio in quel momento il rumore cessò. Silenzio. Solo il lamento dei colombi in lontananza. Poi un fruscio che da un punto più in alto si moltiplicava e correva in più direzioni. Lo circondavano. D’istinto si buttò in discesa. Uno degli inseguitori urlò. Isaac riconobbe il grido di guerra del clan del Lupo, rallentò per un attimo, si voltò indietro. Con la coda dell’occhio colse un’ombra che arrivava, non fece in tempo a spostarsi. Si ritrovò a terra. – Isaac? Fermi, è Isaac. Era la voce di Jacob Kanatawakhon, che già si rialzava e gli porgeva la mano. Subito dopo arrivò suo padre. – Dove sono Christina e Margaret? Comparvero altri uomini di Canajoharie. Philip Lacroix, Jethro Kanenonte, Paul Oronhyateka. – Alzati, bisogna avvertire tutti. L’armata di Sullivan è a poche miglia da qui. Isaac ignorò la mano e si tirò su da solo. Spalancò gli occhi. Era in compagnia dei guerrieri più valorosi del clan e sentì che quel giorno gli sarebbe rimasto nella memoria più di una grande caccia. Fece segno di seguirlo, e si lanciò a perdifiato verso Cayuga. Le notti erano fredde, contratte, un abisso buio. Sotto il peso delle coperte Klug si rattrappiva come un animale malato, la schiena e le gambe percorse dai brividi. Lungo dormiveglia, Klug cadeva addormentato appena prima dell’alba e subito un calcio nelle costole, un richiamo arrabbiato lo svegliavano. Era dura la vita del razziatore. In più, c’era la faccenda della carne di cane. Non sapeva perché, ma aveva l’impressione che dopo quell’episodio qualcosa fosse cambiato. Adesso erano in avanscoperta. Non potevano accendere fuochi per cucinare, da giorni si nutrivano di carne secca e Klug aveva un nodo al posto delle viscere. Non sognava mai. Entrava per pochi minuti in un imbuto di tenebre, quando i pensieri che correvano nella testa lo lasciavano libero. Da giorni, quello era tutto il suo sonno. Sensazione umida sulla fronte e le guance. Aprì gli occhi e guardò in alto. La figura si compose a fatica, emergendo da una nebbia indistinta: Nathaniel Gordon, alto come un gigante, si tirava su le brache. Klug si mise a sedere di scatto. La banda esplose in una grottesca risata. Il Delaware aveva il corpo scosso da singhiozzi. Gli occhi lacrimavano, la bocca rideva e rideva, sguaiata, stridente. Dalla gola usciva un lamento, come di maiale scannato o sgualdrina indiana quando le aprivi le gambe. Nathaniel Gordon cambiò espressione d’improvviso. Tutti tacquero. – Muoviti, Klug. Sei sempre l’ultimo, sei una palla al piede. Non so chi me lo fa fare di portarti con noi. Si rivolse al resto dei compari. – Andiamo, il villaggio ci aspetta. Uno dei razziatori intervenne. – Appunto, Nat. Il villaggio ci aspetta. Magari succede come a Secondaga, un vecchio salta fuori dal nulla e inizia a spararci contro. Non sarebbe meglio aspettare anche Klug? Potremmo avere delle sorprese, più siamo meglio è. Nathaniel Gordon scosse il capo. – Intanto che arriviamo al villaggio, Klug ci avrà raggiunto. Anche se rimane indietro, non sarà una gran perdita. La ghenga si avviò lungo il sentiero che scendeva verso Cayuga. Klug si mosse più in fretta che poteva, le ossa dolevano, odiava rimanere indietro, da solo, in mezzo al bosco. Si guardò attorno ansioso, tese le orecchie, mentre le schiene dei compagni si allontanavano verso valle. Radunò in fretta le sue cose, issò lo zaino sulle spalle, poi ristette per un secondo. Il fucile, il fucile era scarico, non era sicuro andare in giro per i boschi con le armi scariche. Depose lo zaino, caricò in fretta. La prima cartuccia cadde spargendo il contenuto sul suolo umido. Imprecò, completò l’operazione – capsula cartuccia stoppaccio, calcare bene fino in fondo alla canna – mise il fucile a tracolla, guardò il sentiero e si mosse. I compagni sparivano nella mezza luce dell’alba, dietro l’ultima curva. Philip camminava piano. Passava in rassegna la colonna di profughi. Tutto era pronto per la partenza. Una cinquantina di persone, forse sessanta. Donne, bambini. Vecchi le cui braccia non avrebbero retto il peso di un tomahawk. Ragazzini che impugnavano bastoni, coltelli, qualcuno addirittura un fucile rugginoso, scarto della vecchia guerra. Buono al massimo come randello. Oronhyateka e Kanenonte scherzavano, soppesavano quelle povere armi, suscitavano ammirazione raccontando le loro imprese di guerra. Kanenonte si batté il petto con un pugno, poi lo puntò verso Philip, per indicarlo: – Vedete? Noi combattiamo al fianco di Joseph Brant e del Grande Diavolo. Loro si fidano di noi. Philip passò oltre. Kanatawakhon fissava gli alberi intorno, e i cespugli, anche i sassi sul sentiero, come se si aspettasse di vedere sbucare nemici in forma di lucertole. Isaac stava in cima, primo della fila, armato, accigliato, fiero. Guardava di fronte a sé e respirava gonfiando il petto. Tremava e non voleva darlo a vedere. Somigliava a Joseph da giovane, pensò Philip. Joseph era in fondo, intento a convincere sua madre. – Te l’ho detto, Margaret. Dobbiamo andare via subito, non c’è da attendere un battito d’ali. La vecchia, avvolta nella coperta ammuffita, stringeva a sé Christina e guardava gli alberi, come Kanatawakhon. – Ti dico che il vento odora di carogne. Di fuoco e carogne. Non possiamo partire adesso, finiremmo dritti nella puzza e nelle fiamme. – Non tira un filo d’aria, madre. Il fuoco divamperà qui, se non partiamo in fretta. – Non ti riconosco più, Joseph, mi sembri un bianco! Come fai a non sentire il tanfo? Le carogne sono più avanti sul sentiero! Philip sentì rizzarsi i peli delle braccia. Si avvicinò a Kanatawakhon. – Cosa ti preoccupa, fratello? – Rumori, Grande Diavolo. Sono deboli, ma li ho avuti nelle orecchie, ne sono sicuro. – Con tutto questo vociare, il tuo udito potrebbe essersi ingannato. – No, Grande Diavolo. Ho addestrato le mie orecchie a non burlarsi di me. Ho sentito qualcosa sotto le voci. – Sullivan? – chiese Philip. – No. Sarebbero rumori grossi e pesanti come orsi. Questi sono insetti. Si avvicinarono a madre e figlio, il battibecco era ancora in corso. Philip mise una mano sulla spalla di Joseph: – Forse tua madre ha ragione, – gli disse. – Strani movimenti, qui intorno. Meglio andare a vedere. Joseph corrugò la fronte. – Ascolta il tuo amico, Joseph, – disse la vecchia. – È un bravo Mohawk, anche se è francese. Chiamarono Oronhyateka e Kanenonte. Dopo un rapido conciliabolo, fu deciso che la colonna sarebbe partita, con prudenza e in silenzio. I cinque guerrieri l’avrebbero preceduta di mezzo miglio, ai lati del sentiero, passando rapidi da un albero all’altro. Se avessero intercettato il nemico, avrebbero cercato di sorprenderlo ed eliminarlo, mentre la colonna proseguiva il cammino. In seguito si sarebbero ricongiunti a essa, per scortarla nel lungo viaggio. Joseph chiamò Isaac: – Sei un uomo ormai. Noi dobbiamo controllare che la via di fuga non sia pericolosa. Finché non torniamo, affido a te la protezione di Margaret e Christina. Isaac si irrigidì come fosse sull’attenti, sollevò il mento e a denti stretti disse: – Le difenderò. Joseph sentì un sibilo. Si volse, Philip era accucciato dietro un albero. Annusava l’aria che scendeva dalle colline. Uno schiocco di lingua da un guerriero all’altro riunì il gruppo. Presero a salire lungo il crinale, poi Philip fece cenno di allargarsi. Oronhyateka e Kanatawakhon si acquattarono al riparo di un grosso tronco di pino. Philip, Joseph e Kanenonte si nascosero nell’erba alta. Philip si accovacciò, reggendosi con il fucile. Guardava il suolo, respirava lento. Klug camminava spedito. Si rese conto che poteva mettere un piede in fallo, il sentiero era in discesa, sconnesso, le spalle erano gravate dal peso della sacca e del fucile. Era stanco morto, a pezzi, a ogni passo giurava che sarebbe tornato a casa, a German Flatts, a occuparsi di politica, tanto ormai la guerra l’aveva fatta, lo sapevano tutti. Dove erano gli altri? Klug cercò il resto del drappello, li vide ottanta, novanta iarde più avanti. Li seguì con gli occhi mentre affrettava il passo. Ci fu uno sparo, una nube di fumo. Uno dei compagni cadde. Gli altri imbracciarono i fucili. Un ordine secco, gridato. I suoi gettarono le armi. Dai lati del sentiero uscirono indiani. Klug fu percorso da uno spasmo freddo. Sentì le viscere contorcersi. Si acquattò dietro un masso. Joseph squadrò Nathaniel Gordon. – Il tuo volto mi è familiare. L’uomo sputò per terra, sprezzante. – Non ti ho mai visto prima, non so chi sei. Il volto di Joseph era ghiaccio. – Tra poco non avrai più voglia di sfidarmi. Oronhyateka levò il cappello di pelliccia dalla testa del Delaware e lo rigirò tra le mani. Kanenonte puntò il dito sulla borsa per il tabacco che il Delaware portava alla cintura. Un’improvvisa consapevolezza si fece largo nella testa dei Mohawk. Il Delaware ebbe un fremito. Kanenonte emise un grido acuto, terribile. Cristo, sembrava non si fossero accorti di lui. Il sentiero digradava, non era ancora giorno pieno. D’istinto, Klug provò l’impulso di girare i passi, di fuggire più veloce che poteva. Ma c’era una figura, là in fondo, dalla quale non riusciva a distogliersi. Sussultò. Cristo santo, era Joseph Brant. Giacca aragosta e pitture di guerra. Il modo di muoversi era inconfondibile. Con la cautela di un gatto, Klug estrasse il cannocchiale. Gordon aveva una faccia terrea. Il Delaware era un muro di pietra. Il capo dei selvaggi era proprio Joseph Brant. Il cuore batteva all’impazzata. Klug sentì la fredda determinazione dell’odio muovere gli arti. Prima di chiedersi se sarebbe stato in grado di portare a termine il compito, aveva imbracciato la carabina Kentucky. Tirò il grilletto. Solo un debole suono metallico. Aveva caricato male il fucile, la palla doveva essere scivolata dalla canna mentre affrettava il passo lungo la discesa. Imprecò tra i denti, pregò che gli fosse concesso abbastanza tempo. Ricaricò con attenzione, udì delle grida, guardò a valle. La situazione precipitava. Imbracciò, puntò. L’eroe che avrebbe spacciato Mostro Brant era lì, dietro quel masso, e si chiamava Klug. Tirò il grilletto. Una nube di fumo nascose la scena, Klug sporse la testa di lato per controllare l’effetto del colpo. C’era un uomo a terra, il Delaware lottava con un altro selvaggio, forse i suoi compagni potevano prevalere, ma le gambe di Klug decisero di fuggire. Correre, un passo dopo l’altro. Lui, Jonas Klug, l’uomo che aveva spacciato Joseph Brant. 47. Philip vide Molly, vestita d’azzurro tenue, e fece un passo per salire la collina. Respirò aria e luce, il mondo era quieto, il granturco maturo e pensoso, i suoni del mondo rugiada fresca. Molly era lontana, là in cima, ma sapeva che l’avrebbe raggiunta. Dopo tanto tempo i piedi si muovevano leggeri, l’erba rispondeva al loro tocco, si chinava, concedeva il passaggio. L’universo ascoltava curioso. La guerra era finita e c’era sole ovunque. Molly lo salutò e sorrise. Vieni, da qui si vede tutto, campi e laghi, montagne e oceani, il compiersi dei cicli. Philip le fu vicino, guardò di fronte a sé. Il mondo non aveva più orizzonte, si allungava fin dove l’occhio poteva vedere, e proseguiva, sempre più stretto e denso, vago e fradicio d’aria, senza mai scomparire. Popoli e colori, vite e destini, tutto vive in quella striscia sottile. Là in fondo siamo noi visti da dietro, pensò Philip Lacroix Ronaterihonte. Se la freccia del mio sguardo arrivasse tanto lontano, potrebbe conficcarsi nella mia nuca. Molly Brant Degonwadonti lo prese per mano. L’aria formò piccoli vortici esitanti. Philip parlò. È tempo che io sappia perché scegliesti me. Getta il tuo sguardo là in fondo, tamburino. E dietro di noi, e tutt’intorno. Siamo sulla vetta del tempo, dove la risposta precede la domanda, l’effetto precede la causa, la morte precede la nascita. Dovevi salire questa collina, per comprendere il tuo percorso. Privo di madre e di padre, sei morto come francese per nascere come mohawk, il giorno in cui cadeva in battaglia Hendrick. Quel giorno il mondo di Sir William piantò radici. Dovevi morire per vendicare Hendrick. Ti sei salvato, un nuovo ciclo si è aperto. La nazione ti ha dato un padre e una madre. Sei stato un grande guerriero. Hai superato prove. Camminavi coi Mohawk. Poi la nazione ti ha perso, e tu hai perso la nazione. L’incompiutezza del tuo ciclo sbilanciava il mondo, il Padrone della Vita lo sapeva. Dovevi tornare al mondo, Ronaterihonte, per poter morire, per illuminare il destino della Lunga Casa. Philip parlò. Io, privo di madre, non so più quante volte sono nato. Tu sei la prima e l’ultima levatrice, hai fatto di me un Mohawk e mi hai richiamato per l’ultima volta. Adesso sei la morte. Molly parlò. Il mondo si è sbloccato. Molly parlò. Un cerchio si chiude, un cerchio si apre. Molly parlò. Le Sei Nazioni vivranno. Philip sospirò, gli occhi si bagnarono di lacrime. Il piombo aveva sbranato la carne, tranciato una vena, dato via libera al sangue. Qualcuno gridò un nome: – Ronaterihonte! Qualcuno intonò una domanda. Qualcuno grugnì una risposta. Le ultime sagome umane si affollarono nelle code di occhi sempre più velati. Ci sarebbe stato digrignare di denti, stringere di pugni. Pianti, e canti, e saluti. Philip era pronto. Torno all’utero del mondo, madre, mia origine, mia nazione. Al buio tiepido e accogliente della terra. 48. Joseph ricordò la prima volta che aveva visto Philip. Un ragazzo spaurito, in uniforme, forse bianco o forse indiano. Anche Joseph era un ragazzo, troppo giovane per combattere. Molly lo aveva portato con sé al lago George. Doveva aiutare le donne a curare i feriti: correre a prendere acqua per lavare le piaghe o rum per stordire chi aveva una palla incastrata nella carne. Aiutare a sorreggere chi camminava a fatica. Quel giorno aveva visto Sir William tornare dal campo in lettiga. Da chi lo scortava aveva appreso la notizia: Hendrick era morto. Poco dopo, in piedi accanto a Molly, aveva assistito all’arrivo del convoglio di prigionieri, tra le grida di collera e dolore dei guerrieri e i gemiti di chi veniva trascinato e preso a calci. Il ragazzo era spacciato. Joseph era certo che il suo sangue avrebbe bagnato l’erba. Invece sua sorella era scattata in avanti, orgogliosa e furente. Aveva sfidato i guerrieri, li aveva svergognati, fatti sentire stupidi e fuori dalla storia delle Sei Nazioni. A un certo punto Joseph si era visto indicare, Molly lo aveva usato come argomento: questo ragazzo ha l’età di mio fratello. Quel giorno la nazione adottava il futuro Grand Diable. La vita di Joseph cambiava per sempre. Il mondo si era aperto, una bocca piena di ulcere e zanne guaste aveva inghiottito Philip. Joseph lo sentiva: il proiettile era per lui. La nota di dolore risuonava tra gengive, tempie e palle degli occhi. Nelle orecchie rimbalzavano ordini sovrapposti, biascicati e persi nell’eco, sempre più privi di senso. Intorno a chi moriva, tutto mutava in fretta. Joseph sarebbe vissuto. Avrebbe avuto tempo. Si sarebbe intrattenuto coi fantasmi. Tempo di pensare, ricordare, incolparsi, scagionarsi. E vivere al posto dei morti, vivere, perché è così, si vive o si muore. E chi è in vita si preoccupa dei vivi, di chi è rimasto. Sullivan incombeva. Dovevano mettere insieme una lettiga per il corpo di Philip e raggiungere la colonna di superstiti. Christina, Isaac, Margaret. Salvare tutti, lasciare quel mondo impazzito. – Noi restiamo qui, Thayendanega, – disse Oronhyateka, e indicò i prigionieri. – C’è qualcosa che va fatto da tanto tempo, lo sai. – Va fatto dall’inizio di questa storia, – aggiunse Kanenonte. – Sullivan sta arrivando, – rispose Joseph. – Non c’è tempo. – Per scortare i profughi bastate tu e Kanatawakhon, – disse Oronhyateka. Kanenonte sorrise. – Ci rivedremo dove ci attende il Grande Diavolo, un giorno. Joseph strinse gli occhi, risucchiò aria dal naso, incassò il collo nelle spalle come se avesse freddo. Riaprì gli occhi e disse: – E sia. L’uomo che si era presentato come Nathaniel Gordon, seduto a terra coi polsi legati dietro la schiena, guardò Joseph con occhi pieni di suppliche. – Io posso dirti il nome di chi ha sparato al tuo amico, Joseph Brant! È un tuo compaesano! Klug! Maledetto il giorno che quel tedesco si è unito a noi! I guerrieri trasalirono, occhiate rimbalzarono da un volto all’altro. Joseph stritolò aria nei pugni, fino a sentire dolore ai polsi. – Tutto trova il proprio posto, Thayendanega, – disse Oronhyateka, poi si girò verso Gordon: – Nulla di quanto ci dirai ti salverà la vita. Tu e i tuoi amici dovete pagare per molto più di questo. Gordon mandò un lamento e si afflosciò come un otre bucato, svuotato di ogni energia. – Ti prego, Joseph Brant… Joseph lo fissò con disprezzo: – Non avete fatto nulla per voi stessi. Come potrei io fare qualcosa per voi? Kanenonte e Oronhyateka piangevano e ridevano, si coprivano la faccia con le mani, si davano manate sulla schiena. Sembravano usciti di senno, eppure si ubriacavano con metodo, con perizia ravvivavano le fiamme, e per quanto rum bevessero, tornavano sempre a torturare il prigioniero legato a testa in giù vicino al fuoco. Ogni lembo di pelle asportato aveva un nome: – Questo è per Samuel Waterbridge. Questo è per Royathakaryo. Questo è per Sakihenakenta. Questo è per Ronaterihonte. Il Delaware non gridava, nemmeno un mugugno. Scalpato, scorticato, braci accese e cenere calda sulla carne esposta. Gli altri dovevano guardare, calci e schiaffi se chiudevano gli occhi. Pregavano come bambini. Ciascuno di loro si era vomitato e pisciato e cacato addosso. Gordon non aveva più lacrime da piangere. – Hai sentito che bella frase ha detto Thayendanega? – fece Kanenonte, ridendo e mostrando i denti. – Avrei voluto dirla io! «Non avete fatto nulla per voi stessi. Come potrei io fare qualcosa per voi?» – Thayendanega è un grande guerriero, – commentò Oronhyateka. – E noi? Siamo grandi guerrieri, noi? – domandò ancora Kanenonte. Oronhyateka non rispose. Per l’ennesima volta si avvicinò al prigioniero. Alzò il coltello, sollevò e asportò un lembo di pelle. – Questo è per Oronhyateka. Ne tagliò subito un altro. – Questo è per Kanenonte. Risate, singulti e preghiere. Crepitare di fiamme. 49. La terra era umida e soffice, le pale scavavano senza trovare ostacoli. Joseph e Kanatawakhon lavoravano in fretta. Isaac cingeva con un braccio le spalle di Christina. Margaret girava intorno ai due guerrieri e li guardava, come per assicurarsi che il lavoro procedesse bene. Il resto della colonna bivaccava poco lontano, ma solo la famiglia Brant assisteva alla sepoltura del Grande Diavolo. Sepoltura senza riti, né cristiana né pagana, in attesa di riprendere il viaggio. Fort Niagara era ancora molto distante. Il corpo di Philip era avvolto nella coperta di Margaret. La vecchia lo aveva visto morto, sdraiato sulla lettiga di rami e legacci. Mormorando qualcosa, si era tolta di dosso il grande straccio impolverato e si era fatta avanti. – Sei sicura, nonna? – aveva chiesto Isaac. – L’aria è fredda. – Non importa. Non mi rimangono molte lune. Presto me la restituirà. Joseph aveva dato alla madre la propria giacca di lana. La vecchia la portava come fosse uno scialle. In pochi minuti, Joseph e Kanatawakhon scavarono una fossa profonda cinque piedi. Era il momento di calare il corpo. Joseph sentiva l’incombenza e la fatica premere forte contro la gola, come due mani decise a strangolarlo. Sul ciglio della fossa si sentì vacillare, Kanatawakhon lo afferrò per un braccio. – Questa tomba reclama anche me, – commentò Joseph, – ma non è ancora il tempo. – Siediti, Thayendanega, sei stanco, – disse il suo compagno. – Da quanto tempo non dormiamo, Kanatawakhon? – Ho perso il conto dei giorni, fratello. – Anch’io –. Joseph si allontanò di due passi e chiamò il figlio: – Isaac, dài una mano. Impara a seppellire i morti. Isaac si staccò dalla sorella, Joseph prese il suo posto. La bambina si strinse a una gamba del padre. Kanatawakhon e Isaac sollevarono il corpo per le spalle e per i piedi, lo trasportarono con brusca solennità, lo lasciarono cadere nella fossa. L’ultimo viaggio di Ronaterihonte fu un volo rapido, l’atterraggio non produsse alcun rumore. La terra morbida accolse il corpo e parve modellarsi intorno a esso. Il guerriero e il ragazzo afferrarono le pale, Joseph li fermò. Si rivolse alla madre: – Margaret, sei la più anziana. Rappresenti il clan, la nazione. Di’ una parola per questo guerriero. Tutti tacquero. La vecchia si mosse, curva, barcollante. Si fermò a un piede dal ciglio. – I miei cari ti hanno voluto bene, Philip Lacrosse. Mia figlia ti ha dato la vita. Una parte di mio figlio muore con te. Joseph sentì la morsa stringersi intorno alla gola, come per strizzare la testa, costringerla a buttare fuori lacrime. Gli occhi si inumidirono. – Mio nipote ti ha sepolto. Io ti saluto per ultima. Tutti pregheremo per te. Ciò detto, si allontanò. Passò oltre Joseph e Christina, mise un passo dopo l’altro in direzione del bivacco di profughi. Joseph dette il segnale. Le pale sollevarono mucchi di terra. 50. – Padrone della Vita, è giunto al tuo cospetto un grande guerriero, che conobbe il Popolo della Selce nella sorte avversa e con esso intrecciò il suo destino, come il wampum che stringo tra le mani. Il suo nome è Ronaterihonte. I fiumi e le valli hanno conosciuto la sua fama e il suo coraggio. Egli ha difeso la nazione nel pericolo, ha vissuto insieme a noi il tempo della carestia e della miseria. Ci ha insegnato che quando l’ombra cala sulla terra non è l’onore ciò che conta, ma la salvezza di chi è minacciato. Nostro fratello Ronaterihonte ha oscurato la sua luce per attraversare le tenebre insieme al suo popolo. Padrone della Vita, accoglilo come si conviene al più nobile degli uomini. Amen. Johannes Tekarihoga abbassò le braccia che aveva proteso verso il cielo, illuminato dal sole. Il lago brillava dorato davanti alla roccia da cui era solito contemplarlo. Quando udì il battito d’ali, sorrise. Volse il capo e vide il picchio zampettargli accanto. – Sei tornata, amica mia. Avvertì il tepore di mezzogiorno, benché novembre già mordesse. Respirò a fondo e provò una sensazione di vigore antico, di energia rinnovata che attraversava le membra. Assaporò il vento che si infilava tra i salici. Sentì scorrere nelle vene l’acqua che lo circondava, mentre pareva ascoltare l’annuncio di un evento propizio. La superficie del lago era popolata di spiriti: avi, guerrieri, sachem e matrone dei clan, consapevoli del destino della propria discendenza. Il picchio balzò sulla spalla. L’anziano Mohawk distese il volto. – Ecco. I nostri padri mi aspettano, – il capo del clan della Tartaruga inspirò forte dalle narici e guardò ancora il picchio. – Il mio cuore sarà con voi, nel giardino al centro dell’acqua, – sussurrò appena fra le labbra. Socchiuse gli occhi e parve assopirsi. Il picchio volò via, verso il lago e le sagome scure delle navi che apparivano all’orizzonte. Una salva di cannone e le grida delle vedette partirono dai torrioni del forte, mentre il corpo del vecchio sachem scivolava nell’acqua. Guy Johnson camminava sul pontile a grandi passi, rallentato dalla massa di straccioni che saliva sulle navi, insieme a cucciolate di figli, masserizie e bestiame smagrito. Appena sceso a terra, l’aveva colpito il silenzio, come se tutti avessero deciso di non farsi udire, timorosi che la via della salvezza si chiudesse come s’era aperta. Capì d’essere arrivato appena in tempo. Il viaggio era durato oltre un anno. Partito da New York all’inizio dell’autunno del ’78, un gelo terribile lo aveva bloccato a Halifax fino alla primavera inoltrata, quando era ripartito e aveva raggiunto Montreal. Poi giù, lungo il San Lorenzo, fino al lago, e adesso Niagara. I racconti di miseria e stenti non preparavano all’impatto con la realtà. Un popolo fiero e tenace conosceva il disfacimento e l’abbandono, la carestia e la morte. Anche piccoli frammenti di altri popoli si raggrumavano in quell’angolo di mondo. Seguivano il destino degli Irochesi, mescolati nel grande carnaio. Ancora fedeli, per convenienza o convinzione, al re che stava a Londra. Riuscì a farsi largo in mezzo alla ressa e a raggiungere la salita che portava al forte e al campo profughi. Si fermò a riprendere fiato e contemplò lo spettacolo di quell’andirivieni, sotto il cielo limpido che faceva biancheggiare le mura. Corpi dolenti e consumati dalla fame trascinavano i piedi sulla riva. I pochi soldati della guarnigione regolavano il flusso senza troppi sforzi. Una lugubre processione era quanto rimaneva delle Sei Nazioni. Poco più di cinque anni erano trascorsi dal funerale di William Johnson, ma valevano un secolo, e sul sogno che un tempo pareva solida roccia si ammassava una catasta di miseria e morte. Pensò a quanto aveva lottato e rischiato per ottenere la nomina di commissario del Dipartimento indiano e a quanto poco essa significasse ormai. Tornò a scrutare la folla. In ciascuno dei volti, conosciuti o ignoti, rintracciava il tratto comune della materia che li plasmava. Terra scura della notte dei tempi, il volto dei vecchi. Terra rossa di roccia striata, quello degli ultimi guerrieri. Polvere bianca e marmorea, il viso delle giovani donne. Una di loro si avvicinò. L’espressione di dolore colpì Guy. – Padre, – disse lei. La guardò attonito, incapace di riconoscere in quella donna la sua bambina. Portava i capelli acconciati come un’indiana. – Esther. Buon Dio, Esther –. Voleva abbracciarla, ma non sapeva come farlo: un intero oceano si era frapposto tra loro, poi un continente. Erano estranei, ma Guy sperava di poterle ancora offrire un alleato e una vita nuova. Aveva attraversato l’America per quello. – Perché siete qui? Guy lesse il lutto negli occhi della figlia, ma anche una forza innata, che lo sconcertava fin da quando era bambina. Adesso lo riconosceva, era lo sguardo di William Johnson. – Ti riporto a New York. Ce ne andremo da questo paese. – È tardi, – disse Esther. Lasciò che il padre le prendesse la mano tra le sue. – Non è vero, – insistette Guy. – Possiamo tornare a Londra, lontano dalla guerra. – Sapete che non verrò. – Sono tuo padre, non parto senza di te. La donna fece una cosa inaspettata. Gli sorrise. – Il futuro non è alle nostre spalle, ma davanti a noi, – disse. – Oltre questo lago. Le Mille Isole. È là che stiamo andando. – Devo proibirtelo. – Ma non lo farete –. Gli si avvicinò fino a sfiorargli una guancia con la mano. – Abbiate cura di voi e delle mie sorelle –. Si staccò da lui e subito si trattenne. – Vi prego, non rammaricatevi. È quello che doveva accadere. Scese verso il pontile, dove Molly Brant aspettava immobile, avvolta in un mantello bianco. Guy avrebbe voluto trattenerla, ma non riuscì a parlare né a muoversi. Le braccia inerti lungo il corpo, la bocca serrata. Joseph riconobbe la figura solitaria in cima alla salita. Di tutti i bianchi che si aspettava di vedere, Guy Johnson era davvero l’ultimo. Provò un moto di compassione, come se percepisse lo sforzo che aveva compiuto per arrivare fino a lì. – Joseph, – disse Guy, stordito. – Ho perso tutto, anche mia figlia. – Ha trovato il suo posto, – disse l’indiano osservando la donna che si allontanava. – Possiamo dire lo stesso di noi? Guy parve rassegnato. – Che farete adesso? – chiese. Joseph rispose senza pensare. – Lotterò per il tempo che rimane. Morirò con onore. L’irlandese drizzò la schiena, recuperando il controllo di sé. – Vi auguro buona fortuna. L’indiano strinse la mano tesa. L’espressione amara di Guy Johnson sparì sotto il tricorno. Joseph lo guardò allontanarsi in direzione del molo e attraversare la folla assiepata intorno alle barche. Per un po’ il cappello riemerse ancora nel mare di teste, poi scomparve del tutto. Joseph fece un cenno a Kanatawakhon e scesero al lago. Molly sovrintendeva all’imbarco, vegliando sul lento esodo che stava per avere inizio. Atto finale di un viaggio iniziato quattro anni prima. – Sei venuto a dirmi che non verrai con noi. – Abbiamo ancora conti da saldare –. L’abbracciò. – Proteggi i miei figli e nostra madre. Isaac, Christina e Margaret erano già su una delle barche e lo guardavano incerti. Lui stesso si era premunito di farli salire tra i primi. Isaac volse la testa dall’altra parte. – Ti aspetteremo, – disse Molly. Joseph raccolse la bisaccia e la passò a tracolla. Si incamminò lento dietro Kanatawakhon, contro la corrente di esseri umani che si riversava sulla riva. Esther guardò la terra allontanarsi ancora una volta. Sfiorò il wampum che portava al polso. Presto avrebbe rivisto Philip. Conosceva la strada, l’aveva già percorsa. Non esistono lutti per chi è capace di sogni. Avevi detto di tenere pronta una barca, amore mio. Eccola. Philip sarebbe saltato a bordo. Insieme avrebbero attraversato il lago, tanto grande da non vederne la fine. Esther guardò Molly, ritta sul castello di poppa. La vista della donna le infuse coraggio. Non esiste distruzione per chi comprende la legge del tempo. Pensò a quello che aveva vissuto nei suoi sedici anni e al mondo che le era crollato attorno. Pensò alla vita che l’attendeva e al mondo nuovo che avrebbero costruito, nel Giardino al centro dell’Acqua. Le Mille Isole. Manituana. Epilogo Valle del fiume Mohawk, 1783. L’uomo scivolò nel fango e si rialzò. Arrancò sulla spianata in direzione del bosco, la mano premeva sul fianco ferito. La pioggia aveva trasformato il campo in un pantano, i piedi affondavano. Un ginocchio cedette, l’uomo si ritrovò a terra. Si tirò su, proseguì piegato in avanti, nei polmoni la paura e l’odore acre portato dal vento. Case bruciavano a meno di un miglio. Cacciò un urlo strozzato, un singhiozzo di terrore mentre rotolava nella melma. Riuscì a mettersi seduto e a sfilare la pistola dalla cintura. Il cane scattò a vuoto. La scagliò contro gli inseguitori con un verso di animale braccato. Lo raggiunsero senza fretta e si fermarono a guardarlo. L’uomo ansimava terreo, gli occhi pieni di lacrime. I due indiani scambiarono un cenno. Uno dei due alzò la sciabola. L’uomo urlò. La testa rotolò via. La pioggia cadeva fitta, a piccole gocce, avvolgendo tutto in una pace cupa. Kanatawakhon puntò la lama in basso, lasciò che il sangue bagnasse la terra. Mormorò parole nella lingua dei padri. Joseph raccolse la testa mozzata. Prese un pugno di fango e lo ficcò nella bocca aperta. – Volevi la mia terra, Jonas Klug. Eccola. Adesso è tua. Chiuse il trofeo in un sacco e lo caricò in spalla. La stanchezza dei lunghi anni di guerra rendeva il fardello ancora più pesante. La vendetta. Il dono per Molly. Aveva messo a ferro e fuoco la valle, una volta, due, ma Klug era sempre riuscito a sfuggire. Lo aveva scovato proprio ora che la guerra finiva. L’aria portò rumore di spari lontani, segnali d’adunata. Il lavoro dei Volontari era terminato. Dallo Schoarie a German Flatts le case dei coloni erano cenere. Il sogno di Sir William era svanito per sempre, nessun altro se ne sarebbe appropriato. I due indiani si incamminarono lenti fino alla cima di un dosso. Ristettero a guardare la devastazione che li circondava. Il fumo saliva dai quattro punti cardinali, i campi erano bruciati o in rovina, vacche scampate alla razzia si aggiravano senza meta. Kanatawakhon pronunciò poche parole. – Sì, – annuì Joseph. – Non torneremo più. La guerra era perduta. Le ultime notizie dicevano che a Parigi i bianchi discutevano la pace. Gli Inglesi trattavano la resa, ma nessun indiano sedeva con loro. Joseph Brant era ormai un alleato scomodo. I superstiti delle Sei Nazioni vivevano su una manciata di isole all’imbocco del San Lorenzo. La mente di Joseph si alzò sopra le macerie di Irochirlanda, risalì il fiume, volò oltre i laghi. La visione di Christina che giocava nel sole gli alleggerì il cuore. Isaac raggiungeva la riva a nuoto e spruzzava la sorella d’acqua fresca, la faceva ridere, la inseguiva nella casa di legno. Molly l’aveva fatta costruire per loro. Ce n’erano altre, camini accesi, orti coltivati, barche che andavano e venivano. E c’era lei, Degonwadonti, copia viva di Donna del Cielo, che raccontava ai più piccoli la leggenda del Giardino di Dio e dei mille frammenti scampati alla distruzione. Mille gocce di Paradiso dove allevare la speranza. Sull’aia, una giovane donna dai capelli biondi sceglieva i semi da far germogliare a primavera. La discendenza di Pannocchia, Fagiolo e Zucca. Joseph lo sapeva. Non avrebbe visto quel raccolto. Non dal fondo di una guerra che gli era costata tutto e pretendeva di congedarlo senza rumore né risarcimenti. Avrebbe inchiodato i bianchi alle loro promesse, con il fiato che gli restava. Sarebbe tornato a Londra, se necessario, per chiederlo al re in persona. Il sentiero portava ancora lontano. Strinse forte il lembo del sacco. – Dobbiamo rimetterci in marcia. I due indiani scesero verso il fiume. Le sagome si fecero vaghe, fino a sparire oltre la cortina di pioggia.