Autobiografia Napoletana di Redento Castaldo Capitolo uno. L’attesa In pochi avrebbero indovinato che dietro il funereo e mastodontico scaffale della cartoleria di via Foria a Napoli fossero rintracciabili indizi di presenza umana. Vi "abitavano" invece due giovani, Franco Certaldo e Mara Figlioli, che avevano voluto unirsi nonostante tutto e rifugiarsi nel tugurio in attesa di tempi migliori.Se si abbassava la saracinesca, pure a mezzogiorno in punto, per i due era notte fonda. E quando bisognava proprio farlo perché era sera, il cielo, l'aria, la luce e lo spazio vitale diventavano per loro il motivo della gioiosa attesa del nuovo giorno, e mai del rimpianto per quello appena spento. Non soltanto l'amore e la loro giovinezza, ma anche la lucida consapevolezza della loro condizione, li poneva al riparo da ogni mestizia: sapevano che ove avesse fatto breccia li avrebbe trascinati nel panico. Avevano sfidato la sorte armati solo del loro amore e della ferma speranza del domani migliore, che essi credevano decisamente di meritare. E per venti mesi tremarono contando i quaderni e le matite in quantità sempre più esigua, perché il ricavo delle irrisorie vendite era inevitabilmente assorbito dal costo della sopravvivenza. E neanche bastava. Eppure, ai primi dell'ottobre 1951, sembrò proprio che la vittoria premiasse la loro scelta. Ne era testimonianza la raccomandata in cui si comunicava al giovane disoccupato che, avendo superato il colloquio e le prove psicotecniche, veniva assunto dalla Socony Vacuum Italiana, la Raffineria di Napoli, la più grande d'Italia, che poi si chiamò Mobil Oil, e adesso è la Q8. Un'occupazione che era il sogno, palese o inconfessato, di tutti i disoccupati del Mezzogiorno d'Italia. Sorgeva, imponente ed immensa, a via Nuova delle Brecce a S. Erasmo, nella zona orientale della città. In quell'azienda i salari erano i più alti della provincia, più alti anche di quelli della stessa categoria dei lavoratori petrolieri, e per quattordici mensilità all'anno,che poi diventavano sedici: una "tredicesima" ogni tre mesi! E ciò per un Contratto aziendale che si rinnovava periodicamente con lo scopo dichiarato di migliorare le condizioni normative e salariali dei dipendenti. Veniva stipulato direttamente dalla Direzione e da una delegazione di operai e impiegati con la sospetta esclusione delle organizzazioni sindacali. Mara e Franco si accertarono diligentemente che la lettera fosse reale, che non l'avessero sognata insieme, come insieme avevano in quei lunghi mesi sofferto e tremato. Avrebbero avuto una casa vera! Avrebbero finalmente avuto dei figli, che avrebbero amato e dai quali sarebbero stati amati come il loro stesso amore li avrebbe ispirati, l'amore che ebbe la forza di sospingerli nell'incredibile casa di via Foria. E tanta aria, tanta luce, tanto sole! "Saremo come i combattenti che provati e stanchi” diceva Franco “con passo incerto, e quasi increduli, riemergono dalle trincee, all'annuncio che la guerra è finita.” "E magari con una mano sugli occhi per proteggerli dalla luce che potrebbe ferirli" replicava Mara sorridendo. Capitolo due. Il lavoro Il 15 ottobre 1951 Franco cominciò a lavorare. Presto, come era del resto nelle sue intuizioni, doveva accorgersi che il "vigilante" (tale era il compito che era stato chiamato ad assolvere), nella prassi vigente nell'azienda, non era il buon guardiano che tutela il patrimonio dell'impresa dai ladri esterni o anche interni, ma una specie di poliziotto privato, che oltre ai compiti normali della tutela dei beni aziendali, aveva quello di fare la spia fra i dipendenti. Il segugio attento e servizievole sempre pronto a sventare chissà quali complotti e trame sovversive da parte dei lavoratori. Ma ogni mestiere è più o meno rispettabile a seconda di come si vuole e si riesce a svolgerlo. Franco cercò la facile consolazione nell'esempio di Luigi Nuzzo di Ponticelli, anziano ma imponente e forte come una quercia, guardiano da almeno vent'anni e notoriamente comunista. Franco sapeva di comunismo e di politica non più di una capra, ma almeno questo lo aveva capito. Un comunista non può danneggiare gli operai a vantaggio del padrone: è assurdo che accetti di fare la spia al soldo della controparte dei lavoratori. Il servizio di vigilanza vero e proprio peraltro era troppo incombente e anche duro, anche se marginale rispetto a qualunque altro tipo di incarico: dodici ore di lavoro al giorno e tutte o quasi di notte all'addiaccio, percorrendo più volte il giro perimetrale del vastissimo stabilimento. Di queste dodici ore dieci erano ordinarie, perché si trattava di prestazione "discontinua e di semplice attesa", più due ore di straordinario obbligatorio, che nell'elegante linguaggio dei redattori direzionali diventavano consuetudinarie. La passeggiata notturna era meticolosamente controllata. Orologi marcatempo dislocati lungo il muro di cinta rivelavano coscienziosamente eventuali ritardi. La striscetta con le marcature veniva consegnata al mattino al pimpante signor Caccavello, sempre felice di cogliere in flagranza di colpa il guardiano infedele. Era noto il particolare impegno con cui si dedicava alla lettura degli inesorabili diari notturni, quando la notte era stata teatro di temporali, di vento, di freddo intenso e altre diavolerie dell'inclemenza atmosferica, che gli infondevano tanto buonumore. Ma Franco non gli dette mai la gioia cui certamente aspirava nelle lunghe notti invernali. Seppe sempre essere preciso, puntuale, irreprensibile. Grandinasse o splendesse la luna, Franco non dimenticava quello che significava per lui e per Mara quel duro lavoro che valeva bene una bronchite. E non mancavano tentazioni insidiose. Come quel reparto interamente al coperto, riscaldato da tubazioni in ciclo continuo di lavorazione che lo attraversavano da capo a fondo, e munito di sacchi pieni di materiale morbido come le piume sparsi qua e là quasi con cinismo. Oppure la "piazza Estate", uno spiazzo di almeno cinquecento metri ove tutto era caldo, perfino la ghiaia sul selciato. La sorgente del dolce tepore era la fiamma che bruciava gli estremi residui del petrolio in cima alla più slanciata e massiccia ciminiera dell'intera zona industriale circostante. Era l'Eden, guai a fermarsi! E realmente Franco provava la sensazione che l'azienda gli chiedesse di castrarsi, specie nelle notti più rigide e tempestose, attraversando quel paradiso terrestre incurante e sordo ai suoi richiami. "Ebbene sì, signor Caccavello", mormorava con rabbia "eunuco, ma non mi fregherai". E proseguiva in fretta verso l'orologio marcatempo, fuori del recinto dei sogni. C'era poi il servizio della perquisizione personale degli operai in uscita. Quasi tutti i colleghi di Franco compivano l'operazione per linee essenziali, senza accanimenti boriosi, a volte irritanti e sempre inutili. Ma c'era sempre qualcuno che perquisiva con l'aria di chi è convinto di avere di fronte il ladro del proprio portafogli appena sparito: perquisizione minuziosa, lenta, quasi provocatoria. Bastava però che arrivasse Luigi Nuzzo, lentamente come soleva muoversi sempre, che guardasse diritto negli occhi lo zelante ricercatore di refurtiva, e la musica cambiava: movimenti rapidi, palpeggiamento sommario e via. Franco pensava allora che aveva ragione a credere che la scelta di comportamenti disonesti è sempre più precaria e mal radicata di quella delle forti convinzioni ideali. Ma gli rimaneva dentro l'amarezza alla vista di quella lunga fila di operai silenziosi e pronti per essere perquisiti. Poi c'erano gli straripamenti delle mansioni, e il guardiano doveva trasformarsi in segugio. La versione ufficiale del servizio era "vigilare che l'assemblea degli operai nei locali della mensa non danneggiasse l'arredo e non degenerasse in rissa". Missione apparentemente ben limitata seppure velleitaria, ma, in realtà, dai confini piuttosto labili, che venivano spesso scavalcati dal signor Caccavello nei casi più ordinari, e dal dottor Bonanomi, capo supremo del personale, nei casi di particolare importanza. Convocavano il "superman", e gli chiedevano cosa si erano detti i truculenti potenziali rissaioli, nome, cognome e reparto di chi aveva dissentito, di chi aveva approvato, le proposte, le controproposte e, naturalmente, le conclusioni. Dopo un paio di mesi di esonero, forse dovuto al noviziato, venne il turno di Franco. Avviandosi verso i locali della mensa si sbottonò la giacca di ordinanza e il colletto della camicia, nell'intento ingenuo di far credere che per lui quella era un'ora di interruzione del servizio, senza nessun proposito di investigatore. Sapeva benissimo che avrebbe contrapposto un netto rifiuto dell'eventuale richiesta di resoconto. Tuttavia era turbato, pativa umiliazione al pensiero di essere visto dagli operai in assemblea nel ruolo di agente padronale, pronto a colpire chi esercitava il suo pieno diritto di partecipazione ad un’assemblea assolutamente democratica e legale. Gli pareva una palese sopraffazione. Percorse la scala e si fermò alla porta socchiusa. Provò sollievo al silenzio che proveniva dall'ampio locale. Non era possibile che tutti fossero in ritardo, quindi gli pareva molto probabile che l'assemblea fosse stata rinviata all'ultimo momento, e ciò gli procurava un grande e insperato piacere. Aprì la porta e rimase di stucco: erano tutti lì, in circa cinque o seicento. Attendevano che la presidenza dell'assemblea, già eletta, concludesse la lettura delle relazioni presentate in anticipo, dichiarasse aperta la riunione, e concedesse la parola a chi ne facesse richiesta. Non ebbe più esitazione ed entrò con passo sicuro: sentiva di tuffarsi in un mare di sicura civiltà. Sentì perfino la voglia di scusarsi per il disturbo, ma si limitò a salutare con un cenno della mano, nel modo più cordiale possibile. Cominciò il dibattito. Uno per volta, nell'ordine di prenotazione alla presidenza, si esprimevano sulle modalità da osservare nell'elezione dei delegati che sarebbero andati a Genova, sede della direzione generale, per stipulare il nuovo Contratto Aziendale. Ci si chiedeva se bisognasse riconoscere a tutti il diritto al voto e alla eleggibilità oppure accogliere "il suggerimento" della direzione di escludere gli esponenti sindacali dalla lista dei candidati? La maggioranza si profilava chiaramente per la libertà di tutti di eleggere e di essere eletti. I contrari argomentavano con l'inopportunità "tattica" di respingere il parere della direzione. Improvvisamente uno di loro, un mattacchione di mezza età dalla faccia rugosa e le braccia conserte visibilmente muscolose (era in canottiera e faceva molto freddo), propose: "Perché non chiediamo il parere anche del signor Certaldo, il nuovo guardiano? Dopo tutto è anche lui un dipendente dell'azienda, e anche lui è interessato al contratto aziendale. E poi è un amico. Vediamo che ne pensa anche lui." Prima che la presidenza esprimesse il suo parere, Franco (che non capì mai, neanche dopo, se l'impudente volesse incastrare lui e la "sua" direzione o fosse sincero) rispose con calma. "E perché no?! Io penso che sia assurdo procedere a qualsiasi esclusione. Se questi esponenti sindacali sono degli appestati da tenere in quarantena, lo sanno pure gli elettori. E allora si mettano nella lista dei candidati chi sprizza buona salute e chi ha la peste bubbonica, poi saranno gli elettori a fare la selezione. A loro spetta la scelta e a nessun altro. Non pare anche a voi?" Tra risate e applausi si definì che alla candidatura fossero ammessi tutti, senza nessuna discriminazione, e Franco divenne subito l'amico di tutti. O quasi. Non gli era infatti sfuggito che tre o quattro operai tra le prime file lo avevano guardato con l'aria di chiedergli: "Ma ci stai sfottendo? Ci stai istigando per farci blaterare contro la direzione, per poi fare il tuo bravo rapportino? O sei dalla parte nostra?" Era comunque chiaro che Franco si era conquistato la stima e l'amicizia di gran parte dei lavoratori, ma non ignorava, e in verità non ne era felice, che di stima e di amicizia da parte della direzione ne aveva guadagnate un po' meno. La notizia mise le ali e percorse l'intero stabilimento coinvolgendo operai ed impiegati, giornalieri e turnisti che lavoravano agli impianti a ciclo continuo, di giorno e di notte, e non potevano partecipare alle assemblee. La Commissione interna, di dichiarata e legittima rappresentatività sindacale, composta da Gaspare Riccobene, Lombardo, La Gatta e Vittorio Pernozzoli, per la CGIL, e Domenico Zaccaro per la CISNAL, si affrettò ad informare Franco di avere diffuso in tutti i reparti lo stato di all'erta per reagire prontamente ad ogni rappresaglia della direzione in suo danno. E Riccobene gli confidò che gli era stato detto in presenza di Zaccaro proprio perché la direzione ne fosse subito informata e fosse indotta alla cautela. Il sig. Zaccaro era quindi il messaggero che recapitava direttamente al dr. Bonanomi tutto quanto la Commissione Interna e il Sindacatao ritenevano utile fargli sapere. E infatti la direzione non si mosse. L'unica variante, e non di scarso rilievo, fu che Franco non fu chiamato a presentare il suo taccuino di detective. In realtà Franco Certaldo doveva imparare più tardi che la venale pena pecuniaria, o la brutale sospensione dal servizio, sono mezzi repressivi da subcultura imprenditoriale, del tutto estranei allo stile della scienza antioperaia metabolizzata nelle apposite università statunitensi. Da lì provenivano infatti i più alti dirigenti della raffineria, Bonanomi compreso. Capitolo tre. La radio a cinque valvole La bottega in via Foria si giovava a vista d'occhio delle trasfusioni degli stipendi di Franco nell'approvvigionamento dei prodotti. Le mensole vuote dello scaffale cominciarono a riempirsi di articoli di cancelleria che non avevano mai conosciuto prima. Sembravano le mensole di una cartoleria vera, perfino di un certo decoro. E i giovani clienti, in massima parte scolari e studenti delle medie, perdonarono presto ai due cartolai le passate inadempienze. Dopo aver resa più redditizia l'attività del negozietto, avrebbero pensato alla casa, ai mobili e, soprattutto, ad avere dei figli. Avevano ora ancor più bisogno di una casa calda e ariosa. Franco infatti non era immune dai segni delle lunghe ore che gli toccava trascorrere esposto al maltempo delle notti invernali. Almeno quando stava a casa aveva proprio bisogno di riposarsi in ambiente sano e confortevole. E ciò, anche se la proprietaria del locale (religiosissima, vedova, senza figli) aveva già provveduto ad aumentare la pigione. Il tenore di vita dei due giovani era però chiaramente migliorato. Ora potevano anche comprare giornali, riviste e qualche libro, senza la tremarella di non poter accendere il fornello il giorno successivo o di non riuscire a mettere insieme i soldi della pigione per la fine del mese. Mara ebbe perfino il potere finanziario di trascinare Franco a sue spese presso un radiologo importante, per accertare la causa della tosse che non si decideva a lasciarlo in pace. Si trattava solo di una banale faringite con un diffuso catarro bronchiale che le faceva da cornice. II privilegio di portarsi in casa lo status symbol però toccò a Franco. Si presentò con una scatola di cartone che fece aprire da Mara: una radio Telefunken, nientedimeno, a cinque valvole! L'aveva acquistata al Rettifilo con pagamento in trenta rate e senza anticipo. Ne furono felici, anche se si dovette concederle una delle tre sedie "dell'appartamento" perché vi fosse adagiata e collocata, in funzione di comodino, accanto al letto. Si scambiavano l'augurio di buona notte solo quando "Sorella Radio", una trasmissione molto seguita dai più ostili al letargo notturno, comunicava la fine delle trasmissioni e il rituale augurio di sogni d'oro. Anche se poi il loro amore giungeva puntuale a ribaltare l'atmosfera di staticità e di religioso silenzio che l'incauta annunciatrice aveva inteso diffondere. Capitolo quattro. Gustavo Hermann In Raffineria era in corso la campagna elettorale per eleggere la delegazione da inviare a Genova, sede centrale della Vacuum, a trattare la stipula del nuovo contratto aziendale. Franco era stato incluso nella lista dei candidati senza essere interpellato."Ti abbiamo iscritto d'ufficio" gli risposero. Scherzando, naturalmente, ma l'iscrizione l'avevano fatta davvero. Una prova di fiducia che non era facile declinare, anche perché Franco credette di indovinare la vera natura della insolita tolleranza con cui la direzione aveva accolto il suo intervento all'assemblea (e la Commissione interna gli disse che aveva visto giusto): in assenza di reazione, avrebbero sospettato che il suo discorsetto fosse stato concordato preventivamente con la direzione perché potesse assicurarsi la fiducia dei lavoratori e avere campo libero per fare la spia. Poi, una volta spezzato il legame con la maestranza, un po' di intervallo e sarebbe stato il momento giusto per fargliela pagare. Ma dovettero essere stati proprio in pochi a prestarsi al giochetto, visto che poi alle elezioni Franco risultò primo fra gli eletti. Alla notizia dei risultati, Franco fu colto da una crisi di panico: dubitava molto di essere capace di assolvere i compiti che gli affidavano. Troppi fatti e troppo in fretta l'avevano coinvolto in quei giorni. Si sentiva solo e smarrito. Decise di mettersi subito in contatto con l'organizzazione sindacale e prenderne la tessera. Aveva bisogno d'un punto di riferimento, sentiva la grossa disparità dei mezzi messi in campo. E voleva anche sapere il motivo dell'opposizione del Sindacato al contratto aziendale, che tendeva a migliorare le condizioni salariali e normative dei dipendenti, senza scalfire o mettere in discussione quanto era già sancito dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro della categoria. Si recò alla Camera del Lavoro a via Costantinopoli ove, ammucchiati l'uno sull'altro in un labirinto di percorsi ricavati da pareti divisorie erette con legno compensato, c'erano quasi tutti i sindacati di categoria. Rintracciò il sindacato petrolieri. E lì, seduto ad un tavolino che sembrava più un banco di scuola e molto meno una scrivania, c'era Gustavo Hermann. Lo disse lui, perché Franco non l'avrebbe mai indovinato. Giovanissimo, un ragazzo ancora imberbe, alto e magro, biondo, carnagione pallida, occhi azzurri e piccoli marcatamente a mandorla, senza giustificazioni sul viso scandinavo. Egli si alzò prontamente e, dopo un rapido e vano tentativo di accorciare le distanze fra le maniche della giacca e i polsi sottili, si presentò, animato appena da un timido sorriso: "Sono Hermann, tu sei Franco Certaldo? Finalmente ti posso conoscere". In Raffineria e alla Esso, all'Agip e alla Shell, ne parlavano ogni giorno, direzioni comprese, ciascuno secondo le proprie opinioni e i propri interessi, ma tutti con rispetto, con evidente stima, come di un'entità locata di sopra, con cui ci si potesse incontrare o scontrarsi, ma alla quale non si potesse sfuggire. “Eccolo,” pensava Franco. “Eccolo Gustavo Hermann, il terribile, quello che fa tremare i polsi ai padroni più ricchi e più potenti del mondo... incredibile.” Forse Franco non riuscì a dissimulare il suo stupore, ma si convinse che quel ragazzo doveva essere abituato alla meraviglia che lo aveva attanagliato e che certamente assaliva chiunque fosse venuto a conoscerlo, dopo averne sentito parlare nelle aziende o in Prefettura, all'Ispettorato, all'Ufficio del Lavoro, ove si recava a protestare, a contestare, e a trattare e a negoziare, se del caso. Volle subito informarsi sulle condizioni di famiglia, chiese notizie della moglie, dei loro progetti e delle loro speranze. Poi, senza che Franco manifestasse uguale ansia, sciorinò la sciagurata condizione umana in cui viveva. Scacciato di casa dalla moglie, di estrazione piccolo borghese, con prosopopea e presunzioni aristocratiche, viveva prevalentemente solo. Impiegato di concetto alla Esso Standard, era in aspettativa senza stipendio. Viveva, o sarebbe dovuto vivere, coi proventi del Sindacato pressoché inesistenti. A volte, dopo essersi accertato che la moglie sprofondava nell'ebbrezza della canasta, nei locali di Caflish a via Toledo, correva dai due figlioletti. E poteva misurare i progressi conseguiti dalla madre nell'opera di demolizione della figura paterna. Né si poteva dire che avesse alle spalle la famiglia d'origine che, composta da noti professionisti, di condizione economica poco meno che agiata, mal tollerava la vicinanza dell'ingombrante rampollo finito fra i rossi. Iscritto alla Facoltà di Fisica nell'università partenopea, puntuale animatore delle agitazioni studentesche, incontrava spesso resistenza e ostacoli nell'opera di Paolo Hermann, suo fratello, giovane brillante universitario di sicuro avvenire e destinatario, più o meno consapevole, dell'ansia familiare di riscatto della prole avviata al dottorato. Ma Franco era sconcertato soprattutto dal tono con cui il sindacalista sgranava il rosario dei suoi tormenti: sereno, placido, senza ombra di livore. Si capiva d’altronde che non era animato da spirito francescano, ma da grande capacità di analisi della condizione, complessiva e individuale, che lo emarginava così duramente. Una provvidenziale forza ulteriore, che gli conferiva protezione e invulnerabilità contro l'attacco spietato del mondo esterno. Infine, con grande sollievo di Franco, il discorso cadde sul contratto aziendale. Hermann spiegò che, secondo la sua opinione, quel tipo di contratto poteva essere, o diventare, uno strumento per sabotare l'unità contrattuale della categoria. "Noi siamo convinti” disse quasi scandendo le sillabe, “che i vantaggi che derivano per i dipendenti della Raffineria appartengono potenzialmente all'intera categoria e che vanno riconosciuti solo a quelli, per staccarli, per estraniarli, dal fronte dei lavoratori nella lotta per migliorare il Contratto Collettivo Nazionale. E così si indebolisce gravemente il rapporto di forza, il potere contrattuale della categoria". “E la Socony Vacuum si accolla gli oneri dell'operazione. Perché lo fa?" azzardò Franco. "Ma non si accolla niente la Vacuum”, rispose subito Hermann come se avesse previsto la domanda, “essa viene copiosamente rimborsata dalle sette sorelle che formano il cartello, il trust più compatto dell'industria mondiale. Fanno questo lavoretto vicendevolmente, a seconda delle dimensioni delle varie aziende sul territorio. Ad Ancona, Taranto, o Genova se la più grande, per esempio, è la Shell, sarà lì che si farà il contratto aziendale, e le altre rimborsano. Creano, insomma, dei vuoti, delle aree di defezione sui vari territori ove sono dislocate, e ottengono in pratica la frantumazione del fronte dei lavoratori...". "E non è pensabile”, riprese Franco, “una mobilitazione dei lavoratori delle altre aziende per conseguire i vantaggi ottenuti dai loro compagni che hanno stipulato il contratto aziendale?". "In teoria sì, - rispose Hermann, - ma quelli che li hanno ottenuti, faranno lo sciopero perché i loro compagni, di altre aziende, ottengano quello che loro hanno già in saccoccia?". “E’ difficile?” “Molto difficile!” "A questo punto cosa dovrei fare? Dimettermi dalla delegazione?” "No. Assolutamente. Ho seguito la tua vicenda. La grande fiducia che hai ottenuto dai lavoratori è un patrimonio che non si può dissipare a cuor leggero. Adesso andrai a Genova e parteciperai alle trattative. Come vogliono i lavoratori. Semmai farai buona guardia perché non venga danneggiato il Contratto Nazionale. Poi, in seguito, sono sicuro che saprai gestire la forza che ti hanno dato i lavoratori nell'interesse di tutta la categoria. Tra pochi mesi scadrà il Contratto Nazionale e sarà assolutamente necessario che i lavoratori della Vacuum partecipino alla lotta. Useremo per questo obiettivo il carisma che ti sei conquistato!" "Farò il mio meglio" concluse Franco. Si salutarono con affetto, quasi abbracciandosi. Come volessero testimoniarsi la reciproca stima generata da quel primo incontro. Capitolo cinque. Genova Negli ultimi giorni che precedettero la partenza per Genova, Franco s'impegnò a dissimulare l'amarezza per l'imminente distacco da Mara. E lei, con meno successo, fingeva di non pensarci nemmeno, ma parlava ininterrottamente, parlava come una macchina, parlava di tutto: voleva solo precludere ogni possibile spazio al penoso argomento. Ma ella era incapace di qualunque artifizio, ed era troppo spontanea e vulnerabile perché riuscisse nel suo intento. Sul suo viso sempre un po' infantile e impertinente, anche una sottile ombra di tristezza era una violenza. Biagino, il fratello di Mara, assicurava ai due che avrebbe tenuto compagnia alla sorella giù al negozio per tutta la giornata, e che lei poteva benissimo venire a casa sua per passare le notti fino al ritorno di Franco. Egli non poteva fare di più. La sofferenza alla spina dorsale, comparsa nei campi di concentramento nazisti ove fu recluso da militare, gli rendeva sempre più claudicante e faticosa l'andatura e anche stare in piedi diventava per lui un sacrificio. Luminari della scienza medica a Napoli e a Bologna gli avevano diagnosticato l'ernia del disco: una bestialità che gli fece perdere tempo prezioso e gli costò un prezzo altissimo, inumano. L'amicizia tra Franco e Biagino era cominciata nella scuola media, quando Mara aveva dieci anni e non perdeva occasione per manifestare la sua antipatia per il compagno di scuola del fratello. All’ hotel Verdi, quattro stelle, ove i delegati approdarono subito dopo l'arrivo alla stazione Principe, Franco fu colpito dal fasto di cui faceva sfoggio l'albergo e lo giudicò eccessivo e di cattivo gusto. Però si chiese subito se il parere non era influenzato dalla camera da letto "retroscaffale" in cui abitavano lui e Mara. E fu contento che la sua compagna andasse a dormire alla casa paterna in attesa del suo ritorno. L'ampia camera che Franco doveva dividere con Domenico Aversa, operaio della manutenzione iscritto alla CISNAL, era munita di telefono in proprio, mobile bar, riscaldamento (gennaio era cominciato malissimo per il freddo), quotidiani, riviste e una piccola biblioteca pensile accanto al comodino, in cui erano rappresentate le tendenze letterarie italiane e francesi di fine '800. Franco non sapeva, e non aveva intenzione di saperlo, se Aversa, in coerenza con la sua scelta sindacale, fosse neofascista o meno. Sapeva per certo che era un uomo onesto, oltre che cordiale, simpatico e capace di infondere allegria. Sapeva che il signor Domenico Zaccaro, anche lui della CISNAL, membro della Commissione Interna in carica, assunto in qualità di operaio qualificato, dopo sei mesi era capoturno, e che Aversa, assunto cinque anni prima con la qualifica di operaio qualificato, era ancora operaio qualificato. Quando uscirono dalla camera per andare a cena, Aversa osservò attentamente i tappeti spessi e morbidi che ovattavano il corridoio e le scale, perché illustri clienti potessero affondarvi i piedi senza importunare i timpani delicati degli altri già distesi nelle loro camere. Ad un tratto Aversa rise dicendo: "Quando vedo i tappeti per le scale ricordo sempre quand'ero bambino. Abitavo a via Egiziaca a Pizzofalcone e d'estate mi recavo con i miei compagnucci in un palazzo vicino. Lì abitava un ricco barone e le scale erano coperte dai tappeti. Il barone con la famiglia se ne andava a fare la villeggiatura all'estero, non ricordo più in quali isole, e noi ci divertivamo un mondo a darci gli spintoni, precipitando per le scale e arrivando giù illesi, senza neanche un graffio. Era per noi un grande divertimento. Poi quel fetente se ne accorse e prima di partire li faceva togliere tutti.” "Così, - replicò Franco, - lui continuò ad andare a rotolarsi sulle più belle spiagge del mondo e voi non poteste più nemmeno rotolarvi per le scale." "Proprio così" - rispose Aversa, e sbottò in una sonora risata che non riuscì a contenere. Lungo il corridoio, in uscita dall'ascensore, i due amici incrociarono un'astrakhan grigia e un loden quasi sovrapposti, tanto si tenevano stretti la signora dagli occhi verdi e il lillipuziano, più tondo che lungo, che l'indossavano. Le vistose coccole assicuravano che non erano una coppia di coniugi. Non sfuggì ad Aversa che bisbigliò all'orecchio del compagno: - "Chissà quante corna si festeggiano in questi posti." "Quelle si festeggiano ovunque" soggiunse Franco. "Sì, va bene, ma vuoi mettere una di queste "cicirimince" con una bella ciaciona, una popolana tutta carnalità e passione?" "Hai notato i guanti della signora? - chiese Franco - sul dorso c'erano tre sottili linee in raggiera, che brillavano. Capisci? Guanti con pietre preziose..." "No, non ci ho fatto caso, ma per me è sempre meglio na' ciaciona!" tagliò corto Aversa e riprese a ridere. Quel portatore di allegria, sicuramente contagioso, era proprio quello di cui aveva bisogno Franco in quell'ultimo malinconico scorcio della sua prima giornata genovese. Nel ristorante di Giacomo, Giacomone per gli amici, Franco e Aversa s'accorsero che quasi l'intera delegazione aveva scelto lo stesso locale. I compagni li invitarono a gran voce ad unirsi a loro, che lo spazio c'era. Il locale era semplice, quasi disadorno, eppure accogliente e confortevole, come piaceva a Franco, senza pretenziosi fronzoli. Le pareti, bianche e molto alte, erano ingentilite soltanto da due stampe di Genova antica, qualche applique, ed un grande poster con la Sampdoria al completo. Per il candore delle pareti e per la grande vetrata della porta di ingresso, c'era la sensazione di tanta aria e di tanto spazio che sembrava di stare all'aperto. Ma quello che più piacque a Franco, sempre insofferente del freddo, era il dolce calore che elargivano quattro grossi radiatori collocati agli angoli del salone. Unici avventori estranei alla tavolata dei napoletani, erano due ragazze sedute al tavolo più vicino al termosifone e più lontano dai delegati. Il loquace gestore non tardò a presentarle. "Sono due prostitute, battono qui vicino, a via De Ferrari!" I delegati accolsero con sufficiente discrezione la notizia non richiesta. Franco ne fu colpito: si chiese se una prostituta non abbia il diritto, almeno quando va al ristorante per far cena, di essere una donna, una cliente, una che ha appetito e deve cenare. E basta! A guardarle, mangiavano proprio come tutti gli altri. E avrebbero certamente pagato come tutti gli altri. I commensali di Franco ed Aversa avevano già finita la cena, presero qualche altro bicchiere di vino, "in onore dei due ritardatari", così dissero, e si congedarono. Anche una delle due donne si allontanò presto, lasciando sola quella che sembrava essere la più giovane: bruna, statura modesta, viso comunicativo e immune da trucco vistoso, certamente proveniente dal sud. Dopo un po' si alzò e si recò al banco, probabilmente per chiedere il conto. Passando provocò senza accorgersene la caduta dei guanti e della sciarpa che aveva poggiato sulla spalliera della sedia di fronte alla sua. Franco raccolse e rimise a posto, prima che ella tornasse. Notò che i piccoli guanti di stoffa erano bucati su tutte le dita con puntigliosa coerenza. La ragazza tornò e subito affondò il viso fra le grosse pagine del Secolo XIX, evidentemente restia ad affrontare il freddo della sera ormai inoltrata. I due amici, terminata la cena, salutarono sommessamente l'ultima ostinata cliente di Giacomone e con qualche disappunto superarono la soglia del locale, tuffandosi nel rigido clima della strada. Mentre Aversa era nel bagno, Franco telefonò al professore vicino di casa della famiglia di Mara, che accorse trafelata. Aveva saputo dalla radio che al nord faceva molto freddo, chiese se stava nevicando e gli raccomandò di cautelarsi con molta prudenza. Quasi lo pregò. Franco non l'aveva mai sentita così apprensiva, così materna. Assicurarono entrambi di stare benissimo in salute. Lui le annunciò che sarebbe rientrato alla vigilia dell'Epifania e si scambiarono l'augurio della buona notte, con l'inespressa nostalgia di Sorella Radio, del suo invito al sonno ristoratore e della loro puntuale disubbidienza. Capitolo sei. Faccia a faccia Alle ore 9 del giorno successivo ebbero inizio le trattative. La delegazione operai e impiegati fu fatta sedere intorno ad un tavolo spropositatamente ampio (erano soltanto in dieci). Al posto di ciascuno dei delegati erano già stati sistemati blocchi di carta, cartelline in pelle, penne, più sigarette di varie marche, accendini, posacenere, bicchieri di fine cristallo in sottobicchieri di argento e, verso il centro del mastodontico tavolo, una dozzina di bottiglie di coca cola da litro, e altrettante di acqua minerale. Franco pensò subito che l'intento piuttosto puerile di tanta dovizia, era quello di porre i delegati in stato di soggezione e di inferiorità. Anche se, come primo risultato, avevano messo sé stessi in manifesto stato di stupidità, mostrando la fondata convinzione che i dipendenti fossero cammelli con riserve idriche a secco. Il dottorr Emilio Bonanomi, nella qualità di capo del personale a Napoli, esordì presentando i saluti rispettosi del dottor Melleth, direttore americano della Socony Vacuum, una specie di capo dell'Olimpo, che tutti in raffineria conoscevano di nome, che nessuno aveva mai visto, che aleggiava in permanenza, fermo come un chirottero dal patagio di acciaio nel cielo dello stabilimento, negato alle diottrie caduche degli operai a pian terreno. Subito dopo, il primo affondo. "Noi pensiamo di sostituire i vecchi e superati scatti di anzianità con indennità periodiche di premio, magari più consistenti e frequenti." "Non se ne parla nemmeno." La risposta di Franco fu rapida e secca, da meravigliare anche i compagni. E anche se stesso. “Come sarebbe a dire?” Rispose sbilanciato in un sussurro il dottor Bonanomi. "Mi spiego, dottore" riprese calmo Franco Certaldo. "Prima di tutto il contratto aziendale, come lei ha sempre la bontà di spiegarci, ha solo lo scopo di migliorare e non di sostituire gli istituti del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Gli scatti esulano dalle scelte della direzione, mentre i premi potrebbero indurla nella tentazione, è umano del resto, di discriminare buoni e cattivi, e poi perché lo scatto di anzianità ha uno spirito diverso. Vede, l'industriale che investe danaro per l'acquisto di un tornio, o di una fresatrice, o di un impianto per la raffinazione del grezzo, si ripaga della spesa dopo qualche anno, grazie alla resa del lavoratore, che gli viene adibito. Ma resta, e resterà nei secoli, il proprietario di quel macchinario. L'operaio avrà avuto e continuerà ad avere il suo spennacchiato salario, anche dopo che ha rimborsato la spesa. Mi pare giusto, allora, che quale simbolico riconoscimento di questo meccanismo che non brilla per equità, il datore di lavoro corrisponda al subalterno un incremento salariale, che si è chiamato scatto di anzianità. Tutto qui. È chiaro, dottore?" "Bravo, signor Certaldo”, rispose rinfrancato e quasi beffardo il dirigente industriale, lei ha fatto l'apologia di un caposaldo delle teorie marxiste, lei ci ha fatto un discorso prettamente comunista, ci ha parlato dell'abolizione della proprietà privata degli strumenti di produzione, un discorso assolutamente comunista." "Vede, dottore, io non so se quello che ho detto è comunista o no, io le chiedo la cortesia di dirci se quello che ho detto è giusto o non è giusto e non se è comunista o presbiteriano. È possibile, dottore Bonanomi? Quanto all'abolizione della proprietà, io non voglio abolire proprio niente. È lei che vuole abolire gli scatti di anzianità". Il potente dirigente industriale guardò fisso negli occhi il suo interlocutore per quasi un minuto, mentre un profondo silenzio si era improvvisamente creato nell'ampio salone e sulle facce di tutti si leggeva la suspence decisamente fuori programma. Poi, come tarantolato, Bonanomi scattò in piedi e con voce irata e stentorea declamò: "Ci vediamo domattina alle nove: la riunione è sciolta!" Bonanomi era di statura abbastanza contenuta e il suo scatto somigliò al tentativo patetico di sentirsi, per una volta, più alto di tutti. Quando anche gli altri si levarono in piedi rapidamente, volse le spalle, radunò con furia le sue scartoffie e sparì con marziale andatura, lasciando i delegati divertiti ed increduli. Franco si avvicinò ad Aversa e gli sussurrò nell'orecchio: "I compagnucci di via Egiziaca a Pizzofalcone hanno messo in fuga il ricco barone." Aversa reagì con una risata prorompente e nessuno dei due volle spiegarne il motivo ai compagni, che erano accorsi incuriositi. Gli amici si ritrovarono tutti da Giacomone per il pranzo. Molti di loro si impegnarono in una approfondita discussione calcistica con il ristoratore che, sampdoriano sfegatato, li rimproverava scherzosamente di aver dovuto ridimensionare "la fede" per la sua Sampdoria proprio per colpa di un napoletano. Raccontò che soleva dire a tutti di sentirsi prima sampdoriano e poi cuoco e ristoratore. Ma una sera, dopo averlo detto per l'ennesima volta ad un cliente napoletano, gli scivolò di mano il piatto con la bistecca. E quando gli confessò sinceramente mortificato, che quella era l'ultima, il cliente sbottò: "E mo che cazzo mi magno, o' centravanti da' Sampdoria?" Il napoletano gli aveva detto, in pratica, che se avesse pensato di più a fare il ristoratore, e un po' meno alla Sampdoria, non si sarebbe fatto scappare di mano la bistecca come un novizio di scuola alberghiera. "E aveva ragione" - concluse ancora rammaricato. Quando si fu placata l'ilarità per il goffo mea culpa del tifoso sampdoriano, i delegati decisero di concordare, sia pure sommariamente, la linea da osservare nella trattativa fissata per il mattino successivo. In realtà intendevano darsi coraggio in vista del presumibile cipiglio con cui il dottor Bonanomi avrebbe riaperto il dialogo. Aversa intervenne subito per affermare che dovevano parlare tutti, visto che a Genova non erano stati mandati per fare le belle statuine, o per fare gli scrivani sotto dettatura del rappresentante dell'azienda. Un delegato degli impiegati aggiunse che non si doveva permettere che parlasse uno solo, esponendosi oltre il necessario, mentre gli altri se ne stavano nelle quinte. Sia Aversa che De Santis, il rappresentante degli impiegati, si riferivano ovviamente a quanto era accaduto la mattina tra Certaldo e Bonanomi. Risposero un po' tutti asserendo di non avere avuto il tempo nemmeno di aprire bocca per la fuga inopinata del Bonanomi, ma che il giorno dopo sarebbe stato diverso. Si avviarono all'uscita in pieno accordo e Franco, dopo essersi scambiato una stretta di mano carica di intesa con Aversa e De Santis, si recò negli uffici della SIP per telefonare a Hermann. Gli rispose "Purpetiello". Gli disse che Hermann era andato fuori agli stabilimenti per il volantinaggio. “Come fa sempre quando piove e tutti gli altri se la squagliano!” aggiunse. Poi disse che Hermann sapeva già tutto, compreso “il battibecco che hai avuto con Bonanomi." E glielo aveva detto lui stesso, che lo aveva appreso da Micillo, uno della delegazione al quale aveva telefonato per sapere notizie sull'assunzione diretta degli operai delle ditte appaltatrici che da molti anni, alcuni da una vita, lavoravano nello stabilimento rimanendone estranei. Concluse che il boss non sarebbe tornato, perché dopo aveva un incontro in Prefettura e si sarebbe "fatta notte". Purpetiello era appunto un dipendente di impresa appaltatrice: otto anni di lavoro in raffineria, senza che la direziono ne conoscesse la sola esistenza in vita. Il soprannome non gli procurava crucci. Era adottato da tutti, anche in famiglia, e se qualcuno per distrazione o per fargli cosa grata lo chiamava per nome, lui rispondeva risentito: "Io mi chiamo Purpetiello!” Franco si chiedeva perché, a che cosa fosse dovuto quel secondo nome che si portava addosso incollato come la propria pelle. Era di statura bassa, poco più di quella di un nano, corporatura normale e proporzionata, colorito olivastro, naso grosso e indossava sempre una tuta molto scura, quasi nera, come quelle che indossavano gli operai della Raffineria e che non lo aiutava certo a sembrare qualche centimetro più alto. La traduzione letterale corrisponde al vezzeggiativo e al diminutivo del sostantivo "polipo". Ma del celenterato il poveretto non aveva assolutamente nulla. Braccia e gambe, corte e pigre, erano tutt'altro che avvolgenti e minacciose come tentacoli. E il corpo magro e asciutto non ricordava certo la sacca del polipo. Eppure gli stava benissimo. Era decisamente da ascrivere alla particolare bravura dei napoletani di affibbiare soprannomi che centrano in pieno il soggetto, spesso prescindendo da ogni somiglianza o analogia. Come se la fantasia o l'intuito, volando alto, si incontrassero con una realtà più sofisticata e insieme se ne andassero a braccetto. Senza spiegazioni. E’ certo che se Purpetiello fosse stato mostrato fra decine di persone, all'interrogativo "chi è Purpetiello fra questi?", chiunque avrebbe risposto indicando lui, senza sapere perché, ma non avrebbero indicato altri che lui. L'assunzione alle dirette dipendenze della raffineria era la rivendicazione costante dei dipendenti delle ditte appaltatrici, ma per lui era un'altra cosa. Per lui era il sogno e la certezza che sostenevano e motivavano la sua vita stessa. Nessuno poteva contraddirlo su quella prospettiva, ma nessuno aveva il diritto di alimentarla. E Franco avrebbe voluto tanto sapere cosa gli aveva promesso Micillo. Era questione che non si poteva regolare in sede di trattative a livello aziendale. Micillo era un veterano dei contratti aziendali, non poteva non saperlo. Perché mai gli faceva assurde promesse? Un inganno per misteriose contropartite? E quali, da un povero cristo come quello? O forse per somministrargli un placebo a piccole dosi nell'intento di dargli coraggio? Franco si sorprese di sé stesso per avere così minutamente considerato Purpetiello e di non avergli mai dedicato un pensiero per tutto il tempo che trascorrevano insieme a Napoli. Concluse che la lontananza, il distacco fisico dalle cose e dai personaggi del nostro quotidiano, può essere gratificante, può indurci a scorgere aspetti insospettati. E che forse siamo tutti un po' affetti da presbiopia dell'anima, senza saperlo. Trascorse il resto della giornata sfidando la tramontana per le strade della città, fino a quando non andò a rifugiarsi in un cinema di via De Ferrari. Abbastanza gradevole la pellicola, un film di Goulding con Greta Garbo, ma di più gli piacque il confortevole tepore nella sala, in soccorso alle dita intirizzite. Capitolo sette. Giuseppina da Catanzaro Stava sistemando il cappotto all'attaccapanni, quando la ragazza dai logori guanti di pezza l'avvertì, dal fondo della sala, che i suoi amici erano andati via tutti. "Sì, grazie” rispose Franco”l'avevo immaginato. Sono andati via anche i clienti. È rimasta solo lei...” "Sì, sono sola." "Posso sedermi al suo tavolo? Non mi piace mangiare da solo." "Certo, mi fa piacere. Ma io ho già cenato!" Davvero Franco odiava mangiare da solo. Roba da porci, diceva. Sedersi a tavola solo per mangiare, senza poter scambiare una parola con qualcuno, con la testa ficcata nel trogolo, non gli andava proprio bene. "E come mai, allora” riprese la ragazza, “non viene con i suoi amici?" "Fanno troppo chiasso.” Da quel momento il colloquio, lento ed interrotto da lunghe pause, volute più dalla ragazza che dalla necessità per Franco di non parlare a bocca piena, si protrasse con sorprendente naturalezza, appagante e spontaneo, come fiume appena ricomposto sul greto dalla pioggia in un'arida estate. "Lei è del sud?" chiese Franco, appena dopo aver chiesto a Giacomone solo mezza razione di spaghetti al pesto, e insalata perché aveva poco appetito. "Sì, sono di Catanzaro". "È bella Catanzaro?" "Abbastanza, ma io, precisamente sono di Melissa. Qui sono Giusy, ma mi chiamo Giuseppina." " Melissa? Dove qualche anno fa ...." "Sì, dove qualche anno fa, esatto. Meno male che qualcuno lo ricorda”. "Cosa successe esattamente. Come è successo?". "È stato tre anni fa. Nel '49. Non fosse mai spuntato quel giorno. I contadini manifestavano per lavorare nelle terre abbandonate dai padroni. Arrivò la polizia. Sparò all'impazzata. Tre morti, erano comunisti, e la polizia li scelse subito per fare il tiro al bersaglio.Una decina di feriti. Altri due morirono dopo, per le ferite. Qualcuno rimase storpio, o paralizzato. Come il padre di Carmelo, il mio ragazzo. Fu colpito alla schiena, mentre tentava di fuggire per mettersi in salvo. E ora Carmelo deve portare avanti la famiglia. Dovevamo sposarci. Povera illusa! Papà si era preparata una stanza, uno sgabuzzino vicino alla stalla, per dare la sua stanza a noi. Povero papà... fu anche arrestato, perché gridò "assassini" ai poliziotti. Il giudice lo fece scarcerare il giorno dopo, ma ora nessuno lo vuole più a lavorare. Quella sparatoria ci ha messi in croce!". "Ma erano impazziti? Perché tanto odio, tanta violenza; manifestavano per una causa giusta, non facevano del male a nessuno, quei contadini..." "Davano fastidio ai padroni delle terre. E sono loro che comandano la polizia. Sono tutti pezzi grossi della politica. Qualcuno è anche deputato della Democrazia Cristiana”. "E tu perché non sei rimasta laggiù per cercare di aiutare tuo padre?" “E come? A guardarlo? Ma lo sai che feci il giro di tutta la provincia di Catanzaro, andai in tutte le fabbriche, in tutte le botteghe per cercare lavoro? E lo sai come mi rispondevano? Che la mia famiglia era comunista e non potevano assumermi. Me lo dicevano in faccia, senza vergognarsi! Come se avessero scoperto che mio padre e mia madre erano due delinquenti”. Franco e la ragazza erano passati dal lei al tu senza accorgersene, ma si accorsero che così andava meglio. La ragazza era rossa in viso come tutto fosse successo qualche giorno prima. E Franco se ne stava in silenzio, nell'intento di esprimere, così, rispetto e comprensione. Ma Giuseppina riprese: "Lo sai che neanche la serva ho potuto fare? Lo sai che Rosalia, la sorella sposata di Carmelo, non ha potuto battezzare il bambino? Il prete ha rifiutato il battesimo perché i genitori sono comunisti!" "Poveri bambini, però” rispose Franco cercando di sdrammatizzare, “i comunisti se li mangiano, i preti li scomunicano!" Giuseppina non rise, ma doveva aver capita l'intenzione, e gli chiese: "Ma tu, sei comunista?" "Non lo so..." "Come non lo sai? Questa è bella!" "Forse sì” balbettò Franco, “ancora non lo so bene..." E per trarsi d'impaccio, andò a cacciarsi in un pasticcio anche più rischioso, o almeno così gli sembrava. Trasse di tasca un involtino e lo depose delicatamente sul tavolo: "È per te”, disse con un fìl di voce ”spero che vorrai gradirlo..." "Per me? E che cos’è?" "E guarda..." "Guanti! Belli! E perché?" "Perché ti servono. I guanti bucati che fanno arrossare le dita per il freddo non servono a molto" "E io ho i guanti bucati, ma tu come lo sai?" "Li ho visti" "E tu fai un regalo così... ad una puttana? Ma io sono una puttana!" E alzò il tono della voce con gran voglia di gridare, ma con la mano che faceva da schermo alla bocca. "Tu sei Giuseppina da Catanzaro, anzi da Melissa. La Giusy di via De Ferrari fa un mestiere che con te non ha niente a che fare. Tu non sei fatta per fare la puttana. Non la sai fare. Se no a quest'ora avresti un mucchio di soldi, ma tu vai in giro con un paio di guanti di pezza che fanno schifo! La tua origine contadina non è di quelle che si cancellano facilmente. Non ti illudere non puoi farlo!" Franco stava molto attento a non assumere il ruolo patetico e tutto sommato abbastanza antipatico, dell'angelo salvifico, e la metteva con forza sul piano della convenienza, del costo e del ricavo, dell'incompatibilità caratteriale. E proseguì: "Dicevi che non hai potuto fare nemmeno la donna di servizio. Perché?" "Perché sono porci. Mariti, mogli e figli si derubano fra loro come lupi, si scannano, ma poi alla fine si trovano tutti d'accordo a dire che è stata la serva. L'ultima volta sono stata a notte e giorno da un avvocato, morto di fame e debosciato, ma la moglie era ricchissima, aveva terre e palazzi sparsi per tutta la provincia e anche a Reggio Calabria. Il marito rubava perfino i soldi nel portafogli del figlio che frequentava l'università e lui, il figlio, si prendeva il doppio dalla borsetta della madre. Un giorno l'avvocato rubò un anello alla moglie e lo nascose nel mio comodino. Quando tornai dalla libera uscita del giovedì, trovai l'inferno. La moglie aveva trovato l'anello e urlava contro di me come una pazza, tentò anche di aggredirmi. Io a stenti riuscii a capire che aveva trovato un anello nel mio cassettino ma dovetti scappare nella mia stanza per non farmi bastonare da quella schifosa. Sentii che il marito le disse che l'anello l'aveva messo lui nel mio comodino per saggiare la mia onestà. Non l'avesse mai detto! La moglie diventò una belva, strepitando, con la bava alla bocca, si precipitò nella mia stanza: “Stronza maledetta, non solo sei ladra ma sei anche puttana e ti fai pagare con i miei anelli da quest'uomo di merda, ora ti difende per non perdere la cuccagna! Vado subito a denunciarti!”. Il marito le corse appresso tentando ancora di calmarla: io raccolsi la mia roba e scappai. “E dove andasti?" “Lo vuoi proprio sapere?" "Eh... che devo aspettare? "E va bene, te lo dico" riprese finalmente con un cenno di sorriso, “andai da Carmelo. A farmi scopare. Non ne voleva proprio sapere. Era la prima volta per tutti e due. Dovetti portarlo a spintoni nel fienile. Continuava a pregarmi di lasciar perdere, diceva che non si sentiva di approfittare della situazione, lo avrebbe fatto un'altra volta. Mi spogliai quasi nuda, gli tolsi i pantaloni, mi inginocchiai per eccitarlo con la bocca e finalmente mi afferrò per le braccia, mi scaraventò con forza sul fieno. Mi possedette con furia e rabbia selvaggia; non avrei mai immaginato tanta passione in quel ragazzo, così buono, così affettuoso...." "E dopo, che facesti?" "Mi rivestii di corsa, gli detti un bacio in fronte, lo ringraziai con tutto il cuore, e... addio Calabria mia! Presi il primo treno per il nord e la mia terra non l'ho più rivista". "Ne hai nostalgia?" "Da morire ! " "A Capodanno sei rimasta qui con la tua amica?" "No, da sola. Perché la mia amica, con cui divido la camera alla pensione, andò dai suoi. Lei è perugina, è di Città di Castello. Ha un fratello che le vuole un sacco di bene, non le chiede mai che lavoro fa qui a Genova. Perché ha capito e fa finta di niente”. Franco aveva un po' il chiodo fisso per le feste di fine d'anno in generale, e per Capodanno in particolare. Proveniva da una famiglia molto unita e gli era rimasta ben radicata la tradizione di trascorrere quelle festività uniti a tutti quelli cui si vuole bene. Teorizzava la sua debolezza di fine d'anno, sostenendo che la notte del 31 dicembre è "il passo avanti". I bambini si ritrovano un po' meno bambini; i giovani, un po' più maturi, e gli anziani.... un po’ più vicini alla stazione, e bisognerebbe stare insieme, per compiacersi dei bambini e dei giovani, e per volere un po' più di bene agli anziani. Che stanno già sul predellino. "Tuo padre è solo, vive da solo?" - chiese sottovoce. "Sì, sono l’unica figlia e mamma è morta che io avevo un anno. È solo." "Come vive?" "Quando posso gli mando dei soldi. Non lo so se ha capito che mestiere faccio. Ed io ho paura di domandarglielo. Ma quel poco che posso glielo mando sempre!" Poi Giuseppina improvvisamente si alzò e, tenendogli la mano, disse che doveva andare via, che si era fatto tardi. Gli disse: "Grazie di questo bellissimo regalo. Posso darti un bacetto?". E lo baciò sfiorandogli la guancia. "Se vieni, ci vediamo domani sera!" E uscì in fretta. Franco si avviò a passi lenti verso l’albergo. Era nelle sue abitudini la camminata lenta e anche discontinua, ma stavolta il suo passo era incerto, come di persona frastornata ed intimorita. Sapeva che omicidi come quelli compiuti a Melissa, vere e proprie fucilazioni in massa senza processo, erano avvenuti, e sarebbero stati compiuti chissà ancora in quanti posti. Come davvero accadde a Modena, a Reggio Emilia, ad Argenta in provincia di Ferrara, a San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna. E si vergognava di accorgersi solo in quel momento del dramma di decine di vite spezzate dal piombo della polizia. E provava disprezzo per quanti, come lui, non sapevano e non pensavano che il dramma di ciascuno dei sanguinosi episodi non si esauriva con la conta dei morti sul terreno, ma si moltiplicava e si protraeva in mille ignote vicende che, non registrate nemmeno dalla pochissima stampa che aveva il coraggio di parlarne, da quelle folli tragedie prendono vita e forma e si dipanano in mille rivoli, come mostri generati da osceni amplessi fra uomini e bestie, e si disperdono per le vie del Paese, approdano ovunque, lontano, lontanissimo. Per esempio a Genova, dove Giuseppina fa la puttana. Il mattino successivo alle nove in punto, nell'atrio dell'albergo ancora sonnecchiante, c'erano tutti, anche i ritardatari abituali. Si preparavano ad affrontare il sicuro cipiglio del dottor Bonanomi, la sua vindice rabbia per quanto era accaduto il giorno prima, la sua resa alla logica di un ragionamento che non fu proprio possibile confutare. “Chissà come sarà incazzato stamattina!” disse De Santis, delegato degli impiegati. E Aversa si chiese: “Ma perché ieri se l'è squagliata? Nessuno voleva fargli del male, Certaldo stava ragionando così serenamente...” “Ha preferito la via dell'esilio a quella del disonore!”, rispose Franco, e tutti risero divertiti. La risata collettiva non era ancora esaurita, quando spuntò Bonanomi tra due giannizzeri, che si seppe poi essere i due segretari, di cui il dirigente disponeva quando era in trasferta nel capoluogo ligure. Il capo salutò uno per uno i suoi dipendenti con il sorriso stampato sulle labbra, mentre i due paggetti si facevano da parte rispettosamente. Poi si avvicinò a Franco e, sfiorandogli il gomito con studiata leggerezza, lo invitò ad allontanarsi di qualche passo dagli altri. “Ho riflettuto sulle cose che lei ha detto ieri, quello che scherzosamente chiamai un discorso comunista e devo dirle che lei ha ragione, anzi mi congratulo con lei per la sua approfondita riflessione!” declamò con tono solenne, scandendo le sillabe. Franco si chiese se Bonanomi non avesse trascorso la notte a purificarsi nel Gange; si limitò a ringraziarlo educatamente e a dirgli che era lieto del suo apprezzamento. Appena seduto al tavolo, ove erano già schierati in ansiosa attesa i delegati napoletani, il redento dirigente industriale disse subito che, come aveva già "proferito" al sig. Certaldo, al quale aveva “reso atto” della fondatezza della sua "approfondita argomentazione", non si sarebbe più parlato della soppressione degli scatti di anzianità. E fu l'ora delle voci nuove. Il delegato D'Acunzo, di Portici, conducente e responsabile del servizio trasporto dei dipendenti dell'azienda, intervenne di getto: “No, perché non dovremmo più parlarne, parliamone invece!” D'Acunzo era un omone alto e robusto, comunista, amico di tutti, un po' taciturno ma sempre pronto alla battuta e anche quella volta non si fece sfuggire l'occasione per fornire un saggio di simpatica arguzia napoletana: “Chiarisco subito il concetto. Io sono contento che il dottor Bonanomi abbia dato ragione a Franco. Ma Certaldo ieri ha detto pure che gli scatti di anzianità sono simbolici. Che significa simbolici? Io non lo so bene ma leggo spesso sui giornali che quando un signore ricco e potente ritiene che qualcuno lo ha offeso, gli fa querela e lo cita per i danni, chiedendo un risarcimento per l'importo simbolico di una lira. Giusto? Ma noi non siamo signori ricchi e potenti, noi siamo operai e non l'abbiamo nemmeno denunziata; perché dobbiamo avere scatti di anzianità in misura simbolica? Perché non li miglioriamo, di un venti, venticinque per cento?” Risero tutti, Bonanomi compreso, ma non le due statuine che si erano sedute ai lati del loro Capo, restando una ventina di centimetri distanti dal tavolo. Si concordò un aumento del quindici per cento. Franco, scusandosi per la coincidenza coi suoi interessi personali, chiese il riconoscimento della qualifica impiegatizia per i vigilanti e l'abolizione dell'obbligatorietà delle due ore giornaliere di straordinario. Seguì una lunga discussione e un'opposizione cortese ma ostinata di Bonanomi. Franco elencò minuziosamente le mansioni dei guardiani, fra le quali qualcuna obiettivamente complessa e di non lieve responsabilità, come l'operazione di carico e scarico dei mezzi pesanti in entrata e in uscita con l'emissione di relative bollette e altra documentazione. I vigilanti erano classificati, scandalosamente secondo Franco, operai comuni. Bonanomi faceva presente che da operaio comune a impiegato si saltano ben tre qualifiche e che era assurdo. Si concluse con l'abolizione dell'obbligatorietà dello straordinario giornaliero e con il riconoscimento, per i guardiani, della qualifica di "intermedio", che precedeva di uno scalino quella di impiegati. Franco si dichiarò soddisfatto. Ed esplose, assordante e imprevedibile, la bomba del Contratto Aziendale del 1952. Micillo e Aurino (veterani di quella contrattazione, presenti in delegazione anno dopo anno), con la serenità e la disinvoltura di chi chiede un cerino per la sigaretta, proposero la corresponsione di altre due mensilità all'anno, in aggiunta alle quattordici che venivano già riconosciute. Ne suggerirono anche la denominazione. “Le chiameremo le mensilità di primavera e di autunno, per il rifacimento del guardaroba familiare!" Quindi sedici mensilità straordinarie all'anno, una "tredicesima" ogni tre mesi! Una richiesta che avrebbe fatto schizzare fino al soffitto il sangue dalla giugulare di qualsiasi dirigente aziendale, ma Bonanomi, calmissimo, si volse di fianco e leggermente all'indietro, per trovare le facce dei retrostanti cicisbei personali, ostentò con loro rapidi cenni di consultazione senza parlare, poi rimise a posto il collo e la testa e rispose: “Sì, si può fare, d’accordo!” Franco si convinse definitivamente di avere assistito alla rappresentazione di una farsa becera e mal recitata, da guitti di quart'ordine. Ora aveva toccato con mano la fondatezza della contestazione di Hermann e del Sindacato alla stipula dei contratti aziendali. La riunione si sciolse. Si stabilì di rivedersi la sera nella hall dell’albergo per un rinfresco celebrativo e che si sarebbe dovuti tornare a Genova per la stesura e per i dettagli, nel mese di marzo. Franco era nauseato ma non si nascondeva la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro per i guardiani, di essersi conquistato la loro simpatia e di avere, quindi, quasi spuntato una preziosa arma della direzione contro di lui e il Sindacato che, ormai ne era sicuro, avrebbe presto rappresentato in fabbrica. Aversa e Tarantino raggiunsero Franco sulla soglia dell'albergo dal quale si accingeva ad uscire per respirare aria diversa e gli chiesero perché mai la Socony Vacuum fosse diventata così generosa. E Aversa aggiunse: “Qui gatta ci cova, è vero Certaldo?” Franco rispose in fretta: “Ne parleremo dopo pranzo. Riuniamoci se possibile anche con qualche altro e parliamone. Ci vediamo qui nell'atrio, va bene?” Furono d'accordo e Franco si avviò verso piazza Vittoria, che aveva visto da lontano il giorno prima e gli era sembrata immensa. Aveva bisogno di spazio sconfinato per vendicare la sua libertà che sentiva vulnerata e irrisa, per non essere potuto insorgere contro la beffa del "contratto d'oro", contro l'insidia della paterna Socony Vacuum. Si chiedeva quanto sarebbe costato all'intera categoria dei lavoratori petrolieri, il privilegio di comprare un abito nuovo nei cambi di stagione. Cercava di valutare l'entità della falla, che minacciava di aprirsi rovinosa nel fronte degli operai, e quella del bottino, del grande affare, che stavano portando in porto gli industriali. In cambio di qualche giacca in più, per la nuova stagione, per soli tremila dipendenti. Ma finì per rappaciarsi con la sua coscienza: si sarebbe impegnato allo spasimo per la partecipazione della sua fabbrica alla lotta per il rinnovo del Contratto Nazionale: avrebbe fatto esplodere nelle loro mani la bomba che i padroni si erano costruita. Forse non era molto convinto, ma aveva bisogno di crederci. E poi era contento del tormento che lo angustiava. Sentiva di essere molto più fortunato, per esempio, dei due guardaspalle di Bonanomi. Non avevano il compito di proteggere il loro Capo. L'incolumità fisica di costui non era mai stata a rischio. Erano guardaspalle perché guardavano le spalle. E basta. Sia camminando, sia seduti intorno al tavolo, i due si trattenevano sempre un passo o venti centimetri, dietro Bonanomi. A loro sembrava irriverente stare sulla stessa linea del loro padrone. Era immaginabile che incontrandolo per strada, avrebbero dovuto fare prima un mezzo giro intorno al dirigente, fissarne gli omeri, la clavicola, la nuca e scatola cranica, per riconoscerlo con certezza e inchinarsi nella riverenza. Due disgraziati dall'anima certamente serena ma tristemente piatta, inutile. E intanto fornì a se stesso una prova non edificante di coscienza politica: non andò da Giacomone per il pranzo e disertò l’incontro con i compagni per chiarire i loro onesti dubbi sul contratto. Ma le attenuanti prevalevano nettamente, e si perdonò: aveva ricevuto un telegramma. Glielo aveva consegnato il portiere dell'albergo assicurandogli che era arrivato proprio in quel momento. Affrontò con sufficiente padronanza di sé alcuni minuti non facili, arrestò il mulinello che gli aveva avvolto il cervello, e lesse: “Pronta per te la più bella befana del mondo Mara”. Telefonò subito alla tabaccaia vicino al negozio, la “cestunia”, traduzione in vernacolo della tartaruga, e Mara accorse. Disse subito che sapeva di essere stata una cretina, che si scusava, ma che non aveva saputo resistere. Aggiunse che doveva immaginare, che per qualche istante l'avrebbe messo in agitazione ma sapeva che, sicuramente, da vicino si sarebbe fatta perdonare meglio. La gravidanza di Mara non era proprio una sorpresa, eppure la notizia assaliva Franco incutendogli sentimenti che non aveva previsto e che non aveva mai conosciuto prima. Felicità certamente ma senza euforia e la viva emozione che lo pervadeva non riusciva a sconfinare nella irrazionalità dei sentimenti forti. Rifletteva quasi parlando, muovendo le labbra senza accorgersene: “Tra pochi mesi sarò padre. E Mara sarà madre! E di lei al matrimonio, due anni fa, dicevano sembra “una prima comunione. Bello!... Terribile! Sono sicuro che ce la faremo, dobbiamo farcela...” Vagò per la città senza tentare di fugare dalla mente i pensieri felici e le paure confuse che lo accompagnavano. E con essi gli piacque disperdersi nei vicoli bui, dalle mura antiche e stonacate e nelle ampie strade tra le vetrine sfolgoranti. In albergo non c'era nessuno dei compagni. Ne fu felice. Si sdraiò sul letto accorgendosi di essere stanco. Aveva camminato molto. Pensava a come trascorrere la sua ultima serata genovese. C'era il rinfresco celebrativo nella hall dell'albergo. Si sarebbe dovuto guardare dalle tentazioni. Qualunque gesto che avesse compromesso il contratto sarebbe stato un errore. Era presto. Gli operai non avrebbero capito e se li sarebbe trovati tutti contro. Contro di lui e contro il sindacato. E non era proprio nelle sue |intenzioni fare grossi regali all'azienda. Poteva dare forfait e andare direttamente al ristorante, ove avrebbe incontrata Giuseppina. Le avrebbe chiesto di andare qualche volta da suo padre. Senza paura. Nessuna verità è più terribile, per un uomo, della certezza di essere solo al mondo. Scrisse un biglietto che depose sul comodino di Aversa: “...non lamentarti, ti offro un’occasione d'oro: puoi portarti a letto una ciaciona in albergo a quattro stelle, senza pagare una lira...” E alle 21.30, era sul treno che l'avrebbe portato a Napoli nella tarda mattinata. Capitolo otto. La provocazione Mara aveva superato il secondo mese di gravidanza in piena naturalezza. A Franco sembrava sorprendente la facilità con cui si era calata nella parte di donna incinta. Forse, pensava, si era immaginata così molte volte e ora non incontrava sorpresa. Era sempre più preoccupata per Biagino, che peggiorava rapidamente. Ora per camminare aveva bisogno di sostenersi ai due lati. Intanto avevano chiuso l'era della casa pertugio. Dietro le quinte dell'improvvisata commedia dei cartolai innamorati, erano tornati il vuoto e il silenzio. Lo scaffale fu retrocesso a banale sostegno di articoli di cartoleria e venne privato di schianto del fascino segreto di una doppia vita, che aveva animato due anni della sua storia. Duramente ridimensionato da epilogo ingeneroso. Affinché Mara, cui toccava ora respirare per due, avesse aria e luce a sufficienza, andarono ad abitare in subaffitto - camera ammobiliata con uso di cucina - in un appartamento alla stessa via Foria presso un operaio della Underwood, Nicola Marino, comunista di vecchia data, con moglie e due figli piccoli con l'argento vivo in corpo. In raffineria, la direzione non tardò a dare sue notizie. A due settimane dal rientro da Genova era già pronto ed affisso nella bacheca l'ordine di trasferimento per Franco, alla Benit. Uno stabilimento minore della Vacuum a qualche chilometro di distanza, sulla via Argine, estraneo alla produzione, con funzioni prevalenti di deposito, affidato alle prestazioni di una ventina di operai e alla vigilanza di due soli guardiani. In effetti, una specie di casa di riposo o pacifico isolotto per esuli. A Franco naturalmente non andava bene la panchina e meno ancora l'esilio, ma consultatosi con Hermann, decise di non contestare: erano prossime le elezioni per il rinnovo della Commissione Interna, della quale avrebbe fatto parte e il cui risultato elettorale non era realisticamente in discussione. Ciò avrebbe imposto alla direzione, a norma degli Accordi Interconfederali all'epoca vigenti, il suo rientro nel luogo di produzione e la tutela contro eventuali rappresaglie di ogni tipo in suo danno. Come, ad esempio, il licenziamento, tassativamente vietato se non in presenza di reati penali, fino a sei mesi dalla scadenza del mandato, che aveva la durata di un anno. Una garanzia che a Franco apparve significativamente provvida, visto il tono truculento che andava connotando gli umori dell'azienda nei suoi confronti, già ampiamente testimoniati dal suo dirottamento alla Benit. E ora che aveva spregiudicatezza necessaria per guardarsi dentro fino in fondo senza accomodamenti inconsciamente premeditati, scopriva che la mestizia latente comparsa alla lettura del telegramma di Mara aveva un'identità precisa: la paura del domani, il terrore per il licenziamento, il ricorso al più spregevole abuso di potere padronale. Quindi calma e niente rimostranze. Neanche l'invito alla Commissione Interna, ancora in carica, di esaminare il caso. E poi, in quel cronicario per malati terminali con annesso lazzaretto per contagiosi in isolamento, c'era Luigi Nuzzo, il paterno guardiano più anziano che, per confuso senso di rispetto, raggiunto dall'eco delle battaglie, che Franco aveva ingaggiato a Genova, aveva smesso di proporgli l'iscrizione al Partito Comunista. Come se a quel punto, suggerirgli una scelta politica, fosse quasi grave presunzione. In un mattino ai primi di marzo, il sole sembrava avesse la potenza di trasformare orribili cisterne nere, gigantesche piattole colme di grezzo, in anime incolpevoli, protese verso il cielo. E Nuzzo se ne stava ritto sulla piccola piattaforma in vetta alla breve scala in ferro dell'impianto; aveva in mano un cartoncino effigiato di rosso e lo fissava muto, con gli occhi stretti, come fosse miope e un incerto sorriso gli attraversava la faccia sepolta dalla incolta barba bianca. Franco salì in fretta i gradini e lo raggiunse per dirgli: “Voglio iscrivermi al Partito Comunista”. Gli occhi del vecchio operaio si dischiusero confessando lucenti, la sua gioia, e Franco volle aggiungere: “Mi hai convinto!” La risposta di Mara all'annuncio di Franco fu rapida e nervosa: “Hai fatto bene, questi porci dovrebbero marcire in galera e invece la legge li protegge!” Franco si affrettò ad aprire la raccomandata che Mara gli porgeva, per identificare il porco che l'aveva scritta. Era la bizoca, la proprietaria del locale. Ingiungeva di lasciare il negozio libero “da persone e cose” alla scadenza del contratto (ottobre 952, sette mesi dopo), che non intendeva rinnovare. “E allora?” chiese a Mara, che non nascondeva la sua preoccupazione, “considerando le proroghe e il tossico che le faremo ingurgitare prima di dargliela vinta, ci vorranno almeno due anni. E tu vuoi preoccupartene per due anni di seguito?” “No. Ci vorrà molto meno, questa non è una casa, è un locale commerciale. Ma lo sai perché ci diffida sette mesi prima?" “No. Questo non lo so, lo vorrei capire...” “Ti aiuto. Io non te ne avevo parlato per non metterti altri chiodi in testa, ma la settimana scorsa, la cestunia mi confidò che questa gran puttana...” “Puttana, poi. Ma con chi, se fa più schifo di un rospo?” “...ha detto che ha un nipote impiegato alla raffineria e che le ha detto che tu sei uno sfegatato comunista. Allora lei ha l'obbligo di mettersi in pace con la coscienza: non può tenere un senza Dio, in una casa di sua proprietà” La bizoca (in italiano “bigotta”) abitava nel palazzo attiguo, al primo piano, e il suo balcone era quasi la tettoia della cartoleria. Ogni venerdì sera si sentiva il rosario recitato dalla proprietaria e dalle fedeli, che lei stessa andava reclutando, porta per porta, nell’intero stabile. Franco non conosceva il nipote ma era più propenso a credere che il messaggio se lo fosse fabbricato da sola, origliando quello che si diceva nel negozio. Non era vero che riteneva eccessiva la preoccupazione di Mara, perché ogni volta che la mente veniva sfiorata dall'ipotesi della possibile rappresaglia estrema, gli dava coraggio quel negozietto, che sarebbe potuto essere il relitto cui aggrapparsi per non essere completamente travolti nel naufragio. Né era opinabile un possibile colloquio con la padrona di casa. Oltre all'umiliazione non ne sarebbe derivato alcun altro risultato. Ella covava rancore per l'umanità intera e lo affermava lei stessa. Franco era convinto che quando colpita da raffreddore, ed accadeva spessissimo, scaracchiava beatamente per la strada, per le scale, e finanche dal balcone sul marciapiede, in lei non agiva soltanto la repulsa per ogni regola ovvia di civiltà, ma anche, principalmente, la volontà repressa di porre a buon frutto la sua genetica malevolenza per la gente. L'assalto a mezzo raccomandata al “comunista sfegatato”, era innegabilmente creatura della assordante propaganda sempre più frequentemente ai margini del razzismo. Ma prendeva corpo anche dalla perfetta sinergia, che quel vociare di farneticazioni inquinanti, realizzava con i suoi complessi, le sue invidie, le sue antiche frustrazioni. Questi, gli argomenti che, senza esserne convinto, Franco adottava nel tentativo di lenire il risentimento di Mara.. Ma non otteneva grandi risultati. Quella donna mostruosa li avrebbe scacciati, li avrebbe espulsi dalla “trincea” che li aveva accolti inermi, ai loro primi scontri con il mondo esterno. Franco allora, prossimo alla resa, le disse: “Ero venuto prima per celebrare la mia iscrizione...” “Anch'io mi voglio iscrivere!” “Bene, ci starai benissimo: le comuniste sono tutte racchie!” “Disgraziato!” rispose Mara ridendo apertamente, come fosse stata del tutto rasserenata. “No. Voglio dire che fai bene, vieni a controbilanciare, capito?” Ne stavano ridendo insieme quando giunse Biagino, di certo una presenza utile per distogliere Mara dal pensiero di quella raccomandata. Lo sostenevano due belle ragazze, che avevano notato per strada il suo sforzo per muoversi appoggiandosi al muro. Era un bel giovane e ciò rendeva anche più dura la sventura che lo aveva colpito. Aveva sul viso scolpita l'espressione della dolcezza e la sofferenza non aveva scalfito il suo buon umore e la sua gioia di vivere. Alla notizia dell'iscrizione di Franco al Partito Comunista, rispose semplicemente: “Ma sì, potevi risparmiarti di aspettare tanto tempo!” E andò diritto all'obiettivo di rallegrare Mara, quando seppe della raccomandata della “bizoca”. Disse: “La incontro spesso. Ma quella non è una bizoca, quella è un bazooca! Sia per la gittata, che per volume di fuoco” La battuta colse in pieno lo scopo. Mara era sinceramente divertita anche per il carattere punitivo che l'osservazione del fratello rivestiva per la sua nemica. E da quel momento, grazie ad una sapiente opera di capillare diffusione da parte di Mara e Franco, il soprannome della donna divenne la “bazooca”. Mara era la sorella preferita. Si somigliavano fisicamente e anche i loro caratteri avevano molto in comune. Quando sospettò che l'ultimatum della bazooca creava apprensione, soprattutto alla luce della latente preoccupazione per il colpo devastante, che l'azienda poteva infliggere ai due, disse sottovoce, quasi timoroso di umiliarli: “Prima o poi, zoppo o diritto, inizierò la mia attività giù, negli orefici, sono ormai abbastanza pratico e fin quando ci sarò io non farete la fame...” Aveva seguito in quel tempo con assiduità, nonostante l'aggravamento del male, il lavoro del padre, vecchio stimato commerciante di oreficeria e di perle e nel quartiere napoletano alle spalle del Rettifilo e piazza Nicola Amore, tra il corso e la via Marittima, detto appunto “degli orefici”, avevano imparato a conoscerlo e rispettarlo. Franco ripartì per Genova dopo qualche giorno. Stavolta con qualche preoccupazione di troppo. Fortunatamente si sapeva che la permanenza nella città ligure sarebbe stata molto breve. Bonanomi apparve meno cordiale. Con tutti. Non aveva sulla bocca lo stereotipato sorriso contrattuale e, senza che nessuno ne soffrisse, mancarono i salamelecchi con cui usava adornare lo stucchevole disquisire. Come dissolti nel nulla (a loro già congeniale) mancavano, infine i due retrostanti e il soglio del dirigente appariva sguarnito. Completata la stesura dei nuovi istituti contrattuali, Bonanomi chiese il rinvio per la firma del contratto che intanto veniva siglato dalle parti. Il motivo del contrattempo era dovuto agli impegni “irrevocabili” che avevano trattenuto Mr. Melleth nel Texas: il pipistrello era atterrato fra i texani. A ora di pranzo la delegazione si riversò compatta da Giacomone, che parve davvero felice di rivederli, a parte gli interessi di cassa. E lì a tavola, portavoce Aversa, i delegati chiesero a Franco se aveva chiesto lui stesso di essere trasferito alla Benit. Franco sorrise: “No, non l'ho chiesto io” e con aria ispirata, come in preda ad improvvisa crisi di misticismo, levò gli occhi al soffitto e proseguì”vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuol e più non dimandare!” Aversa sbottò: “Mo' fai come i preti, cominci a parlare latino per imbrogliarci! Risero tutti. E Aurino, ex membro di Commissione Interna per la CGIL, domandò: “Ti candiderai alle elezioni della Commissione Interna?” “Me lo hanno chiesto in molti e me lo ha proposto il Sindacato, ma francamente non ho ancora deciso.” Dopo pranzo si concordò la partenza per il giorno successivo e D'Acunzo, rivolto a Franco: “E stavolta non te la squagliare. Abbiamo deciso a maggioranza di fare il viaggio insieme....” “Va bene” rispose Franco ”sarà un piacere.” Verso le 22.00 si recò da Giacomone per la cena, preventivamente avvertito del ritardo. Al tavolo solitamente occupato da Giuseppina e l'amica, c'era solo lei, l'amica perugina. Scusandosi, si avvicinò e le chiese: “E Giuseppina, cioè Giusy, non è con lei?” La ragazza lo guardò con visibile diffidenza, e chiese a sua volta: “Perché lo vuole sapere?” “Sono un suo amico” soggiunse Franco ”ci siamo conosciuti un paio di mesi fa, avrei voluto rivederla prima di partire per Napoli...” “Per Napoli?” chiese la ragazza “ma... lei è forse il...signore dei guanti?” “Sì” rispose sorridendo il giovane “sono il signore dei guanti”. “Ah, si sieda, e parliamo”. Franco eseguì ma dovette aspettare un po' perché la giovane donna cominciasse a parlare. Ella lo guardò diritto negli occhi e disse: “È in carcere!” “Eh?…” “Sì, sta in carcere. A metà febbraio partì per andare a trovare il padre. Era appena giunta a casa e arrivarono i Carabinieri. E l'arrestarono. Deve scontare una condanna di diciotto mesi. Diciotto mesi in carcere!” Franco taceva, anche perché continuasse, dicesse tutto, già parlava a tratti, esitava, poi riprendeva: “Per via di quella merda che la denunciò... dove fece la domestica, il marito rubò l'anello alla moglie e lo andò a nascondere nella stanza di Giuseppina. La moglie lo scoprì...lui glielo disse che l'aveva messo lui. E lei si convinse che andava a letto con la cameriera. Le regalava l'anello che le aveva rubato...poi alla causa non si presentò. Il giudice lo mandò a chiamare e lui disse che tutto era accaduto in sua assenza e non ne sapeva niente. E la moglie disse, lui non c'entra, era la cameriera che aveva sempre rubato....Mi scrive spesso, io le rispondo e cerco di incoraggiarla ma è inutile, è molto abbattuta, dice che piange sempre per la rabbia. Lei sapeva il fatto dell'anello?” “Sì, lo sapevo, me ne aveva parlato” Lei non diceva più niente. Taceva ostinatamente come fosse pentita di avere parlato. E neanche Franco parlava. Poi si alzò ma rimase fermo, a guardare la donna, che intanto fissava il tavolo, come non se ne fosse accorta. Forse per condividere a suo modo lo sgomento di Franco, che le chiese ancora: “E...suo padre? Il padre di Giuseppina?” “Va a trovarla sempre. Ogni volta che c'è parlatorio” Passarono ancora alcuni secondi di profondo silenzio poi la ragazza, sempre con la testa china sul tavolo, gli tese la mano. Franco gliela strinse e la trattenne per un po’. “Dille che l'ho cercata”. La ragazza annuì con la testa. Alla raffineria, il sindacato aveva rinviato l’elezione della Commissione Interna per evitare che coincidesse con la definizione del contratto aziendale prevista per settembre sempre a Genova. Franco era stato fatto rientrare dalla Benit da tempo, per far posto ad un altro guardiano che, appena guarito da una lunga bronchite, aveva bisogno di impegni più sedentari. E intanto aveva presentato le dimissioni dalla delegazione, in procinto di partire per l'ultima volta. Ne aveva spiegato le ragioni in un ampio e dettagliato volantino, che aveva fatto diffondere nello stabilimento, dal titolo “perché non vado a Genova”. Il ciclostilato provocò molto clamore. Fu una vigorosa “zeppa”, lanciata nel terreno friabile dell'unità della categoria, in vista della incombente scadenza del Contratto Nazionale dei Lavoratori Petrolieri. Quella delle "zeppe" era una pittoresca teoria di Hermann. Immaginando di operare per l'amalgama di un terreno disomogeneo, ogni azione tesa al suo rassodamento, pur lontana dal risultato finale, era sempre una “zeppa”, che s'incuneava e dava il suo invisibile ma sicuro contributo alla coagulazione richiesta Tre giorni prima della chiusura dei termini per la presentazione delle candidature all'elezione della Commissione Interna (Certaldo si era proposto di presentarla all'ultimo momento) apparve in bacheca la comunicazione del rifiuto della Questura di concedere a Franco il brevetto di guardia giurata, con relativo porto d'armi. In calce si precisava che, per eventuali ricorsi, bisognava rivolgersi al locale Commissariato di Pubblica Sicurezza, in San Giovanni a Teduccio. Franco non avrebbe certamente eretto barricate per essere promosso guardia giurata, e meno ancora per avere il porto d'armi, ma non poteva rinunciare al diritto, e alla curiosità, di conoscere i motivi ufficiali del rifiuto. Tanto più che a detta di tutti, il caso non aveva precedenti. E poi non sapeva dove potesse andare a parare l'azienda nella circostanza inedita di un guardiano senza pistola. Poteva essere il primo passo verso un epilogo ben studiato a tavolino. E il mattino successivo Franco si faceva annunciare al Commissario, il dottor Ferragina. L'anziano maresciallo Cardone, prossimo alla pensione e amico di suo padre, sottufficiale di Polizia già pensionato, prima di annunciarlo, lo avvertì di stare calmo, di non cedere ai nervi, perché da lui si voleva proprio questo. Di primo acchito Franco pensò che l'anziano poliziotto si riferisse alla lunga attesa, cui si sarebbe dovuto sottoporre prima di essere ricevuto. Ma quando il maresciallo aggiunse che poteva andare, ché il commissario era pronto a riceverlo, ebbe chiara l'idea della provocazione che gli era riservata. Bussò alla porta, e subito una voce rauca, ululante, arrabbiata: “Avanti, avanti, per Dio!” Franco spinse piano la porta e ancora non ne aveva varcata la soglia, quando l'uomo dietro al tavolo scattò in piedi come un ossesso: “Chiuda quella porta, chiuda, chiuda!” Franco chiuse lentamente la porta e mentre urla incomprensibili continuavano ad essere defecate dalla bocca contratta e incredibilmente dilatata del funzionario, poté osservarlo con attenzione: capelli accuratamente tirati all'indietro senza scriminatura, torace impettito e collo ritto, sicuramente infibulato, faccia innaturale e braccia arcuate, con le mani appoggiate sui fianchi, forse alla ricerca di un cinturone, suo malgrado, non più di moda. Avvedutosi che realmente Franco non riusciva a capire le parole vomitate, riuscì con qualche sforzo a renderle intelligibili, senza mutare minimamente il tono urlante: “Si sieda!” Non c'erano sedie, non c'era niente assolutamente su cui ci si potesse sedere in mancanza di sedie. “Dove, scusi?” “Silenzio! Si allontani dal tavolo, si appoggi lì al muro, stia lontano!” Franco eseguì. Dopo aver bofonchiato per qualche istante, scartabellando tra le pratiche ammucchiate sul tavolo, sollevò il capo: “Ah, è lei! Franco Certaldo, è vero? E come è entrato? Chi l'ha autorizzata ad entrare?” “Sono entrato...” “Silenzio! Silenzio! Silenzio! Silenzio!” Franco eseguì. “E perché si allontana? Perché non si avvicina? Ho la peste? Ho il colera?” Franco non rispose. “Venga qui, al mio tavolo! Venga, ho detto!” Franco si avvicinò. “E allora? Perché viene qui vicino, adesso? Mi sta minacciando? Mi minaccia?” “No…” “E allora si allontani, subito, immediatamente!” Franco eseguì. L'operazione gli appariva chiaramente puerile, bastava non dargli retta, guardarlo con un certo compatimento e il piano sarebbe fallito, ma la netta sensazione che quell'uomo intendesse farne il proprio zimbello per qualche tempo, per il tempo che voleva, era lui a deciderlo, rendeva la prova incredibilmente difficile. Poi il commissario aprì la porta e si fece portare una sedia: “Si sieda!” Franco si sedette. “In mia presenza lei deve stare in piedi! Chiaro? In piedi, scattare, scattare!” Franco si alzò. L'altro fece il giro della stanza, si fermò per qualche istante alla finestra, guardò fuori e riprese: “Non le avevo detto di sedersi? Si sieda! Si sieda. Padreterno! Si sieda!” Franco non poté più negarlo a se stesso, era spossato. Quando si era alzato dalla sedia, era stato sul punto di piegarsi nelle gambe. A Ferragina non era sfuggito, denotava molta pratica e lo lasciò stare seduto. Ma si avvicinò fino a quasi toccargli il gomito, avvicinò la bocca, ora bavosa, alle sue orecchie, e passando al “tu” brutalmente, nel chiaro intento di fargli credere che stesse per avvenire il peggio, urlò direttamente nei timpani: “Come ti chiami, devo sapere chi sei, e cosa vuoi. Hai capito? Hai capito. Santo Padreterno? Hai capito? Comanda Ferragina! Ricordalo! Ricordalo per tutta la vita! Ricordalo sempre! Fer-ra-gi-na!” A quel punto passò alle frasi sconnesse. Franco non capì, né era interessato a capirlo, se volutamente o perché ormai tangeva realmente i lembi della follia pura. Gli parve di captare confusamente “brevetto, Questura”, “la pistola”, e altri termini del tutto estranei alla questione, priva di qualunque pertinenza, come “il bivio”, “il treno”, “la colazione”. Probabilmente voleva che Franco paventasse di trovarsi in balia di un vero pazzo e crollasse anche per il panico. Poi, improvvisamente, si placò. Andò a sedersi al suo tavolo e riprese a lavorare tranquillo, come se nella stanza stesse da solo. Andò avanti per circa dieci minuti, poi con voce nuova gli disse che poteva andare. Era trascorso, forse, il tempo necessario, secondo la sua esperienza, perché il soggetto non portasse fuori dal mattatoio, i segni del pestaggio sofferto. Era appena giunto sulla soglia quando Ferragina lo richiamò, per nome e cognome, e con voce ancora calma, quando Franco si volse, portò il pollice e l'indice sulle labbra strettamente chiuse, serrate con forza, e rese sporgenti, perché fossero ben visibili, a forma di grugno, e riprese: “E’ chiaro? Ci siamo capiti? Se no, saranno guai, ma guai grandi, brutti guai! Lei ha capito, vero?” Franco discese la scala reggendosi sull'inferriata e, dall'altra parte, sul muro. Era cadente, slombato come reduce di orge folli o di titaniche fatiche. Aveva viva in sé la consapevolezza di uscire vincente dell'arengo. Il killer lo aveva mancato. Il disegno di scatenarlo, per anchilosarlo in una cella di Poggioreale per un paio d'anni, era fallito. La tentazione insidiosa lo aveva solo sfiorato e aveva ucciso il drago, ma ciò non bastava a ridargli il minimo di vigore necessario per rialzare le spalle ricurve e spossate, come di uomo sconfitto. Giù c'era ad attenderlo il maresciallo Cardone che gli cinse le spalle con un braccio e lo accompagnò al portone. “Signor Certaldo, sto per andare in pensione, non vedo l'ora, la polizia è cambiata, non è più come prima, suo padre glielo può dire, era un'altra cosa, è cambiata! Ora prenda qualcosa di forte al bar e vada subito a casa. Si vada a riposare!” Quando tornò da Mara, allora all'ottavo mese di gravidanza, era sicuro di apparire normale, perché aveva incontrato a S. Giovanni un operaio della raffineria e a Piazza Cario III, nei pressi del negozio, un amico, e nessuno dei due mostrò di avere notato alcunché di particolare. Mara era impegnata dietro il bancone e voltava le spalle all'ingresso. Al saluto di Franco, ella girò solo la testa, rimase così ferma e non si concesse il tempo di rispondere al saluto: “Che è successo? Che cosa è quella faccia? Stai male!” Franco si aggrappò prontamente all'ancora che Mara involontariamente gli aveva lanciata: "Eh sì, per la verità non sto bene. Ho il mal di testa che di solito preannuncia il raffreddore. Mi distenderò per una mezz'ora e starò benissimo, vedrai, non ti preoccupare.” Alle nove e trenta del mattino successivo, Franco consegnò alla Procura della Repubblica, nel Tribunale di Napoli, la denuncia contro Ferragina. Il Sostituto Procuratore che accolse la denuncia, le dette una rapida occhiata e lo pregò di attendere qualche minuto nel corridoio. Lo fece rientrare e gli offrì una sigaretta. Si sedettero l'uno di fronte all'altro. Il magistrato aveva sul tavolo la denuncia, e la rilesse. “Dunque..io l'ho fatta aspettare, per chiederle…se insomma, lei è proprio deciso a procedere con questa denunzia?” “Certo che sono proprio deciso” “No, perché, vede, è un fatto molto grave, siamo ai limiti della tortura! Lei capisce...” “Nessuno sa meglio di me quanto sia grave” “Ha ragione. E vuole proprio procedere? Se vuole, posso tenerla ferma per una decina di giorni, potrebbe pensarci un po’” “La ringrazio, dottore, ma sarebbero dieci giorni sprecati.” “E va bene, se è proprio deciso." All'uscita del Tribunale, Francò telefonò ad Hermann per pregarlo di presentare quella mattina stessa la sua candidatura nella lista CGIL per l'elezione della Commissione Interna. Fra voto, scrutinio e proclamazione degli eletti, mancavano in tutto cinque giorni, che coprì ampiamente facendo pervenire all'azienda l'attestato medico, che prescriveva otto giorni di riposo perché affetto da laringofaringite. In teoria si era immunizzato contro possibili colpi bassi da parte dell'azienda, specie dopo l'insuccesso del killer Ferragina, per almeno diciotto mesi. Allo scrutinio risultarono confermati Lombardi, Riccobene e Pernozzoli Vittorio. La Gatta non aveva ripresentato la candidatura. Il maggior numero di voti fu appannaggio di Franco. Un successo che suscitò la sua soddisfazione, soprattutto per le implicazioni nei rapporti fra lui e l'azienda, che non avrebbe potuto non tener conto del legame che si era andato instaurando fra lui e la maestranza e del conseguente nuovo rapporto di forza, sia con lui che con il Sindacato che rappresentava. Zaccari, per la CISNAL, fu eletto di strettissima misura, e dovette registrare la perdita di almeno il cinquanta per cento dei voti per la sua lista. Rientrato in fabbrica, Franco partecipò all'incontro in direzione per la presentazione ufficiale della nuova Commissione Interna. I signori Bonanomi e Giallanza (vice capo del personale, che sovrastava l'altro per statura, ma gli era di sotto di alcune spanne in attivismo antioperaio) si congratularono sorridenti come da copione. All'assemblea generale dei lavoratori, convocata subito dopo nel locale della mensa, gli eletti ringraziarono gli operai per la fiducia loro accordata e, come di prammatica, promisero il loro impegno al servizio di tutti. Lo giurò anche Vittorio Pernozzoli, che volle differenziarsi, recitando con enfasi pindarica: “La vostra fiducia è la nostra forza, e noi ne saremo degni!" Capitolo nove. Il turpiloquio Mara era colta sempre più spesso da forti dolori, che preannunciavano la venuta al mondo di suo figlio. Sia lei che Franco avevano una marcata preferenza per la femmina, ma non ne parlavano nel timore che, nel caso fosse nato il maschio, la loro delusione potesse inficiare l'accoglienza cui il neonato aveva diritto. In fabbrica, intanto, lui era duramente impeciato su due fronti: i nuovi compiti, non facili e nemmeno pochi, di Commissario di Fabbrica e la irreprensibilità che doveva sempre caratterizzare il suo lavoro normale, al fine di tenere la direzione costantemente disarmata nei suoi confronti. E forse fu proprio la sua assoluta dedizione al lavoro, specialmente nei turni di notte, che gli valse la brutta risposta con cui il prof. Salvatore Romano smentì la sua diagnosi del dolore che da tempo avvertiva alla spalla destra. Non si trattava di un futile fatto reumatico: aveva la pleurite secca basale destra. Sottoposto a visita medica dal dottor Rossi, medico di fiducia dell'azienda, gli fu confermata la sentenza. La malattia in sé non presentava motivi di soverchia preoccupazione, non si associava a febbre né ad una sintomatologia più o meno pesante, tranne un po' di tosse, peraltro sporadica, e il doloretto alla spalla, al quale Franco aveva voluto dare la qualifica di reumatismo. E non comportava nemmeno l'obbligo del riposo a letto o la reclusione in casa, ma andava curata con molto scrupolo, per evitare possibili sbocchi in gravi affezioni polmonari. Era d'obbligo anche la massima cautela in rapporto alle inclemenze atmosferiche. Gli furono prescritti trenta giorni di riposo, salvo complicazioni, come da consueta dizione. Tra Commissione Interna e Azienda si stabilì che Franco fosse autorizzato a partecipare alle riunioni settimanali con la direzione. Franco ravvisava, nella nuova condizione, la possibilità di un obiettivo allentamento dei suoi rapporti con la base operaia e ne era contrariato. Né lo era di meno, per la decurtazione salariale cui sarebbe stato sottoposto sempre più incisivamente, mano a mano che fosse stato prorogato il periodo di malattia. E proprio non era quello di cui avevano bisogno lui e Mara, con il negozio sempre più a repentaglio per l'azione giudiziaria di sfratto forzato che la proprietaria del locale stava portando a buon fine, e il parto imminente, per il quale ormai si contavano i giorni. Annalisa nacque dopo un'ora di trepidazione di Franco e di durissime sofferenze di Mara: la piccola si era capovolta nel grembo materno. Si presentava con i piedi in avanti, come avesse voluto cominciare subito a trattare il mondo adeguatamente. Franco, isolato nella sala d'attesa, assisteva all'allarme esploso nella grande clinica "Fatebenefratelli": palpitanti lucette rosse lampeggiavano alle porte dei medici lungo il grande corridoio e forti trilli di invisibili campanelli si sovrapponevano, invocando l'accorrere di infermieri e assistenti. Era spaventato. Mormorava il nome della moglie, quasi a tirarla fuori dalla bolgia sinistra che li avvolgeva e riportarsela a casa come al risveglio da un incubo. Uno stuolo di medici e aiutanti si precipitarono nella sala parto e innanzi a tutti il primario professor Sodano, accorso da casa sua. E fu Sodano stesso che, dopo l'immane fatica occorsa, mentre il sudore gli colava a rivoli veloci, disse rivolto all'equipe, che al par suo aveva coadiuvato senza risparmio: "È fatta! Sono salve madre e figlia.” Le dettero il nome di Annalisa, perché così si chiama la protagonista di "Quaranta giorni e quaranta notti", il bel romanzo di Davide Lajolo, che tutti e due stavano leggendo in quei giorni. Poi tentarono di spiegarle che il mondo va cambiato, non preso a calci in faccia senza nemmeno tentare. Ma quello che pervase di disagio Franco e Mara, un po' divertiti e un po' inquieti, fu la rivelazione inattesa di Vittorio Pernozzoli. Quella villa sontuosa, vasta, incastonata nel verde delicato come quello delle mandorle di pistacchio, che si osservava in tutta la sua estensione dal balcone della camera, era la casa di Mister Melleth. Era la residenza regale ove alloggiava nei pochissimi giorni all'anno, in cui il chilottero svolazzava nel cielo partenopeo. Era lì che planava e da lì, umbratile e sfuggente, decollava per andare a celarsi nel cielo fuligginoso della raffineria. Ci scherzarono un po' su, ma per un momento ne erano stati istintivamente impressionati. Una casualità, indiscutibilmente, ma così strana in una provincia, che si estende per millecentodieci chilometri quadrati. E allora Franco lo aveva anche visto. Fu il giorno prima. Discese da un'automobile poco poco più piccola di una piazzola di autostrada: una sintesi riuscita fra l'autobus e il carro allegorico di Piedigrotta, proprio come a quel tempo piacevano agli americani. Ma era subito sparito divorato dal pistacchio. Era biondo-rossiccio, statura media, abito scuro, movenze da magnate, passo sicuro, immune da ingombri. Quella notte, alle due e mezza, Mara discese dal letto. Era la prima volta che lo faceva da sola, dopo il parto. Si avvicinò alla finestra, sollevò piano la persiana e discostò la opaca tendina di tulle, guardò intorno sprecando lo sguardo nella notte paurosamente buia. Poi guardò diritto nella villa dello statunitense, grande capo della Socony Vacuum, e pensò intensamente: “Adesso ho qui mia figlia. È lì, vedi? Ci vuoi travolgere? Ci vuoi sgommare? Cosa vuoi fare, brutto porco yankee? Vuoi essere il re Erode? Ci vuoi decapitare? Neanche l'innocente fermerà la tua mano, il tuo pollice verso, piccolo Nerone di cartapesta? No... Non farlo! Non farlo! Mister Melleth!.” E si rigirò svelta, come presa da vergogna. Si rimboccò le coperte fin sulle labbra e, raggomitolandosi, rise di se stessa: “II parto mi avrà fatta uscire di testa...” Il mattino raccontò il “sogno” a Franco. Parlava ridendo ostentando allegria, nell'ingenuo intento di mostrare la sua estraneità alla vicenda, di mondarla di ogni sua consapevole partecipazione. Franco ascoltò osservandola attentamente. Poi disse a voce bassa: “Io non so se Dio esiste o non esiste, ma so che non si può parlare a un industriale, che crea le sue fortune sfruttando gente di tre continenti, come se fosse Dio.” “Ma è un sogno!” “No. Non è un sogno. Le bugie non sono mai state una tua risorsa; sarà stato un incubo, ma tu alla finestra ci sei andata davvero, quelle cose tra la sfida e la preghiera, come fanno con S.Gennaro i suoi fedeli, tu le hai dette davvero...” Mara gli fece segno di avvicinarsi al letto, e Franco si chinò su di lei che l'abbracciò, prima con tenerezza, poi con passione, palesando desiderio insofferente di ulteriori dilazioni. Ma l'animo di Mara, in quel momento, non era tanto scosso dai fremiti della sensualità, quanto dalla voglia irrazionale di nascondersi, di dissolversi, prima sotto le coltri, poi perdendosi negli spasimi del piacere. Franco le sussurrò: “Vuoi che lasci tutto?” “No, questo no. Mai!” Nel pomeriggio andò a trovarli Hermann. Donò a Mara un mazzo di gladioli. Se ne liberò in fretta con gran sollievo...reciproco. Li teneva riversi sulla spalla come una vanga. Per le sue condizioni finanziarie doveva aver fatto un grosso sacrificio. Neanche lui sapeva che Mr. Melleth fosse il proprietario di quella villa. Disse: “Bellissima! È una reggia! Proprio come le case dei suoi operai!” E poi: “Dov'è la compagna Annalisa?” Mara gli spiegò che stava nel nido. Porse a Franco gli auguri di “Purpetiello” e, obbedendo all'invito dell'infermiera, andò via. A marzo inoltrato le riunioni settimanali della Commissione Interna con la direzione procedevano con regolarità. E regolarmente si consolidava la premura del dottor Bonanomi per la salute di Franco. Alla fine dell'incontro di lavoro, gli rivolgeva sistematicamente domande che trasudavano apprensione. Soprattutto gli raccomandava di non avere fretta, perché la sua era una malattia a lento decorso, che richiede tempo e pazienza per una guarigione completa e definitiva. Prudenza che coincideva del tutto con la metodologia terapeutica del dottor Rossi, medico dell'azienda a tempo pieno, che già due volte gli aveva prorogato il periodo di riposo, in contrasto con il referto del medico curante e del dirigente sanitario dell'INAM, l'Istituto Assistenziale Malattie, poi soppiantato dalle UU.SS.LL. I termini di tempo per la conservazione del posto, in caso di malattia, erano prossimi alla scadenza. E quando il Rossi paventò per l'ennesima volta che la pleurite non era ancora completamente guarita, Franco ne parlò ad Hermann. Insieme si recarono dai due più insigni tisiologi napoletani di quei tempi, il professor Salvatore Romano, Direttore Generale del Consorzio Antitubercolare, e il prof Vittorio De Franciscis, un docente che aveva pubblicato decine di opere sulle malattie dell'apparato respiratorio. Entrambi scrissero di proprio pugno dettagliate relazioni, allegati ai referti e alle lastre radiografiche e stratografìche da loro stessi effettuate, attestanti la completa guarigione avvenuta, l'assenza totale di esiti e segni di pregressa sofferenza, che pure sarebbero rientrate nella normalità dell'avvenuta guarigione. Il dottor Rossi lesse ed esaminò l'intera documentazione e, incredibilmente, con sicumera da folle, disse che non era d'accordo. Secondo lui Certaldo aveva ancora bisogno di riposo. Alla richiesta di redigere anche lui un attestato a sua firma, disse che non era tenuto a farlo. La Commissione Interna contestò al dottor Bonanomi l'assurda ostinazione del medico aziendale. Il dirigente disse che se ne sarebbe interessato. Finita la riunione, chiese a Franco di restare ancora dieci minuti nel suo ufficio. Così ebbe inizio, testualmente perché Franco non ne dimenticò mai una virgola, il turpe discorso del dottore Emilio Bonanomi: "Signor Certaldo, se lei mi da prova della sua effettiva volontà di guarire, io le dimostro il mio apprezzamento." "A parte il fatto che sono già guarito” rispose Franco, cercando di indovinare dove volesse andare a parare “cosa dovrei fare per fornirle questa prova?" "Lei adesso ha anche una bambina, è padre di famiglia, deve voler guarire. Come? Glielo spiego. Lei saprà certamente che la pleura è una sottile membrana aderente al polmone e sa che parlando la sottoponiamo a strapazzo, la costringiamo ad estendersi e a rinchiudersi come una fisarmonica. Meno parliamo e meglio si riposa. E solo se lei smette di parlare, alle assemblee, alle riunioni, ai comizi, la sua pleura si rimetterà a posto e solo così lei mi darà la prova della sua volontà di guarire. Ecco quello che dovrebbe fare, soltanto questo. La mia riconoscenza? Lei conosce l'ampia scrivania del signor Caccavelle, vero? Bene, dietro a quel tavolo ci sta lei assai meglio, più colto, più intelligente, più capace. Ma non è tutto. Io le farò anche pervenire direttamente da Genova a casa sua, ogni mese, come un secondo stipendio, un assegno che alla voce "importo" recherà il rettangolino in bianco. Sarà lei ad apporre la somma, mese per mese, secondo i progetti, le esigenze, le spese che prevede, che sa di dover affrontare per l'evoluzione rapida, radicale del suo tenore di vita. Capisce? E in cambio di che cosa? Solo della sua rinuncia a parlare, ad affaticare la pleura, così imprudentemente, come ha fatto fino ad adesso.” Franco tacque a lungo: sentiva bruciante l'offesa che gli opprimeva la gola, impedendogli di articolare parole che non fossero ingiurie e provava quasi pena per quel signore, nemico sì, da sempre, ma ancora mai abietto, dall'eloquio mai scantinante e nemmeno spregiudicato, forse coartato quel giorno a vestirsi da farabutto. Adesso taceva e non manometteva il silenzio del giovane, che infine si avviò pigramente verso l'uscita, si fermò al centro della sala e si rigirò verso l'industriale, che solo allora distolse lo sguardo dal tavolo. Chinandosi lievemente, lo guardò meglio negli occhi, poi disse con tono pacato, senza ombra di sdegno, come rimproverasse lo scolaro negligente: "No! No no no no!". E fece per andare via, ma si fermò ancora sulla soglia e rivoltandosi, ripeté forte, gridando, stavolta come ribellandosi al tiranno: "NO!" Dopo aver percorso velocemente il corridoio, si fermò di scatto sul primo scalino all'uscita della palazzina. Abbandonò all'istante l'idea, che pure gli era sembrata del tutto naturale, di convocare d'urgenza l'Assemblea straordinaria delle maestranze per denunciare il tentativo di corruzione messo in atto dal Capo del personale: senza testimoni e senza prove, sarebbe stato incriminato per calunnia. Uguale epilogo avrebbe subito la denunzia all'autorità giudiziaria. Ma lì di fronte, nell'ambulatorio presieduto tutto il giorno dal dottor Rossi, nessuno poteva impedirgli di andare. Bussò con forza ripetutamente, non ottenne risposta, e spalancò la porta, che sbattè contro il muro retrostante; il pidocchio non c'era e chiese all'infermiera, sopraggiunta impaurita per il fracasso, dove potesse trovarlo. La ragazza disse che era in permesso e non sapeva quando sarebbe tornato. Gli toccò parlarne con discrezione, ne informò la Commissione Interna e il Sindacato. E cominciarono a guardarlo come un eroe. Ma non era un eroe. Franco sentiva ancora nelle carni i denti aguzzi del mostro dalla voce suadente. Per la scelta, aveva sofferto: non era il cavaliere senza macchie e senza paure. Il potere, la carriera e il danaro non lo avevano mai affascinato e "pupazzi fatti in serie" erano per lui coloro che li inseguivano per tutta la vita. Ma il sogno di avere una casa vera, di assicurare benessere ai figli, di donare un po' di serenità e qualche gioia alla sua donna, erano obiettivi, cui credeva di avere diritto. Ora che aveva aggirato la melma, che l'avrebbe sospinto infangato al traguardo, gli sarebbe stato permesso appropriarsi dei beni primari che ancora erano negati alla sua compagna e ai suoi figli? Capiva che l'azienda, ancora una volta scornata, non avrebbe rinunciato alla vendetta e sapeva che in quei tempi, chi fosse stato estromesso per persecuzione politica, non avrebbe mai più trovato lavoro, in nessun posto, neanche a salario zero. Come era successo al padre di Giuseppina a Melissa. E a Napoli, con la VI flotta statunitense, stabilmente ormeggiata nel porto, con la NATO a Bagnoli, con il potere americano, che aveva invaso senza più alcuna forma di pudore, prefettura, imprenditori e polizia, era anche peggio. Specie se l'imbeccata partiva da una multinazionale americana come la Socony Vacuum. Doveva allora tremare? O anche pentirsi? Ma le fredde e realistiche riflessioni di Franco, venivano sempre sbriciolate da una forza irriducibile, che lui sentiva venirgli di dentro, salirgli al cervello come una vampata, le dava il massimo spazio e si ritrovava in pace, rasserenato, come d'incanto, come fosse passata la nuvolaglia che gli aveva nascosto il sole. Era questa l'onestà? O gli tornava, sua vecchia conoscenza, la rabbia, che si rivoltava al potere che, divorandone la coscienza, o schiacciandolo come insetto, abbatte chiunque gli si rivolta contro? O tutti e due, contigui e alleati naturali? Ma, o fosse l'una o fosse l'altra, o tutte e due, a venirgli in aiuto, Franco era di per sé convinto che solo dolore gli avrebbe riservato il benessere raggiunto con le ginocchia per terra, l'anima infangata e sospinta sulla strada a fare la puttana. Sì, urlava in sé Franco nei momenti più difficili, attraversando la cloaca con il liquame fino alla gola, si evolvono suini, con ghigno appagato e le carni ridondanti, non uomini gratificati dal benessere. E questo volle sempre che capissero gli altri, quelli patologicamente predisposti ad inventarsi l'eroe: non era un eroe.Era semplicemente un uomo, che aveva scelto di restare un uomo. Capitolo dieci. La cacciata Mara sapeva quanto e come si evolveva la condizione in raffineria. Aveva sempre espresso consenso e partecipazione al contegno del marito, nell'espletamento del suo ruolo sindacale. E al pari di lui, era stata scossa da sdegno e deprecazione, per il tentativo di corruzione operato da Bonanomi, eppure le si leggevano sul volto le stimmate di una sofferenza muta e ostinata. Aveva quasi del tutto smesse allegria e fiducia e i sorrisi, sempre più rari, erano appannaggio quasi esclusivo di Annalisa, che riusciva a incassarli ad ogni moina, e a ogni sillaba balbettata con grazia innocente. Andava al negozio sempre più raramente e trascorreva le sue giornate in casa, in compagnia della piccola e della moglie di Nicola Marino, il compagno che le aveva ceduto in subaffitto una camera del suo appartamento. Franco, ancora forzatamente assente al lavoro, poteva sostituirla nel negozio. Il medico Rossi, prostitute ostinato, era stato denunciato dal Sindacato all'Ordine dei Medici e all'Autorità Giudiziaria ma non aveva mutato il suo referto. Franco, seppure cautamente, incoraggiava come poteva le lunghe assenze di Mara dal negozio: gli ultimi editti del Tribunale, rari esemplari di iniquità bivalente per giustizia e sintassi, lasciavano dedurre che la "soluzione finale" era alle porte. Non aveva mai dato riscontro alle ingiunzioni minacciose, chiaramente orgogliose di premeditata finalità terroristica. Aveva deciso che la scellerata eroina dell'anticomunismo del piano di sopra, artefice dell'espulsione, "con il concorso della Forza Pubblica", fosse additata al ludibrio della gente onesta di quel tratto di via Foria e dell'adiacente borgo di S. Antonio Abate, proprio mentre polizia e necrofori celebravano la sua pressante richiesta di scacciare gli immondi "senzadio" del pianterreno. Biagino aveva confessato in quei giorni di non essere più in grado di raggiungere il negozio, nemmeno se sorretto da due persone e che se ne sarebbe riparlato quando avesse potuto procurarsi una sedia a rotelle. Fu allora che Mara aveva smesso di opporre resistenza al suo pianto infantile, che la svisava nella contrazione di una smorfia quasi grottesca, come forse è davvero il dolore aperto, senza sponde, oltre il ritegno. Franco imparò allora il pianto della sua donna e avrebbe dato la vita per non vederla mai più nella morsa del dolore, che così totalmente lei sapeva accettare. La sventura, però, s'incaricava in quei giorni di risparmiare allo sfortunato amico di Franco, un momento difficile, di cui proprio non aveva bisogno il suo stato d'animo, sempre più propenso alla disperazione. Ora Franco era certo che sarebbe stato lui solo ad accogliere i monatti, che sarebbero venuti a ripulire il locale di via Foria 180 dagli appestati, portatori micidiali del virus rosso. E quando il balcone della scellerata adepta di Papa Pacelli si chiuse ermeticamente per tutto il giorno testimoniando l'assenza prolungata, il viaggio per destinazione ignota della titolare, che non lasciava la sua tana nemmeno a Ferragosto, Franco si convinse che uno dei giorni successivi era quello fissato per comminare la pena esemplare ai due, anzi ai tre, scomunicati. Era anche il giorno in cui sarebbe dovuto andare in raffineria per la consueta riunione settimanale della Commissione Interna con la direzione e decise che avrebbe telefonato per giustificare l'assenza. Telefonò alle nove. Rispose il guardiano Luigi Nuzzo e non seppe resistere alla tentazione di dirgli la verità. Il buon Nuzzo tacque. Poi bestemmiò brevemente, e riattaccò. Alle nove e trenta si presentarono tre signori. Uno accuratamente vestito e somigliava al signor Caccavello, che a quell'ora si affaticava, innocente, al tavolo del quale Bonanomi non lo riteneva degno. Gli altri due, dimessi e subalterni, lo affiancavano incerti e svogliati. Cercavano gli untori. Il Capo chiese: "Scusi, lei è il titolare?". "Sì, sono il titolare" rispose Franco tranquillamente. "Vuole provvedere lei a sgombrare il locale entro qualche ora?" domandò il signore ben vestito. "Neanche per idea" rispose il titolare. "Dobbiamo farlo noi?" "Siete pagati per questo, no?" Finalmente capì che "il titolare" non aveva intenzione di familiarizzare, né di elaborare distinguo fra ufficiali giudiziari buoni e ufficiali giudiziari cattivi e cominciò lui stesso, sollevando un'estremità del banco di vendita. Per indirizzarlo verso l'uscita. E dovette risvegliare con un energico 'Ehi, giovanotti', i due dimessi e subalterni, che se ne stavano ancora all'ingresso, con le spalle volte al laborioso superiore, a osservare il traffico di via Foria. L'opera si avviava al termine in tempi sorprendentemente brevi. In pochi minuti il vano andava ampliandosi, riprendendosi lo spazio che gli stavano restituendo. E cresceva la catasta degli ingombri sul marciapiede. Ma per espellere lo scaffale, dovettero ricorrere all'aiuto di due carabinieri di passaggio. Lo scaffale, già assurto al rango di confessore segreto dei sogni, dell'amore e delle grandi speranze dei due giovani, ora scacciati come cani, ottenne di comparire in pubblico, con la scorta d'onore dei due militi della Benemerita. Poi cadde riverso sul mucchio. Franco osservava quel legno malandato, la sua dimensione imponente pure nell'ampio spazio della strada, e gli sembrò solo allora inerte, come querela abbattuta e rinsecchita all'istante. Stava proprio tentando di prendere in giro se stesso e le sue stramberie sullo scaffale che muore per collasso e la quercia che spira per rabbia, quando si accorse che il gruppetto di persone, che si erano avvicinate in silenzio, non erano spettatori incuriositi, ma Riccobene e Lombardi della Commissione Interna e Giuseppe Meca, attivista del Sindacato, operaio della raffineria.Gli espressero la solidarietà degli operai dello stabilimento. E sarebbe finita lì, se Nuzzo non avesse insistito perché anche Meca si unisse alla delegazione. Questi, con qualche sforzo, riuscì a tirar fuori una sedia in buone condizioni di agibilità e ne fece il palco per il comizio forse concertato con Nuzzo. Esordì con l'indice puntato verso il balcone sprangato del primo piano: "La conoscete tutti, è vero? Ora è scappata, si è nascosta per sottrarsi al disprezzo di voi tutti!". E poi, indicando le rovine accatastate: "Ecco la sua opera. Quattro anni di sacrifici e di speranze di due giovani, che fecero di questa stamberga la prima casa della loro vita, della loro famiglia, buttati sulla strada da quella grande signora, che va a battersi il petto ogni giorno nella chiesa di S. Antonio Abate. E sapete perché? Sapete qual è la colpa dei due onesti e cari ragazzi, che quella sciagurata ha scacciato senza misericordia? Sono comunisti! Ecco di che cosa sono colpevoli. Ha detto che non poteva tenere i comunisti nella sua proprietà, doveva ridare la pace alla sua anima. Ecco! Ora ha ritrovato la pace, questa bigotta, pazza e senza coscienza!” Riccobene e Franco cercavano di calmarlo con cenni delle mani ma la folla s'infittiva, cresceva, c'era gente che attraversava la strada dal marciapiede di fronte, per affluire al singolare comizio e ciò dava più lena, più vigore alla robusta oratoria di Meca. Strillò per circa venti minuti: concluse che il voto al Partito Comunista era anche una risposta al delitto compiuto dalla bizoca del primo piano. Gli applausi furono convinti e prolungati. Si udirono commenti irripetibili all'indirizzo di "quella zoccola che sta al primo piano" e finalmente la "manifestazione" si sciolse. Riccobene e Franco si congratularono con lo strillone mentre Lombardi, ancora shockato, guardava Meca con gli occhi sgranati. Ormai sarebbe stato inutile fargli notare gli aspetti censurabili della sua trovata. Non avrebbe capito. E poi era finita, grazie a Dio. Franco incaricò un ragazzino di raccogliere i quaderni e gli altri articoli di cancelleria e portarli alla signora della tabaccheria, che apparve fermamente decisa a pagarne il relativo costo. Franco rifiutò e lei, "mortificata e commossa" prese tutto. Ringraziò, naturalmente, e gli raccomandò di convincere Mara a farsi forza. Fatto trasportare il banco di vendita a casa di sua madre, poteva esserle utile nello stanzino. Franco salutò i suoi compagni, che si fermarono alla vicina fermata del 116 barrato, per tornare in raffineria. Lo scaffale, rimase lì. Era vecchio, scolorito, era solo un grosso ingombro, non serviva più a niente. Da lontano sembrava una grossa aquila planata sulla strada, per nascondere e proteggere chissà chi, sotto le grandi ali spiegate. Invece era solo un vecchio scaffale. Da buttare. Tanto che Franco, diretto a casa, decise di non voltarsi più. Salutò Mara sorridendo con gaiezza: "Finalmente ci siamo liberati del negozio. Non ne potevo più, era diventato proprio un grosso intralcio. È venuto l'ufficiale giudiziario, e gli ho detto di buttare via tutto." "E la roba? La merce, il bancone, le sedie? E lo scaffale?" "Ah! lo scaffale!” e Franco rise più forte e con rinnovata convinzione “appena sollevato da terra è ricaduto in tre, quattro pezzi, era fradicio, pieno di tarme, sporco! L'ho lasciato lì! Dove volevi metterlo quel mausoleo." Mara tacque. E franco avrebbe bestemmiato come un ossesso: non riuscì a trovare un solo argomento, uno qualsiasi, per distoglierla, per sventare quel silenzio. Capitolo undici. La spoliazione Il mare di Napoli era una fosca marrana, invasa da oltre quaranta navi da guerra della VI flotta navale americana, la più potente del mondo, con circa quarantacinquemila uomini di equipaggio. La presenza di tanta potenziale capacità distruttiva trascendeva i confini della rada e si espandeva nelle strade e nelle case, e nelle menti e nelle anime della gente. Erano in molti a lamentare che dopo quasi duecento bombardamenti "a tappeto" che avevano scheletrito la città e ammucchiato centinaia di morti solo dieci anni prima, avrebbero dovuto lasciarla un po' in pace la loro disgraziata terra. Quel mare torvo, l'insediamento in una vasta superficie di Bagnoli del Quartiere Generale della NATO, ove all'ingresso, una orgogliosa insegna recitava "North Atlantic Treaty Organization", i quartieri residenziali esclusivi per le famiglie dei militari statunitensi, la presenza massiccia per le strade di folti gruppi di marinai e soldati spesso ebbri ma sempre aggressivi, informavano con dovizia di argomenti che Napoli viveva la sua ennesima occupazione straniera. Inutile cercare argini nei palazzi delle autorità centrali e locali: l'opportunismo pedissequo, da sempre nel DNA della dirigenza italiana, finiva per identificarla a pieno nello spirito e nelle cultura dei nuovi padroni. La furia devastatrice contro le industrie locali, scatenata dal governo a cavallo tra gli anni '40 e '50, fu un tappeto di velluto disteso innanzi ai piedi dei generali Eisenhower e Ridgway (il generale "Peste" che aveva usato armi chimiche nella guerra di Corea) preoccupati della presenza operaia che nel 1949 aveva protestato, con un possente sciopero, contro il Patto Atlantico. Ma l'acme del servilismo nazionale doveva configurarsi nella donazione allo straniero della totale funzionalità del porto, strumento inalienabile dello sviluppo economico della capitale del Mezzogiorno, che così si avviava al mesto ruolo di città morta. Scenario sconcertante, ma pur sempre inerte, algido, avaro di punti all'attivo. Un limite obiettivo che fu superato presto dal governo "SS" (Scelba-Saragat). Con la fondazione della "Celere", Scelba si era assicurato poco meno di una milizia personale. Si trattava di reparti speciali di polizia accortamente addestrati al massacro a mazzate. Bisognava vederli! Nessuno che non li abbia visti in azione può capire. Assaltavano i manifestanti lungo un tracciato sempre molto più ampio dello spazio da essi occupato, in modo da colpire, scientificamente e sicuramente, persone che con la protesta non avevano niente a che fare, e tutto questo solo a fine impudicamente terroristico. Spesso accadeva che feriti e arrestati tra passanti fossero più numerosi che fra i dimostranti. Partivano di corsa e assolutamente ciechi, perché tenevano gli occhi serrati, con la bocca orrendamente aperta, come dovessero mostrare gli anelli della trachea, le facce arrossate, ustionate, urlando parole incomprensibili, forse oscene o forse sconnesse, mentre la mano che impugnava il manganello si abbatteva a ritmo meccanico, come scandito da un maglio, che l'operaio stesso non riesca più a fermare e come tale, come metallo, come strumento cieco, si abbatteva sulle teste già insanguinate, sulle facce già deturpate da ematomi, sul ventre delle donne, sulle spalle dei vecchi. Folli? Drogati? Si disse che, prima che uscissero a sirene spiegate dalla caserma di via Medina, i celerini potevano gratuitamente consumare superalcolici a volontà. Nessuno poteva averli visti scolarsi bottiglie di whisky, ma quelli che li videro all'assalto ne furono fermamente convinti. All'ospedale ricorrevano soltanto coloro che non potevano più sollevarsi da terra. Chiunque poteva ancora reggersi in piedi, ritornava a casa. Perché il posto di guardia del pronto soccorso era regolarmente presidiato da altri celerini che prelevavano il ferito e lo traducevano direttamente al carcere di Poggioreale. Su questo paesaggio incandescente ove comunisti, socialisti, partigiani della pace, sindacati e popolo di sinistra davano fondo alle più riposte risorse, per non perire nella stretta, mai così virulenta e determinata al loro annientamento, calò rischiarante e micidiale come la folgore la "legge truffa". Una legge elettorale che, grazie ad un cospicuo "premio di maggioranza", avrebbe migliorato il risultato elettorale già ottenuto dalla DC nel 1948, rendendola la padrona assoluta del parlamento. Insomma la DC aveva deciso la mutazione della dittatura strisciante, che già operava con l'aiuto dei partiti satelliti e fedeli (Liberali, Socialdemocratici e Repubblicani) in potere assolutista, formalmente suffragato dal voto popolare. Per la sinistra si poneva inderogabile il compito di impedire il varo della legge e, nel caso fosse passata, di lottare con ogni mezzo, perché la percentuale di voti richiesta non fosse raggiunta.La CGIL. proclamò lo sciopero generale. Franco ed Hermann avevano l'obbligo di chiamare all'astensione i lavoratori petrolieri. Quanto alla Raffineria, era prassi consolidata dare preavviso alla direzione almeno quattro ore prima, perché disponesse la messa in sicurezza degli impianti. In mancanza, il danno per l'azienda sarebbe stato di entità incalcolabile. La comunicazione poteva essere trasmessa dal sindacato a mezzo fonogramma, ma Franco non volle correre rischi e il mattino del giorno fissato per lo sciopero si avviò di buon'ora allo stabilimento per porgere di persona l'annuncio alla direzione. Si fece annunciare tramite il telefono interno dal guardiano di turno e il Dr. Bonanomi pregò, scusandosi, di aspettare qualche minuto, perché momentaneamente occupato. Trascorsero circa cinque minuti e Franco, che s'intratteneva fuori dal cancello, notò che una autocolonna di jeeps militari si avvicinava lentamente. Erano Carabinieri. Si fermarono schiacciando i pedali dei freni che stridettero urlando, mentre dalla vettura discendeva un giovane sottufficiale dell'Arma. Gli altri che si erano lanciati dai propri automezzi con le pistole in pugno furono rispediti a sedersi da un gesto imperioso del brigadiere. Franco e il militare si erano già conosciuti nel corso di altre manifestazioni e si erano scambiati qualche opinione abbastanza cordialmente. Era molto giovane e frequentava ancora l'Università. Gli disse che era molto rammaricato ma che non poteva sottrarsi: doveva arrestarlo. Gli spiegò poi, durante il percorso, che l'azienda lo aveva denunciato per aver picchiato alcuni operai che non volevano scioperare. Franco non rispose: si immaginava Mara trasecolata, incredula alla notizia del suo arresto. O prostrata, confessa della sua resa, della incapacità di reagire, di resistere ancora. Non aveva preoccupazione per Annalisa che aveva solo sei mesi, ancora felicemente ignara della realtà barbarica in cui veniva allevata. Era uscito di casa in fretta e quando Mara lo aveva baciato sulla guancia poggiandogli una mano sulla spalla e pregandolo ("Sta attento, torna presto, non farmi stare in pena"), lui non l'aveva nemmeno guardata e le aveva risposto senza fermarsi. "Non ti preoccupare". Quasi infastidito. Non riusciva a perdonarselo. Chiese "Qualcuno avvertirà mia moglie?" "Sì, stiamo avvertendo tutte le famiglie". "Tutte? Siamo in molti?" "Eh, sì!" “Non è vero” pensava Franco “che nel carcere il recluso si tormenti. Il carcere è la spoliazione, ti leva l'anima”. Provava la sconosciuta sensazione di essersi "smesso". “È magia satanica” pensava, “è la rimonta dell'animalità; qui il mondo esterno diventa vago già allo sferragliare del primo cancello, che si chiude alle spalle”. " La cintura, si tolga i lacci delle scarpe, li metta qui, la cravatta...". Insieme ai beni irrisori, se ne va incredibilmente quello supremo dell'identità. Franco sentiva compiuta la traslazione della sua coscienza, gli sembrava di essere altri, o niente. E quando gli consegnarono l'enorme, pesante fagotto compresso in un lenzuolo annodato, che doveva trasportare sulle spalle fino alla cella, andò ricurvo ma non avvilito, solo immerso nell'apatia, sempre più estraneo a se stesso. E gli sembrò che il totale anonimato nel quale si sentiva sprofondato fosse provvidenziale. Forse, pensava, è proprio quello che salva i carcerati, i prigionieri, chiunque venga strappato al mondo, alla libertà, alla vita. Gli sembrava però d'impazzire accorgendosi che il viso di Mara lo ricordava sfocato, come su un vecchio ritratto. “Meglio non pensarci”, decise. E si fermò al primo corridoio a destra, come gli aveva detto il secondino. In fondo, molto lontano, c'erano alcuni uomini illuminati dal sole, che solo lì trapassava il finestrone sbarrato e sembravano essere in attesa. Con enormi fagotti bianchi come il suo, adagiati per terra. Trascinando senza sollevarlo dal pavimento quello che capì poi essere il suo corredo, materasso compreso, si avvicinò al gruppo. Riconobbe subito Hermann che gli venne incontro di corsa; gli spiegò che avevano arrestato circa un centinaio di dirigenti sindacali, che avevano in pratica decapitato il movimento operaio napoletano per far fallire lo sciopero contro la legge truffa. Alcuni erano stati presi a casa, alle prime ore dell'alba. Franco rispose che forse stavano facendo la prova generale per un colpo di Stato che si riservavano nel caso che comunisti e socialisti avessero vinto le elezioni, probabilità peraltro molto remota, ed Hermann rispose "A questo punto c'è da aspettarsi di tutto". Poi Franco riconobbe molti altri compagni. Gli dissero che Purpetiello, che stava picchettando al cancello di una fabbrica a Barra, era stato bloccato da un gruppo di poliziotti ed era scappato passando fra le gambe del brigadiere. C'era pure Luigi D'Angelo, un funzionario della Camera del Lavoro, membro della Segreteria, l'unico che alla sedia del burocrate preferiva la fatica del dirigente sindacale e perciò stava a Poggioreale. A Franco toccò la cella in comune con Hermann e un tranviere del deposito di S. Giovanni a Teduccio, noto per essere stato protagonista del primo sciopero spontaneo per la pace contro gli americani che avevano invaso Napoli e il suo mare. Era un giovane bruno, robusto, con voce tenorile a cui non concedeva molto riposo, allegro come una Pasqua e conosceva tutte le barzellette del mondo: il compagno di cella che sembrò fatto apposta per Franco ed Hermann. Inopinatamente, dal momento dell'incontro con Hermann, Franco sentì di rientrare nella sua dimensione, nel suo piccolo mondo ora meno sbiadito, dai contorni sempre più netti e reali. Provò la sensazione di tornare a casa dopo un lungo viaggio, un ritorno tristemente felice. Ora gli appariva Mara con le braccia protese inutilmente per abbracciarlo, indovinava gli occhi di Annalisa cercare fra i presenti, la faccia ormai nota di suo padre, vedeva l'espressione di incredulità e di rabbia del suo amico Agino, ricordava anche i suoi vecchi genitori, che ora immaginava rattristati e piegati nel silenzio imposto da eventi, che non sarebbero riusciti a capire. Ed era grato a Hermann, che inconsapevolmente gli aveva data la scrollata, che gli restituiva la porzione di dolore cui aveva diritto; gli aveva chiesto, come volesse assicurarsi del buon risultato della sua presenza, notizie di Mara e della "compagna Annalisa" . E Franco subì come assurda violenza il non potergli rivolgere le stesse domande. Scelba sapeva benissimo come erano le carceri a quel tempo e da esse si aspettava molto. Anche pochi giorni di reclusione sarebbero dovuti bastare a restituire alla libertà un uomo dimezzato una coscienza permeata di belletta ancora gocciolante, sempre memore di essere vissuto una volta in totale assenza di ritegno, di essere stato disumanizzato e di essere sopravvissuto: si orinava e si defecava in presenza degli altri in un angolo della cella, dentro una specie di orinale detto bagliulo (o bagliuolo) a forma di cono, capovolto, sorretto da ferro sottile, malsicuro, obbligando ad evacuare rimanendo sollevati, piegati a metà, per non rischiare che, col cedimento dell'appoggio, il vaso che, appuntito e capovolto non avrebbe avuto altro sostegno, rovesciasse il contenuto interamente sul pavimento. Quando proprio non si poteva più differire, quando borborigmi e spasimi addoloravano l'addome, i compagni di cella stendevano una coperta su una cordicella, già fissata da un muro all'altro e ci si infilava dietro, sentendosi una bestia, sapendo di fare schifo. Il pavimento confessava senza remore la sua inveterata estraneità al compito della ramazza e la polvere colpiva l'olfatto, ancora della vista. Fu il tranviere a inventare e costruire, con ritagli di giornale e di stoffa, una specie di scopa a duplice valenza, per scopare e spolverare. Non si raggiungevano risultati esaltanti ma era pur sempre un argine alla crescita incontrastata del lerciume. Il terzo giorno, dopo essere stato interrogato dal giudice istruttore nell'apposito ufficio, il tranviere fu scarcerato. Mancò molto ai suoi due compagni, che appresero anche che tutti i sindacalisti arrestati insieme a loro erano già stati interrogati e scarcerati. Il quinto giorno, dopo altri due di ovvia preoccupazione, per il trattamento differenziato, furono interrogati. Anche per loro il giudice istruttore produsse ordinanza di assoluzione in istruttoria, per mancanza di indizi a procedere. Nel pomeriggio attendevano di essere messi in libertà ma venne la guardia solo per dirgli che dovevano separarsi. Franco fu messo in una cella grande quasi quanto una camerata, piena di sole e di detenuti vocianti e ciarlieri. La guardia, a sua richiesta, gli confermò che sarebbe stato messo in libertà durante la giornata. Il passaggio di cella, probabilmente, faceva parte dei disegni imperscrutabili della direzione del carcere, ove più niente sembrava avesse un senso accessibile alle menti di quelli di fuori, oltre i cancelli. Franco capì che gli conveniva soltanto attendere e non porsi domande. Si sedette sul grosso fagotto della dotazione, che anche stavolta si era portato sulle spalle e che in dialetto si chiamava "mappata", termine che coglieva la differenza con il fagotto, contestando una carenza della lingua madre e si dispose all'attesa. Gli chiesero "Siete qui per ragioni di politica?" “Si.” “Fra un'ora massimo state fuori. Siete di passaggio. Mi fareste un favore?” “Certo se posso.” "Volete portare i miei saluti a un amico mio, Totonno o' rafaniello?” "Se mi dite dove posso trovarlo, senz'altro." "Subito, ve lo scrivo, sta dentro a' Pignasecca, siete pratico?" Scrisse l'indirizzo e il nome del mittente, e lo ringraziò pregandolo di non dimenticarsene. Franco notò che da lì non si vedeva la finestra sul muro rosso come dalla sua cella di prima, e che i detenuti chiamavano "la finestra della libertà", eleggendola a simbolo del mondo esterno. Fu lasciato libero poco prima del tramonto. Si guardò intorno, e accertò che "la finestra della libertà" era una decine di finestre e balconi di un palazzo rossastro. Pensò che si può essere felici anche perché si possono vedere tutte le finestre e i balconi di un palazzo e di tutti gli altri palazzi. Pensò anche che disporre a freddo la costrizione di un uomo in una cella con il bagliulo (o bagliuolo), gremita di acari e batteri, riducendolo ad elevare elegie e laude in adorazione di una stupida finestra è un crimine contro l'umanità. Si recò dal barbiere di fronte al carcere per lasciare nelle sue immediate vicinanze la barba che era cresciuta, paradossalmente, in piena libertà. A casa c'era Nicola Marino, il compagno locatore, che lo accolse con gioia e gli disse che Mara e la piccola stavano a casa dei genitori, quindi dal fratello, Biagino. Bussò alla porta che si aprì all'istante, come se qualcuno avesse già impugnato la maniglia: Marino aveva telefonato al vicino di casa, per avvertire Mara che Franco era libero ed era in arrivo. Abbracciò prima tutti gli altri e Mara per ultima, perché intanto potesse meglio riprendersi dall'emozione. Ella tenne a lungo la sua fronte sul petto del marito e Franco avvertiva nelle braccia, che le cingevano le spalle, le scosse contenute dei singulti repressi. E fu Biagino, disteso carponi sul letto del suo patimento, a far voltare pagina a tutti "Su, dategli da mangiare, a questo avanzo di galera, avrà molta fame!" Si fece festa. Mara e Anna, la sorella quindicenne molto legata a Franco, erano andate tutti i giorni alle porte del carcere per chiedere di vedere il congiunto, ma al corpo di guardia reiteravano la stessa risposta ogni giorno "lI detenuto non è stato ancora interrogato, per cui non è possibile concedergli il colloquio". Annalisa, raccontarono, in quei giorni fissava a lungo ogni amico di famiglia, parente, o vicino di casa che le capitasse a tiro e quando capiva che non era suo padre scoppiava in pianto e non c'era verso di calmarla. Quel giorno volle stare in braccio a lui per tutto il tempo che stettero a tavola. Tornarono a casa molto tardi, la bambina dormiva già da tempo in braccio alla madre e dovettero raggiungere la loro camera in punta di piedi, perché anche la famiglia Marino dormiva profondamente. La culla della piccina aveva le sponde basse perché era di vimini e quando i due vi si appoggiarono, chinandosi per vedere dormire la loro figlioletta così paciosamente, con le labbra impegnate in un incipiente e statico sorriso, le teste si sfiorarono e Mara sussurrò tenuemente: - "Povera creatura, così piccola, deve avere già soffèrto in questi giorni..." "Sì”, rispose appena alitando Franco ”si comincia presto a questo mondo. Mentre mi conducevano in carcere pensai proprio questo, ero certo che fosse beatamente ignara del mondo di barbarie in cui la stiamo allevando. E sbagliavo, non abbiamo fatto in tempo ad assicurarle un mondo più giusto. Ma non dobbiamo arrenderci, non riusciranno a piegarci." Mara tacque a lungo, continuando a vegliare il sonno della bimba poi disse, già allontanandosi "Va, vattene a letto, chissà quanto hai desiderato le lenzuola di casa tua, io vado in cucina a finire di stirare la biancheria." Franco non ebbe il tempo di risponderle, neanche per dirle che le sue lenzuola non erano proprio tutto quello che aveva desiderato nelle notti trascorse in carcere. Si guardò intorno. C'era un gran silenzio. Dormivano tutti, anche la radio a cinque valvole con "Sorella Radio", che era stata licenziata all'arrivo al mondo di Annalisa: a quell'ora la bimba dormiva e bisognava stare zitti. Franco si sedette sulla sponda del letto. La sua mente vagava irrequieta nel vuoto. Ripensava a "Il quarto stato", il grande dipinto di Pellizza da Volpeda che amava da sempre. Giudicò retorica l'immagine della donna in prima fila con il bambino tra le braccia. Ora al suo posto gli riusciva difficile immaginare Mara con la bimba accucciata sul seno. “Sì”, ammetteva, “ce la vedevo, mi sembrava perfino che si somigliassero, ma è un quadro.” Si addormentò con la fronte riversa sul dorso delle mani, aggrappate alla sponda della culla di Annalisa. Capitolo dodici. La sciabolata Franco, in attesa del beneplacito del medico aziendale per rientrare in fabbrica, era assorbito dalla campagna elettorale. La posta in gioco era altissima: bisognava impedire che la DC raggiungesse il quoziente elettorale che avrebbe messo in moto il meccanismo della legge truffa. In prevalenza, sia Franco che Hermann, tenevano comizi ai cancelli delle fabbriche. Ma le notti che precedevano i comizi di Franco all'uscita della raffineria furono nottate campali. La polizia visitava tutte le case che potessero ospitare Franco, dalla propria a quella dei genitori, ove il padre ex sottufficiale della polizia, era costretto a giurare sull'onore che il figlio non era a casa sua; a quella dei suoceri, del fratello, e anche di qualche amico. Era costretto a girovagare tutta la notte per riuscire a sapere dove la polizia era già passata e recarvisi per recuperare qualche ora di sonno. Un brigadiere dell'Ufficio Politico (con il Fascismo si chiamava squadra politica poi la DC, restauratrice di libertà e democrazia, gli cambiò il nome) in servizio permanente al corpo di guardia giù alla Camera del Lavoro e che, col tempo, persona onesta e mite, diventò un amico, gli confidò che lo scopo era quello di "fermarlo", tradurlo in questura e farlo parcheggiare fino a qualche ora dopo l'ora fissata per il comizio. Il brigadiere, di cui ancora adesso forse è opportuno non fare il nome, spiegò che la motivazione ufficiale sarebbe stata quella del "fermo per misure di sicurezza". Quando ne fu informato l'On. Clemente Maglietta, segretario della Camera del Lavoro, gli offrì subito ospitalità in casa sua ma Franco non se la sentì di accettare. Maglietta si muoveva trascinando a fatica, aiutandosi col bastone, la gamba martoriata nella guerra di Spagna e Franco immaginava che la sera, prima del riposo, avesse bisogno di praticare accorgimenti, terapie o altro e proprio non gli sembrava opportuno esserne spettatore, tenuto conto della riservatezza e del pudore che il parlamentare aveva sempre osservato in merito alla menomazione. Quell'aprile del '53 non fu avaro di pioggia e di temperature rigide e Franco approdò a Caserta per dormire in pensione, lontano dal fronte di combattimento. Ma costava troppo e tentò di accordarsi con una specie di bettola-locanda alla periferia di Afragola. Lì, però, giocavano a carte giù al pianterreno, berciavano di continuo e Franco non riuscì a chiudere occhio. Ma il peggio era la sera, quando doveva lasciare Mara e la bimba per andare a trascorrere la notte all'addiaccio o chissà dove. Mara non stava bene. Il professore Claudio Calveri, ginecologo, primario e direttore dell'Ospedale Apicella di Pollena, un compagno che da Franco e da molti altri non accettava una lira di onorario e a cui dava anche i medicinali del caso, visitò Mara con molto scrupolo e diagnosticò un'accentuata forma di nevrastenia, a cui andavano anche imputati i disturbi ginecologici. Mara cercava di accreditarne una versione riduttiva, sostenendo che con i tempi che correvano era quasi normale avere l'esaurimento nervoso. Franco sapeva benissimo che non c'entravano "i tempi che corrono" e decise di sventare i vagabondaggi notturni. Limitò il suo lavoro per la raffineria a comizietti volanti, senza preavviso, incontrando gli operai a gruppi all'uscita o sul pullman adibito al loro trasporto (guidato quasi sempre da D'Acunzo, quello del "valore simbolico" nella trattativa di Genova) o alla Camera del Lavoro di S. Giovanni a Teduccio, ove parecchi di loro si riunivano abitualmente. Fu proprio in quei giorni. La primavera a Napoli non dissolveva la paura della guerra ma favoriva i sogni e le speranze della gente, specie dei giovani, che avevano gli anni di Franco e Mara; la Pasqua incombente infondeva infantile, irrazionale letizia. E Mara leggeva tremando: “AVENDO ELLA SUPERATO I TERMINI PREVISTI PER LA CONSERVAZIONE DEL POSTO IN CASO DI MALATTIA DOBBIAMO, NOSTRO MALGRADO, PRIVARCI DELLA SUA COLLABORAZIONE.” Sbiancata in volto ma calmissima, con gesti lenti e misurati, le parve di consegnare a Franco, insieme alla lettera, il macigno che l'aveva oppressa, l'incubo che l'attanagliava nelle notti insonni. La catarsi le restituiva pacatezza, movimenti sicuri, dolci, e anche grazia; lui, invece, fu colpito a bruciapelo, lesse in fretta e ne fu intontito, cadde in assoluto smarrimento, per alcuni attimi non riuscì a dire nulla, né a capire se Mara stesse parlando o tacendo, guardava il muro al di sopra di lei. Un improvviso attacco di afasia che, tuttavia, non gli impedì di capire che stava rimpicciolendosi, che dava a Mara la sua caducità invece della forza cui ella aveva diritto e allora insorse, abbracciò Mara e le sussurrò semplicemente "Preparo un caffè, ti va?" "Sì, è un'idea, grazie" Hermann., che aveva ricevuto in copia la lettera diretta all'Organizzazione Sindacale del Commissario di Fabbrica licenziato, invitò tutti e due all'Assemblea dei Lavoratori della Raffineria, già convocata presso la Camera del Lavoro di S. Giovanni a Teduccio. Mara gli chiese anche se era previsto lo sciopero contro il sopruso dell'Azienda. L'appuntamento era per le ore diciotto. Rimasero soli e Franco volle "costituirsi" anche se ancora immune da imputazione. "Mara, io non credo che avrei dovuto inginocchiarmi. Non si può sempre aprire la porta ai prepotenti e fare riverenza, non è possibile accettare di essere delle larve umane... non è possibile, non è giusto sederci alla greppia che altri preparano per noi e abbuffarci come maiali, con il grugno nel truogolo. Pensa un po' quanti vigliacchi, quanta merda, scusami, devono essere passati e passano per le strade di questa terra se a noi hanno consegnato un mondo dominato da Hitler e Mussolini, e noi dobbiamo riservare a questi nostri figli un paese dove la DC sfiora il 50% dei voti, dove vincono le elezioni Scelba e Achille Lauro... Avrei dovuto unirmi alla mandria dei bufali, a testa bassa, e con le corna alte, che pascolano e che vivono soltanto per ruminare e cagare? Scusami... No, Mara. Non ce la farei mai!" "Ma che dici? Chi ti ha detto mai di vendere l'anima al diavolo. Io non l'ho mai pensato e non ti avrei certo applaudito se tu l'avessi fatto. Perché mi vedi nervosa, preoccupata? Beh, non vorrai pretendere che mi metta a ballare la polca quando ti licenziano o ti sbattono in galera, o devi andare a dormire per strada per non essere preso dai poliziotti e vedo che anche quest'anima di Dio ne soffre, e ti cerca, e piange..." "Non mi rimproveri niente?" "No, niente. Anzi, ora ti hanno licenziato? Finalmente! Non possono più licenziarti. Non devo più tremare ad ogni lettera che trovo nella cassetta, e la notte dormirò anche meglio, vedrai. Sì, ora non sappiamo dove sbattere la testa per vivere ma non devo più aspettarmi la sciabolata tra capo e collo, non devo più trepidare, è anche una liberazione!" Affidarono la piccina alla signora Marino e alle ore diciotto entrarono nel salone della camera del Lavoro di S. Giovanni a Teduccio. Era gremita. Al loro ingresso, scattarono in piedi ed applaudirono. Mara e Franco furono accompagnati al tavolo della presidenza, mentre gli applausi continuavano, diventavano anche più fragorosi e sembrava che non dovessero più finire. Mara si asciugava gli occhi, era stravolta dalla commozione, non si aspettava tanto calore, tanta solidarietà umana. Franco notò che c'era anche Domenico Aversa; c'era Nuzzo, che batteva le mani tenendole in alto, come per incitare a non smettere; c'erano anche alcuni impiegati; c'erano Micillo, Aurino, D'Acunzo, alcuni guardiani, non vedeva Purpetiello, ma non fece in tempo a rifare con gli occhi il giro della sala, che il "verace" nanerottolo spuntò da dietro il tavolo e si avvicinò a Mara per donarle un grande mazzo di fiori. E gli applausi ripresero scroscianti. Mancava Vittorio Pernozzoli. Dopo vari tentativi andati a vuoto, Hermann riuscì a prendere la parola. Proclamò subito lo sciopero di protesta, teso a costringere l’azienda a revocare il licenziamento. Raccontò che Mara, ancora con la lettera in mano, gli aveva soltanto chiesto se avrebbero indetto uno sciopero. E gli operai ripresero ad applaudire. Franco pensò che Hermann concedeva sempre qualche lembo del suo pur ferreo razionalismo alle lusinghe della retorica: la domanda di Mara non rivelava la sua ansia per il livello di coscienza politica degli operai e nemmeno esprimeva il tifo per gli operai impegnati nella lotta di classe, ma più semplicemente tradiva la speranza che con lo sciopero fosse revocato il licenziamento del marito. Poi Hermann mostrò all'assemblea l'autorevole e inconfutabile documentazione, attestante che Franco era già guarito perfettamente due mesi prima della scadenza dei termini e chiarì le meschine e risibili opposizioni del medico al soldo dell'azienda. Parlarono in molti. Tutti rivelarono sdegno sincero, quasi come personalmente offesi. Franco non chiese di parlare. Si limitò, al momento dell'abbraccio con Purpetiello, a dire che con lui abbracciava e ringraziava idealmente tutti. Poi Hermann accompagnò a casa Mara e Franco. Assicurò che aveva già preso accordi con la segreteria della Camera del Lavoro e con quella del Sindacato Nazionale a Genova per l'assunzione di Franco al Sindacato, in qualità di funzionario e Trespidi, il segretario nazionale del sindacato, aveva anche accettato di inviare un assegno mensile per il periodo di sei mesi. Ciò, naturalmente, nel caso malaugurato che non si fosse ottenuta la revoca del licenziamento. La sera stessa fu riunito il comitato direttivo e si decise all’unanimità la cooptazione di Franco nella Segreteria del Sindacato al fianco di Hermann. E toccò proprio a loro, a Franco e ad Hermann, la sera successiva, sospendere lo sciopero per la revoca del licenziamento. Dopo la riunione della camera del lavoro con la Direzione con regolare conferma dello sciopero del giorno successivo, Pernozzoli si era trattenuto nell'ufficio di Bonanomi per circa trenta minuti. All'uscita, aveva convocato l'Assemblea generale straordinaria, nei locali della mensa, con l'autorizzazione della direziono ad interrompere il lavoro. Gli operai parteciparono numerosi, erano convinti che si trattasse di definire gli ultimi particolari di quello che già chiamavano "il grande sciopero". Pernozzoli invece che alto quasi due metri non aveva mai avuto bisogno di salire su una sedia per parlare alle assemblee, montò su un tavolo e disse che non avrebbe partecipato allo sciopero, che i suoi elettori erano invitati a seguirlo, perché lo sciopero era ingiusto, che si trattava di una partita personale tra Certaldo e Bonanomi e non riteneva giusto coinvolgere i lavoratori nelle dispute personali. I due, secondo lui, si combattevano per rancori che non avevano niente a che fare con gli interessi dei lavoratori, che il licenziamento, se era veramente illegittimo, era il caso di parlarne in sede giudiziaria, che Certaldo voleva lo sciopero perché aveva promesso ad Hermann che avrebbe portato a termine il contratto aziendale perché non poteva più tirarsi indietro ma che gliel’avrebbe fatta pagare all'azienda, promuovendo più scioperi che in ogni altro stabilimento petrolifero della provincia, che la sua indignazione, per l'appoggio della Commissione Interna e del Sindacato ai capricci di Certaldo, lo costringeva a dimettersi in pubblica assemblea, dal Sindacato e dalla Commissione Interna. Accompagnò le ultime parole con la lacerazione in due pezzi della tessera della CGIL che scagliò con forza alle sue spalle. Il discorso fu accolto da una selva di fischi e qualche ingiuria. Ma non tutti avevano fischiato, osservarono Riccobene e Lombardi, che avevano relazionato a Hermann e Franco e che commentò brevemente "È la rivincita del lenocinio" Insieme analizzarono meticolosamente la nuova situazione che si era venuta a creare. C'era il pericolo che si creasse una profonda frattura fra i lavoratori, e fra una parte di loro e il Sindacato. Alcuni operai avevano già minacciato che avrebbero portato con loro gli "attrezzi" adatti a convincere tutti a scioperare. Di una situazione conflittuale grave fra i lavoratori, chi se ne avvantaggia è sempre e soltanto l'azienda; aggiungendo al dieci per cento di non aderenti, percentuale fisiologica negli scioperi delle grandi fabbriche, il dieci o quindici per cento di "persuasi" da Pernazzoli, tenendo conto che quest'ultimo aveva una sua base clientelistica, per i piccoli favori individuali, a volte privati e personali, che non negava a nessuno, si raggiungeva il venti, venticinque per cento di non aderenti allo sciopero, una percentuale che, a seconda dei reparti in cui si fossero verificate le defezioni, avrebbe anche potuto assicurare la continuità del ciclo, evitando la messa in sicurezza degli impianti, evenienza che avrebbe avuto funzione di cassa di risonanza la fiamma sulla lunga ciminiera, quella di "piazza Estate", e che avrebbe avuto obiettivamente il ruolo di forte incentivazione a varcare il cancello verso l'interno dello stabilimento. E poi, il senso di mortificazione degli operai, il gelo nei rapporti con il sindacato, il complesso di colpa che in questi casi spesso si ammanta di avversione e di accuse contro la parte lesa, che è il Sindacato. Né c'era il tempo (mancavano poco più di dodici ore all'inizio dello sciopero) per una radicale opera di bonifica dei guasti prodotti da Pernozzoli. Lo sciopero fu immediatamente sospeso tramite comunicazione alla stampa, alla direzione dell'azienda e l'affissione di volantini ciclostilati, sui muri e i cancelli dello stabilimento. Pernozzoli fu abbandonato la sera stessa dalla sua compagna di vita, Anna, comunista per discendenza familiare; fu espulso dal Partito Comunista per indegnità, con pubblicazione sulla pagina napoletana de "l'Unità". Cose che certamente il Pernozzoli aveva messo in conto al momento del radicale dirottamento ma gli eventi successivi s'incaricarono di dimostrare che nel bilancio preventivo delle perdite, egli non aveva calcolato proprio tutto. Anche se chiunque al suo posto, sarebbe incorso nelle stesse omissioni. Dopo una settimana si licenziò dalla raffineria. Aprì due studi fotografici, uno a Napoli e l'altro a La Spezia. Comprò la moto per muoversi più speditamente. La morte di Pernozzoli Vittorio, dopo un mese e mezzo circa, non avrebbe sconvolto nessun operaio della Raffineria se non si fosse presentata con modalità sconcertanti. Premessa: la Socony Vacuum era definita in gergo "la vacca", che si presentava magra o grassa a secondo della munificenza che mostrava alle richieste degli operai. Il neo fotografo percorreva in moto un sentiero che accorciava la strada per La Spezia. Quando vide la grossa vacca che gli tagliava la stradina era troppo tardi. Nello scontro fu rimbalzato sul selciato e la testa andò a sbattere su una pietra al bordo del viottolo. La mucca ne uscì indenne. Solo allora Franco rivelò a Mara come era finito lo sciopero per il suo licenziamento. Ne parlò passando all'assemblea tenuta da Pernazzoli alla vigilia dello sciopero, prima del mortale scontro con la mucca. Non riconcesse un momento per riprendere fiato, per non darle il tempo di incollerirsi o indignarsi per i due drammatici scenari dell'ultima ribalta di Pernozzoli Vittorio. Nel complesso, l'altalena di sentimenti che aveva voluto provocare nell’animo di Mara, aveva funzionato, ma non poté evitare che alla fine Mara si lasciasse sfuggire un cordiale elogio per la mucca di La Spezia. Capitolo tredici. Pollena Trocchia La diagnosi che il prof. Calveri aveva formulato per Mara, rivelava la sua fondatezza giorno per giorno. Era tesa, irascibile, impaurita. Sobbalzava se bussavano alla porta, trasaliva se era chiamata al telefono di Nicola Marino e quando Franco ritardava di dieci minuti, chiedeva al coinquilino di telefonare ai Carabinieri, alla polizia, agli ospedali. L'emicrania la tormentava per tutto il giorno l’inquietudine non le dava pace. Annalisa cresceva bene, senza problemi. Erano le condizioni finanziarie, estremamente precarie, che vanificavano ogni impegno sia di Franco che della stessa Mara perché migliorasse il suo travagliato stato d'animo. Il Sindacato, tolte le spese per l'attività ordinaria e spesso straordinaria che Franco ed Hermann non potevano ridurre, lasciava poche briciole per gli stipendi dei due funzionari. E inoltre bisognava cambiare casa. Mara aveva bisogno di quiete, oltre alla serenità e al minimo di benessere che Franco non poteva darle. Pertanto la convivenza con i due diavoletti di Nicola Marino, più Annalisa che neanche lei era proprio un angioletto, non poteva protrarsi. Franco era impegnato in quel periodo nei comuni della provincia per presiedere riunioni e convegni nelle sezioni locali del Partito. Nessuna meraviglia per il cumulo d'incarichi: allora era cosa perfettamente naturale. Il Sindacato non era la cinghia di trasmissione del Partito: ne era la filiale, sia per i comunisti che per i socialisti. Ma la DC si rifaceva ampiamente con la CISL che, indipendentemente dalle intenzioni del buon Sergio Pastore, nelle fabbriche era alimentata, organizzata e protetta dai padroni, i cui interessi, come si sa, difficilmente coincidono con quelli dei lavoratori. Franco, dal canto suo, era contento di frequentare i compagni di base specie in provincia: uomini semplici, disinteressati, animati e rinfrancati, per fatiche e ingiustizie, dalle buone, grandi ragioni del socialismo; gente che aveva abbracciato quegli ideali, per moto dell'anima, prima che per convinzione razionale. Ed era angustiato per dovere annotare l'abissale divario fra quella edificante realtà e l'aria che si respirava ai vertici del Partito. Egli frequentava la Federazione solo quando non poteva proprio farne a meno: facce smunte, gente stanca, pur se incollata alle scrivanie. Aria greve, pesante, era come attraversare i corridoi dell'ufficio del catasto. L'unico capace di cordialità era Giorgio Quadro, il piantone, che lavorava ad una scrivanietta all'imbocco della sede, quasi con un piede fuori e l'altro dentro, e forse per questo si conservava bene. Franco capiva perfettamente che ciò era la spia di un retroterra in cui c'era sicuramente qualcosa di guasto, ma preferiva non approfondire, rinviare fin quando possibile, la conoscenza di una verità che non si profilava proprio entusiasmante. Fu proprio discorrendo con i compagni delle sezioni del circondario che risolse il problema della casa. A Pollena Trocchia non c'era una sezione e gli iscritti al Partito si riunivano, portandosi le sedie da casa, in un locale sfitto ove un profluvio di umidità colava sui muri come pioggia. E quegli uomini vi sostavano per delle ore, a discorrere di tesseramento, di diffusione de "l'Unità" e del disarmo generale per la pace nel mondo. Principalmente erano: Camillo, operaio a Napoli, con gli occhi furbi per una furbizia che non c'era, perché era compassato, serio e disponibile. Aniello Castiello, anch’egli operaio in una fabbrica di Napoli, robusto, corpulento, dall'aria di chi prende la vita come viene e invece non l'accettava per niente e lottava e si sacrificava per contribuire a cambiarla. Landolfi, operaio, calmissimo, quasi imperturbabile, dall'eloquio equamente distribuito fra l'aforisma del saggio e la battuta per far ridere. Antonio Russo, geometra a Portici (questi non partecipava alle riunioni stoiche dei candidati all'artrosi deformante), forse un po' eccentrico, ma di cuore e dall'animo senza schermi, un libro aperto. Lamentavano che anche tassandosi personalmente, per creare una sezione, non avrebbero potuto pagare che la metà della pigione richiesta per un bivani a pianterreno, a doppio ingresso, uno per ogni vano, rispettivamente sulla strada e alle spalle della costruzione, lato campagna. E stava proprio di fronte al Municipio! L'idea esplose in contemporanea. Il giorno successivo fu d'accordo anche il proprietario e fu cosa fatta. Mara e Franco andarono ad abitare a Pollena Trocchia, nella stanza con l'ingresso posteriore, chiusero definitivamente la porta interna fra le due camere, e pagarono la metà della pigione complessiva. La salute di Mara e il diritto al libero sgambettamento di Annalisa erano così senz'altro meglio tutelati. E la sezione fu. Russo, il compagno geometra, offrì l'insegna: macroscopica, lunga circa tre metri, caratteri cubitali rossi su fondo bianco brillante, e sedie, tavolini, quadri e mensole furono donazioni dei compagni che li avevano fatti trasmigrare dalle proprie abitazioni. Russo assicurò che gli operai che avevano costruita la insegna non avevano voluto accettare neanche un caffè come compenso per il loro lavoro: si ritenevano già pagati per aver potuto contribuire all’apertura di una nuova sezione del Partito. E non vollero nemmeno il rimborso delle spese. Era così il Partito Comunista. Franco intanto, grazie ai suggerimenti dell'indimenticabile Renzo La Piccirella, direttore della pagina napoletana de “l’Unità” e bestia nera dei "Capi" che lo combatterono con ferocia inaudita come vedremo più innanzi, s'era iscritto all'Albo dei giornalisti e pubblicisti. Ne approfittò per fondare "Cronaca", organo della sezione di Pollena Trocchia del Partito Comunista. Era costituito da una decina di fogli ciclostilati, uniti accuratamente da spillette con copertina stampata per la testata in rosso e il sommario: poco più di un giornaletto scolastico con periodicità settimanale.Ma piacque proprio a molti: se ne vendevano di domenica più di cento copie in un paio d'ore. Non veniva diffuso, si accatastava su una sedia all'ingresso della sezione e si esauriva prima della chiusura fissata per le ore dodici. Trattava problemi locali, sia piccoli che essenziali, qualche questione di più ampio respiro nazionale e internazionale, dal Gen. Robert Bostwick Carney, Comandante della Nato a Napoli e che, si diceva, sarebbe intervenuto nella repressione se comunisti e socialisti avessero vinto le elezioni "democratiche", agli imbrogli e alle truffe della Coldiretti di Bonomi, e feudo intoccabile della Democrazia Cristiana. Non mancavano le pagine satiriche, il cui bersaglio era regolarmente il Sindaco in carica, redatte con le deliziose filastrocche a rima baciata di Aniello Castiello.Non mancava nemmeno "la grafica", indispensabile all'alleggerimento delle pagine, di cui si occupava Franco, che ricalcava sulla matrice del ciclostile le vignette di altri giornali (quelli veri), citandone la fonte e a cui si cambiavano le battute, adattandole alle tematiche locali. Fece parecchia strada quel giornaletto. Qualche anno dopo, al Congresso del PCI che si tenne nel cinema Azalea di Fuorigrotta, il compagno prof. Iffrido Scaffidi, anch'egli costantemente in trincea contro gli strali rancorosi di via Loggia dei Pisani, sventolava dalla tribuna una copia di "Cronaca", perché altri prendessero "esempio da tanto spirito di iniziativa, tanta genialità e tanta passione civile per gli ideali comuni". Si discuteva della candidatura di Franco all'elezione del Comitato Federale. Cresceva anche la miseria nera nella quale ormai affondavano Franco e Mara. Le quote associative degli operai iscritti al sindacato erano sempre più sporadiche. Si sarebbero dovute raccogliere fuori alle fabbriche mese per mese ma mancavano gli uomini per farlo, gli attivisti non erano mai abbastanza, né la coscienza contributiva dei militanti: in verità non aveva mai raggiunto livelli adeguati. Quel poco che Hermann e Franco riuscivano a racimolare era in gran parte assorbito dalle spese, che in quel periodo erano particolarmente ingenti perché si preparava la lotta per il rinnovo del Contratto Nazionale dei Petrolieri. Una battaglia che il Sindacato, e Franco in particolare, dovevano vincere a qualunque costo. La raffineria non poteva avere un secondo Pernozzoli sottomano e si doveva disinnescare l'ordigno del Contratto Aziendale che Franco stesso aveva contribuito, senza saperlo, a mettere sulla strada del Sindacato. A casa di Franco si respirava miseria squallida. L'ingresso del lato campagna della sua dimora si rivelò provvidenziale: si era abbastanza protetti da sguardi indiscreti, per stendere al sole la biancheria da letto, crivellata dalle raffiche della vecchiezza. Annalisa aveva tre anni, e quella mattina del giorno di San Giuseppe, ripeté mille volte al padre di non dimenticare di portare le "zeppole", perniciosa tradizione partenopea del giorno dedicato al santo lavoratore. Franco non aveva in tasca nemmeno mezza lira, ma non poteva tornare a casa senza le maledette zeppole. Il bar che le vendeva, a Pollena, era attiguo alla finestra di casa sua. Disse "Ho lasciato i soldi sul comodino, le dispiace farmi credito per tre zeppole?" Con ogni evidenza, alla titolare non sfuggì l'incongruenza dell'argomentazione, anche perché il pezzente non seppe difendersi dal rossore che gli inondò la faccia. Si era inventato anche il comodino. Tuttavia la signora preparò con cura un minuscolo involucro e glielo porse dicendo "Non si preoccupi, non le manderò l'ufficiale giudiziario per tre zeppole" Frase oscura: voleva solo rassicurarlo sulla non urgenza del saldo, o fargli presente che chi non ha in tasca nemmeno i soldi per tre miserabili zeppole, fa proprio schifo? Ma Annalisa fu felice, a Mara fu risparmiata una dolorosa ennesima testimonianza e San Giuseppe fu onorato, anche se al momento del lambiccamento per una soluzione, fece finta di guardare dall'altra parte. A Franco la mortificazione pesò dentro di sé per tutto il giorno e la sera, oltre le dieci, uscì di casa per "una boccata d'aria". Discendendo lungo il viale della stazione, fiancheggiato da villette e tanti fiori che profumavano l'aria sentì che ripartiva l’ultimo treno proveniente da Napoli. Ora poteva invadere incontrastato la stazione deserta, le sue aiuole, le sue panchine. Voleva riflettere. La miseria ai limiti dell'inopia distrugge di dentro anche peggio di come lacera, di fuori, vestiti e lenzuola. Si dice che l’uomo non si misura dai soldi che ha in tasca, ed è bene che lo si dica; si declama che i valori depositati in banca non sono il valore di chi ne dispone, ed è bello sentirlo dire. Ma succede che senza soldi in tasca, lasciamo perdere la banca, ci si sente zero, inutili superflui. È un legame quello fra la banconota sottomano e se stessi, certo avvilente e sconcio, ma che ha impunemente la forza di inchiodare chiunque tenti di reciderlo, di annullarlo, o fingere di ignorarlo. La povertà è senza scampo ed ha risvolti inquietanti, come quello di esporsi alla pietà della gente o al disprezzo anche. O quello implacabile e risolutivo del senso di sconfitta, che erode la coscienza stravolgendola, finendo per avvilupparla, forse pietosamente, in provvido stato di torpore. E non abbrutendola, come spesso, con sufficienza e malcelata riprovazione, sentenziano quanti la miseria non l'hanno mai vissuta. Franco elucubrava con foga nella perorazione di un livello sociale di cui invero non era ancora parte, che gli sembrava relegato nell'emarginazione e nel dileggio e del quale ad ogni modo si sentiva tanto vicino da provarne sconcerto. E l'abbrutimento degli abbienti, dei ricchi, dei potenti, dei padroni? Nessuno diceva mai a quanto ne sapesse, che il potere e le ricchezze smodate abbrutiscono. Sono eteree, angeliche figure quelli che corrompono, che schiacciano chiunque non voglia esserne il lacchè, che scacciano e condannano alla tribolazione, che mentendo, in abuso di credito fraudolento, mandano innocenti a marcire in galere, che praticano il lenocinio dell'anima e dell'intelletto dei subalterni ? Sono abbrutiti coloro che annaspano nella miseria, o quelli che navigano nelle beatitudini del potere e della sopraffazione? Andò a sedersi sul muretto poco più alto di un marciapiede, accosto alle rotaie, che finalmente giacevano libere e che luccicavano nel buio proiettandosi lontano, a conforto di chi, solo e inquieto, sentiva ansimando mancargli le forze per proseguire un faticoso cammino. Era l'ora del "dialogo". Abitualmente, nei momenti di maggiore angustia, quando i morsi dell'incertezza addoloravano i lembi della coscienza, amava sdoppiarsi e materializzare le due entità in conflitto nell'anima in disordine. Una verifica utile nella misura in cui sapeva essere rigorosamente imparziale, senza offrire chances o remore ad alcuna delle parti. Vi riusciva quasi sempre. “Come è cambiata, è così diversa... Era spensierata, felice, dispensava allegria.... E ora...” “Vedi come l'hai ridotta?” “Cosa dovrei fare?” “Smettere! Quale padreterno ha stabilito che debba essere proprio tu a spendere la vita tua e di altri che ami, in questa lotta folle, contro il mondo ingiusto?” “Non è un mandato divino... Ho toccato il marcio con le mani, l'ho visto dilagare, ho rischiato di sporcarmi, ho detto "No" ed hanno cercato di linciarmi, come fanno con chiunque si ribelli, dovrei lasciare, far finta di niente, perché continui così in eterno?” “Ma gli altri se ne fottono!” “Gli altri... Sono gli altri. Se lo sanno, se ne hanno coscienza, sono pupazzi... se no, abbiamo il compito...” “Di emanciparli!” “Vedi, nelle campagne del sud, abbiamo insegnato ai contadini a non togliersi il cappello al cospetto del padrone. E poco prima gli baciavano anche la mano.” “Allora milioni di uomini che lavorano in pace, che hanno uno stipendio, che mantengono le famiglie, che comprano e portano ai loro figlioletti i dolci preferiti, senza precipitare nella tragedia, ma che non si sognano nemmeno di andare a Catanzaro o ad Agrigento, per spiegare ai contadini come devono presentarsi ai padroni, sono tutti marionette o cretini?” “Lasciare: reinserirmi nel gregge, tornare all'ovile belando.... Bello! Riscriverei Pinocchio capovolgendolo. Invece di abbandonare sulla spalliera di una sedia il burattino inerte, penzoloni, riverso e svuotato, perché Pinocchio è diventato un bambino vero, io dovrei stracciare l'uomo, buttarlo via a penzolare inservibile sulla sedia d'un "mastro Geppetto padreterno", e tornare a casa, burattino felice e contento. Sei pazzo.” Non offrì replica all'altro: era convinto che non potesse avere più argomenti e si avviò verso casa, con l'abituale andatura, lenta e discontinua (anche perché ora il viale olezzante della stazione era tutto in salita). Qualche mese dopo Mara e Franco si scontrarono con la scoperta dei luminari napoletani dell'oncologia, che con qualche anno di ritardo diagnosticarono, per Biagino, il tumore del midollo spinale. Il celebrato professor Verga, in un colloquio riservato con Franco, sentenziò la prognosi infausta: massimo sei mesi di vita. Lo scrisse anche. Dimenticò di aggiungere che la mortalità del male, era dovuta solo al ritardo della diagnosi giusta. Naturalmente Franco non riferì a Mara il risultato del colloquio. Preferì parlarne al prof. Herbert Olivecrona, celebre neurochirurgo svedese, di passaggio per Napoli, ove sostò alla clinica Mediterranea dal prof Francesco Castellano, suo migliore alunno, uomo di grande umanità. Lo scienziato approfondì la documentazione clinica del caso e disse che aspettava l'ammalato a Stoccolma, ove l'avrebbe operato gratis e gli avrebbe salvato la vita. Anche se niente avrebbe potuto fare per il recupero delle gambe, dato il devastante processo distruttivo che il tumore aveva avuto tutto il tempo di compiere in danno delle vertebre sacrali. Franco riuscì a pubblicizzare al massimo la dolorosa vicenda, fotografie e interviste apparvero su tutta la stampa cittadina creando così il terreno fertile perché tutti diventassero buoni e generosi. La Compagnia di navigazione aerea KLM offrì il viaggio di andata e ritorno per l'ammalato e per un familiare al seguito e nessuna delle lettere fatte inviare da Biagino a ciascun deputato o senatore della legislatura del tempo rimase inevasa: pervennero contributi da tutti i parlamentari. E Biagino ritornò da Stoccolma condannato, più che alla sedia, al letto a rotelle, ma vivo. Il suo grande coraggio, la sua forte volontà di reazione, alla calamità che l'aveva colpito, fecero il resto. E Mara, dopo sei mesi di trepidazione e di angosce, che di certo non giovarono alle sue precarie condizioni di salute, riscoprì la beatitudine della gioia. E insieme, lei e Franco, dovettero riconoscere, senza mai dirselo, che non è possibile vivere dimenticando del tutto il sapore dei momenti di sollievo, di affrancamento dell'animo, di un barlume di pace. Ma Franco non poteva nemmeno fermarsi lì; egli doveva proiettare il suo pensiero al nirvana, in cui si sarebbero potuti crogiolare sua moglie e i suoi figli, se avesse accettato di piegarsi. E finiva per desumerne che il mondo, in cui ciò può avvenire e avviene, è quello contro cui è obbligatorio battersi, senza risparmio di forze. Sempre. E di momenti di gioia, anche se meno intimistici e privati ma di certo non meno esaltanti, ce n'era ancora qualcuno in serbo per Mara e Franco: lo sciopero nazionale dei petrolieri aveva visto schierata in prima linea la Raffineria di Napoli: novantacinque per cento di adesioni. Hermann e Franco, pur non catapultandosi sul prato avviluppati in indistricabile miscuglio di membra umane, come fanno i calciatori che segnano il gol, quel mattino si abbracciarono felici e commossi. Hermann scrisse sul volantino: "La fiamma, ormai parte integrante del panorama di Napoli, come il pino e il Vesuvio, stamattina si è spenta". Franco negò la sua collaborazione alla redazione di quel volantino: volle che il suo compagno esprimesse per intera e liberamente la sua contentezza. Aveva trascorso innumerevoli notti seduto sul muretto di fronte allo stabilimento ad attendere il cambio dei turnisti per persuaderli, discutere con loro, sollecitare la loro presa di coscienza. Era stato instancabile. Quando alle cinque del mattino Franco lo sorprese grondante pioggia, senza giacca, con i capelli che erano diventati neri, tanto erano pregni d'acqua e gli disse "Non potevi almeno portarti un ombrello?", rispose "Tra poco sorgerà il sole." E fu lo sciopero della raffineria! Mara, ad onta delle modiche aspettative di Franco, esultò. Volle perfino recarsi al sindacato, per ringraziare Hermann. Il quale non si schernì, come era solito fare anche per molto meno; la guardò negli occhi e rispose “Ti capisco. Ora beviamoci su!" E ordinò il caffè (che poi pagò Franco perché gli disse nell'orecchio che non aveva una lira). Intanto, un problema serio per protrarre la residenza di Franco e Mara a Pollena Trocchia erano i treni. Era servita come tutti i comuni alle pendici del Vesuvio, dalla Circumvesuviana, una ferrovia secondaria che, per partenza ed arrivi, era di precisione cronometrica: l'elefante verde nella realtà napoletana. Ma alle 22.00 era tutto finito, e quella puntualità di stile elvetico, trapiantato nel bazar partenopeo, diventava un grosso inconveniente per rientranti ritardatari. Come Franco, il cui lavoro poteva garantire l'ora esatta dell'uscita di casa, ma non quella del ritorno e spesso neanche il ritorno. Ma quando fu aggredito dalla Celere in piazza Mancini, appena all'inizio di una manifestazione per la pace, e fu pestato bestialmente e non linciato solo grazie alla sonora pernacchia di un anonimo compagno, che attirò così verso di sé il nazista in azione, Franco sfruttò l'implacabile puntualità dell'ultimo treno. Per nascondere a Mara la verità disse che per non perderlo era caduto, correndo, su un grosso mucchio di pietre e mattoni, siti sul marciapiede della stazione. Era andato da un compagno medico, il Dottor. Alfonso Faiella per qualche indispensabile medicazione, e si era recato alla Circumvesuviana. Andò bene, o almeno così Mara lasciò credere. Ma prese a sostenere che non si poteva abitare a Pollena ancora per molto. Con quei treni che funzionavano benissimo ma rigorosamente diurni "come i Cobianchi", e senza la possibilità di un telefono, non si poteva rimanere in quel comune. E una sera fece trasalire Franco "Qui possono abitare persone che hanno una vita metodica, tranquilla, scandita dalle lancette dell'orologio, non dalle manganellate della polizia.” Franco non approfondì. Dopo tutto era anche possibile che si riferisse ad eventualità da tenere in conto. E finì lì. Ma provvide il neosindaco, a rafforzare e rendere ineludibili le argomentazioni di Mara, a sostegno di un nuovo cambio di casa. Le elezioni amministrative avevano visto il trionfo di Antonio Di Tuoro, un avvocato, più vanitoso del figlio di Cefiso, afflitto dal grande cruccio di non avere altri partiti politici cui approdare: li aveva passati tutti, con la sola eccezione del Partito Comunista. Risolse il problema inventandone uno nuovo di zecca, le "tre spighe", in funzione anti DC, che fu l'ultimo partito, ad essere noleggiato dall'irrequieto politicante. Il PCI riportò un buon successo, Franco ottenne più voti personali dello stesso Di Tuoro, grazie alla legge elettorale vigente per i comuni con meno di 5.000 abitanti, per cui si poteva votare una lista e dare il voto di preferenza a un candidato di altra formazione in lizza. E ciò fu più importante di quanto non fosse sembrato, un buon rimedio per la crisi comiziale che colse improvvisamente il Di Tuoro. Qualche giorno prima aveva invitato Franco nel suo ufficio, per comunicargli che lo aveva cancellato dall'elenco dei contribuenti. Franco ringraziò ma gli fece presente che quel trattamento gli spettava di diritto, in base al reddito percepito, anzi, non percepito. Ma il neosindaco aggiunse che aveva intenzione di avvalersi della sua collaborazione, "adeguatamente remunerata". Poi arrivò l'immancabile "ma", che a Napoli chiamano "la particella sgarrupativa": si aspettava un "trattamento ben diverso" dalle pagine di "Cronaca". Franco gli rispose che la collaborazione poteva aspettarsela, completamente gratuita, dalle stesse pagine cui voleva mettere la mordacchia, se avesse amministrato ponendo fine all’immobilismo e all'incuria con cui avevano da sempre amministrato i democristiani, ma che quelle caserecce paginette ciclostilate si sarebbero messe a strillare, se avesse continuato l'andazzo dei suoi predecessori. E si giunse a quella radiosa domenica di fine novembre. Il neosindaco aveva deciso di festeggiare la "presa di possesso ufficiale" del comune, unitamente alla celebrazione della vittoria della prima guerra mondiale e avrebbe deposto una ghirlanda d'alloro sulla lapide dei Caduti. Un abbinamento la cui logica sfuggiva ai più, ma che certamente era parte dell'intimo esoterico del Vittorioso. Era bel tempo, il sole pareva volesse accrescere il soffuso rimpianto per l'estate agonizzante. Egli apparve da lontano alla testa di un folto corteo di sostenitori, ritto come avesse ingoiato un'asta di bandiera, ma con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, che gli conferivano un'area di Al Capone, inquinando non poco la marzialità che fluiva dalla cintola in su. Giunto alla sommità della breve scaletta di accesso alla Sede Comunale, si volse e degnò del suo sguardo Franco, Camillo e Castiello, che erano fermi alla soglia della sezione del Partito, sicuri di non avere epigoni, che avessero militato nell'esercito austro-ungarico e quindi a buon diritto partecipi alla celebrazione della Vittoria della Grande Guerra. Ma il sindaco, del tutto dimentico di Armando Diaz, Cadorna e del Piave che aveva mormorato, si lasciò cadere a corpo morto su Imre Nagy, Kadar e il Danubio, che non aveva nemmeno fiatato. La rivolta ungherese prese il posto della guerra mondiale e, con il "braccio teso e l'indice accusatore ritto, come una baionetta, in direzione della sezione e dei tre comunisti, andò sgranocchiando leccornie da mediocre avanspettacolo, ma anche da intenzionale incitamento a delinquere "Eccoli, i complici degli assassini, i compagni dei massacratori del popolo ungherese! Bisogna liberarsi con ogni mezzo di questi uomini, che vogliono portare tra noi gli stessi metodi sanguinari e liberticidi, bisogna isolarli e combatterli, bisogna eliminarli dalla vita pubblica delle nostre città..." La gente del suo seguito era allibita; voltava lo sguardo dal sindaco condottiero, alla sezione comunista, con meno sincronia ma con uguale frequenza degli spettatori di tennis. Di Tuoro, nel corso dell'intera campagna elettorale non aveva mai detto una parola contro i comunisti, e la gente non capiva. In realtà i comunisti gli erano stati utili: l'elettore che si stufa della DC, non approda generalmente diritto al voto comunista, incontra per strada Di Tuoro, che è anche il nipote prediletto di un autorevole monsignore della Curia Arcivescovile di Napoli, e lo vota. E poi quella povera gente, tanto sconcertata, non sapeva nemmeno del colloquio svoltosi tra il Sindaco e Franco, e della sua risposta impertinente, prima che si mettesse a guidare i carri armati sovietici, in marcia su Budapest. Quasi nessuno applaudì. Si sentì qualche isolato tentativo di battimani ai margini della folla, da coloro che forse non avevano nemmeno sentito le farneticazioni dell'oratore, che parlò senza microfono a voce viva, come piazzista spiantato. Di Tuoro non aveva nemmeno capito che la gran parte dei suoi elettori aveva dato il voto di preferenza a Franco, dato che non era proprio Camillo Benso di Cavour in quanto ad acume politico. Ma le paure di Mara si moltiplicarono; ora oltre ai treni (unica vera difficoltà), c'era anche il pericolo, secondo lei, di aggressioni o di un attentato alla sezione (che poi era pressoché casa sua) a rendere impossibile abitare ancora a Pollena. Per la verità, la psicosi di un possibile attentato assalì anche qualche compagno. E ciò rendeva anche più difficile l'opera di dissuasione di Franco, che continuava a sostenere che il ringhiare di quel sindaco, era il latrato di un patetico botolo, che quello lì non aveva alcuna possibilità di mettere in atto le larvate minacce declamate, e che, forse, non ne aveva neanche l'intenzione. Ma penetrare una psiche già tanto provata, aver ragione di un sistema nervoso che cadeva a pezzi, era impresa disperata. Gli incubi che l'agitavano di notte a volte coinvolgevano anche la bambina, che allora aveva quasi quattro anni e la comprensione dell'infelicità della madre non l'aiutava certo a crescere serenamente. Franco si concentrava spesso sul ricordo dell'eroina di Zola, Gervaise de l'Assommoir, che aveva amato per lungo tempo dopo averne letta la drammatica storia. Il ricordo dello spietato declino di Gervaise, magistralmente descritto nell'incedere lentissimo e implacabile lungo l'arco di un'intera vita, l'induceva ora ad amarla anche di più, ma lo assalivano sgomento e paura. Il commiato da Pollena Trocchia fu molto malinconico. Mara si era recata dalle mogli di Landolfi e Castiello, per salutarle. Le due donne, poi, raccontarono a Franco la commozione e il dolore di Mara. Castiello assicurò che si sarebbe trasferito a Milano con la famiglia. Franco gli promise che se un giorno avesse dovuto arrendersi, lo avrebbe raggiunto. Castiello, con la famiglia, partì definitivamente per Milano dopo un mese. Franco e Mara non lo raggiunsero mai. Capitolo quattordici. Saluto al duce E cominciò la coabitazione di ritorno. Franco e Mara, cioè, si ritrovarono in una camera ammobiliata. Stavolta a via La Pietra, al primo stabile, al confine tra Bagnoli e Pozzuoli; una bella strada costeggiante il mare, al di là di una lunga catena di scogli, che sembravano essere lì per difendere generosamente le case dalle frequenti mareggiate. I coinquilini erano abbastanza consoni alle loro esigenze: una coppia di giovani coniugi, lui muratore, lei domestica ad ore per aiutare il bilancio familiare, discreti e tranquilli. Fuori di casa, invece, la tranquillità era piuttosto rarefatta: a Napoli Achille Lauro aveva intascato, alle elezioni amministrative, la maggioranza assoluta dei voti (51,73%); l'Unione Sovietica aveva appena mandato i suoi potenti carri armati a Budapest, per domare la rivolta disarmata degli ungheresi; il XX Congresso del PCUS aveva smantellato il mito del Piccolo Padre, inquadrandolo nella più realistica dimensione del paranoico criminale. E il Pci a Napoli, si rigirava fra le mani il foglietto con il conto da pagare: era guidato dal gruppo dirigente più stalinista di tutta l'Italia. Solo Stalin, forse, era stato più stalinista di Salvatore Cacciapuoti e del suo padre naturale Giorgio Amendola. Si ebbe la diaspora degli intellettuali, quelli che si erano seduti a tavola ed aspettavano i cibi precotti, che avrebbero paracadutato per loro, gli angeli del paradiso sovietico. E quando furono investiti dal fetore delle cucine moscovite, si arrabbiarono e presero cappello. Non avevano mai avuto intenzione di affondare le virginali manine, nella dura fatica e nei pesanti stenti necessari per costruire, qui, in Italia, il nostro Socialismo. La proclamazione solenne, da parte di Togliatti, della via italiana al Socialismo, l’avevano scambiata per una circolare del Ministero Sport e Spettacolo. Con meno celebrata intellettualità, quella strategia fu esattamente interpretata, invece, da operai, contadini, giovani, donne e studenti, che in quegli anni, già cadevano a decine sotto il piombo della polizia di Scelba, nelle strade e nelle campagne del nostro Paese o andavano innocenti a marcire nelle carceri, e a migliaia venivano discriminati e licenziati dalle fabbriche e mandati sul lastrico a fare la fame. Perciò non si sconvolsero più di tanto, non si stracciarono le vesti, ma sentirono imperioso lo stimolo a consolidare il loro impegno nelle file del Partito. Al vertice della Federazione le energie delle spinte tettoniche, accumulatesi nel sottosuolo di Loggia dei Pisani, si liberarono solo parzialmente. Abdon Alinovi, che ereditò la malconcia carretta da tirare, era preoccupato che un sommovimento troppo esteso, e tanto repentino, potesse provocare frane a catena, con incalcolabili conseguenze e impegnò il suo senso di equilibrio, sua innegabile risorsa, per un rinnovamento graduale e limitato. Ma ciò fu assai propizio per la camarilla che si era creata intorno a Cacciapuoti e che rimase quasi intatta al vertice, dopo la sua cacciata. Amendola in quei giorni, poiché la prudenza non gli aveva mai fatto difetto, si defilò per qualche tempo dalla città. Emersero fatti allucinanti. Venne confermata la verità storica che il potere assoluto libera i più bassi istinti dell'uomo: schedature, spionaggio, spesso anche a fine di ricatti, sistemi per l'orchestrazione di calunnie di valenza distruttiva, per annientare gli indocili e, per il buon diritto allo svago, anche molestie e sopraffazioni sessuali. Ma se possibile, ancor di maggiore gravità fu che, pur perfettamente consci di tutto quanto, non fosse altro perché pubblicamente contestato, non mancò chi, sia in sede di Congresso che di Comitato Federale, senza provare alcun imbarazzo, parlò, come Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Aldo De Iaco e altri, per difendere l'opera di Cacciapuoti. O più probabilmente, per la salvaguardia delle loro carriere politiche, costruite interamente all'ombra del suo Pontificato. Successivamente Franco fu eletto nel Comitato Federale in due Congressi consecutivi, ma non brillò per assiduità: non gli andava che nel corso dei suoi interventi (anche piuttosto rari) quasi tutti annuivano con chiari cenni della testa e che alla fine, quando era il momento di votare per alzata di mano, le braccia rimanessero inerti. Accertato che non si trattava di difficoltà motorie o di coordinamento fra gli arti superiori e l'osso occipitale, si doveva dedurne che il conformismo imperversava pressoché inalterato anche dopo la cacciata di Cacciapuoti, che le incrostazioni, prodotte dal lungo regime di coartazione delle coscienze erano dure a morire. Franco avrebbe voluto continuare a starsene lontano, ma ora capiva che era sbagliato coprirsi gli occhi per non vedere. E si chiedeva come fosse stato possibile, come fosse potuto accadere. “Come è possibile” si chiedeva, ”che per tanti anni si siano potuti assicurare impunità e ossequio al despota? Come è stato possibile che comunisti che vantano di avere insegnato ai contadini meridionali a non togliersi il cappello al cospetto del padrone, accettassero poi di levarsi il cappello, con tutta la testa e il contenuto, al cospetto dei ducetti all'interno del partito?” Possibile che tutti, per anni, abbiano lasciato credere al tiranno, che avesse il diritto di dominare su tutti? È successo anche in URSS d'accordo”, proseguiva arrovellandosi, “ma c'erano le fucilazioni, la Siberia, il carcere duro, il manicomio. Ma qui a Napoli che diamine sarebbe potuto accadere a chi si fosse ribellato?” La risposta c'era e lo lasciava sgomento: qualche danno alla camera politica! Per proteggere la strada percorsa (a forza di "bravo" e di battimani al Capo) e per ascendere agli apici del successo! E allora la conclusione, per quanto amara e paradossale, appariva non più eludibile: a Loggia dei Pisani mancavano, oltre alla democrazia, allo sviluppo della dialettica, alla verifica delle idee, i comunisti: un partito comunista guidato e diretto da comunisti in dismissione! E per quanto cercasse di mitigare la dura realtà con pannicelli, tipo "un fatto locale, succede ovunque, degenerazioni", sentiva di portarsi dentro una ferita profonda. Incrementò il suo impegno nel movimento dei "Partigiani della Pace", ove conobbe il professore Renato Caccioppoli, personaggio di eccezionale levatura culturale e morale, spirito libero ed indomabile, che non aveva mai messo piede a Loggia dei Pisani ma che, per ostinarsi a rimanere vicino all'area comunista, senza mai prendere la tessera, dimostrava di avere già capito tutto. E inutilmente stettero in guardia quelli della Loggia contro il pericolo del suo approdo alla militanza; critiche, censure e maldicenze senza nemmeno averlo visto mai erano del tutto superflue, servivano soltanto a confermare il livello politico e la statura degli autori: ditteri a ragione spaventati dal gigante, per troppo poco tempo lustro ed orgoglio della sinistra napoletana. Volle ravvivare anche i rapporti con i compagni della sezioni; trasformò "Cronaca" in periodico ad otto pagine stampate, con la nuova testata "Rinnovamento Vesuviano", che estendeva la sua influenza a vari altri comuni della zona, da Ottaviano a S. Giuseppe Vesuviano, a Massa di Somma, a Pollena Trocchia stessa, a Somma Vesuviana, fino a Palma Campania. Fu proprio dopo un comizio per la pace e il disarmo, mentre si recava alla stazione per prendere il treno, che fu arrestato, tradotto in camera di sicurezza e rilasciato dopo tre ore. Giusto in tempo perché Mara non ne sapesse niente. Denunciato regolarmente l'arresto arbitrario, fu chiamato dal giudice istruttore che aveva accolto l'esposto e poté meglio comprendere e misurare il degrado nel quale l'arroganza del potere democristiano aveva trascinato le istituzioni del Paese. Il magistrato l'invitò a sedersi al suo tavolo, si alzò con circospezione, dette uno sguardo nel corridoio, e richiuse la porta. "Signor Certaldo”, disse con fare amichevole ma anche con tono grave ”mi ascolti bene, noi vi assolviamo sempre, subito dopo l'interrogatorio, ogni volta che vi arrestano però attenzione, non dovete mai denunciare l'illegalità dell'arresto subìto. Se no, glielo dico con estrema franchezza, non potremo più assolvervi!" Per Mara andò meno bene, per un altro episodio che pure traeva origine dal lavoro di Franco nei comuni vesuviani. Fu quando due carabinieri (chissà perché in due), vagarono per tutti i piani delle tre scale dello stabile, alla ricerca di Franco Certaldo che non era facile reperire dato il suo stato di inquilino in subaffitto e Mara, al rientro a casa, apprese dalla gente allarmata e sospettosa riunita a capannelli nel cortile, che i carabinieri stavano cercando qualcuno, che chissà dove si nascondeva e che si chiamava Franco. Andò incontro agli investigatori, e chiese loro cosa volessero dal marito. L'atto coraggioso e opportuno, però, non dovette bastare a nascondere lo stato di agitazione che la pervase, tanto che gli stessi militi cercarono subito di tranquillizzarla, riferendole che si trattava semplicemente di un invito della Procura della Repubblica. Il commiato piuttosto cordiale, comunque reciprocamente rispettoso, avvenuto nel cortile stesso alla presenza delle donnine, ansiose, e felici del fresco materiale di spettegolamento, valse a ristabilire "l'onorabilità" dei due subaffittuari nell'ambiente del loro domicilio. Anzi, la "rispettabilità" fu anche in crescita, dato che i confabulanti appresero con l'occasione che Franco era nientedimeno che giornalista. Era invitato, infatti, a essere sentito dal procuratore della Repubblica per una querela sporta da un tizio di Palma Campania per supposta diffamazione a mezzo stampa. Il tizio era un medico, Sorrentino, che alle imminenti elezioni amministrative locali, era candidato nella lista del Partito Comunista e che qualche giorno prima della scadenza dei termini per la presentazione delle liste, indisse un comizio per comunicare pubblicamente "la sofferta ma inderogabile decisione, di accettare la candidatura nella lista della Democrazia Cristiana". Aggiunse di essersi fermamente convinto che solo così, poteva davvero difèndere gli interessi della povera gente. E poiché nelle elezioni che seguirono il PCI aveva conseguito un chiaro successo, incrementando la rappresentatività in voti e seggi, il tapino vide svanire la promessa di fare l'assessore alla sanità, perché non fu nemmeno eletto consigliere. Franco scrisse a tutta pagina sul "Rinnovamento Vesuviano": "Senza il traditore Sorrentino, il PCI avanza". Per avvocati del calibro del senatore Mario Palermo e del giovane e brillante Giovanni Bisogni fu abbastanza facile sostenere che Sorrentino, traditore lo era davvero, almeno nel linguaggio corrente e nella prassi statutaria dei partiti politici e che Franco a quelli si era attenuto nella titolazione che aveva scosso la suscettibilità del querelante. Ma l'offesa a quel campione di fedeltà e coerenza, dovette proprio sembrare bruciante al magistrato e Franco fu condannato a lire ventimila di multa e al pagamento delle spese. La multa fu amnistiata e le spese non ebbero mai la fortuna di essere pagate, data la insolvibilità incurabile dell'imputato, che senza difficoltà fu facilmente dimostrata al Tribunale. Ma il risvolto grottesco della vicenda non trovò mai soluzione: nell'occhiello, cioè prima del titolo che fece arrabbiare il dottore, c'era anche l'interpretazione fisiologica del progresso conseguito dai comunisti in quelle elezioni a Palma Campania e anche della defezione dell'uomo folgorato sulla via di Damasco. C'era scritto: “Il Partito ha defecato e ora sta meglio”. Ma nella querela non c'era alcun cenno all'annotazione gastroenterologica compresa nel titolo. Nessuno capì mai il senso della specifica tolleranza del medico. Nel complesso, la "mezza casa" di via La Pietra non aveva mai presentato particolari difficoltà ma Franco e Mara, dopo circa due anni, dovettero ugualmente abbandonarla: una cortese e anche relativamente indennizzata richiesta della proprietaria, li invitava a sloggiare per far posto alla figlia prossima alle nozze. Andarono allora ad abitare ai Tribunali, centro storico, via S. Paolo 4, naturalmente ancora in coabitazione, in mezza casa. L'appartamento non era ammobiliato e per la prima volta i due nomadi senza roulotte e senza tende, dovettero munirsi di mobili, almeno di quelli proprio indispensabili. Si poté farlo perché intanto Mara si era data un impiego, si impegnava in infilatura di perle che le procurava il fratello. Perché Biagino, che non finiva mai di dar prova del suo titanico coraggio morale, sempre inchiodato carponi sul letto a rotelle, aveva investito quanto avanzava delle offerte pervenutegli dai "cuori d'oro" di turno per iniziare una sua autonoma attività artigianale nel quartiere degli orefici. Aveva affittato un negozietto e da una specie di ritaglio, tipo sportello, operato sull'intelaiatura di legno compensato con cui aveva fatto dividere il locale, sporgevano braccia e testa per trattare con i clienti, senza che questi si avvedessero del letto... di contenzione. Sia pure in parte dovuta al padre, vecchio e stimato gioielliere, il successo non si fece attendere. In pochi mesi era diventato il migliore infìlatore di perle della piazza. Ma Franco non poteva essere felice della notevole e innegabile incidenza che il lavoro di Mara ebbe presto nel bilancio familiare, perché ella era molto miope anche se non dava ad intenderlo, e tenuto conto di qualche disturbo visivo, che il medico aveva attribuito a fatti di natura nervosa, non era certo quel lavoro la terapia ideale. Peraltro non poteva non provare disagio a tentare di dissuaderla. Dovette anche mostrare di accettare di buon grado qualche regalo utile, di una certa consistenza. Al compleanno gli regalò un montgomery con tanto di alamari, che pure senza essere un "capo firmato", fu una vera rivoluzione in confronto a quanto aveva indossato fino ad allora. Non lo indossò sempre. Ne faceva a meno, per esempio, quando si recava alle riunioni del Comitato dei Partigiani della Pace, dove aveva molte probabilità di incontrare il prof. Renato Caccioppoli. Perché quell'uomo era capace di indossare un impermeabile logoro, un cencio da infondere soggezione, quasi un senso di vergogna in chiunque al suo cospetto, indossasse un soprabito. Anche se gli smaniosi del "bon ton", e quelli della Loggia, che se ne stavano in trincea con i cannocchiali puntati su di lui, non dovettero soffrire a lungo. Tutto finì all'alba dell'otto maggio del '59, quando l'eretico, decise di conficcarsi una pallottola nel cervello. Una tragedia di cui furono costretti a tener conto anche quelli della "Loggia": veniva a mancare una pedina importante sulla scacchiera dei loro giochi al napalm. Poco tempo prima, infatti, lo scienziato era servito a svolgere un importante ruolo di comprimario, nella narrativa in cui si librava la loro fantasia creatrice. Avevano diffuso di soppiatto il racconto di una coppia, che passeggiava beatamente per via Toledo: il professore Renato Caccioppoli e Francesca Spada, la compagna di La Piccirella, una splendida apostola del verbo comunista, la quale avrebbe indossato un impermeabile parapioggia di plastica trasparente, e di sotto... niente. Ma bisogna riconoscere che non furono aiutati dalla fortuna. Chi la conosceva, ed erano quelli i destinatari del messaggio, sapeva che quella donna, ad onta della sua spregiudicatezza, e del suo naturale anticonformismo, aveva una forma di esacerbato, quasi patologico pudore del proprio corpo: in sartoria, se non uscivano dalla stanza le stesse sartine, non si toglieva l'abito, per misurarsi quello nuovo. Ma quelli della Loggia non lo sapevano: il cosiddetto "ufficio quadri", che in realtà era una vera e propria sezione investigativa segreta, con tutti i crismi del caso, dalle indagini alle schedature di attivisti e dirigenti del Partito, cominciava a fare acqua. Gli stessi suoi capi (Carlo Obici, Aldo De Jaco ecc.) dopo il XX Congresso del PCUS andarono perdendo mordente ed entusiasmo; continuavano a crederci solo più in alto (Cacciapuoti, Amendola, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano e qualche altro). Così naufragò nel ridicolo la temeraria performance dello spirito creativo stalinista di quelli della Loggia. Ma era ben congegnata: un solo proiettile avrebbe colpito Caccioppoli, mina vagante, che si aggirava minacciosa ai lembi del feudo dei Capi; la brillante e colta giornalista de "l'Unità", Francesca Spada, che non aveva mai ottenuto il placet del Pontefice della Loggia e, Renzo La Piccirella, testardo sostenitore del diritto al dissenso, all' interno del Partito. A suo tempo, del resto, Cacciapuoti aveva avvertito Renzo, allora direttore della pagina napoletana de L' Unità", lo avevano convocato ufficialmente in Federazione, per dirgli che quella donna non godeva della loro simpatia, che era divorziata, madre di due figli, e che sarebbe stata un grave ostacolo, alla sua carriera di giornalista e dirigente comunista. E lui la sposò. Osando prescindere dai rigorosi principi che animavano Cacciapuoti e compagni. Ma proprio in quei giorni si ebbe qualche altro strappo alle regole di etica comunista vigenti a via della Loggia, e che pure finì con un matrimonio. Fu quando una compagna, impiegata nella Federazione (i nomi, cognomi e le prove sono a disposizione di chiunque voglia approfondire) non disposta al silenzio, decisa a "fare uno scandalo", fu "scaricata" da Cacciapuoti, suo seduttore, alla camera del lavoro, per assumere incarichi mai da alcuno identificati. Ma andò presto sposa ad un sindacalista, pupillo del ras, che fu subito fatto eleggere Senatore della Repubblica. Capitolo quindici. I cambiamenti. Hermann aveva quasi compiuto completamente il percorso, che l'avrebbe portato per sempre lontano dal Sindacato e dal Partito. Non aveva rinnovato la tessera, e frequentava assiduamente il gruppo di estrema sinistra, extraparlamentare, con sede nei Vergini, chiamato "lotta di lunga durata". Franco non intendeva più sopportare la reticenza del suo amico, alle sue domande di spiegazione e un giorno che il sospetto transfuga venne a trovarlo nella sede (ormai si faceva vivo soltanto per salutare gli amici) non gli lasciò via di scampo: pregò il piantone di dire a tutti che in sede non c'era nessuno, chiuse la porta a chiave e si sedette di fronte al compagno, che lo aveva tenuto a battesimo nel momento della fatidica svolta della sua vita. "Hermann, vuoi dirmi finalmente che ti sta succedendo, dove sei approdato, che stai facendo, come vivi?" "Me la faccio con quelli di "lotta di lunga durata", non sono più iscritto al PCI, e nessuno può impedirmelo. Sto con una nuova compagna, una vera comunista. Ci amiamo. Ecco tutto." "Parli di Anna Algeri?" "Sì, la conosci?” "Abbastanza, per credere che quella ti sta facendo, da sinistra, più male di quanto non te ne abbia fatto, da destra, tua moglie”. "Non dire assurdità". "Secondo te una vera comunista, è quella che rifiuta la Marlboro perché è americana, anche se non ha sigarette e muore dalla voglia di fumare? Quella che non compra la televisione perché è reazionaria e se è ospite di qualcuno che ha il televisore acceso, gli impone di spegnerlo, se no pianta tutti in asso e va via?" "Sì, ha qualche ingenuità, è ancora un po' schematica ma le passerà, vedrai...ma tu non ti accorgi che il PCI sta cambiando strada? Ti sfugge il rapido processo involutivo della sua politica? Non vedi che, come gli altri, mira soltanto ad andare al governo? Possibile che ti sfugga che il PCI ora ambisce al potere e basta. E a qualunque costo?" Franco invero non stava sentendo una sorprendente rivelazione; l'innegabile svolta gli bruciava dentro e ne soffriva da tempo; al Comitato Federale aveva più volte contestato che il Partito di lotta e governo, diventava sempre più marcatamente il Partito di ... omissis e di governo. Aveva più volte anche deprecata l'inerzia di fronte alle emigrazioni di militanti, che approdavano ai "gruppuscoli", come con grottesco sussiego li definivano, ai piani alti del Partito. Ma ora gli riusciva disagevole confermarlo al cospetto di chi, per queste motivazioni, aveva assunto decisioni gravi, completamente sterili ed inutili e forse nocive per la speranza di riuscire ad arrestare la marcia all'indietro, del loro partito. E rispose con qualche timidezza: "Ammesso che sia vero, ammettiamo che sia possibile che il Partito che voleva cambiare la società, da essa si faccia trasformare a sua immagine e somiglianza, tu credi che abbandonare, sia la soluzione migliore? Se è una infezione che lo colpisce, tu non fai altro che sottrargli gli anticorpi”. "L'immagine è suggestiva, caro Franco, ma non ti illudere, gli anticorpi non funzionerebbero neanche se fossimo il doppio di quelli che siamo. E poi...dovremmo aprire un altro fronte, affrontare il fuoco incrociato dei padroni da una parte e del vertice del partito dall'altra...è assurdo. Io ti confesso che sono stanco, avvilito, non so quanto durerà la mia nuova militanza, credo che presto lascerò anche quelli, mi sento in ginocchio, cerca di capirmi. Anche Anna, finirà presto anche con lei; sempre così entusiasta, sempre così piena di certezze, sempre convinta che una mattina apre la finestra e vede che sta sorgendo il sol dell'avvenire. Non la sopporto più, mi fa rabbia, mi fa pena, ma mi faccio troppo pena io stesso per andarle incontro e aprirle gli occhi, per disilluderla, per porla al riparo da disincanti, che hanno la forza di spezzare gli uomini come fossero asticelle di giunco…” Franco aveva immaginato, ancora prima di vederlo, che nell'animo del compagno non si agitasse soltanto il dolore per la mutazione ideologica, già di per sé devastante, che attribuiva al suo partito, che aveva visto come l'alfiere dei suoi principi e per cui si era totalmente speso, ma che da quell'amarezza si dipanasse e si sottoponesse al suo esame, la sua intera storia: la condizione umana, i suoi figli, il suo futuro. E soccombeva. Ora Franco capiva che tutti e due stavano in silenzio da troppo tempo, e che toccava a lui riprendere il discorso ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura già incurvata, sotto il fardello di un'età mai vissuta e si chiedeva se il suo amico, non fosse venuto perché intendesse che, ancora una volta, lo stava appena precedendo, in una di quelle decisioni che cambiano la vita. E non soltanto la propria. E avrebbe voluto abbracciarlo e lo avrebbe fatto, se non avesse temuto di scorgere, nel suo compagno, tanta parte di se stesso di chissà quale giorno del suo futuro. Quel giorno, di buon mattino, prima di recarsi al Sindacato, era andato al vico lungo Santa Maria degli Angeli, in cima a uno scalone, che sorge proprio di fronte al terraneo n.180 di via Foria, e si era fermato qualche attimo a guardarlo; non gli era mai dispiaciuto rigirarsi a tratti e guardare brevemente la strada percorsa: gli sembrava che lo aiutasse a capire e dare senso e luce alle vie, che si schiudevano davanti a lui. La bottega era chiusa, non era stata mai più affittata. Guardò attraverso le due feritoie (cm. 10 x 25) praticate sulla saracinesca dieci anni prima, perché i due pazzi potessero respirar anche di notte. Lo assalì, all'istante, una violenta folata di ricordi. Andò via quasi fuggendo. Aveva appuntamento con il medico, il compagno Alfonso Faiella, che il giorno prima aveva visitato Mara e aveva trovato furtivamente il tempo di dirgli che voleva parlargli da solo. Gli disse che un'emicrania costante e in forma acuta, come quella di cui soffriva la moglie, avrebbe ucciso un toro, che doveva immediatamente smettere di lavorare "con quelle maledette perle" ma che, soprattutto, doveva uscire subito ("oggi, non domani") dalla vita di tribolazioni, di paure e di stenti che la stava distruggendo, perché una vera e propria sindrome psicotica, la minacciava ormai molto da vicino. Il buon Faiella attese invano, per alcuni minuti, una risposta. Franco aveva la gola come serrata da mani scheletriche, esangui, più dure del ferro, la bocca contratta e gli occhi fissi sul medico, come si accingesse a contestare violentemente la sua sentenza. Ne era in realtà terrorizzato e avrebbe urlato se avesse provato a parlare. Chiuse l'ufficio e s'incamminò per via Toledo, deciso a raggiungere l'Angiporto Galleria, ove risiedeva, a quel tempo, la redazione napoletana de "l'Unità". Renzo La Piccirella gli aveva più volte prospettato la possibilità concreta di assumerlo a l'Unità". Non si faceva soverchie illusioni, sapeva benissimo che anche se assunto, non avrebbe smessa la convivenza con la povertà. Ricordava chiaramente che Renzo, la sua compagna e i suoi due figlioletti, avevano abitato ai Camaldoli, quando questi erano solo boschi e montagna, in una casa popolare priva di acqua e di luce, ove pile di libri sostituivano i mobili, dalle sedie, al comodino, al tavolo, che si distingueva dagli altri arredi per un'asse (di legno, finalmente), appoggiata di traverso sulle erudite gambe del tavolo da pranzo. Viveva così, un apprezzato medico, specialista neurologo, che aveva rinunciato alla professione che pure amava, per dedicarsi interamente al Partito che incarnava i suoi ideali. Nessuna speranza quindi, di un miglioramento radicale della situazione finanziaria della sua famiglia, ma era almeno sicura la data di uno straccio di stipendio, per misero che fosse. E sarebbe rimasto saldamente sul fronte di battaglia fra sfruttatori e prepotenti da una parte e lavoratori subalterni, proni e disperati dall'altra. Non era, questa, una buona risposta al tarlo che gli rodeva l'anima, dopo l'allarme di Faiella, e fin dalle prime battute dello sciagurato colloquio con Hermann? Nessuna sfilacciatura, nemmeno ai lembi, della sua coscienza politica; non esisteva alcun supporto malfermo, nella sua convinzione che vivere in ginocchio è uguale a morire. L'esigenza ormai improcrastinabile era quella di uno stipendio, quale che fosse, non subordinato e aleatorio, non collegato all'evenienza, al buon esito estremamente sporadico della raccolta dei bollini. Franco non aveva mai dimenticato la recidivante distrazione di Del Re, giovane operaio dell'AGIP, che venutogli incontro al cancello, mentre in preda al freddo e al vento (era la vigilia di Natale) si avviava a trasformarsi in un ghiacciolo, gli consegnò l'importo dei bollini mensili per tutto l'anno ("così sto tranquillo", disse) e alla richiesta della tessera, perché vi si apponessero i simboli delle quote pagate, rispose che l'aveva dimenticata nell'armadietto, che ci avrebbe pensato lui ad attaccarli. Tutto regolare, se poi Franco non avesse rilevato nell'elenco degli iscritti, che "per tutto l'anno" il compagno Del Re aveva già pagato due volte. Al momento si sentì trafitto da un pungolo, annichilito, stracciato: Del Re aveva avuto pena, si era commosso alla vista di quell'uomo che, infreddolito, tentava di rabberciare qualche soldo da portare a casa, alla vigilia di Natale. Si raggomitolò sulla sedia, nel suo ufficio, e non trovava la forza di alzarsi, per andarsene a casa. Forse non era un paradosso l'aforisma di Georg Hegel, che un secolo e mezzo prima, aveva detto che la miseria rimpicciolisce la statura morale dell'uomo e anche quella fisica. Gli venne incontro Giulio Formato, un compagno sempre disponibile; afflitto da reiterate e ostinate sofferenze fisiche, ma era infelice solo quando non era in grado di dare una mano a chi ne aveva bisogno. Refrattario al virus del servilismo che infettava, all'epoca, l'intero quadro dirigente intermedio del partito, lo univa a Franco un profondo sentimento di stima e di amicizia, nato dal niente, da semplici e rapidi incontri alla Palazzina rossa della Federazione della Stampa o da qualche parola sommessamente scambiatasi, nel corso di riunioni di Partito. Gli disse che La Piccirella era già partito per Roma, chiamato dalla Redazione Centrale de l'Unità, secondo la decisione approvata dal Comitato Federale. In quella riunione si opposero al trasferimento Franco, Egizio Sandomenico e qualche altro. I più lamentarono che a Napoli si formavano i quadri dirigenti più validi, e poi Roma li requisiva, e che l'andazzo doveva finire. Franco chiese di conoscere i veri motivi del trasferimento di Renzo La Piccirella. Ma gli "Sciamani" della piccola Siberia napoletana, come da logoro copione, ebbero la meglio. Giulio gli disse anche che momentaneamente Francesca Spada, l'irriducibile compagna di Renzo sempre più odiata dal partito, era rimasta a Napoli e lavorava ancora in redazione. Al posto del reprobo fatto sgombrare dalla città, si era già insediato Aldo De Jaco, un funzionario della Federazione che mai ad alcuno era sembrato un'aquila del giornalismo, ma che aveva dalla sua la fedeltà incondizionata ai centri di potere nel partito. Alto, leggermente incurvato, macrocefalo, taciturno. E la bocca piccola, un'esaltazione fìsica della propria scelta: introversione e remissività silenziosa. Ora per Franco, il discorso della sua assunzione all'Unità era definitivamente chiuso. La scelta di De Jaco per la sostituzione di Renzo era l'espressione della ferma decisione di "ripulire" il covo di eretici, che si era instaurato nella redazione napoletana de l'Unità". E in gran fretta, vista la inconsueta rapidità, con cui era stato praticamente estromesso Renzo. Prima che si lasciassero, Giulio volle sapere da Franco perché avrebbe voluto vedere Renzo, disse di avere l'impressione che si trattava di cosa molto importante. E Franco, sia pure sommariamente, espose le gravi ragioni che lo avevano spinto a voler parlare con l'ex direttore. E capì subito che non avrebbe dovuto farlo: leggeva sul viso del compagno i segni dello sconforto, per quella speranza stroncata sul nascere e per l'assurda lotta di sopravvivenza cui egli era costretto. Ma gli disse di non disperare "Chissà,” soggiunse “che il diavolo, nel tempo, non si mostri meno nero di come lo si dipinge, che De Jaco non si riveli meno Breznev di quello che crediamo e io non possa parlargliene..." "Che magari non abbia bevuto qualche stilla del nettare di Tina D'Avenio" replicò Franco sorridendo mestamente, per accontentare l'amico. E si lasciarono all'insegna della speranza falsa, inventata insieme dall'uno per l'altro. Tina D'Avenio era la moglie di De Jaco: una donna splendida, dolce, vitale come una rondine nel pieno della primavera, permeata di gioia di vivere e di agire, di lottare, di credere nel futuro felice di un mondo più giusto; piccola di statura, saltellava tra le varie trincee dello schieramento comunista, dall'UDI (Unione Donne Italiane) ai Partigiani della Pace, al movimento sindacale ovunque iniettando nuova linfa nelle piaghe da decubito di burocrati e accidiosi. Si legò presto per profonda amicizia con Francesca Spada (il problema per il marito in redazione), ma carissima amica lo era per tutti. Ella, più che una speranza, fu un’apparizione: presto si spense la luce, che con lei aveva solcato il cielo grigio della sinistra napoletana; incredibilmente morì. Erano trascorsi una decina di giorni dalla delusione che Franco andò ad incassare nella redazione de “l’Unità”, quando Mara gli disse che aveva deciso di abbandonare il lavoro delle perle. Egli non le disse che nutriva forti dubbi sulla spontaneità della sua decisione. Sapeva che Biagino si sarebbe rifiutato di darle altro lavoro, l’avrebbe esortata a riposarsi e ad accettare senza falsi pudori, come tra fratelli, quello che lui le avrebbe “prestato” per aiutare la barca. Ma la “superba”, come la chiamavano in famiglia fin da piccola, non accettò alcun aiuto e obbiettivamente non aveva torto: come si può accettare di farsi aiutare da chi può farlo solo perché, ogni giorno, si avvinghia in un corpo a corpo con la propria sventura e riesce a darle scacco lambendo i limiti dell’impossibile? Ma aggiunse, prima che Franco completasse un profondo sospiro di sollievo, e come se lui avesse accolto la notizia con rammarico “Io però ho già risolto il problema”. E sorridendo, con espressione malcelata di sfida, non gli rispose nemmeno quando tentò di spiegarle che il problema più grosso era la sua ostinazione a continuare quel lavoro, per lei micidiale, ma continuò imperterrita “Il problema lo risolviamo con la nuova legge che obbliga agli iscritti alla Camera di Commercio a possedere almeno la licenza media”. Franco non ci capiva un accidente, e per qualche istante si domandò se la predizione paventata dall’amico medico non fosse gia attuale. Ella proseguì “Ho già fatto esporre nei negozi della zona, da via Sapienza fino a via Duomo, l'avviso che do lezioni private, con corsi accelerati per l'esame di licenza media e siccome è da prevedersi che i cacciatori di lezioni private ora diventeranno un esercito, ho anche aggiunto di essere disposta ad andare a domicilio. E stamattina si sono già presentati i primi due allievi, un commerciante di olive e un rappresentante di cosmetici. Che ne dici?" Franco provava ammirazione e stupore e si chiedeva da dove traesse tanto spirito di iniziativa e tanta operosità, cosi pesantemente segnata com’era dalle sofferenze, ma tutti e due erano sempre stati alieni dal puntualizzare con parole melliflue o gesti sdolcinati sia il profondo amore che li univa, che reciproci elogi e battimani e sorridendo le disse "E come farai ad andare in giro, in pieno inverno, con le scarpe scassate?" Ma lei, ancora sprigionando energia e ottimismo ma soprattutto contenta, come lui non la vedeva da tempo immemorabile, rispose subito "Eh no, sei disinformato. Le lezioni private, è consuetudine collaudata, si pagano in anticipo. Vedi? E gli mostrò l'incasso che aveva realizzato la mattina con i due primi allievi. Oltre alla preoccupazione di Franco per l'eccessivo impegno, che presumibilmente Mara avrebbe profuso nella nuova attività, non sembrava si profilassero altri problemi. Anche perché Annalisa, che ormai aveva otto anni e si rivelava più matura di quanto non fosse immaginabile per la sua età, era pienamente autonoma e già aiutava la madre nelle faccende domestiche, "faceva la cucina", come si dice a Napoli, per indicare l’incresciosa incombenza di lavare piatti e stoviglie dopo il pranzo, svolgeva gli altri "servizi" e per la scuola, per come primeggiava, era del tutto impensabile che avesse bisogno di aiuto. Una ragazzina insomma diligente e volenterosa, anche se inopinatamente un giorno guardandosi impietosita le mani, declamò così la sua prima composizione letteraria in vernacolo "Eh sì! N'hanne fatte fatiche sti mmane!" Una chiara richiesta di prepensionamento, che non aveva proprio alcuna possibilità d'essere accolta! In realtà fu la stessa postulante autrice a chiarire che il componimento non era autobiografico, ma solo un'interpretazione accorata del duro ruolo della donna di casa. Mostrava profonda sensibilità per chiunque fosse meno fortunato di lei. Anche se lei stessa non era poi stata baciata in fronte con troppo amore dalla buona sorte, visto dove le era toccato di nascere. Franco diceva spesso che, più che una bambina, era un grosso cuore che se ne andava in giro su due gambette di sostegno. Ma forse la definizione non trattava con molti riguardi il raziocinio e l'intelligenza della fìglioletta. Già a tre o quattro anni appariva straordinariamente contenta se poteva portare in giro per mano un suo cuginetto, gravemente spastico, che colmava di carezze e di bacetti. Mara e Franco provavano oltre a tanto innegabile orgoglio anche qualche preoccupazione "Se crescendo non cambia, ed è difficile augurarsi che cambi, chissà quanto soffrirà nella vita!" Intanto, rivelando insospettate attitudini all'insegnamento, Mara dovette affrontare un incremento degli aspiranti non più adeguato alle sue possibilità: gli allievi pubblicizzavano spontaneamente il buon insegnamento e l'impegno della loro insegnante e lei non volle saperne di ridurre "la scolaresca". Si limitò soltanto a stabilire, per i nuovi arrivati, che fossero loro a venire a casa sua per le lezioni. Ma la fatica rimaneva estenuante e presto si ripresentarono emicrania ed esaurimento. Aveva, a sostegno delle sue ragioni, l'innegabile mutamento della situazione economica familiare (televisore, frigo, estinzione dei debiti contratti in passato) ma non voleva capire che non esistevano argomenti che suffragassero la validità della scelta di un nuovo declino della sua salute. Presto anche per Franco cambiò qualcosa. Più di qualcosa. Fu chiamato, inaspettatamente, a dirigere, insieme al compagno Antonio Santoro, la FILTEA (lavoratori tessili e abbigliamento). Il suo compagno era ex operaio delle Manifatture Cotoniere Meridionali, forse non molto politicizzato ma tanto spontaneo, aperto, leale, che era proprio difficile non andare d'accordo con lui. E poi era innegabilmente simpatico e gioviale: avrebbe efficacemente funzionato da contrappeso alla incipiente seriosità e a qualche punta di ricorrente mestizia, che non sempre Franco riusciva a nascondere. Franco fu sempre persuaso che Giulio Formato avesse avuto una parte di rilievo nella vicenda. Quando dovette prendere atto, che il nettare copiosamente disponibile in famiglia nemmeno lambiva l'epidermide di Aldo De Jaco. Giulio doveva avere intrapreso altre strade, per porre fine ai patimenti di Franco e della sua famiglia. Quando Franco glielo chiese, negò con palese disagio e lo pregò di cambiare discorso. Era così, Giulio Formato: quando poteva dare una mano, compiva soltanto "un atto dovuto", non andava nemmeno commentato e meno ancora ascritto a suo merito. È certo che Carlo Fermariello, che fu l'artefice dello spostamento di Franco alla FILTEA, quando dopo cinque anni lo chiamerà come vedremo più avanti, mentre annasperà in acque limacciose, gli dirà "Non è la prima volta che affronti situazioni assurde e non ne parli a nessuno. Ricordati che ci sto pure io.” A quale altra volta si riferiva? Non c'è n'erano altre, oltre quella in cui fu costretto, dalle circostanze, a parlarne a Giulio Formato. Carlo Fermariello non era "ingraiano", come era ormai classificato Franco senza appello, secondo l'inveterata prassi della etichettatura, che mirava ad inficiare sul nascere le opinioni dei dissenzienti ("fazioso", "settario", "frazionista", “estremista" "operaista", etc.) Fermariello era dalla parte di chi, secondo il suo convincimento personale, stava nel giusto. Era quindi difficile collocarlo in un'area recintata, che l'avrebbe indotto alla cristallizzazione di idee e opinioni. E poi era, soprattutto, troppo onesto per accettare le comode scorciatoie del pregiudizio. Per essere l'indomabile Consigliere Comunale di opposizione, che il pubblico italiano e internazionale ammirò nel film di Rosi "Le mani sulla città", non dovette davvero faticare molto per calarsi nel ruolo. Per Franco, ad onta di ogni rosea previsione, il cambiamento fu molto difficile. Anche se i chilometri che lo separavano fisicamente dalla sua "patria d'origine”, la raffineria, restavano invariati, avvertiva che il nuovo lavoro (che già immaginava intenso e non facile), radicalmente diverso per problematiche, lo avrebbe inevitabilmente trascinato verso interessi e culture nuovi, che avrebbero annebbiato il ricordo dei suoi primi passi nel campo cosparso di ordigni più o meno dissimulati, della lotta sindacale. Sapeva che per una buona conduzione delle lotte era anzitutto necessario instaurare un rapporto umano con le maestranze, basato sulla fiducia e forse anche sulla simpatia, che in raffineria, si era ritrovato bello e pronto fra le mani, senza nemmeno averlo cercato. Credeva fermamente nella necessità del forte legame fra le lotte e l'opinione pubblica. E di qui derivava l'obbligo di portare sempre nelle piazze e nelle strade della città la manifestazione della legittima protesta operaia. E le fabbriche dell'abbigliamento, decentrate in massima parte dalla “zona industriale", dai quartieri "rossi" di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli, collocate quasi imprevedibilmente tra edifici e rioni residenziali della piccola e media borghesia, a volte dove meno ci si aspettava che potesse esistere una fabbrica, avrebbero trovato uno scenario non sicuramente accogliente ed ospitale. D'altra parte non gli sfuggiva la validità politica del rovesciamento della tendenza e l'avvio di un rapporto nuovo fra i diversi ceti sociali di quei quartieri, a volte già nei fatti accomunati dagli stessi interessi, anche se non consapevolmente. Inoltre, il momento politico non presentava sintomi di attenuazione, della ferocia antioperaia degli sgherri di Scelba. Erano i giorni dello scellerato tentativo di Tambroni di spostare a destra l'equilibrio politico del Paese, con il soccorso dei fascisti dell'MSI. E Scelba fu richiamato in servizio dalla Sicilia dove, da sette anni, stava riposando giulivo, sugli allori conquistati sul campo negli anni '50: nove morti ammazzati nelle campagne del sud dopo la strage di Melissa. Sei morti e cinquanta feriti a Modena tra gli operai scesi in piazza contro la serrata delle "Fonderie Riunite". Due morti e settecentosettantatre feriti, di cui almeno dieci gravissimi, nella sola provincia di Bologna (più settemilacinquecentotrenta operai comunisti e socialisti condannati al carcere, a volte per lunghissimi periodi) e in tutta Italia settantacinquemila lavoratori licenziati per rappresaglia politica e antisindacale. Curriculum di tutto rispetto quindi, quello del killer oculatamente richiamato a dirigere il Ministero degli Interni, al fine di imporre lo slittamento verso la destra fascista. Del resto era noto, oggi è storia, che l'ambasciatrice statunitense Clare Boothe Luce incontrando a Roma nel febbraio del ‘54 l'amministratore della FIAT Vittorio Valletta aveva espresso le sue accorate doglianze "Con tutti i miliardi di dollari che vi abbiamo mandato, non pensavo proprio di trovare in Italia ancora tanti comunisti”. Come dire "Perché non li avete ammazzati tutti?" E nel tentativo dei democristiani di cancellare la democrazia nel nostro Paese riportando i fascisti al governo, Scelba e i suoi mandanti fecero proprio il loro meglio per lenire la collera dell'ambasciatrice americana: un morto e cinque feriti a Licata, un numero "imprecisato" di morti e feriti a Catania e a Palermo, sei morti e diciannove feriti a Reggio Emilia, morti e feriti a Genova, ove furono in prima linea i ragazzi con le famose magliette a strisce, che diventarono l'emblema della rivolta popolare. E migliaia di innocenti in galera, a marcire per mesi e anni. In questo contesto, bisognava portare fuori dal guscio la lotta contro il sottosalario e le sistematiche violazioni di tutte le leggi, i contratti e i regolamenti, che da troppo tempo imperversavano impuniti nelle fabbriche di abbigliamento e nei calzaturifici di Napoli. Intanto, dopo lo sprofondamento nella vergogna del governo Tambroni, in alto loco si passò al primo governo di centrosinistra, con i socialisti che garantivano a DC e alleati tradizionali (Socialdemocratici, Repubblicani e Liberali) il loro appoggio esterno. Un evento certamente infelice per l'unità della sinistra, specie per i sindacati, una faccenda che comunque la si voltasse e in qualsiasi salsa la si volesse cuocere, aveva un dato prevalente che era difficile per chiunque contestare: una parte della sinistra abbracciava la classe dirigente, che col sangue operaio ancora caldo fatto versare nelle strade e nelle campagne, aveva in pratica irrorato e rinverdito i terreni del suo potere. A via della Loggia aleggiava, nelle già asettiche stanze, una sorta di silenzio oscillante fra l'imbarazzo e l'ambiguità. E pendeva inevaso il quesito di fondo: con i comunisti e i socialisti uniti nei sindacati e il PSI che condiziona il governo, noi CGIL abbiamo lanciato un prezioso appiglio, sul muro senza papille della fortezza nemica, oppure da lì hanno incuneato, nello schieramento unitario del sindacato, un meccanismo frenante di inimmaginabile portata? Ma Franco rifiutò di attardarsi con il nuovo rovello: le risposte sarebbero andate connotandosi in corso d'opera. E, del resto, non riteneva nemmeno di doversene interessare più di tanto relativamente al suo compito nel Sindacato. E partì per la sua strada. Santoro, il compagno che era al suo fianco, era socialista, ma proprio non era tormentato dalla vocazione. Così sembrava. Franco, dopo una difficile indagine, ostacolata dalla accentuata frammentarietà del settore, identificò quindici aziende di abbigliamento estese proprio da un capo all'altro della città e con qualche importante insenatura nell'entroterra: da San Giovanni a Teduccio fino alla collina del Vomero. Cominciarono con la "Confezione Popoli" a San Giovanni a Teduccio, l'unica ubicata nella zona industriale. Fu il battesimo del fuoco, sia per i due dirigenti, che per le ragazze della fabbrica. Santoro, infatti, ex delle Manifatture Cotoniere Meridionali, non aveva mai reciso il cordone ombelicale che lo legava al grande stabilimento, peraltro in perenne crisi, e sempre sul punto di smobilitare e non aveva mai esteso il suo interesse alle fabbriche di abbigliamento. Né avrebbe avuto tempo e mezzi per farlo. Si cominciò avvicinando le ragazze al cancello della fabbrica, un centinaio di operaie, più una decina di operai. L'impatto non fu in massima parte difficile: abitavano tutte nello stesso quartiere, da sempre roccaforte rossa. Anche se non mancava chi, alla parola "sciopero", arrossiva come avesse sentito una esecranda trivialità. Tutte erano unite da due contraddittori sentimenti: la volontà di strappare quanto loro spettante, salario e condizioni normative, di cui molte non sospettavano l'esistenza e la paura del padrone. Franco fissò l'assemblea delle lavoratrici alla Camera del Lavoro di San Giovanni a Teduccio, promettendo che si sarebbe proceduto alla votazione: si sarebbe fatto lo sciopero solo se approvato dalla maggioranza. Intanto, in attesa della riunione fissata con debito anticipo, le maestranze furono inondate di volantini sindacali, in cui si esponeva per filo e per segno tutto quanto il padrone sottraeva alle sue dipendenti, quello che "rubava" dalle loro deperite buste paga, i diritti e le norme che violava giorno per giorno: un elenco destinato a impressionare profondamente. E a irritare, perché Franco non dimenticava mai di concludere, con qualche cenno ai milioni che il datore di lavoro bruciava quasi ogni notte, sull'altare del diletto e del vizio. Lo aveva saputo nel corso dell'indagine conoscitiva. Bisognava suscitare la rabbia, il risentimento capace di demolire l'immagine confusa del padrone con i muscoli di acciaio, di ridimensionare il padreterno inattaccabile, riducendolo a livello di un ometto avvinto dal vizio del gioco e incapace di liberarsene. Anche perché quelli che lasciava sul tavolo da gioco, erano probabilmente i loro soldi. E bisognava vincere la paura, che già usciva più vaga ed evanescente, dal picconaggio operato sulla statura dell'uomo. Franco tentava di ottenerlo con un discorso sulla dignità, che riscuoteva sempre larghi consensi. Quelle ragazze avevano fierezza, che anni di sottomissione avevano soltanto mortificata e repressa, ma mai usurpata e nemmeno scalfita. Lui lo leggeva nei loro occhi, che a quel punto diventavano torvi, minacciosi, e fissi nel vuoto, come immaginassero al loro cospetto la sagoma del padrone "che non le rispettava", che le trattava come "stracci da piedi", che non le riteneva "nemmeno persone" ma solo limoni da spremere, "animali all'aratro" per la semina del suo profitto. E alla fine, quando gli occhi delle operaie tornavano belli e sorridenti nell'applauso di rito, Franco capiva che ce l'aveva fatta. Inviò a Popoli la formale richiesta di un incontro in sede dell'Ufficio Regionale del Lavoro e a questi la sollecitazione a convocare le parti. Intanto ebbe luogo l'Assemblea a San Giovanni a Teduccio e si mise ai voti la proposta di indire lo sciopero, nel caso che il padrone non avesse accettato l'incontro. La proposta fu approvata all'unanimità, neanche un'astensione. Ma fu molto importante anche quanto si riuscì a realizzare sul piano organizzativo. Franco era sempre molto preoccupato dal pericolo incombente, specialmente quando l'azione ha luogo fra ragazze molto giovani e assolutamente inesperte, della personalizzazione sia della lotta, che dell'immagine del Sindacato. E riuscì, dopo l'iscrizione al Sindacato di circa l'ottanta per cento delle operaie, a far eleggere un Comitato Sindacale di Agitazione fra le ragazze stesse, con pieni poteri sulle decisioni da adottare caso per caso. Popoli, in risposta alla convocazione dell'Ufficio, incaricato di arbitrare la vertenza, chiese il rinvio sine die perché “molto impegnato”. Era chiaro: aveva cura di lasciare lo spiraglio aperto per rientrare all'occorrenza, cioè se conveniente, e sedersi al tavolo della trattativa. Intanto, riteneva proficuo aspettare e misurare la reale entità della protesta. A questo punto era urgente una risposta dura, che troncasse subito ogni sua speranza e che ribaltasse il rapporto di forze, all'interno della fabbrica, definitivamente. Comitato Sindacale di Agitazione e Sindacato, furono subito d'accordo: due giorni di sciopero immediato e un calendario di astensioni "a singhiozzo" per tutto il mese: manifesti di denuncia, con nome e cognome dell'imprenditore a caratteri cubitali sui muri del quartiere (Franco si riservava di farli affiggere, nel prosieguo, anche nel rione "bene" ove Popoli abitava) e manifestazione pubblica con comizio a conclusione della prima settimana di lotta. Franco dovette poi stentare per bocciare la proposta di un gruppetto di operaie che volevano lo sciopero ad oltranza "Non rientreremo nella fabbrica se non avremo le nostre spettanze". "Lo sciopero ad oltranza serve al padrone” sosteneva Franco, “la disparità dei mezzi in campo, delle rispettive possibilità di resistenza, la sicura graduale resa "a grappoli" giorno dopo giorno, a cominciare dalle più "bisognose”. Si convinsero. Ma Franco sapeva che quel gruppetto di "ardimentose", aveva denunciato un sintomo preoccupante: avevano paura di guardare in faccia il padrone, nel corso della lotta. Bisognava prevenire la malattia e il pericolo di contagio. Alle ore sei del mattino successivo, Franco, Santoro e un'operaia che conosceva tutte le ragazze per nome e cognome, si presentarono all'angolo della strada in un'auto noleggiata, munita di impianto radio microfono e altoparlante. Alle sette, al cancello della fabbrica, c’era un gruppo di comunisti e socialisti, studenti ed operai, pronti ad incoraggiare le ragazze che fossero apparse ancora esitanti. Alle sette e mezzo, sul marciapiede di fronte all'ingresso, era ammassata la quasi totalità della maestranza. I Carabinieri, con l’elmetto e il fucile a tracolla, sostavano con ostentata riservatezza a circa cinquanta metri di distanza. Non erano in molti. Ma Franco si preoccupava dell'effetto che quegli uomini armati potevano provocare nell'animo in apprensione delle ragazze che, in maggioranza, erano alla loro prima esperienza di lotta e fra uno slogan e l'altro, trovò il tempo di invitare le ragazze ad un saluto riconoscente per "quei fedeli servitori dello Stato che, nostro malgrado, costringiamo a gravosi servizi per il mantenimento dell'ordine pubblico". Le ragazze proruppero in un fragoroso applauso, tutte rivolte verso i militari. Questi rimasero immobili, forse anche un po' imbarazzati, ma non era la loro reazione che interessava il dirigente sindacale. Contava che le operaie erano apparse subito risollevate ed ora facevano la "cucca" (lunga emissione corale e monocorde, di un urlo di scherno, largamente adottato a Napoli) ogni volta che Franco o Santoro pronunciavano dall'altoparlante il nome e cognome del loro datore di lavoro. Non mancò qualche sporadico e ininfluente cenno di cedimento. Ma quando la ragazza, a piccoli passi, approfittando di qualche attimo di distrazione delle compagne, cercava di guadagnare l'ingresso della fabbrica e il suo nome e cognome echeggiava assordante dall'altoparlante, sembrava colpita da scossa ad alto voltaggio, sobbalzava con comicità involontaria esilarante e tornava di corsa fra le compagne che, ridendo divertite, applaudivano generosamente la pecorella ritrovata. Ma furono solo due, e la seconda giurò sull'anima della madre, che non aveva nessuna intenzione di disertare la lotta: voleva soltanto gustarsi la visione della fabbrica muta e deserta, un'ora dopo l'orario di inizio lavoro. Tutte e due "le traditore", come le chiamavano le ragazze più arrabbiate prima di fare la pace, il giorno prima, erano fra le ostinate "guerriere" che peroravano lo sciopero ad oltranza. Eccellenti affabulatori si rivelarono presto, i giovani accorsi a dare una mano. Ciascuno radunava un gruppetto di operaie, che con palese attenzione ascoltavano il suo discorso. Ma, almeno da lontano, proprio non sembravano avvinte da tematiche sindacali: la verve oratoria era spesso interrotta infatti da sonore e unanimi risate delle ascoltatrici. La vertenza si concluse dopo circa dieci giorni; si ottennero miglioramenti salariali e normativi di innegabile rilevanza. Come l'impegno del datore di lavoro a discutere con il Comitato Sindacale all'interno della fabbrica ogni problema che fosse potuto insorgere inerente la produzione, le ore di lavoro straordinario da proporre e qualunque altro aspetto del rapporto azienda-lavoratori. Quando le operaie furono uscite dalla Camera del Lavoro di San Giovanni a Teduccio, alla fine dell’ultima assemblea relativa alla lotta ormai conclusa, Franco chiese al compagno Russomanno, responsabile della Sede, notizie di Purpetiello che non aveva mai incontrato dall'inizio della vertenza. E Russomanno spiegò. Furono assunti, alla dirette dipendenze della raffineria, due operai della sua ditta appaltatrice, entrambi con meno anzianità di servizio di lui (assunti da meno di un anno) ma che, documenti tessere di partito e lettere alla mano, non erano comunisti e non lo erano mai stati. Lui da dieci anni in ditta, e in lista di attesa, con maggior carico di famiglia, e con cento domande di assunzione, veniva ancora una volta scartato. Allora Purpetiello si tolse di dosso la tuta, uguale a quella dei dipendenti della raffineria, e che era ormai la sua pelle, la lasciò cadere nel rigagnolo di acqua marcia che costeggiava quel lato dello stabilimento, e se ne andò a passi svelti. Quando i compagni si accorsero che piangeva vergognoso, senza singhiozzi, e che si asciugava di continuo la faccia con il dorso delle mani, sporche e deformate dalla fatica, preferirono lasciarlo solo. E subito in quello stesso giorno, ebbe inizio il calvario senza ritorno: volle dissolvere, nelle munifiche ebbrezze dell'alcool, l’inumano dolore e dopo poco più di un anno, anche la sua vita. Capitolo sedici. Il sacrificio Il ricordo del piccolo uomo che, affogato dalle rovine del suo sogno, scelse di togliersi di dosso la pelle e non la tessera del suo partito comunista, diventava per Franco bruciante quando, riandando con la mente al dramma umano e politico di Hermann, gli sembrava che questi avesse sollecitato condivisione e anche disponibilità, a seguire il suo tragitto e la sua resa. Pure se amava e lo commuovevano i versi di Pablo Neruda, rivolti alla sua donna "In te vacillo, cado / e m'alzo ardendo. / Tra tutti gli esseri/ hai il diritto/ di vedermi debole", egli non era mai riuscito a farne un esempio. E a Mara non raccontava mai quello che gli accadeva intorno e aveva la forza di sospingerlo nei vicoli oscuri degli interrogativi senza risposta. Anche se sapeva che ciò gli avrebbe precluso ogni possibile aiuto della sua amata, quando le apprensioni, a volte vaghi segnali di stanchezza e qualche dubbio minacciavano da vicino la sua fibra emotiva. Gli toccava vedersela contro le "piccole crepe che intaccavano solo l’intonaco" (così diceva), a tu per tu con il suo folletto personale, sempre più saccente e arrogante. Dai tempi di Pollena non gli aveva più permesso d'intromettersi nelle sue faccende e lo avrebbe definitivamente licenziato, se avesse potuto confidarsi con Mara. Ma ella non era in condizione di porgergli ascolto senza vedersi moltiplicare le sue pene, le sue ansie per la vita "impossibile" cui era costretto suo marito, che a volte tornava dopo mezzanotte, anche all'una, e alle sei era già ai cancelli delle fabbriche che si preparavano allo sciopero. Le lezioni private erano finite e la mancanza di impegni stringenti la portavano ad accentuare la sua partecipazione sofferta agli stenti del suo compagno. E ai rischi: ella conservava integro il ricordo delle latitanze notturne di Franco ai tempi della "legge truffa" e del carcere, quei giorni che le sembrarono anni, in cui se riusciva ad addormentarsi per qualche ora, si svegliava piangendo. Quando le unghiate erano più profonde e i lividi non si potevano nascondere dietro il sorriso inventato, egli ''confessava"di sentirsi male e andava a nascondersi nel letto. Come quel giorno della settimana di Pasqua del 1961. Gli aveva telefonato Giulio Formato per mantenere la promessa di avvertirlo, nel caso che Renzo La Piccirella fosse venuto a Napoli per qualche giorno. Ma soggiunse "Però non so se è il caso". E poi frasi smozzicate, incomprensibili, lunghe pause, fino a quando non riuscì a dire con voce flebile e tutto d'un fiato "È venuto perché Francesca Spada si è uccisa”. Franco non andò da Renzo. Non volle vederlo. Gli avevano detto che era distrutto, che piangeva di un pianto infinito: "Sono ore che sta piangendo”. Forse quegli occhi piccoli e freddi ora permettevano di leggere al di là, oltre il fervore e l’amore per il mondo, si scioglievano e davano fondo al dolore cumulato in venti anni di passione, di idealità frustrate, spesso insultate nell'angustia della sua stessa trincea. Di quelli, non andò nessuno. Da lì, venne solo Abdon Alinovi. Ma non era di quelli. E cosa avrebbero potuto dirgli? "Coraggio, Renzo, ora farai una bella carriera”? Si disse che Francesca, il giorno prima del rito sacrificale, aveva inviata a suo marito una lettera, con una poesia di Rilke ispirata ad Alcesti. Franco ricordava vagamente il personaggio mitologico e non sapeva niente delle gesta, che potevano aver commosso il grande poeta austriaco. Si avvicinò trepidante alla sua vecchia enciclopedia e, alla voce Alcesti, lesse testualmente: "Alcesti o Alceste, figlia di Pelia e moglie del re di Fere Admeto, si votò alla morte per salvare il marito”. Capitolo diciassette. La rivolta Si scatenò la protesta delle operaie, a volte giovanissime, delle fabbriche di confezioni in serie. Il richiamo sindacale risuonava fra le maestranze solo come segnale, magari assai tardivo. Tutto il resto era già lì, fra i banconi delle confezioniste e tra i primordiali macchinari, e il puzzo dei collanti altamente tossici nei calzaturifici. Questi erano ammucchiati nel recinto Materdei-Vergini-Sanità-Fontanelle ma fu necessario scoprirli, scovarli negli interrati e negli scantinati, dell'ampia fascia territoriale. Si trattò di convogliare nella giusta direzione, rabbia e rancori accumulati per anni, e compressi dalla stretta di imprenditori rozzi.Rancori allo stato brado, dal punto di vista sindacale. Gente capace di reagire, alle richieste del sindacato, urlando "Io in casa mia faccio quello che voglio”. La rivolta esplose prima fra le confezioniste e inondò le strade della città. Furono scelte quindici fabbriche fra le più rappresentative del settore, dislocate in maniera estremamente disomogenea, da coinvolgere in pratica l'intero territorio cittadino e anche propaggini in grossi centri della provincia, come Ottaviano e Pompei. Lo scopo era quello di attrarre la presa di coscienza dell'intera popolazione su una realtà spesso del tutto sconosciuta. Divampava finalmente l'ansia di riscatto di migliaia di giovani donne mortificate da sempre, da condizioni di lavoro inimmaginabili. Impudico lavoro nero, che aveva attirato anche affaristi e industrialotti stranieri alla ricerca proficua di bassissimi costi della mano d'opera. Come oggi accade inversamente nei Balcani e nell'Europa dell'est. E non provenivano solo da paesi evoluti, come nel caso della Van Raalte di Agnano, e da capitali olandesi e americani ma sbarcavano a Napoli perfino dalla Grecia, esempio la "Confezioni Italia" di Resina, l'attuale Ercolano. Una realtà di cui si sarebbe dovuta sentire investita l'intera sinistra napoletana, e che invece circondava l'azione di quel sindacato di pilatesco e impassibile silenzio. Giulio Formato aveva instaurato su l'Unità una normale rubrica quotidiana, intitolata "Le lotte dell'abbigliamento" e ogni giorno segnalava nuove fabbriche in lotta e registrava i risultati conseguiti, i successi che le giovani combattenti strappavano all’avidità di un padronato decisamente anomalo, anche nella realtà squallida dello storico regime di sottosalario a Napoli. L'unico che appariva lieto d'incontrare Franco, era il brigadiere amico, in servizio per conto dell'Ufficio Politico, al portone della Camera del Lavoro. E la Questura sembrava essere l'unica istituzione interessata alle lotte del Sindacato diretto da Franco. Il buon poliziotto, infatti, non perdeva occasione per avvertire Franco di stare attento, poiché era da tempo nel mirino della Questura. E Franco, che non si spiegava i motivi dell'agitazione poliziesca nei suoi confronti, fu sul punto di ritenere che il brigadiere facesse un po' di millanteria o, peggio, che tentasse di intimidirlo magari per irrefutabile mandato altrui. Ma l'ottimistica congettura di Franco fu prontamente fugata ai cancelli della Lavanderia Industriale Papoff. Lì si era consolidata nel tempo una sorta di tacita amicizia con un sottufficiale di polizia del Commissariato Vasto Arenaccia. Egli era tenuto a presidiare il posto ogni volta che Franco vi si recava per distribuire i volantini del Sindacato tra le lavoratrici dell’impresa. Era un uomo sui quarant'anni, magro, biondo rossiccio, d'inverno sempre cautelato dallo stesso cappotto beige chiaro più lungo del dovuto, nelle cui tasche affondava, senza mai ritrarle, le mani presumibilmente infreddolite. Si scambiavano un sobrio e rispettoso saluto da lontano, senza mai parlarsi. Quel giorno, dopo essersi guardato intorno con circospezione, e accertandosi che era andata via l’ultima operaia, si avvicinò a Franco e gli disse "Ma dovete proprio farlo voi questo lavoro? Non avete un collaboratore, un aiutante?" E Franco, sorridendo rispose "Se mi ammalo, sì, c'è qualcuno che mi sostituisce, ma dato che sto abbastanza bene in salute, perché scusi?” “Signor Certaldo, non vi esponete troppo. Io vi stimo e vi rispetto. Ma io non sono nessuno. Voi mi capite? E vi raccomando, io non vi ho detto niente, io non so niente. Arrivederci”. "Visto da vicino, quel buonuomo, aveva stampato in faccia lo sconforto e la sofferenza, esiti di una cieca obbedienza protrattasi per decenni. Eppure gli rimaneva vivo uno spiraglio di autonomia di giudizio e di repulsa per il sopruso che di certo, da qualche parte si andava tramando in danno del sindacalista. Intanto, la massiccia adesione alle indicazioni di lotta consentì una vera strutturazione democratica del Sindacato. Ebbe luogo il primo Congresso Provinciale delle Lavoratrici dell'Abbigliamento. E si elessero, con regolari elezioni, lavoratrici e lavoratori alle cariche di responsabilità e di direzione collegiale del Sindacato. Fu la primavera del Sindacato. Attiviste e collaboratrici sbocciavano da tutte le fabbriche, che avevano avuta la esperienza della lotta. Vennero Annamaria Oliva, la quale licenziata dalla "Falco" volle dedicarsi al Sindacato a tempo pieno, riversando nell'attività non sempre facile, abnegazione e spirito di sacrificio imprevedibili in una giovanissima donna. Vennero Anna Coppola e Russomanno della "Bernard", Bianca ed Anna Errico della "Confezioni Italia" e dalla "Runa", dalla "MAVIN", dalla "Van Raalte", dalla “Confezioni Bruno", dalla "Papoff”, dalla "Manifatture Scognamiglio", un mare di forze giovani, consapevoli ed entusiaste al servizio dell'intera categoria, decise a "fargliela pagare agli sfruttatori" che avevano abusato della loro inesperienza e del loro stato di bisogno. E venne la volta dei calzaturieri, che travolsero in pochi giorni la resistenza di un padronato retrivo ed ostile ad ogni dialogo, a qualsiasi confronto che non fosse quello con i propri dipendenti, e quindi avvantaggiandosi ancora, come avevano fatto per anni, dello stato di necessità e del timore reverenziale che condizionavano i diretti subalterni. Ma i calzaturieri, peraltro in massima parte politicizzati, militanti di sinistra, furono instancabili, meritando il titolo di “metalmeccanici popolari" che la popolazione della zona volle loro attribuire. Emersero anche quadri dirigenti che divennero presto preziosi per l'organizzazione sindacale, come Antonio Russo (detto “botte è chiummo", ad onta delle sue arrabbiature, per il soprannome non gradito) che divenne poi parte integrante, a tempo pieno, della direzione del sindacato a livello provinciale. Inevitabilmente saltarono alcune "chianculelle" (bottegucce senza valore), obiettivamente impossibilitate a tenere il passo con i tempi nuovi, scanditi dalla presa di coscienza dei prestatori d'opera. Ma non mancarono imprenditori più duttili e avveduti che, finalmente, sollevarono le chiappe dalle sedie e partirono alla ricerca di nuovi mercati, ampliarono le fabbriche, ammodernarono gli impianti, spesso anche conferendo lustro all’industria calzaturiera italiana, sia in Italia che all'estero, come nel caso di Casucci e Scalera, Melluso, Ferragamo e altri. Un risvolto che confermava la precipua ambizione dell'azione sindacale che, attraverso la lotta per migliori salari e più umane condizioni di lavoro, si proponeva di sollecitare sviluppo e benessere per l'intera collettività. Franco era profondamente soddisfatto di avere scampato il pericolo di una deleteria personalizzazione della direzione del Sindacato Abbigliamento. Ora in realtà il Sindacato era diretto da cinque compagni con responsabilità e poteri pressoché analoghi, se non uguali: Antonio Santoro, Franco, Annamaria Oliva, Antonio Russo e Luigi Fonticelli. Quest'ultimo, battitore libero degli ambienti di partito e del Sindacato, fu assorbito per far fronte il meglio possibile all'intensa attività che sembrava essere in continua crescita. L'aspetto distinto del Fonticelli del resto (alto, snello, occhiali massicci e neri, con lenti leggermente affumicate, ricercatezza nell'abbigliamento personale) era utile nei rapporti con autorità cosiddette preposte e le pubbliche relazioni. Anche se, in realtà, le raffinate sembianze, si rivelavano poi contraddittorie con il marcato senso pratico, a volte utilitaristico, che animava il giovane collaboratore. Fu grazie a lui, comunque, e alle sue maniere garbate e suadenti, che il Sindacato, alla ricerca di maggiori spazi, riuscì a vincere le resistenze di una bisbetica e diffidente proprietaria, ottenendo in locazione un ampio appartamento in via Broggi 11, non lontano dalla Camera del Lavoro. Naturalmente la ribalta splendida delle lotte che aveva condotto il sindacato, non mancò di qualche zona d'ombra, di qualche buco nero: la strada del riscatto delle classi subalterne, e principalmente dei lavoratori, non è mai stata un rettilineo. È il caso della "Manifatture Corrado", una grossa fabbrica di camicie, che sorgeva improvvisamente e del tutto imprevedibile, in una costruzione uguale a tutti gli altri edifici per abitazioni che la circondavano da vicino, alle spalle di Sant’Arcangelo a Baiano, molto vicino al Duomo. In quello stabile, truccato da pacifico immobile per civili abitazioni, oltre cento ragazze erano tenute inchiodate alle macchine per l'intera giornata, con paghe che rasentavano l'elemosina. La produzione, peraltro, vantava anche non infondate pretese, e la camicia "Corrado" era reperibile nei negozi più rinomati, a prezzi fra i più esosi nel suo genere. Lì, la risposta alla ragazza, che timida e impaurita osava chiedere un piccolo aumento della propria paga, era sempre la stessa "La porta è aperta, sparisci, sei licenziata!" La mattina dello sciopero, Franco aveva appena letto su un foglio protocollo affisso al portone della fabbrica, che "la direzione” aveva deciso la serrata, per le assurde richieste del Sindacato, che miravano direttamente al fallimento della fabbrica e al licenziamento collettivo di tutte le lavoratrici. Non mancava un affettuoso invito alle operaie, di difendersi contro "chi vuole il vostro male, chi vuole distruggere la nostra fabbrica, che è sempre stata una grande famiglia”. Franco non dovette aspettare molto per incontrare le lavoratrici. Esse sbucarono dall'angolo dell'edificio, tutte unite e compatte, quasi militarmente inquadrate e, avanzando verso il sindacalista, urlavano cadenzando come allo stadio "Vattene via, qui non ti vogliamo! Vattene via, qui non ti vogliamo!" Quando giunsero a pochi metri da Franco, fu chiaro che erano incaricate anche di aggredirlo e malmenarlo. Egli dette un rapido sguardo intorno e s'accorse che, stranamente, quella volta non c'erano carabinieri né poliziotti a presidiare la zona dello sciopero e, come don Abbondio sull'erta, alla cui sommità c'erano i due bravi di don Rodrigo ad aspettarlo, s'incamminò di buona lena verso la folla minacciosa e, elevando le braccia verso il cielo, nel gesto messianico e ambiguo, che sa di resa e di ammonizione, disse a voce alta "Calma ragazze calma! Parliamone!" Come dicono sempre quelli, che stanno per buscarle di santa ragione. Ma giunsero provvidenzialmente in prima linea dopo essersi fatto largo a gomitate e a calcioni, e aver convinto Franco di essere le più facinorose, e le più decise a menare "mazzate", una decina di ragazze che intonarono con rabbia "Scio-pe-ro, Scio-pe-ro, Scio-pe-ro!” Affrontarono le altre, incuranti di essere numericamente soverchiate di molto (le avversarie erano almeno una cinquantina) e le spintonarono senza troppi complimenti, fino a metterle in fuga. Forse perché erano le più arrabbiate, e di rabbia propria e genuina, mentre quelle altre, che avevano opposto solo vaghi e deboli segni di resistenza, si arrabbiavano per conto terzi e a comando. Le salvatrici, erano undici in tutto, vollero accompagnare Franco (nel chiaro intento di fargli da scorta) fino alla sede del Sindacato. Per strada cercarono di mettere a punto, fra loro, il programma per fargliela pagare "a quelle zoccole", almeno a quelle cinque o sei che avevano guidata la sceneggiata. Franco fermò il gruppetto sugli scalini del Duomo e cercò di convincerle che quelle erano vittime di loro stesse, della tracotanza del padrone, che bisognava compatirle e comprenderle. E non perché fosse stato pervaso, improvvisamente, da spirito francescano, magari per la vicinanza della Cattedrale, ma perché era comunista. Come Nazim Hikmet, che scrisse "Con noi / è il contadino, /scarno, /come la sua magra mucca; no, non è con noi, /ma dentro /il nostro sangue /che ribolle". Ma la capacità di fare del proselitismo, quella mattina, non era decisamente fra le virtù del sindacalista, appena scampato al pestaggio, visto che al momento del commiato, nella sede sindacale, una di quelle ragazze, concluse così la lunga conversazione "Franco, dite quello che volete voi, io domani mattina, per quanto è vero Gesù Cristo, a chella nzevosa e Carmela, le faccio o’ strascino!” Per "nzevosa", leggasi "unta", sporca di grasso rancido; lo "strascino" è una forma di lotta libera, molto diffusa fra le popolane di Napoli, nei casi di risse multiple. Consiste nell' afferrare con forza, l'intera capigliatura dell'avversaria e farne il gancio di traino per trascinare la malcapitata riversa sul lastrico, a volte anche per lunghi tratti. Capitolo diciotto. Il nastro azzurro Quella sera Franco tornò a casa, senza la minima ansia di arrivarvi presto. Aveva percorso a piedi il lungo tratto di strada, che separava la stazione della Circumvesuviana, dal centro storico. E sarebbe stato felice, se il lungo nastro lucente, che la pioggia incipiente e i fiochi lampioni, stendevano sull'asfalto di via Duomo, avesse potuto srotolarsi all'infinito. Avrebbe voluto chissà quanto tempo ancora, per trovare le parole giuste per Mara. Le analisi, di cui aveva ritirato il referto in mattinata, non ammettevano dubbi. Negli ultimi tempi non erano stati sempre attentissimi, nell'osservanza dell'undicesimo comandamento: "Non amerai mai in stato di passione e d'abbandono, se non avrai molti soldi!". Come sempre, infine, scelse il metodo collaudato, ma sempre difficile, della recita d'assalto, teso a contenere e a scoraggiare l'offensiva nemica. - "Hai ritirato le analisi?” -, l'immediatezza della domanda (non aveva ancora chiuso la porta d'ingresso), non era certo incoraggiante, per l'infelice messaggero. Ma lui, che aveva nel tempo affinato la tattica della bugia pietosa, le baciò subito le guance e i capelli e le disse raggiante: - "Auguri, signora! Lei diventa madre per la seconda volta!" Da quel momento, ogni giorno dovevano affrontare discussioni amare, difficili, spesso ripetitive, sempre dolorose. Fu anche esaminata l'ipotesi dell'aborto procurato, che allora non era legale, ma si otteneva molto più facilmente. Vissero la possibilità con dolore e senza tentare di dissimularlo. L'apprensione, in certi momenti l'angoscia, per la nuova gravidanza, dieci anni dopo la prima, in una condizione economica nemmeno rapportabile a quella del tempo dell'impiego in Raffineria, li spinse fin dentro lo studio di un noto ginecologo. Prescrisse con disinvoltura sconcertante, tre iniezioni d'antibiotico e fissò l'appuntamento all'ambulatorio, "per eliminare l'inconveniente”. Disse proprio così. I due in quei giorni, avevano smesso di parlarsi. Come temessero che il colloquio, qualunque forma di contatto verbale, potesse finire per dare largo e priorità, a qualcosa che premeva, un pensiero che pretendeva con forza d'esprimersi in parole tonde e chiare. Entrambi si sorprendevano spesso ad osservare Annalisa come incantati da ogni suo gesto e finivano per baciarle teneramente i capelli, il viso, le manine. Pensavano che la bimba, il suo amore, la sua grazia, la sua gioia di essere al mondo, discendevano da quel gomitolo di carne rosa (tre chili e trecento grammi) che, quasi dieci anni prima ebbe sgombra la strada della vita. Non avrebbero "eliminato", con "l'inconveniente", la gemma inerme di tanta esaltante realtà? Non avrebbero, infine, cancellato un'altra Annalisa? Mara, in particolare, chiedendole di sedersi sulle sue ginocchia, procurandosi la sensazione di tenerla in braccio, sembrava che scoprisse solo allora, nella bambina da lei generata, il sublime mistero della vita e che si sarebbe sottoposta al chirurgo, sentendosi vestale infedele, subendo il ruolo dell'empia sacerdotessa, in adorazione del dio Moloc. Era sua, indubbiamente, la parte maggiore di sofferenza e Franco lo sapeva, lo capiva e se ne vergognava quasi. E, finalmente, come era giusto, fu lei a sventare di forza il sortilegio dello stregone, che li aspettava all'ambulatorio. Franco la vide scaraventare con rabbiosa gioia, le tre fiale nel secchio della spazzatura e ascoltò ammirato il grido della sua rivolta: - "No, Franco, io non voglio abortire!" E lui, in risposta, rintracciò rapidamente "La prodiga", una delle più belle poesie di Pablo Neruda e ne declamò con calma e chiara dizione, i primi versi: "Io ti scelsi tra tutte le donne / perché tu ripetessi / sulla terra / il mio cuore che danza sulle spighe / e lotta senza quartiere quando occorre. / Io ti chiedo dov'è mio figlio? / Non mi attendeva in tè, riconoscendomi, / e dicendomi: Chiamami per uscire sulla terra / a continuare le tue lotte e i tuoi canti?" E, fedele alla loro indole, che l'induceva a rifuggire da ogni rischio di retorica, aggiunse subito: - "Beh, per i canti forse è meglio lasciar perdere". Era stonato come una campana e si abbracciarono ridendo e baciandosi, interrompendo, senza rammarico, la grande voglia di ridere. Franco, dopo dieci anni, in cui si era piegato all'osservanza del comandamento aggiunto, provava stranamente la soddisfazione di essersi rivoltato al prepotere, che voleva impedirgli di mettere al mondo suo figlio. E al Sindacato, il suo stato d'animo non sfuggì ad Annamaria, che in meno di un mese, aveva imparato a conoscere Franco, in ogni piega del suo carattere e dei suoi sentimenti. Magra, di media altezza, colorito bruno e capelli raccolti sulla nuca, che liberavano da ogni contorno un viso sempre mite ed espressivo, si era guadagnata presto, il suo posto nell'organigramma del Sindacato. E sia per i suggerimenti sempre saggi e posati, che per lo spirito di dedizione che la animava, divenne soprattutto un prezioso aiuto per Franco, sempre più isolato, sia rispetto a quelli della Loggia, che all'interno della stessa Organizzazione sindacale, a cominciare dalla Segreteria della Camera del Lavoro. Annamaria gli chiese subito: - "Sbaglio, Certaldo, o stamattina siete allegro?” In tutti gli anni che seguirono, in cui la giovane donna gli dette prove inimmaginabili di dedizione e di affètto, non gli dette mai del tu e non lo chiamò mai per nome. - “Si, mi sento risollevato, non sbagli, Annamaria". E rapidamente le raccontò la storia del bambino, cui avevano dato, infine, il permesso di nascere. - "Si chiamerà Luca, - aggiunse -, come un mio fratellino, che ci lasciò a soli tre anni e tre mesi. Mi era particolarmente affezionato.” Si sa che la donna in stato di gravidanza, appare appagata, serena. Ma la diffusa opinione, non ebbe riscontri per Mara. Poliziotti e carabinieri visitavano casa sua, con scadenza poco più che settimanale e ripetevano come pappagalli ammaestrati, le stesse insulse domande: le generalità di Franco, della sua famiglia d'origine, la professione eccetera eccetera. Perché cessasse la snervante molestia, fu necessaria l'interrogazione parlamentare. Ma Mara non smise di preoccuparsi e chiedeva a Franco perché non succedeva niente del genere, a casa di Santoro, di Fonticelli e di Antonio Russo. All'ottavo mese di gravidanza, a fine agosto 1962, venne il terremoto, a ratificare l'opera certosina di demolizione psicologica, già compiuta dai tutori della legge. Il terremoto in Italia ed in particolare a Napoli, sembra essere, se non proprio una vendetta, una energica e reiterata messa a punto da parte delle viscere della terra. E’ come se la crosta terrestre reagisse con rabbia, per qualche istante, alla iattura di dover reggere milioni d’uomini, che la calpestano, la devastano per scipparle i suoi beni, la trivellano, la sfruttano e poi vivono con il naso per aria e la bocca aperta, a guardare, ammirare, cantare e declamare il più bel cielo del mondo, il suo sereno, il suo azzurro, le sue stelle e sfornano liriche, canzoni e poemi, ispirati al niente, al vuoto infinito, che chiamano cielo. Certo, è facile sospettare che non sia questa la spiegazione scientifica più fondata, delle crisi sismiche nel nostro Paese, ma a Franco piaceva immaginare la terra rivoltarsi e terrorizzare per un po’ i suoi antichi padroni. E poi non gli piaceva la gente che ama poetare e che fa le ginocchia molle mirando la volta celeste, senza trovare il tempo di guardarsi intorno. Ma le suggestive immagini che elaborava non modificavano di una virgola, la tremarella che Franco aveva per i terremoti. Quel tardo pomeriggio di fine agosto, Franco era nella nuova sede del sindacato a via Broggi, insieme ad alcuni calzaturieri, che erano già spariti, mentre lui era ancora incerto se si trattava di terremoto, o di un violento capogiro. Cercava di reggersi ai bordi del tavolo, che assecondava con malvagia mitezza le sue oscillazioni. - “È il terremoto! -, urlò Annamaria che sopraggiunse di corsa, - è il terremoto, che aspettate? Correte a casa!" Franco cercò le chiavi per chiudere l'ufficio e lei, sempre più agitata: - "Andate a casa! Chiudo io l'ufficio!" E con uno spintone, che non ammetteva repliche, costrinse Franco a mettersi a correre per le scale. Annamaria deve essere stata l'unica persona, dall'Irpinia alla Basilicata, che quel giorno, a quell'ora, percorse le scale di un edificio, in salita, invece che in discesa. Franco percorse volando via Broggi e via Sapienza (entrambe in salita, ma gli sembrava che i piedi non toccassero terra), raggiunse il portone di casa, ostruito da una folla di disperati, che invocavano il nome dei cari, che non riuscivano a incontrare. Mara, con Annalisa per mano, parve quasi cadere su Franco, quando l'abbracciò, piangendo di ansia e di paura, mentre Annalisa, in preda al panico, chiedeva del padre e non riusciva ad accorgersi che Franco era lì, sano e salvo. Lungo la strada. Franco aveva visto i lampioni discendere verso terra, per l'oscillazione che la scossa imprimeva ai pali di sostegno, lungo i lati della strada e non riusciva a capire come casa sua e gli altri ruderi antichi della zona, stessero ancora in piedi. I medici assicurarono poi, che passato il momento della grande paura, Mara e il nascituro non correvano pericoli, dato l'avanzato stato della gravidanza. Franco aveva vagliato ogni recondita possibilità, di far partorire Mara in una clinica affidabile, anche in considerazione delle condizioni ambientali non ideali, in cui erano trascorsi i primi mesi di gravidanza, tra carabinieri e poliziotti, che con lena febbrile, si erano agitati, con il precipuo obiettivo di intimidirla. Ma non gli riuscì nemmeno di contrarre un debito, sia pure con cospicui interessi. Ne parlò al senatore Mario Palermo, che per prestigio e carisma era fondato motivo d'orgoglio per l'intera sinistra napoletana, sempre a distanza di sicurezza dal gruppo dirigente di via della Loggia. Il senatore assicurò che era buon amico del primario della "Maternità" dell'ospedale "Incurabili" e gli fissò subito un appuntamento. Nello studio del grande ginecologo, ove fasto e buon gusto armonizzavano come raramente accade, i due giovani s'imbatterono in testimonianze meritevoli di massima fede. C'erano grandi foto, con dediche attestanti riconoscenza e stima, di clienti come Maria Josè del Belgio, la regina di maggio, di Gina Lollobrigida e altre della stessa crema. Il primario promise che, per l'affetto e la stima che lo legavano al senatore Palermo, i due potevano contare sul suo personale intervento, al momento del parto. Forse dimenticando di aggiungere "se avviene di giorno". Quando le doglie diventarono più intense e meno sporadiche, la sera del 1° ottobre del 1962, Mara non volle aspettare il taxi. Disse che avrebbe approfittato dell'intervallo, fra un attacco e l'altro del travaglio e avrebbe raggiunto a piedi l'Ospedale, che era a meno di duecento metri da casa. Franco la sorreggeva cingendole le spalle e sollevandola per le braccia. Quei due minarono, in quella grigia sera dell'autunno incipiente, il primato del diritto alla compassione, che da duemila anni, detengono i santissimi protagonisti della fuga in Egitto. Con le varianti non lievi, della mancanza di una bestia paziente, che ne alleviasse la fatica e che la ferocia umana contro gli innocenti, si accingeva a colpire Luca ancora prima che nascesse. E c’era di peggio, in quella camminata di sciancati: come in certi ricorrenti sogni da incubo essi volevano correre verso la salvezza ed entravano nel regno stesso di Erode. Alle 22 Mara era pronta per partorire, ma l'ostetrica di turno, la signora Ghidini, volle anteporre al destino dell’intera vita di un innocente, la sacralità del suo diritto al riposo notturno: fece dire che era presto, se ne sarebbe parlato all'alba. E dormì fino alle 6 del mattino. Il primario non fu avvertito delle sofferenze incredibili di Mara, nessuno corse a chiamarlo, non trillarono mille campanelli d'allarme, non piombarono al capezzale di Mara dieci medici ansiosi, non successe niente di quanto di commovente avvenne al "Fatebenefratelli", dieci anni prima, ove Franco pagava tutto in contanti, compresa la differenza per la prima classe. Luca era appena venuto al mondo, quando giunse il primario. Gli bastò guardare la faccia tumefatta e deformata di Mara, per assalire pubblicamente la Ghidini con urla di rimprovero e di deplorazione. Kafka, criticando un racconto che fu costretto a scrivere in un solo giorno, sbottò: "È un vero e proprio parto affrettato, coperto di muco e di lordume". Non aveva di certo esperienza di quanto lordume copra un parto fatto in tutta calma, come si soleva fare all'ospedale "Incurabili" di Napoli. Luca, naturalmente era nato gravemente asfittico, in preda ad acuta crisi dell'apparato respiratorio e fu introdotto nell'incubatrice a tempo indeterminato: a costo di ritrarlo cieco, per eccesso di ossigenazione, bisognava salvargli la vita. Come spiegò la signora Ghidini ad un gruppo di infermiere, mentre vezzeggiava il neonato e sopraggiungeva Franco alle spalle: - "Se fosse morto questo bimbo qui saremmo saltati tutti!". Il pediatra, prima che lasciassero l'ospedale, avvertì i genitori di Luca, con lealtà che sembrò essere grave censura al comportamento dell'ostetrica: - "È improbabile, - disse -, che il bambino non abbia subito danni. Tenetelo sotto controllo, specialmente quando avrà sei anni. È quella solitamente l'età in cui emergono le conseguenze di una nascita... sfortunata". Franco e Mara non uccisero la signora Ghidini. Tornarono a casa. Non uccisero quella donna nemmeno quando, a sei anni, Luca manifestò i danni irreversibili della nascita... non fortunata, come paventato dal pediatra dell'ospedale. A che cosa sarebbe servito? Non avrebbero salvato Luca e non avrebbero colpito giusto. Bisognava potere agguantare le radici della malsana pianta, su cui possono maturare frutti come la Ghidini; bisognava essere capaci di troncare alla base la cultura barbarica, che classifica come animale abusivo, senza diritti, senza voce, senza onore, chiunque non abbia il danaro, per pagarsi la clinica privata, la prima classe, il grande medico. Renzo La Piccirella (come si legge in "Mistero napoletano" di Ermanno Rea) così spiegava la sua vocazione per la professione medica: - "Venite nella sala d'attesa degl'"Incurabili", venite al pronto soccorso entrate in un camerone di degenza, se volete scoprire il vero volto del regime che ci governa” Ma per gli sciagurati genitori di Luca c'era una verità anche più dura e amara. C'era la presa d'atto, pressoché impotente, dell'efferatezza con cui il potere colpiva, fino alla distruzione, chi non accettava di piegarsi riverente, al suo dominio. E né Franco nè Mara potevano in quei giorni non riandare con la mente alle auree proposte dei capi della Raffineria e non pensare che, ove Franco fosse stato disposto al meretricio del suo pensiero, della sua anima, del suo diritto a non insozzarsi, Luca sarebbe potuto nascere in Svizzera e avere ad accoglierlo nel mondo, i più illustri padreterni della medicina. E allora perché strangolare la squallida signora Ghidini? Capitolo diciannove. La rivelazione Alla segreteria della Camera del Lavoro di Napoli era sbarcato Giuseppe Vignola, uomo di provata fede amendoliana, creatura diligente e osservante del PCI di Cacciapuoti e Napolitano. La sua collocazione era manifestamente l'adeguamento sindacale all'entrata dei socialisti nel governo del centrosinistra organico. Il suo approdo si accompagnò ad alcune indiscrezioni, oscillanti fra l'illazione e la reale informazione. Si raccontava, fra l'altro, che alla direzione della Camera del Lavoro di Salerno, aveva concluso un accordo, in una fabbrica da tempo in lotta, che sanciva l'aumento salariale simbolico di una lira, sulla paga oraria e l'impegno del Sindacato di abiurare definitivamente lo sciopero, quale strumento di lotta degli operai, qualunque cosa avvenisse in fabbrica, licenziamenti compresi. Vignola era un uomo che rideva spesso. Tarchiato, dall'aspetto marcatamente bonario, colorito bruno, logorroico e gioviale era il tipo che chiunque vorrebbe incontrare al bar o all'osteria. Ma gli fu affidata la direzione dell'intera organizzazione sindacale della provincia, dalle problematiche sindacali più aggrovigliate d'Italia e nelle condizioni di arretratezza economica e occupazionale peggiori del Paese. Franco lo incontrò per la prima volta in ascensore, mentre parlava con Antonio Ferrante, membro della Segreteria Camerale, una specie di stipo a muro nei locali della Camera del Lavoro. I segretari responsabili passavano (Maglietta, Levrero, Fermariello, Vignola), ma lui era, inamovibile, sempre lì, nella segreteria. In realtà era l'uomo di fiducia di quelli della Loggia, una sorta di amanuense fedelissimo di tutto quanto si diceva e si faceva nei sindacati di categoria. E che, quindi, non gradì molto l'iniziativa del Sindacato Tessili e Abbigliamento di trasferirsi nella nuova sede, in piena autonomia, a via Broggi. Naturalmente, Vignola rideva. Ma Franco rimase molto impressionato dalla sua risata. Ne era sconcertato, perché notò che dietro l'ilarità del neo segretario, non c'era niente, c'era il vuoto assoluto, cioè mancava sia il supporto di una motivazione valida, che un’anima che ridesse insieme al lui. Notò anche che il naso, vistoso e largo, sembrava assecondare con mitezza, le frequenti dilatazioni della bocca ridanciana. Il primo incontro diretto tra Franco e Vignola, avvenne a Pompei, alle porte della "Confezioni Scognamiglio". Le ragazze erano in lotta già da alcune settimane. L'imprenditore era un duro e aveva tentacoli in tutti gli ambienti che contano. Le operaie, a turno e i dirigenti del Sindacato erano costretti a presidiare l'ingresso della fabbrica, di notte e di giorno, per respingere la minaccia del padrone di smobilitare l'azienda, svuotandola di tutti i macchinari esistenti. Le maestranze lavoravano per l'intera giornata ed erano retribuite con salari che a malapena e non sempre, raggiungevano il 40% della paga contrattuale. Per mettere su l'impresa, il signor Scognamiglio aveva ricevuto un bel gruzzolo di danaro dalla Cassa del Mezzogiorno e stava cercando, in pratica, di squagliarsela con il malloppo. Una lotta durissima, quindi, che si svolgeva nel deserto, senza uno straccio di partecipazione e di solidarietà, dallo schieramento di sinistra. A cominciare dall’ UDI (unione donne italiane), ormai totalmente invasa e controllata dalla Federazione Comunista Napoletana, per finire ai partiti della sinistra, sia di Napoli che di Pompei. La Chiesa, invece, aveva voluto far sentire il suo peso; il Vescovo di Pompei ne parlò con fermezza, sia in una omelia domenicale, che sul periodico della Curia. Definì Franco Certaldo, una “mente ottenebrata” e invitò le ragazze a non seguirlo. Si potè contare esclusivamente sull’appoggio, peraltro personale, del segretario della Camera del lavoro di Pompei, Pasquale Abenante. Il Sindacato reagì con tutti gli strumenti disponibili. Un’auto, munita di altoparlante, percorreva incessantemente le strade cittadine esponendo alla popolazione i termini reali della vertenza e denunciando, con nomi e cognomi, gli sgherri del padrone, che seguivano minacciosi l’auto del Sindacato, che si mostravano ad annotare i nominativi delle ragazze che si avviavano all’Assemblea e che si recavano nelle case delle operaie, per intimidire i loro familiari. E la popolazione non si fece da parte. E non si fece spaventare, né dal Vescovo, né dai figuri assoldati dall’impresa, ma appoggiò le ragazze fino all’ultimo giorno di lotta. Fu in queste condizioni di estrema conflittualità e di grave isolamento del Sindacato sul piano delle istituzioni democratiche, che quel giorno comparve a Pompei, improvvisamente, il Segretario della Camera del Lavoro di Napoli, compagno Giuseppe Vignola. Franco pregustava la presentazione che avrebbe fatto alle ragazze in assemblea. Finalmente non si sarebbero più sentite sole. Avrebbe detto, come si dice sempre in questi casi, con un po' di trionfalismo in esubero: "È qui fra noi il Segretario Generale della Camera del Lavoro di Napoli, Giuseppe Vignola, che vi porta la solidarietà e l'appoggio dei lavoratori di tutte le categorie della provincia di Napoli”. E le giovani operaie avrebbero risposto con applausi scroscianti, grida di gioia: una iniezione di entusiasmo, di cui dopo settimane di lotta, avevano proprio bisogno. Vignola andò incontro a Franco in fretta, con la faccia seria, quasi preoccupata, priva della risata di prammatica. E a Franco sembrò nudo. Il "Capo" gli dette una pacca sulla spalla, senza riuscire a farla sembrare cordiale, lo prese sottobraccio e lo invitò a fare due passi con lui. - "Vedi, Franco, - esordì lentamente, - la tua politica sindacale, è un po’ fuori dal tempo. Tutte queste lotte, questi scioperi, sono in netto squilibrio con la situazione politica attuale. Ti rendi conto? Le cose sono cambiate, i socialisti che stanno con noi nella CGIL, sono al governo. E presto avremo altri cambiamenti, il Sindacato si deve adeguare…..” - "Aspetta, aspetta, - interruppe Franco, - che le cose siano cambiate lo dici tu, ma io non me ne sono accorto. E non se ne sono "accorti gli operai e le operaie di tutta l'Italia. Prova a domandarglielo a queste operaie in sciopero e magari avvertile pure che devono smettere di fare gli scioperi, perché adesso i socialisti stanno al governo, c'è il centrosinistra e che presto le cose.....cambieranno ancora. E poi, vedi, io dirigo un sindacato, non una federazione comunista e meno ancora una federazione socialista……” - "Ma tu sei anche un dirigente comunista, sei anche un uomo politico, non dimenticarlo..." - "Appunto io sono convinto che il comunista sia quello che arriva in una fabbrica dove si compiono soprusi, ricatti e violazioni sistematiche di leggi, regolamenti e contratti, prima del sindacalista. E se questi tarda ancora ad arrivare, lo va a prendere per il cravattino, lo porta al cancello della fabbrica e gli dice che è l'ora che faccia il suo dovere" -“Ma sono discorsi che hanno fatto il loro tempo. Vuoi capirlo?” - "E tu sei venuto fin qui per dirmi questo?" - "Sì, mi sembra importante. A te no?" - "E non hai nemmeno potuto aspettare che rientrassi a Napoli. Quindi è anche urgente?" - "E’ importante e urgente." - "Scusa, Vignola, ora devo andare, le operaie in sciopero mi aspettano per l'assemblea". E andò via di corsa, piantandolo in asso, senza nemmeno tendergliela mano. Ora il Vescovo di Pompei aveva sicuramente torto. Se mai era stata una "mente ottenebrata", quella di Franco, ora le tenebre andavano diradandosi rapidamente. Ma una luce sinistra inondava cose, fatti e persone, nel quadro di una cruda realtà, ancora impossibile da accettare e che sarebbe sembrata fantasia malata, prima dell'incontro con l'uomo che rideva da solo, senza un'anima che ridesse con lui. Restava nella sua mente sconvolta, l’interrogativo di come fosse possibile attirare in contemporanea le particolari attenzioni di quelli della Loggia, di Questura e Carabinieri, giannizzeri dell'ordine costituito. Ma Vignola e quelli della Loggia che ne erano i mandanti, non erano, dell'ordine costituito, i probandi in lista d'attesa? Pure sentendo di somigliare al bambino dispettoso e cretino, rifiutò di darsi risposta. Sentiva fisicamente un peso in petto che lo accasciava; avvertiva, improvvisa la stanchezza di tanta fatica. Pregò Pasquale Abenante, di portarlo in macchina a Napoli. Ne fece qualche cenno solo ad Annamaria e con mano leggera. Ella si era iscritta al Partito da qualche mese e lui non se la sentiva proprio di minarne la patetica convinzione di avere le carte in regola, per dedicarsi alla lotta senza quartiere, a difesa dei diritti, da sempre conculcati, dei più deboli, delle classi subalterne, sfruttate ed umiliate, contro i potenti e i prepotenti. Franco cercò di accreditare la versione del caso personale, del Vignola un po' strano, anomalo, forse non all'altezza del compito. Non gli sembrò molto convinta, ma non fece altre domande e lui ne fu risollevato. Non ne parlò per niente a Russo, Santoro e Fonticelli; temeva le loro risposte. E non perché potessero avere idee diverse dalle sue, sui mutamenti artificiosi e opportunistici, dei partiti politici, ma piuttosto perché avrebbero dato subito ragione e con gioia, a chi in pratica li invitava a riposare, a non agitarsi. Fosse successo qualche mese prima, forse ne avrebbe parlato persino a Mara, tanto forte era il bisogno di dividere con qualcuno il macigno che lo opprimeva. Avrebbe, senza più remore, assecondato Neruda: "In tè vacillo...Tra tutti gli esseri / hai il diritto / di vedermi debole”. La madre di Luca non aveva lesinato lealtà, quando a qualche settimana dal rientro dall'ospedale, gli disse che se avesse saputo in tempo, che anche "quell'anima innocente" e indicò il bimbo che dormiva, sarebbe stato chiamato a pagare la sua quota e forse la più esosa, dell'inumano prezzo della scelta di vita dei suoi genitori, non l'avrebbe ancora seguito e l'avrebbe invitato a fermarsi, a ritirarsi, a cedere. E da quel giorno, con chiara coerenza, smise di seguirlo. Non sopportava i suoi ritardi, i suoi orari impossibili, nemmeno i segni, difficili da dissimulare, della sua stanchezza fisica. Diventava irascibile, a volte sgarbata, qualche volta ingiusta. Tutti e due, però, traevano sensazioni sconosciute. Discostandosi di una spanna l'uno dall'altra, si scorgevano "persone" e non soltanto parte indistricabile, di se stessi. A Franco sembrava che quella donna di statura piccola, dal corpo ben foggiato, con gli occhi a mandorla, il viso tondo e i capelli castani quasi sempre in disordine, si cavava per la prima volta da un viluppo forse esaltante, ma certamente foriero di appiattimento, di sommersione dell'esistenzialità. Se avessero dovuto descriversi prima della "liberazione", forse avrebbero dovuto superare esitazioni e incertezze. Probabilmente anche Mara avrebbe, solo ora, affermato senza indugi, che il suo compagno era alto, snello, che aveva gli occhi chiari e l'incipiente calvizie. Amavano credere, tuttavia, che nessuno dei due avrebbe mai potuto impinguare l'ammenda, che li aveva già devastati, cedendo parti, anche irrisorie, della passione che li aveva uniti. Erano tacitamente certi, che contrasti e dissensi sarebbero stati improprie sovrastrutture, anche pesanti ed incisive, ma mai capaci di scalfire le solide fondamenta del loro legame. Franco si chiedeva spesso quale donna, quale madre, in quale parte del mondo, si sarebbe portato a casa il figlio, all'uscita dall'ospedale, insieme all'ordigno con timer a lungo termine, che le avevano consegnato, senza un tremito di paura più forte del fremito, che l'aveva fino ad allora animata, nella lotta contro le ingiustizie del mondo; quale madre non si sarebbe piegata sul proprio dolorante microcosmo, anziché contrastare, ancora impettita, le iniquità del mondo esterno? Ma per lui scelse decisioni da padre snaturato. Stabilita la ineccepibile simbiosi, fra le consuetudini antiche degli "Incurabili", le opinioni innovatrici del Segretario della Camera del Lavoro e dei suoi maestri, decise che non avrebbe mai accettato di adagiare il Sindacato sulla sedia a rotelle e che nessuno lo avrebbe spinto, a gomitate nei fianchi, fino alla porta di uscita del suo partito comunista: avrebbe dato battaglia, avrebbe lottato come una belva ferita, si sarebbe battuto avvinghiandosi al nemico, quale che fosse, senza ombra di remissione, senza tregue, fino all'annientamento, fosse il suo, o di chi volesse piegarlo. L'arena più prossima e anche la più meritevole, per lo spazio al rinnovato slancio era naturalmente la Scognamiglio di Pompei, ove si presentò la mattina successiva, convocando d’urgenza l’assemblea delle operaie in sciopero e proponendo l’approvazione del nuovo calendario di lotta. Si trattava dello sciopero generale cittadino, per cui si impegnava Pasquale Abenante, Segretario della locale Camera del Lavoro, che sarebbe sfociato in una manifestazione, con in testa le lavoratrici della” Scognamiglio”, presso le sedi dei partiti politici (PCI, PSI e DC), per chiederne il sostegno e che, in mancanza, dicessero pubblicamente, dai loro balconi, nell’altoparlante, da che parte stavano. Poi si proponeva la partecipazione degli studenti degli Istituti locali, ad una manifestazione presso il Municipio, nel corso della riunione del Consiglio Comunale, per condannare il silenzio ostinato dell’Amministrazione, in merito alla lotta alla Scognamiglio, rammentando al primo cittadino che l’eventuale smobilitazione dell’azienda, avrebbe arrecato un duro colpo alla dissestata economia della città. Era in programma anche un treno speciale della Circumvesuviana, che avrebbe portato a Pompei le lavoratrici confezioniste di Napoli, che avevano concluso già vittoriosamente le loro battaglie sindacali e che si sarebbero unite alle operaie della Scognamiglio, in un comizio alle porte della fabbrica. Inoltre era proposta una sottoscrizione popolare, per il sostentamento finanziario delle lavoratrici impegnate nella lunga lotta, cui erano costretta dalla tracotanza del padrone. La sottoscrizione sarebbe stata aperta con il contributo che, per loro espressa richiesta, le operaie confezioniste di Napoli, avrebbero offerto alle loro compagne di Pompei. Infine, dulcis in fundo, una petizione al Vescovo, sottoscritta dalle lavoratrici in lotta e dalle loro famiglie, avrebbe chiesto al Presule, di reperire un po' di spazio in una sua omelia domenicale, o sul giornale della Curia, per paternamente esortare il fratello Scognamiglio, a rispettare la massima evangelica della giusta mercede e perché, in ossequio alla morale cristiana, smettesse di taglieggiare le buste paga delle operaie che, allo stesso tempo, obbligava ad orari di lavoro inumani e vietati dalle leggi e dai regolamenti. Il nuovo calendario di lotta fu approvato all'unanimità il lunedì mattina; il mercoledì successivo alle ore 9, Franco, Santoro e Fonticelli erano seduti al tavolo della trattativa, nella direzione dell’azienda. La controparte era rappresentata dal Rag. La Duca, consulente del lavoro, che Scognamiglio aveva assunto il giorno prima. Pur dichiarandosi fascista della prima ora (e dell'ultima) era noto negli ambienti per senso pratico, realismo e per disponibilità ad ascoltare le ragioni degli altri. Era, insomma, un negoziatore all'altezza del compito. Furono accolte tutte le richieste (peraltro ineludibili) delle operaie e fu anche accettata dall'Azienda, la trattenuta sindacale, per le lavoratrici che ne avessero data autorizzazione (praticamente tutte). Fu accantonata la sola domanda di garanzia della stabilità d'impiego, ma si trattava di una proposta anomala, che nessun imprenditore avrebbe mai accettato e che fu inserita nella piattaforma rivendicativa, perché servisse da strumento di transazione, per essere lasciata inevasa sul tavolo della contrattazione, a riprova della volontà conciliativa del Sindacato e delle maestranze. "Impressionato" dallo strapazzo cui si sottoponeva Franco, Pasquale Abenante s'impegnò a fondo, per l'acquisto di una autovettura d'occasione, dal prezzo accessibile. Gli portò una "Fiat 600", usatissima, con le portiere ancora a favore di vento, che assicurò di non aver sottratto, alle collezioni di antiquariato del Museo Nazionale, ove era impiegato (vicinissimo alla sede di via Broggi). Franco pagò quarantamila lire, che benedisse a lungo, per i vantaggi che effettivamente ricavò dall'uso della vecchia vettura. Data la vicinanza del suo posto di lavoro, Abenante protrasse la sua collaborazione, dopo la vittoriosa lotta, conducendo spesso, nella sede del Sindacato, alle riunioni del "quadro attivo", le operaie della Scognamiglio, che ne facevano parte. Proprio un compagno, un caro amico, che quando appariva sulla soglia dell'ufficio di Franco era per lui un vero sollievo. Alto, dinoccolato, molto bruno, leggermente incurvato senza giustificazione e con quel carico di barzellette sempre a portata di mano, gli ricordava i tesori in via di estinzione: disinteresse, spirito di sacrificio, fede nell'ideale comunista e giovialità per il costante ottimismo. Valori che Franco riteneva universali e che a Napoli, intorno a lui latitavano da tempo. Capitolo venti. L’assalto Luca cresceva bene. A due anni, in un rinomato studio di psicoterapia a Roma, superò agevolmente i tests d'intelligenza riservati ai bambini di tre e quattro anni. Ad ogni prova di sveglia intelligenza del bimbo, Mara era felice. Dalla gioia repentina che le illuminava il viso e le faceva tornare il sorriso sulle labbra, Franco si prefigurava il dolore che l'attendeva, al momento dello scontro dei suoi sogni di madre con la realtà in agguato. Perché lui ne aveva parlato ripetutamente con eminenti pediatri e neuropsichiatri, sia nel Partito (fraternamente) che fuori. Pagò qualche volta esorbitanti tariffe (che chiamano onorario e non si sa perché) a missionari di Esculapio, in assenza del ragazzo, per visita virtuale, per avere il parere, che poi era solo un condensato di impotenza e di prosopopea mal riposta. E tutti concordavano, nel ritenere che un tasso intellettivo, anche di ottimo livello, non costituisce una valida difesa, contro il possibile strascico di crisi encefaliche, che possono insorgere, in età della seconda infanzia, per trauma cerebrale pregresso, sofferto nell'età prenatale, o in corso di parto. Nonostante tutto, neanche Franco sapeva sottrarsi completamente alla speranza: "Ma perché, poi, questi scienziati, che non sono in grado, con sei anni a disposizione, di sventare una patologia annunciata, dovrebbero essere infallibili nel prevederla? Ma allora fanno gli astrologi, non gli scienziati!" Certo, c'era qualche forzatura, ma nessuno lo obbligava ad accorgersene. Gli psicoterapisti romani avevano anche suggerito di sottoporre il bimbo, a visita di controllo della vista . Senza esitazioni Luca fu portato dall'oculista. E, senza esitazioni, il professionista comunicò a chiare lettere, che la miopia del bimbo era particolarmente elevata: all'occhio destro il visus era quasi zero e, complessivamente, gli mancavano sedici diottrie per parte. La bellezza e lo straordinario azzurro degli occhi di Luca, sembrarono subito una splendida cornice, che contornava la pessima tela di un pittore idiota. Si alienò la collana di perle coltivate di Mara, che le aveva regalato il padre, per le nozze e si comprarono gli occhiali per Luca. Pesantissimi, dalle lenti spesse come parabrezza, sembrò impossibile che il bambino potesse sopportarli. Ma Luca era meraviglioso. Attratto, forse, dalla sconosciuta gioia di vedere meglio, li tenne come può fare un vecchio saggio, che avesse da tempo imparato, che la vita è fatta anche di sacrifici e rinunce. Gli occhiali gli segnavano il naso e solcavano il dorso delle orecchie, affondando nella tenera epidermide, ma lui appena sveglio, li cercava proprio come un affamato può chiedere il pane. Allora non esistevano lenti a contatto, ne vetri sottili per alte gradazioni e non c'era alcun mezzo per lenire il sacrificio del bimbo. Il medico prescrisse anche terapie periodiche, per proteggere la retina e raccomandò molte cautele, come la necessità di evitargli la luce solare troppo forte e del tutto quella artificiale e di tenerlo possibilmente in ambienti scarsamente illuminati, o in penombra. Con ogni evidenza, Luca aveva lasciato la vista nell'incubatrice a tempo indeterminato, gestita dall'ostetrica dell'ospedale "Incurabili", quella che doveva salvare il neonato per salvare se stessa e le sue infermiere: il cucciolo quasi cieco, di due animali abusivi, dopo tutto, non è un grande dramma. Per la prima volta, dopo quindici anni di matrimonio, Mara e Franco, dopo l'ennesimo trasloco, andarono ad abitare, da soli, in una decorosa casetta di due vani, a via Ponti Rossi 174. Nella mezza casa, dell'antico stabile al centro storico, pioveva sempre più a lungo che fuori: tornato il sole, di dentro bisognava aspettare che colasse tutta l'acqua accumulata, sul terrazzo devastato dalla vecchiaia. Ma ebbero un po' di fortuna: per poco più della mezza pigione pagata fino allora, potettero realizzare il sogno di una casa tutta per loro. Anche se, le toccò, poi essere lo scenario della prima esecrabile violenza, inferta al piccolo Luca. La storia ebbe inizio quindici giorni prima, a fine ottobre, al cancello della "Lavanderia Partenopea", a via Emanuele Gianturco 54 nella zona industriale. Era un grosso stabilimento con circa centocinquanta dipendenti, i cui titolari (era una S.r.l.) non intendevano accogliere la richiesta di un incontro con il Sindacato, per la stipula di un Contratto Provinciale di Lavoro, data la carenza contrattuale della categoria, a livello nazionale. Un contratto che avrebbe regolamentato condizioni salariali e normative del rapporto di lavoro, sottraendo i dipendenti, in massima parte donne, all'arbitrio dell'imprenditore. Le lavoratrici della "Papoff” e della “F.lli Bernard", le altre due importanti lavanderie, un po' meno grosse, avevano già più volte scioperato e i rispettivi imprenditori sostenevano che non avrebbero firmato alcun contratto, senza la partecipazione della “Partenopea”. In riunione, alcune ragazze, fra le più sveglie e responsabili dell'azienda recalcitrante, assicurarono che, dopo le precedenti defezioni, avrebbero scioperato anche le loro compagne, se fossero state un po’ incoraggiate dalle loro colleghe. Per cui quella mattina, le lavoratrici della "Bernard" e della "Papoff, si portarono all'ingresso della "Partenopea". Applaudivano le loro compagne all'interno e che, sempre più numerose, si affacciavano ai finestroni per salutare le scioperanti. Si attendeva che da un momento all'altro si aprisse il grosso cancello e ne uscissero in massa le operaie decise a partecipare alla lotta. La polizia era presente in fitte schiere e, chissà perché, in tenuta antisommossa. Franco avvertì le ragazze della possibilità di una provocazione e che si limitassero esclusivamente ad applaudire e ad invocare lo sciopero. C'era già un commissario della Celere, ma sopraggiunse un vice questore, che Franco conosceva per persona seria e responsabile estraneo alle formazioni scelbiane in assetto di guerriglia. Si scambiarono un rispettoso saluto e, subito, l'alto funzionario, facendogli osservare che "la situazione era abbastanza tranquilla", lo invitò a seguirlo nel bar vicino, ad una cinquantina di metri. Stavano tutti e due sorseggiando il caffè, quando si levarono grida disperate e rumori assordanti, dal cancello della azienda. Fino ad un attimo prima, le lavoratrici avevano intonato canzoni napoletane e canzonette in voga e sembrava impossibile che quelle urla impressionanti venissero dalle stesse persone. Franco e il questore sobbalzarono, deposero le tazze e accorsero sul posto: uno spettacolo di violenza agghiacciante. I rumori assordanti erano quelli dei portelloni dei cellulari, che si aprivano per un istante, il tempo di introdurre una o due ragazze per volta, trascinate, spesso sanguinanti e si richiudevano di colpo, con furia. Altre operaie, raggomitolate per terra erano flagellate dai colpi di sfollagente e manganelli dei poliziotti, che si radunavano a gruppi sulla stessa vittima. Franco sentì di impazzire. Si lanciò come una furia e urlando imprecazioni ed esortazioni insieme, bestemmiando e scongiurando, fece in tempo a trarre fuori dai cellulari alcune recluse, mentre tentavano di introdurre altre. Erano tanto simili ai cervelli in fusione dei tossicodipendenti, quelli di quegli uomini, che nessuno capì che, scaraventando anche lui in un cellulare, avrebbero riavuto campo libero. Poi i cellulari partirono di colpo, come di certo erano arrivati, perché fino a poco prima, quando Franco si allontanò con il vicequestore, non ce ne era traccia. Con essi partirono in velocità gli altri automezzi, su cui gli uomini montarono con estrema rapidità. Quando si aprì il cancello di una fabbrica di fronte e ne uscirono di corsa gruppi di metalmeccanici, Franco capì il motivo dell'improvviso arresto del pestaggio. E si rese conto, pure facilmente, che in massima parte le sventurate ragazze erano riuscite a fuggire. E ora si avvicinavano, a grappoli, impaurite, a passi lenti e prima di mostrare o di commentare ematomi e contusioni, riportati nello scontro, si scusavano, per aver lasciato le loro compagne meno svelte, nelle mani degli invasati aggressori. Forse perciò Aristofane, quando volle raffigurare ne "Le ecclesiazuse", una società basata su principi molto simili a quelli del comunismo, la fece di sole donne. Circa Trenta ragazze, alcune di vent'anni anche meno, furono introdotte nel carcere di Pozzuoli e vi rimasero. Visto quali e quanti erano i vantaggi, per la classe lavoratrice e i sindacati, di avere i socialisti al governo (il pestaggio e l'incarceramento di giovani operaie in sciopero, non erano accaduti nemmeno ai tempi di Scelba), Franco si aspettava di essere raggiunto da una qualche eco giudiziaria. Ma passarono oltre dieci giorni ed era parere comune, al Sindacato e fra avvocati penalisti da esso interpellati, che non avrebbero aspettato tanto, se avessero voluto imputargli la responsabilità dei fatti. Intanto pubblicò l'edizione straordinaria del periodico sindacale, di cui era direttore responsabile e ne fece affiggere il paginone centrale sui muri della zona, che era stata teatro dell'oscena rappresentazione. Vi si raccontavano per filo e per segno i fatti accaduti e si titolava, parafrasando uno slogan allora molto diffuso: "Entri la Costituzione nelle caserme di polizia" (invece che "nelle fabbriche”). Si disse che l'iniziativa aveva fatto arrabbiare molto il Questore e l'intero Stato Maggiore della Polizia. D'altronde sarebbe stato piuttosto difficile per chiunque, ritagliare per Franco il ruolo di energumeno, alla testa delle "facinorose" assalitrici di poliziotti inermi: non è facile stare in un bar insieme ad un vicequestore e, contemporaneamente, animare e dirigere la guerriglia. Ed erano passati quindici giorni, quando decise di potersi recare a Roma dal fratello Guido, ricoverato in ospedale d’urgenza, per sospetta replica dell'ictus, che lo aveva colpito e debilitato poco tempo prima. Partì la sera del 15 novembre. Alle ore cinque, ancora in piena notte, bussarono leggermente alla porta di casa. Mara si alzò spaventata, chiese chi fosse; rispose una voce nota era il professore del primo piano, un amico di famiglia, le cui figliole, due belle ragazze, volevano un gran bene a Luca. Mara aprì in fretta, anche perché la voce le era sembrata stentata, sofferente. Si trovò di fronte il vicino di casa attorniato da una folla di poliziotti. Lo tenevano stretto, quasi sollevato da terra. Si precipitarono in casa spingendo furiosamente la porta, come sorci affamati nella bottega del salumaio. Mara li pregò di non accendere la luce nella camera dei bambini, perché il piccolo Luca stava molto male con gli occhi. E loro, dopo aver acceso il lampadario, accostarono fino a una ventina di centimetri di distanza, potenti torce agli occhi del bambino, urlando: "Dov'è papa. Rispondi, su, dov'è papa?" Al pianto e alle uria di terrore di Luca (aveva tre anni), si aggiunsero le invocazioni di aiuto di Annalisa esterrefatta, seduta in mezzo al letto, con le spalle schiacciate contro il muro, all'inizio convinta che la casa fosse stata invasa dai fascisti, o da una banda di rapinatori. Mara, atterrita, riuscì a stento a trovare un filo di voce per dire: "Qui non ci sono delinquenti, questa è la casa dell'onestà". E avrebbe voluto ripeterlo gridando. Dopo aver messo a soqquadro la piccola casa e menti, anime e occhi malfermi, se ne andarono. Mara vide dalla finestra socchiusa che si mettevano in moto più di dieci camionette e tre autovetture, zeppe di poliziotti con il mitra spianato. Capitolo ventuno. La latitanza A Franco la notizia del mandato di cattura giunse mentre si compiaceva segretamente di poter ripartire e tornare a casa. Il fratello, a Roma, colpito da ictus era ormai fuori pericolo. E partì davvero, ma in direzione opposta, col fermo proposito di seminare la massima distanza possibile fra lui e la sua piccola e sventurata famiglia, avviluppata dai problemi, dai rischi e dalla miseria economica di ogni giorno. E fu durissima. “Morditi le labbra sino a farle sanguinare /e premi la ferita con le dita, / pazienza / sopporta, / resisti". Solo Hikmet, il grande poeta turco, che quei momenti aveva vissuto, poteva capirlo. Franco doveva imparare presto che emarginare un latitante è molto più agevole che allontanarsi dal nero, dall’omosessuale, o da un handicappato. Il latitante, quale che possa essere il reale motivo della sua condizione, va emarginato senza la fatica di doversi poi accomodare con la propria coscienza. Si sente, poi, di avere messo in atto una repulsione che ci dona, che ci fa sentire anche migliori, persone più per bene. È la sensazione che dovette provare il senatore socialista Bitossi, che rifiutò di ospitare il sindacalista per una notte nella scuola INCA-CGIL, di cui era il Presidente. Per interessamento del PSIUP, formazione politica nata dalla scissione del Partito Socialista, Franco potè alloggiare per tre notti in una foresteria. Lì conobbe Rosario, un giovane calabrese, nella capitale per ragioni di studio, felice della sua militanza nel nuovo partito. Dormiva nel letto vicino al suo, nella grande camerata. Gli piaceva molto parlare, specialmente di politica. Gli piaceva sentirlo parlare, con quel suo modo di gesticolare, come se l'interlocutore fosse sordo e potesse capirlo solo dalla mimica. Era pieno di fervore e la gestualità gli serviva per esprimerlo in pieno. Il guaio era che poi chiedeva risposte, giudizi, opinioni e questo a Franco andava meno bene. Pensò che se gli avesse detto che a Napoli la Polizia aveva picchiato a sangue le giovani lavoratrici in sciopero, trascinandone una trentina nel carcere di Pozzuoli e che la sua latitanza era dovuta all'imputazione di essere il responsabile della manifestazione, quel ragazzo non gli avrebbe più consentito di dormire, nemmeno un'ora per notte. Franco si recava almeno a cento chilometri da Roma per telefonare a Mara. E lei non provava nemmeno, a fargli credere di stare bene, che i ragazzi erano tranquilli. Ma non era collera inerte era rabbia, ce l'aveva con tutti, sentimenti esagitati che magari ti lacerano l'anima, ma aiutano a restare in piedi, a non crollare. Di Vignola, il segretario della Camera del Lavoro, diceva che alle sue sollecitazioni di mezzi per vivere, rispondeva: 'Tu devi essere fiera di tuo marito". E che non riusciva a convincerlo che la fierezza non si può versarla nei piatti a mezzogiorno. Ma nella risposta di Vignola Franco ravvisava una sorta d’ambiguità che lo preoccupava. Il segretario della C.d.L. era persona tutt'altro che incline alla retorica, sapeva benissimo che la fierezza non si versa nei piatti a mezzogiorno. La risposta era travestita, quella vera, che si era tenuta in gola era pressappoco: "Io l'avevo detto a tuo marito che doveva smetterla con le lotte e gli scioperi, glielo avevo detto che il suo modo di condurre il sindacato non è in equilibrio con la nuova situazione politica. Vuole fare di testa sua, vuole fare il "puro" e ora mangiatevi la purezza”. E davvero glielo aveva detto. E anche al PCI glielo avevano detto. E anche Giorgio Napolitano, che di Vignola era lo sponsor, glielo aveva detto. E per ripeterglielo, Vignola era andato fino a Pompei. E fu lì che, quando Franco gli fece presente che, in massima parte, quelle ragazze che si permettevano di protestare erano inchiodate in fabbrica dall'alba alle otto di sera, in condizione di lavoro nero, Vignola, che dopo poco fu eletto senatore per il PCI, rispose secco: 'Tu non capirai mai". E stavolta aveva pure ragione, perché davvero Franco non capì mai. Franco si sedette vicino al letto di Rosario, che quando dormiva sembrava più piccolo, proprio un bambino. Aspettava che si svegliasse per salutarlo e partire subito. Il giovane sollevò la testa dal guanciale stropicciandosi gli occhi: "Esci? Allora dobbiamo salutarci, parto stamattina per Castrovillari. E non torno più. Mio padre è malato di cuore e allora addio laurea”. Il medico dice che se non smette di lavorare muore molto presto. E allora spetta a me. Addio laurea”. E portò svelto un lembo del lenzuolo sulla fronte, riponendo la testa sul guanciale. - “Tenevi molto alla laurea?" - "Era il sogno della mia vita. E anche di mamma e papà. È un mondo sporco, devono diventare dottori solo i figli dei ricchi, è uno schifo.” E ora piangeva senza più ritegno, con singhiozzi profondi, proprio come un bambino disperato. Aveva buttato all'aria con furia improvvisa il lenzuolo che lo aveva protetto fino ad un istante prima. Franco lo fissava in silenzio. Era stato con lui tre giorni, a guardarlo con tenerezza, mentre proclamava l'urgenza della rivoluzione; doveva lasciarlo ora, che rivendicava il diritto di piangere. Franco si avviò verso Firenze. L'auto era la "500" di Annamaria, nuova, mai guidata prima. Nel capoluogo toscano era paradossalmente atteso da un maresciallo di polizia, amico del fratello Dino, che gli aveva telefonato da Napoli, scongiurandolo di fare il possibile per aiutare suo fratello inseguito da un mandato di cattura. La loro amicizia era cominciata venticinque anni prima, al servizio militare, nel 1940. I due, insieme al fiorentino Rolando, commilitoni in artiglieria e poi ancora uniti a superare il difficile percorso del dopoguerra, diventarono inseparabili, un vero tempio elevato al mito dell'amicizia. Franco procedeva a velocità sostenuta e gli sembrava che stesse autoflagellandosi mano a mano che crescevano i chilometri, sui paracarri e nelle indicazioni stradali. Di certo Maupassant non pensava alla partenza del latitante, quando sentenziò che: "Viaggiare è come imboccare una porta ove si passa da soli, lasciando fuori la realtà”. Franco si portava dietro anche piccole banali cose di vent'anni addietro. E non le cercava. Gli cadevano addosso come stormi d’uccelli, che planano sulle braccia, sulle spalle di chi si allontana troppo presto e ha ancora in mano del mangime per loro. Verso Arezzo provò nostalgia struggente anche all'apparire di isolatori sferici che, come palloncini ordinati e messi in fila, solcano lo spazio da un traliccio all'altro. Gli ricordavano la strada che, in allegra brigata, percorreva in estate, per recarsi al mare a Lucrino, quando aveva vent'anni e Mara era soltanto la sorella di Biagino, il compagno di scuola. Erano tutti felici allora e Mara si divertiva un mondo quando Franco e gli altri incrociavano sulla spiaggia lunghe aste di legno e si battevano in duello emulando le gesta dei paladini di Carlo Magno. Al fragore assordante, implacabile dello stizzoso motore a due cilindri, che lo stordiva e al sibilo che gli attraversava le orecchie e invadeva il cervello, Franco decise di arrendersi, di offrire complicità, lasciandosi andare a pensieri improvvidi, sconnessi: "Se avessi qui Mara, al mio fianco, ora adagerei la testa sul suo seno e forse piangerei, lei ne avrebbe il diritto". Ed era tentato di vivere quel momento impossibile reclinando la testa sul volante e dire tutto a Mara che non c'era. Trovava che sarebbe stato riposante, come cedere ad un colpo di sonno da tempo in agguato, un brivido ribelle e dolce. Reagì con rabbia e si ritrovò a decelerare rapidamente. C’era tempo per arrivare in orario a Firenze. E proseguì il viaggio in lucida malinconia, guardando attentamente in avanti e obbedendo con scrupolo, anche inusitato, alle raccomandazioni disegnate sui segnali stradali. Era la prima volta che metteva piede a Firenze, che aveva solo ammirato, magari per pregiudizio benevolo, passando di corsa nel treno, per recarsi ai congressi a Milano, a Rimini o a Vigevano. Sentiva di doversi scusare con la città più amata del mondo, per esservi giunto solo perché inseguito espulso dalla sua città, dalla sua casa. Mario arrivò in uniforme. Come a voler dare testimonianza dell'ordine che aveva fissato sulla sua personale scala valori, per il fratello del suo amico. Si dette subito da fare: “Ora una buona cenetta e poi un letto tranquillo e comodo per una notte di tutto riposo. ” Franco gli fece osservare che forse la seconda operazione in programma sarebbe stata meno facile della prima. "Non ci pensare nemmeno", ribattè prontamente il maresciallo di polizia. Dopo cena, quindi, si recarono subito a casa di Rolando, l'altra colonna di quel tempio dell'amicizia, che avevano forgiato fra le cannonate. La casa era immersa nella penombra, per via del distacco della retina che aveva colpito l'amico. Mario espose rapidamente il caso era sicuro che non occorressero molte parole. Dopo qualche attimo di silenzio, Rolando disse che doveva interpellare le donne di casa, che stavano in cucina, da dove proveniva il tepore di ambiente ben riscaldato. Tornò presto e disse che non era possibile: "Sa come sono le donne hanno paura". Franco non vedeva la faccia di Mario nascosta nel buio. Egli si era alzato lentamente e stava zitto, fermo, mentre Rolando continuava a tenere le mani sollevate a mezz'aria, come i fedeli a messa, quando recitano il Padre Nostro. Poi Mario gli allungò la mano in uno scatto improvviso e nervoso: "Va béh, buona notte”. Per la strada, a Lungarno, Mario parlava da solo, appena bisbigliando, chiaramente perché Franco non sentisse quello che pensava e che non riusciva a tenere chiuso nella mente sconvolta. Non s'accorsero nemmeno della pioggia che, sottile, punzecchiava le acque placide del fiume. Dopo alcuni rifiuti, che Franco indovinava dai vetri, dall'esterno, ove rimaneva in attesa, Mario riuscì ad accordarsi con il gestore di una pensione, ma a patto che alle cinque e mezzo del mattino l'ospite fosse già fuori. Franco provava una vera sensazione di soffocamento, un peso nella gola che gli toglieva il respiro: sentiva parlare dell'amicizia di Dino, Mario e Rolando da quando aveva quindici anni. Ed ora la realtà s'incaricava di farla a pezzi, che spargeva sulla sua coscienza. Il giorno dopo salutò il suo amico, che gli chiese inopinatamente di scusarlo. Gli disse che partiva per l'Emilia, ma rimase ancora qualche giorno a Firenze. Passò le notti in auto, con la testa sulla borsa della biancheria, che si rivelava un discreto guanciale. Ma il freddo lo attanagliava senza misericordia, fino a farlo sentire male, quasi debilitato. Per resistere cominciò a concedersi qualche drink in più. E scoprì che il nuovo "amico" lo aiutava anche a munirsi di un po' di ottimismo. Quando tra la gente, fra i turisti al piazzale Michelangelo, o fra i loquaci frequentatori di piazza delle Signorie, ove ogni sera i fiorentini si riunivano per vivaci discussioni di politica, oppure nel bar, sempre affollato di allegri avventori, egli sentiva di apparire in tutto uguale agli altri, sapeva di non esserlo, lasciava solo credere di esserlo. Quando si rivolgevano anche a lui, alla ricerca di assenso alla propria argomentazione, sentiva di rubare uno stato di normalità che non gli apparteneva. L'emarginato, di pelle nera o handicappato, non nasconde niente. Il latitante sa sempre che la "promozione" riconosciutagli è fraudolenta. Chi gli chiede, come chiederebbe a chiunque altro, se ha ragione o ha torto, non sa che è di fronte ad un “ricercato”. Considerazioni che lo ferivano, ma che giudicava elucubrazioni distorte, quando aveva appena ingollato due e tre drink, uno dopo l'altro. Si spostò in Umbria. Il dilemma feroce era sempre se durante la notte dovesse fermare l'auto e quindi spegnere il riscaldamento, lasciandosi assalire dal freddo, che lo obbligava a tremare come un epilettico in crisi comiziale, o continuare la marcia e resistere, anche quando era impossibile, alla prepotenza del sonno. Ma c'era il drink, magari doppio e il freddo scemava, il sonno bussava più forte, fermava la macchina e finalmente la notte matrigna lo accoglieva per qualche ora fra le sue braccia angolose. Dopo aver vagato per alcuni giorni e alcune notti, fra le paciose colline e le silenziose contrade intorno a Perugia, ritenne di dover bussare al citofono della sorella residente a Spoleto. Era sposata ad un carabiniere in servizio nella cittadina. L'avrebbe pregata di trasmettere a Mara che lui stava bene era di buon umore, che l'aveva visto di persona e che quindi poteva stare tranquilla. Scelse l'ora in cui sicuramente non c'era il marito, per evitargli problemi. Ma la sorella gli chiese di salire, magari fermandosi per le scale, gli sarebbe venuta incontro. Gli disse che il maresciallo, il superiore diretto di suo marito era andato via solo venti minuti prima. Aveva bussato alla porta accompagnato da due militi. Era penetrato in casa come una furia, per farsi strada l'aveva spintonata come di solito fanno con le prostitute, non s'era fermato davanti a niente, buttò per aria tutto quanto stava nell'armadio e anche nella libreria, pestò il pavimento alla ricerca di botole, aveva picchiato contro i muri, aveva rovistato sotto il letto, dietro gli usci, sopra l'armadio e senza rispondere a nessuna domanda. Ordinò ai due carabinieri, che non avevano partecipato per niente alla frenetica perquisizione, di sgombrare il pavimento, perché potesse passare, guadagnare l'uscita della casa messa a soqquadro e andò via. Tornò in caserma e non si sa se guardò in faccia per un istante il suo subalterno, di cui aveva appena violata brutalmente la casa e terrorizzato la moglie, senza nemmeno arrestare il cognato. Quella notte Franco si fermò sulla neve accumulatasi in una settimana di maltempo, su colle Monteluco, a oltre 800 metri di altezza, dove i bellissimi boschi offrono generosi nascondigli. Lì, forse, poteva anche fermare l'auto e lasciare il motore acceso per tenere in vita il riscaldamento. La luna splendeva sul manto nevoso, creando pallidi riflessi di oro, che accecavano. Incantato dalla pazzesca bellezza del paesaggio, Franco aprì la portiera per accogliere più avidamente l'incanto che, nel silenzio dell'etereo deserto, che non avrebbe mai immaginato potesse esistere al mondo, pareva destinato solo a lui e cadde, forse, in deliquio. Vide l'immensa coltre bianca sollevarsi da terra e vagare ondeggiando lentamente nel vuoto, insieme a lui e alla sua vettura. Gli alberi innevati sembrarono diventare uomini, vestiti di tute di neve modellata sui loro corpi; un piccolo albero-uomo, contento e gioviale, ma molto distante da lui, salutava con la mano, mentre nell'altra aveva un grosso bicchiere, da cui beveva lunghi sorsi, lo invitava chiaramente a brindare con lui. Pensò a Purpetiello, l'operaio alto poco più di una scrivania. Era lì, ove aveva infine la tuta come quella degli altri. Gli chiedeva di avvicinarsi a lui con ampi gesti della mano e Franco prese a muoversi incerto, impaurito. Ma lo colse il terrore che tutto gli precipitasse addosso, sotterrandolo e gli parve di svegliarsi. Non si chiese se aveva sognato, o era caduto in deliquio, o fosse già al punto di essere travolto da allucinazioni, tipiche di disperati, che 1'aspettano miracoli da reperire nei bar e nelle osterie. "Surrealtà e lo stato in cui sogno e realtà cessano di essere degli opposti", affermava Andre Breton e Franco fu certo di provenire dal limbo tracciato dal poeta francese, quando il risveglio fu completo. Aveva le dita doloranti, arrossate e dure come il legno. Riuscì faticosamente a usarle per mettere in moto la vettura, con il riscaldamento aperto al massimo, ma rimase fermo, sopra e sotto la neve, che nella notte era caduta copiosa, perché non riusciva a muovere i piedi intirizziti e usare i pedali. Aspettò che il calore gli restituisse la proprietà degli arti e riuscì lentamente a muoversi. La buona, fedele utilitaria ancora una volta gli obbediva docilmente. Raggiunse Todi e si fermò al primo bar. Prese il caffè ed una brioche. Il giorno prima aveva deciso di contare le "pillole" di ottimismo che ingurgitava nella giornata e aveva rilevato che alle 17, prima di recarsi dalla sorella, aveva bevuto whisky 11 volte, doppi compresi e sapeva che di sera le distanze si assottigliavano. Non bevve, rinunciò ad irrorare anima e viscere gelide delle provvide ondate di calore. Si arrovellava per stabilire se era giusto vivere nella vergogna della "normalità rubata" e nella paura, nell'angoscia per i suoi cari lontani a pascolare nel dolore, o se non era più costruttivo stabilire, con l'aiuto del superalcolico, che si trattava solo di "elucubrazioni distorte" e di pessimismo eccessivo, dovuto magari alla stanchezza e alla difficoltà di dormire. Ma sarebbe stato difficile per tutti una risposta, anche per i profeti del moralismo facile. Franz Kafka, per esempio era dalla sua parte. Aveva affermato, aveva scritto: "Mio Dio, che cosa salutare deve essere quando un pensatore impara da un ubriaco". Restò a Todi per un giorno. La cittadina di Jacopone gli piaceva per quel suo modo di essere collina, che domina la valle del Tevere, verso il quale, però, degrada con grazia ed umiltà. Si sedette su una panchina fuori mano. Gli abeti, già accuratamente addobbati per Natale, in parte ricoperti da neve vera, lo riportarono di colpo a casa sua, dove la neve bisognava necessariamente comprarla e provoca spesso allergie. Dal portone di una scuola, quasi si libravano in volo sciami di ragazzi felici di avere concluso la fatica quotidiana. Altri, che forse abitavano un po' più lontano (come Annalisa), raggiungevano il padre che era lì ad attenderli e gli saltavano tra le braccia come affettuosi cagnolini. Facevano tutto con naturalezza, come tutto fosse ovvio, scontato. Come accadeva per le donne che stavano a casa, anch'esse persuase di abbracciare, di lì a poco, il loro compagno, il loro figlioletto. Senza che nessuno di loro urlasse di felicità. E di certo ciascuno di loro, con la stessa impassibile posatezza, aveva preparato l'intrigante albero di Natale, nell'angolo meglio esposto del salotto o del tinello. Come avesse voluto avere prove della fragilità delle salde convinzioni di quei personaggi inconsapevoli, si lasciò cadere sul proscenio del suo piccolo teatro abbandonato. Raccolse subito la paura e la collera negli occhi di Annalisa, poi gli accessi di pianto stizzoso che assalivano Luca, nella prigione dell'incapacità di esprimere la sua ansia. Poi stritolò con rabbia la sua paura e focalizzò il pensiero su Mara: la rivide con gli occhi rimpiccioliti, strapazzati dall'insonnia e dall'angoscia. Si muoveva a scatti e così discorreva. Prese tra le braccia Luca in crisi di pianto, ma per fare il suo dovere, senza tenerezza, senza un sorriso perché si rasserenasse. E gli rivenne in mente Gervaise, l'eroina de "l'Assomoir", con le sue sventure e la sua tormentata discesa verso gli inferi del degrado. Ma ripensando al toccante romanzo di Zola ebbe uno scatto, come ricordasse improvvisamente qualcosa che aveva dimenticato: "E Coupeau? Non fu proprio lui a trascinare nell'abisso della follia da etilismo, ove lui già si contorceva, la sua donna amata?" E si identificò, con spietatezza e per intero, nell'uomo crudele e innamorato, che aveva attirato con la forza bestiale dell'amore, la sua donna nella sua rovina. E lo disse a voce alta, guardando il cielo: "Non berrò più una goccia di quel veleno" Sentì subito il brivido della solitudine e del disarmo, mentre tutto quanto gli era contro, ma si disse che ce l'avrebbe fatta. Mara e i suoi figli non seppero mai che a metà dicembre, fra le strade rigide e angustie di Todi, Franco aveva fatto ai suoi cari, il più grande regalo della sua vita. All’uscita del tunnel si fermò un attimo per un ideale, affettuoso saluto al suo compagno, Purpetiello, l'operaio poco più alto di una scrivania, che aveva sovrastato come aquila reale, l'ampio tavolo da lavoro del potente capo personale della multinazionale americana del petrolio. A Bologna arrivò troppo tardi per recarsi al "fermo posta". Era nevicato moltissimo lungo la strada, ma nel capoluogo emiliano le strade erano coperte dal ghiaccio della neve di alcuni giorni prima. Si reggeva camminando a gambe aperte e muovendo un piede sempre dopo aver piazzato bene l'altro. Sapeva di essere goffo, ma la conferma gli venne da una voce femminile alle sue spalle: "Perché non prova con gli sci?" - "E lei va in giro a quest'ora di notte, per sfottere la gente che non riesce a camminare sul ghiaccio?" rispose Franco, un po' contrariato e un po' divertito. Intanto la donna, che si muoveva sul ghiaccio come sul pavimento di casa sua, l'aveva raggiunto e superato. Si volse e rispose: "Non proprio, caro signore, io vado in giro per fare il mio lavoro”. Franco fu subito certo dell'idea geniale che gli stava balenando nella testa: "Come si chiama?" - "Maria” - "Napoletana?" - "Verace. Sezione Vicaria" - "Sezione S. Cario all'Arena”, rispose Franco tendendole la mano. E risero, ma anche lei sembrava non avesse molta voglia d’allegria. - "Quando prende per una notte?" - "No, tesoro, stasera ho un mal di testa che mi spacca la fronte. Mi dispiace, sarà per un'altra volta.” - "Appunto, quando prendi per un’intera notte?" - "Ma allora sei scemo, fratello caro? Io dico che sto male, che me ne vado a nanna e tu dici appunto?” - "Ma non ti sto chiedendo di stare con me questa notte, ti chiedo quanto prendi per una notte, quando non ti fa male la testa" - "Ah! Diecimila" - "Avresti un lettino in più a casa tua? Ti pago una notte di lavoro e ti lascio dormire beatamente. Ci stai?" - "Oh bella! Ma non faccio mica l'albergatrice!" - "Senti, Maria, sono due notti che non dormo, ho perso i documenti a Perugia e non posso andare in albergo, ho un mal di testa peggiore del tuo e due notti passate nella sala di attesa della stazione di Firenze. Mi vuoi aiutare?" Nel monolocale della donna, in una traversa senza uscita nei dintorni dello stadio, Franco dormì fino alle dieci. La brandina da campeggio, nell'angolo cucina, gli sembrò un letto da principe e pensò a quanto poco occorrerebbe per la felicità di milioni di diseredati sparsi per il mondo e alla barbarica ingordigia, con cui i gaudenti si battono per impedirlo. Alla posta trovò una lettera di Mara ed un'altra di Annamaria, che lo informava che le ragazze erano ancora in carcere, che ogni tentativo di mobilitare calzaturieri e confezioniste, per la loro scarcerazione era inutile, perché era completamente sola erano scomparsi tutti. Alla fine aveva anche smesso di recarsi al Sindacato. Aggiungeva di aver spedito un vaglia con la somma che aveva raccolto tra le operaie, perché alla Camera del Lavoro e al Partito non riusciva a tirare fuori neanche una lira. Infine, senza fornire troppi dettagli, gli diceva di recarsi alla Camera del Lavoro di Modena, ove sapevano tutto e l'avrebbero aiutato come meglio si sarebbe potuto. La calligrafia di Mara era sempre stata molto difficile da decifrare, ma quella volta sembrava un diabolico intreccio fra i geroglifici egiziani e i caratteri cinesi. Ogni parola che riusciva a fare emergere, gli dava la sensazione di aver aperto uno spiraglio nella muraglia di un silenzio premeditato, quasi ostile. Contesa tra la voglia di aprirsi, di concedergli fino in fondo la sua anima e la paura di fargli del male, Mara aveva vissuto la lettera come atto di amore. Ma fece di tutto perché il suo uomo non ne uscisse addolorato, non fosse in grado di capirla. Gli aveva inviato una lettera, in cui gli diceva tutto, ma con un alito di voce, perché non sentisse. "Sfinita", "non ti seguo", "la resa", "già divisi", "forse fissata" (oppure "farla finita"?) erano le punte acuminate di un rosario di pugnali, che Franco era riuscito a strappare dalla mente della sua donna. Franco prese a meditare sull’opportunità di costituirsi. La scelta della latitanza era dettata soprattutto dalla possibilità di chiamare le categorie della FILTEA alla lotta, perché si neutralizzasse il tentativo d’intimidazione, operato attraverso l'assalto alle operaie in sciopero e la loro incarcerazione. Ma le notizie che gli pervenivano da Annamaria, sullo stato del Sindacato, non lasciavano speranze. Il carcere, d'altra parte, non era più quello degli anni '50, che non aveva mai dimenticato era una "residenza" fissa, sicura per lui e avrebbe anche aiutato l'equilibrio psichico di Mara. Senza contare che, sia pure come inchiodati in sarcofagi, periodicamente avrebbe potuto rivedere e guardare in faccia Mara e i loro figli. Annamaria aveva anche ventilato l'ipotesi in via di elaborazione, tra lei e Dino, il fratello, che gli avrebbe permesso di passare qualche giorno, in occasione delle "sante" feste, con la sua famiglia. In attesa di dettagli, Franco decise di partire per Modena. Lungo la strada (evitava sempre le autostrade) s'accorse che era abitudine locale collocare all'esterno, nelle aie, nei cortili, l'albero di Natale con i suoi fantasmagorici riflessi. Sembrava una mano tesa ai viandanti, ai vagabondi e, dato che lo attendevano per accudirlo e aiutarlo i compagni modenesi, forse anche ai latitanti incolpevoli. A Modena, avvertì subito un senso di sicurezza. Non sapeva spiegarselo, ma era certo che fra quei cittadini non c'era nessuno che potesse essere roso dal desiderio di reclinare la testa sul volante, a novanta all'ora, per confessarsi con qualcuno a seicento chilometri di distanza. Al primo bar prese una tazza di cioccolata. Gli sembrò ristoratrice; sapeva che il cacao è conosciuto in Europa dal diciottesimo secolo e si chiedeva perché lo aveva ignorato, quando decise di reperire nei bar una via di scampo. Ora il dubbio atroce sull'interpretazione giusta delle due parole ("forse fissata" o "farla finita"), andava dissolvendosi. Perché avrebbe dovuto scrivere "farla finita"? Mara non poteva permettersi propositi che la sottraessero all'obbligo della sua presenza. C'era Luca, che pareri clinici autorevoli, che si rivelarono, poi, fondati e puntuali, collocavano al centro d’infinito bisogno d’amore e attenzioni particolari, in uno stadio che, con gli anni si sarebbe configurato con inesorabile nettezza. No. Mara aveva scritto "forse fissata", alludeva a presunte apprensioni, a qualche sua mania, non poteva pensare a soluzioni troppo personali e irreversibili. Era troppo madre per farlo. Poi Franco si accorse, quasi sgomento, che il conforto che gli veniva dalla latente serenità della città della Ghirlandina, lo aveva indotto a escludere "insani" propositi (definizione cara a cronisti saccenti) nell'animo di Mara, solo per il suo ruolo di madre e che il proprio inconscio aveva spinto lui da parte, come estraneo. Alla Camera del Lavoro di Modena lo presero subito in consegna due compagni. Quello più piccolo di statura, biondino, possedeva una "500", ove Franco finì per trascorrere la massima parte delle sue giornate modenesi. L'altro, più robusto e più alto, bruno e ben piantato, abitava a via Puccini 15. Oltre alle premure, alla riservatezza perfino dei due bambini, alla disponibilità della moglie, Franco apprezzò la stufa bianca, con la sua canna fumaria, che attraversava la cucina conferendole, un ulteriore e più piacevole nota d’ambiente raccolto e accogliente. Per la notte i due compagni dovevano adottare altre soluzioni: non poteva sostare troppo nello stesso posto. Per qualche notte dormì a casa di una compagna, che viveva con una parente anziana e invalida, che forse nemmeno si accorse della sua presenza. Quella ragazza, dalle forme procaci, dal viso tondo ed estremamente comunicativo, forse romagnola, si dette subito un gran da fare, per preparargli un buon letto caldo. Offriva così, rischiando di persona, il suo contributo alla lotta per gli ideali comuni e certamente il suo cervello non era attraversato da altri pensieri. Ma in quella grande casa quasi disabitata, silenziosa, calda, quella giovane donna dal corpo sinuoso, che si muoveva con incolpevole leggiadria fra armadi e cassettoni, ancheggiando per imposizione di madre natura, a quale uomo non avrebbe iniettato imponenti dosi di eccitazione e di desiderio? E invece Franco la guardò sempre e soltanto con l'affetto e il senso di riconoscenza dovuti a una sorella servizievole e devota. Sempre, anche quando, quasi rimboccandogli le coperte, gli augurava la buonanotte. Se “la felicità non è un regolato scorrimento di lubrificanti endocrini", come assicurava Ezra Pound, bisogna ritenere che per dar ragione al poeta americano, occorre proprio tutto lo stato d'animo sfilacciato, tritato, in cui languiva Franco in quei giorni. Ma non durò a lungo. Provvidero i suoi angeli custodi, che lo trasferirono in riviera, affidandolo alle cure di una brava donna, molto avanti negli anni e claudicante per artrosi diffusa. Era la moglie del custode d’alcuni alloggi che la Camera del Lavoro di Modena possedeva per le vacanze estive dei lavoratori. La custode, certamente una compagna di stampo antico, tornava frequentemente nella stanza dell'ospite, anche a notte inoltrata, nel tentativo materno di alleviare le immaginabili sofferenze di Franco, per il freddo impossibile, che sembrava volesse celebrare la definitiva vittoria su chi l'aveva sempre odiato. A fatica e sofferente per l’andatura stentata, gli portava di volta in volta, la borsa calda, la camomilla bollente, o altre coperte. Quella dolcissima donna non riusciva a prendere sonno al pensiero dell'inquilino imprevisto, che la polizia braccava e non era capace di arrestare e che il freddo stava tranquillamente sbranando. Franco si levò varie volte (senza molto rimpianto) dal letto, per prendere fra le mani la grossa lampada da cento watts e rubarne il calore. E se ne tornava a letto con le mani ancora gelide, ma anche ustionate. Cercò di aiutarsi pensando che sarebbe stato peggio affrontare la notte nella utilitaria, bloccata sulla montagna, nella neve e sotto la tormenta. Attese conforto dal pensiero rivolto intensamente a Monteluco. Attesa inutile. Le indicazioni di Annamaria erano precise. Doveva lasciare la macchina a Roma, prendere il treno, discendere ad Aversa, ove lo attendevano gli anziani genitori, ansiosi di riabbracciarlo e un'auto, che l'avrebbe condotto nell'appartamento ammobiliato, dov'erano Mara e i figli ad aspettarlo. Sul treno c'era molta gente, in gran parte emigrati che venivano dalla Germania e dal Belgio, per trascorrere le feste con le proprie famiglie. Erano felici, bevevano Chianti dai fiaschi. Erano siciliani e napoletani. Notarono Franco e due di loro gli si avvicinarono - "Voi vedete come siamo contenti? Ma se non accettate di bere con noi, qui nessuno beve più una goccia di vino, ci ammosciamo tutti, sarà un funerale.” - "Lo farei volentieri, ma soffro di fegato..."Ma noi non vi chiediamo di ubriacarvi, per carità, ma un sorso con noi ve lo dovete bere". E l'altro, napoletano, in aiuto del compagno: "Questo caccia i cattivi pensieri, vi farà bene, non vi preoccupate, ca tutte s'acconcia." Franco bevve alcuni sorsi. L'avrebbe fatto anche con la cirrosi epatica allo stato terminale. Alla stazione di Aversa, secondo copione, Franco riabbracciò la madre. Tremava, gli prese il mento fra le mani, come fosse un bambino e gli diceva di avere fiducia, di non scoraggiarsi, che la Madonna l'avrebbe aiutato. E pensava che quel figlio "scapato" non aveva ancora messo la "testa a posto". Il padre non riusciva a parlare, lo guardava, gli mise più volte la mano sulla spalla, facendola poi discendere lentamente, in una carezza che non voleva sembrare di esserlo. C'era anche Dino, che dall'episodio di Firenze, capiva quanto doveva essere dura la latitanza del fratello. Lo abbracciò più volte senza parlare. Con tutte le buone ragioni che gli scoppiavano dentro. Franco non riuscì a non provare un po' di rimorso. Annamaria mise in moto lentamente. Come volesse rispettare al meglio possibile il dolore dei familiari di Franco, che erano rimasti fuori dal bar, ove avevano preso insieme il caffè e salutavano con la mano, sporgendosi in mezzo alla strada, per non perdere di vista l'auto, che riportava Franco lontano da loro. - "Come va, Annamaria?" La giovane donna, che non riusciva assolutamente a dargli del tu, anche se aveva qualche anno in più di lui, rispose con prontezza: - "Siete voi che dovete dirmi come va." - "Non bene. Non potrei proprio negarlo." - "Presto si risolverà tutto. L'avvocato D'Alessandro, che come sapete è una persona seria, dice che si sta mettendo bene." - "Le ragazze stanno ancora dentro?" - “Si.” - "E per forza. Bastonate a sangue ed incarcerate, per intimidire e bloccare il movimento di lotta della categoria, nessuno si muove, nessuno fiata, spariscono tutti, perché dovrebbero scarcerarle?" - "Franco, io da sola non potevo fare niente." - "Non si discute. Ma perché sei rimasta sola? Dove sono finiti gli altri dirigenti del sindacato? E la Camera del Lavoro? E il Partito? E l'U.D.I.?" - "Questo non lo so..." - "Hanno dato l'incarico all'avvocato. Ma che bravi!" - "Franco, vi prego. Non cominciate a rodervi il fegato, ora pensate solo che tra pochi minuti riabbracciate vostra moglie e i vostri figli e lasciate fottere tutto il resto. Cristo!" - "Sto pensando di costituirmi." - "Ma siete impazzito?" Ma erano arrivati e Franco fu salvo. Annamaria accostò la vettura al grosso portone di uno stabile vecchio, stonacato e annerito, sul lato destro del Corso Novara. Aprì il portoncino con la chiave, come fosse quello di casa propria, disse: - "Ora andiamo sopra, poi tornò giù a prendere i bagagli. - "Ma dove siamo, di chi è questo appartamento? Vuoi farmi capire qualcosa?" - "Non v'impicciate, venite appresso a me e state zitto." A Franco piaceva quel senso di sicurezza della sua fragile compagna, lo riportava addietro di molti anni, quando era normale che qualcuna pensasse per lui. Anche allora era una persona fragile e indifesa, che sapeva infondergli tutto il coraggio e la forza di cui aveva bisogno. Si riabbracciarono prima tutti insieme, in un unico abbraccio. Era impressionante come Mara fosse proprio come l'aveva "vista" Franco, quel giorno che, a Todi, tentò di "indovinare" i volti e lo stato d'animo dei suoi familiari. Sorrideva per ossequio alla prassi, si muoveva a piccoli scatti parlava poco, a monosillabi, laconica come priva di forze. Tuttavia guardava spesso Franco diritto negli occhi e gli si avvicinava per una fugace carezza sul viso. Luca diventò l'ombra del padre, lo seguiva tenendogli una gamba fra le magre braccine, come un gattino affamato con il suo benefattore. Annalisa gli parlò di Vignola. Disse che spesso accompagnava la madre nell'ingrata incombenza di chiedere soldi per il sostentamento. Concluse che lo odiava. Franco non riuscì a convincerla che forse era sincero, che l'organizzazione è effettivamente povera, senza molti mezzi. Da una finestra del grosso appartamento, arredato rigorosamente all'antica, scarsamente illuminato e freddo come uno scantinato, si poteva, in compenso, guardare fin dentro gli uffici del Commissariato di Pubblica Sicurezza della Sezione Vasto Arenaccia. Franco pensò che se l'avesse visto quel brigadiere magro e biondiccio, sempre con le mani ficcate nelle tasche di un cappotto troppo lungo, che incontrava spesso fuori alle fabbriche del quartiere, l'avrebbe arrestato, ma gli avrebbe anche detto in un orecchio: "Ve l’avevo detto? Avete visto se era vero che si stava tramando alle vostre spalle, che dovevate stare attento, che non dovevate fidarvi di nessuno? Che vi dicevo?" La sera del 31 dicembre, l'anno 1966 premeva alle porte del mondo. Alle dieci i ragazzi andarono a dormire. Annalisa, che a dodici anni non aveva fatto la prima comunione, per la nostra scarsa convinzione religiosa, fu sorpresa da Franco in ginocchio vicina al letto, a pregare. Chiedeva a Dio che nella notte non venissero le guardie a portare via il padre. Poco prima della mezzanotte andarono a letto anche Franco e Mara. Dormivano nella stessa grande camera da letto, così si stava più vicini. Quando cominciarono le deflagrazioni dei primi fuochi d’artificio, assordanti, quasi bombe, come all'epoca era consuetudine a Napoli, Mara si levò dal letto con molta, inutile cautela. Franco la raggiunse nella sala da pranzo e osservò che nonostante il freddo intenso (non c'era il riscaldamento), aveva solo la camicia da notte e non si era nemmeno portata lo scialle, che lei stessa si era preparata, adagiandolo sulla sedia vicino al letto. Guardava in strada attraverso una tapparella della persiana che era stata sempre chiusa, le mise una mano sulla testa e lei si voltò lentamente, appoggiò le mani sulle sue spalle e le strinse con forza, come per aggrapparsi. Scivolava sul pavimento. Franco riuscì a sorreggerla con le mani sotto le ascelle, ma lei continuò ad accasciarsi, cadendo sfiorò con le mani il suo viso e lui si accorse che erano freddissime. Riuscì a risollevarla e ad adagiarla sulla poltrona più vicina e si accorse che anche il viso era freddo come il ghiaccio. Franco ebbe molta paura, gli veniva da piangere. Non aveva alcuna possibilità di aiutarla, in casa non c'era telefono e le strade erano sommerse da valanghe di fuoco e scintille, che cadevano come cascate. Lo lacerava un soffocante senso d’impotenza. Si sedette per terra tenendo fra le sue le mani gelide della donna, si sentiva piccolo come un microbo, inutile come un barbone, quando si accorse che non raggiungeva con le mani il viso della donna, si mise in ginocchio. In ginocchio ai piedi di Mara: gli parve anche che ciò lo appagasse, gli sottraesse un po' di paura e le stesse assordanti esplosioni che scuotevano vetri e imposte, gli davano una sensazione surreale, in cui tentava di ricacciare, come non vero, quanto accadeva quella notte, in quella casa antica e sconosciuta. Il calore della vita tornò lentamente, dopo cinque eterni minuti, nelle mani, nei piedi e nel viso di Mara e pareva che tracimasse, inserendosi nelle sue arterie, nelle sue viscere, come quando beveva il drink. - "Perché?" - Ripeteva l'interrogativo con alito di voce e agitando lentamente la testa. Quei "perché" si conficcavano nel cervello di Franco, diritti, invasivi, quasi fisicamente. Dopo circa una settimana le ragazze furono scarcerate e il mandato di cattura a carico di Franco fu revocato. Dopo qualche giorno d’esitazione, Franco si recò al sindacato. Fu accolto da una porta chiusa, sbarrata e un cartello violaceo fosforescente: "Affittasi". Dal vecchio custode apprese che i tre compagni che dirigevano il Sindacato insieme a lui, due comunisti e un socialista erano stati "premiati". Uno aveva avuto la titolarità di un'importante agenzia dell'UNIPOL, un altro era diventato funzionario della "Cassa Soccorso ATAN" e l'altro allo INCA-CGIL l'Istituto presieduto da quel senatore Bitossi, che per primo negò uno straccio di solidarietà all'appestato. Si erano seduti, se mai erano stati in piedi. Ma anche per Franco era pronto un posto a sedere. Se ne incaricò Ferrante, il vice di Vignola, assicurandogli che si trattava di un posto di prestigio, sicuro e ben retribuito. Franco reagì con lo stesso sdegno con cui aveva respinta la turpe offerta del dr. Emilio Bonanomi, capopersonale della Raffineria, quindici anni prima. Sentì che aveva percorso un labirinto diabolico lungo quindici anni, irto di asprezze inumane, dal carcere alla miseria nera, distruttiva, alle aggressioni fisiche, al coinvolgimento grave della salute e della serenità della sua famiglia, per ritrovarsi allo stesso posto, di fronte alla stessa forma di uomo, lo stesso linguaggio suadente, la stessa ferma convinzione di poter piegare il dissenso, la dignità, gli ideali, la coscienza di chiunque, a furia di calci in faccia o di mucchietti di banconote sul tavolo della trattativa. I "perché" di Mara, al risveglio dal collasso, gli ritornavano nella mente con violenza selvaggia, gli torcevano l'anima. E diventarono anche suoi. Come il calore che era tornato nella mani e sulle guance della moglie, in quella notte di Capodanno. Ora poteva anche guardare in faccia la realtà con maggiore coraggio. Sentiva che si era ormai aperta la porta di una specie di stanza degli orrori. Inutile, quindi, fingere ancora di dimenticare, che solo i suoi tre collaboratori nella segreteria del Sindacato sapevano che aveva una sorella sposata a Spoleto con un carabiniere, la cui casa, in presenza di problemi giudiziari, poteva essere un rifugio insospettabile. Aveva scherzato, non l'avrebbe mai fatto, ma loro evidentemente, gli credettero. Perché le case d’altri due fratelli a Roma e di due altri a Napoli stessa, non furono mai disturbate dalla polizia, nemmeno con una gentile colpo di citofono. Lo stalinismo, più rude e saldo che al Cremlino, da sempre radicato nel gruppo dirigente del PCI a Napoli e la marcata tendenza del clan ad abolire il primo dei due sostantivi nello slogan del momento, Partito "di lotta e di governo", valorizzando al massimo il secondo, non bastavano ancora, secondo Franco, a spiegare la violenza inaudita, con cui si era voluto annientare il suo dissenso, peraltro coinvolgendo i destini di migliaia d’operai, che in fabbriche nascoste negli scantinati, vivevano nelle condizioni dei tempi del padrone delle ferriere. Allora gli parve che l’angosciosa ricerca dei "perché", dovesse guadagnare il largo, dovesse uscire dalle stanze, di piccole federazioni di partito e puntare sull'uomo, sui valori, sugli ideali e sul diritto di cittadinanza che l'umanità era ancora disposta a concedere loro, ma non aveva appigli per una globale deprecazione, che affievolisse il bruciore delle sue ferite: aveva conosciuto, nelle fabbriche e nei campi eroi oscuri, santi autentici, senza speranze di beatificazione e nemmeno di paradiso. Erano uomini anche quelli. Interrogativi lo inseguivano, lo spaventavano, temeva risposte tremende. Come grossi chicchi di grandine, le domande inquietanti picchiavano contro i vetri della finestra che lui aveva chiusa impaurito, ma da cui non voleva allontanarsi. Si chiedeva se la vita intera dedicata ad un ideale, ritenuto valore assoluto, non offrisse altro risultato che il vuoto agghiacciante che ora, sulla via del ritorno, si portava a casa dopo aver speso tutto. Si domandava se non avesse lanciato nel fuoco della battaglia, anche risorse e beni che non gli appartenevano, che erano inalienabili spettanze della sua donna e dei suoi figli. Voleva capire quali erano i limiti e le congiunture, che pretendono di condizionare valori che ancora riteneva universali. Cercava di immaginare quale evento straordinario potesse ancora stirare le labbra di Mara ad un sorriso e alla vita. Corse con il pensiero fino alla baldracca. che il Bonanomi cercò in lui quando tentò di sradicare la dignità dalla sua anima e di calpestarla. Vide la distanza che separava la sua condizione reale da quella presumibile, nel caso che avesse accettato di inginocchiarsi. Ricordò le urla della sua compagna, che lei stessa soffocava, nei momenti di disperazione. E poi, la domanda che era la sua pugnalata alla schiena: lo avrebbe rifatto? Affioravano risposte che minacciavano di cacciarlo in una sorta di galera a vita, nelle cui celle si tollerasse una pistola sotto il guanciale, piuttosto che uno straccio di ideale, quale che fosse. Galera che gli avrebbe tarpato, di dentro, la stessa ragione di essere, la sua anima. Si chiese quanto affollato fosse già quel carcere e quanta umanità premesse alle sue porte di ingresso. E per quanti quelle porte si sarebbero aperte. Rivide i montoni di Hikmet sospinti sempre più numerosi verso la grande stalla e i bastoni dei loro mercanti abbassarsi sempre più violentemente sulle loro carni. Gli parve, quindi, di allontanarsi ancora una volta dalla disgraziata mandria, quando il giorno dopo si ritrovò nei locali della Camera del Lavoro. Vi si era recato anche nel tentativo ingenuo di esorcizzare gli incubi che lo avevano depredato il giorno prima, ma vi tornò soprattutto per affermare e rivendicare il suo diritto di rimanere nell'apparato dell'organizzazione. Calmissimo, l'armadio a muro, l'inamovibile Ferrante (Vignola, per motivi misteriosi, si assentava da alcuni giorni), gli chiese come intendesse essere impegnato e la risposta fu immediata e di inaspettato candore: - "Devo ritessere i fili del Sindacato che si è sfilacciato in questi mesi, credo che ce la farò.” - "Ma sei solo, non hai più collaborazione, come pensi di potercela fare?", - contrappose Ferrante, con serenità anche troppo ostentata e una vena robusta di provocazione che forse sfuggiva a lui stesso. Franco gli fece presente che per l'assenza totale di collaborazione era allenatissmo e che contava, come in passato, sull'aiuto degli stessi operai. Capitolo ventidue. La soluzione finale La decisione di Franco rimbalzò veloce come saetta nella stanze di via Loggia dei Pisani. Ove si pervenne rapidamente, senza più indugi, alla "soluzione finale". La scelta del killer ricadde su un comunista di rilievo; il segretario politico della sezione del PCI di Fuorigrotta, una fra le più grandi e importanti sezioni della città. Era il "compagno" Gambardella, incredibilmente impiegato nella "Lavanderia Partenopea". Così Franco apprese, sbigottito, che all'interno della stabilimento, la cui ostinata resistenza allo sciopero aveva provocato la selvaggia aggressione e l'incarceramento di trenta sciagurate ragazze operaie, lavorava, con mansioni direttive di rilievo, un dirigente del Partito Comunista. Era anche cognato dell'imprenditore: gli aveva dato anche la sorella. Il marxista di Fuorigrotta riferì, secondo la versione ufficiale, alla Federazione del PCI e alla Segreteria della Camera del Lavoro, che Franco era corrotto, che gli scioperi erano la sua risposta alle aziende, che non accettavano di pagargli la tangente. Il "credito” alla notizia, da parte delle due segreterie, fu totale ed immediato. La notizia si propagò, come la fiamma di una bomba al napalm, sospinta da sapiente regia, in tutti gli ambienti politici e sindacali. Da Franco, nessuna reazione. E non soltanto perché nessuno poteva chiedergli di allestire la vetrina dei suoi meriti e della sua onestà, ma perché era pietrificato a fissare lo scenario, ben più vasto e imponente, della sua"montagna sacra", che si sgretolava. Grossi faldoni, che scivolavano, come sospinti da melma, nella radura piatta, arena di risse fra gnomi, alla ricerca del puerile vantaggio personale. E il suo grande, immenso, infinito Partito Comunista? Egli capiva che l'inerzia, con cui affrontava la colata di fango scaraventatagli addosso, costituiva il terreno ideale, per il pieno successo della pazzesca manovra, ma sentiva profondamente e suo malgrado, che ogni suo gesto teso al contrasto, alla smentita, lo riduceva, lo rimpiccioliva. Egli si sentiva percosso selvaggiamente anche nel suo spirito rivoluzionario, nel suo midollo spinale, perché aveva dell'onestà un concetto personale. Collocava d'istinto, le lusinghe e gli adescamenti della corruzione, fra le armi più sofisticate ed efficienti del potere arrogante, da battere e sovvertire. E si sentiva ferito anche nel suo orgoglio di padre, perché sempre, ad ogni calcio che vibrava alle poltiglie di lordume, che gli lanciavano sul cammino egli correva con il pensiero ai suoi figli e avvertiva di averli ancora una volta amorevolmente preservati dal liquame. E provava un profondo senso di liberazione e di gioia. Stavolta non era il maldestro attacco lanciato contro Francesca Spada, con la grossolana intenzione di oscurare le figure splendide di Renato Caccioppoli, Renzo La Piccirella e la sua compagna. Era evidente che negli intervalli avevano affinato la tattica, avevano perfezionato l'ordigno. Stavolta colpivano mirando diritto al cuore, volevano “tabula rasa” all’ultimo sangue. Per Francesca Spada e altri dopo di lei, si voleva ferire, si aggrediva un aspetto della personalità della vittima, non l'intera storia, la vita, la sua essenza totale. Il liquame venefico, questa volta, veniva sparso sotto la porta di casa, veniva fatto colare nella sede del Sindacato, veniva fatto schizzare sulle tessere del Partito Comunista e della CGIL, si lasciava gocciolarlo sulle teste dei figli, nel cuore della sua donna: la distruzione totale. Ne usciva il sindacalista virgolettato, che in realtà se ne fotteva allegramente delle barbare condizioni delle giovani maestranze, confezioniste e calzaturieri, che consumavano la loro giovinezza negli scantinati. E la passione che infondeva nei suoi comizi, nelle piazze gremite di lavoratori finalmente in lotta era la recita, la turpe commedia del lestofante, che in quella sconcertante realtà, ravvisava soltanto nuove buone occasioni, per impinguare le proprie tasche, o il conto in banca. Ma non finivano neanche qui, l'irruenza e la furbizia del sofisticato congegno. Si era voluto spargere melma proprio sulla peculiarità della conduzione sindacale di Franco. I frequenti scioperi, le instancabili lotte, le quotidiane manifestazioni, invisi ai dirigenti della Camera del Lavoro e del Partito, diventavano proprio il passaggio attraverso il quale si sarebbe esercitato il disonesto maneggio. Gli telefonò a casa il titolare della Lavanderia Partenopea, lo scongiurava di non negargli un appuntamento, perché aveva impellente bisogno di conoscerlo e doveva dirgli cose urgenti e importanti. Si incontrarono, alla presenza del consulente del lavoro Rocco, di Portici, in un locale pubblico ai Ponti Rossi. L'imprenditore volle subito assicurargli che era del tutto estraneo alla "menzogna pazzesca", messa in giro dal dipendente-cognato; che non capiva come gli fosse venuto in mente e perché lo aveva fatto; giurò e lo avrebbe messo per iscritto, che sarebbe venuto volentieri e spontaneamente a testimoniare in Tribunale, se Franco avesse querelato Gambardella, per accusare e smentire suo cognato. Franco ringraziò. Di querele, neanche a parlarne. Ci si muoveva su un piano mille miglia distante da un'aula di tribunale, in cui spettasse ad un giudice stabilire chi aveva ragione e chi aveva torto. E fece violenza a se stesso, quando decise di recarsi alla Federazione del Partito, per parlare con Alinovi. Era in attesa nel corridoio d'ingresso. Il piantone Giorgio Quadro ex operaio della Naval Meccanica, lo salutò con insolita effusione, quasi lo abbracciò e quando passò di corsa, verso l'uscita, il deputato Giorgio Napolitano, gli si parò davanti e gridò, per costringerlo a fermarsi: - "Ma, insomma, Napolità, che è sta questione, che sò ste chiacchiere sul conto di questo compagno, chi le ha messe in giro?" Ma Napolitano riuscì a driblarlo e ricominciò a correre e correndo, fuggendo, rispose: - "Ah, non lo sai, è semplicissimo, fa il sindacato all'americana, o mi paghi o ti faccio lo sciopero!" - "Ma che cazzo dici, fermati per Dio!" - urlò il compagno Quadro inutilmente. Napolitano era sparito. Quando sopraggiunse Franco, non seppe dirgli se era andato per le scale o se si era introdotto negli uffici, dall'altra parte del pianerottolo. Forse non volle dirglielo: Franco aveva sentito un impeto di fuoco raggiungergli il viso, il cervello e le sue mani tremavano come colte da improvvisa crisi convulsiva. Se aveva mentito, Giorgio Quadro fece bene a non dirgli dove era andato Giorgio Napolitano. - “Fa subito un esposto alla Commissione Federale di Controllo, scrivi alla Direzione di Roma; muoviti, fa qualcosa, vogliono farti fuori, lo capisci?", - lo scongiurò il compagno Quadro. - "Sì, lo capisco, ma non faccio proprio niente. Ciao" - fu la risposta di Franco. Dopo poco più di una settimana, il vecchio, malandato piantone ,della Camera del Lavoro, Giovanni, ultraottantenne, giunse a casa di Franco e gli consegnò una lettera. Disse che non se le era sentita di aspettare che si facesse vivo in ufficio, perché era sicuro che la lettera era molto urgente e molto importante. E aggiunse che non aveva telefonato perché per telefono non si possono dare le lettere, lui aveva fretta di consegnargliela. Per fortuna, Mara era andata a fare la spesa e Franco, dopo avere fatto sedere Giovanni, affannato e con tremito delle mani più accentuato del solito, poté aprire e leggere la lettera. Era redatta dalla Commissione Federale di Controllo, che insolitamente non aveva atteso l'istanza ed era intervenuta spontaneamente. Comunicava di avere svolto gli accertamenti che il caso richiedeva ed esprimeva profondo rammarico per "l'iniquità", cui Franco era stato sottoposto; formulava ampie e profonde scuse, a nome di tutto il Partito; e per conto del Partito rinnovava la gratitudine e il plauso per il lavoro instancabile, che egli aveva sempre svolto al servizio degli ideali, che sono la ragione di vita del Partito Comunista. La Commissione era presieduta dal senatore Mario Palermo ex ministro della Difesa, lustro indiscusso della sinistra napoletana ed era composta da personalità di eccezionale statura politica e culturale. Franco non se la sentì di contrapporre condizioni. Ne parlò al senatore Fermariello, che lo cercò per rimproverargli fraternamente di non essersi rivolto a lui, ancora una volta, nel corso dell'indegna vicenda. Franco rivendicò l'espulsione dal Partito di Gambardella e Napolitano, perché non poteva esserci posto, nello stesso partito, per lui e per i due personaggi. Il senatore lo scongiurò di desistere. E Franco non accolse l’esortazione. Il compagno Niola, funzionario della Federazione, che era stato l'inconsapevole tramite dello scoop, tra Gambardella e la Segreteria, non immaginando che l'ordigno era stato fabbricato proprio in quella sede, apparve prostrato nella venerazione di Franco. Lo invitò a casa sua con la famiglia, perché la moglie e i figli volevano conoscerlo, volevano abbracciarlo. Evidentemente ne aveva parlato anche in casa. Franco lo avvertì che Mara era ignara di tutto e non lasciò cadere l'affettuoso invito. Quando Franco e Mara si recarono a casa sua, al rione INACASA a via Piave, fece quasi tenerezza. Saltellava come il cameriere zelante intorno al tavolo del pezzo grosso. Gli imbottì le tasche di leccornie da portare ai suoi figli; voleva telefonare alla vicina pasticceria perché portasse subito una grande torta. Poche parole per Mara, la guardava di soppiatto e arrossiva. Povero, caro compagno Niola. Furono in molti a cercare Franco: vigorose e prolungate strette di mano, pacche sulle spalle e mai un cenno all'ignominia che lo aveva investito. E non si capiva se per riservatezza, per rispetto, o perché le parole, necessariamente di riprovazione per l'accaduto, avrebbero potuto irradiare echi nelle stanze dei capi. L'onorevole Andrea Geremicca, che per avere sposato Tina, figlia del compagno La Gatta, commissario di Fabbrica in Raffineria, conosceva il passato di Franco, gli tenne strette tutte e due le mani per quasi cinque minuti, ma non gli era mai capitato di incontrarlo prima del verdetto della Commissione Federale di Controllo, nè aveva mai avuto il tempo di parlarne ai suoi Capi. Nessuna reticenza, invece, per Giulio Formato de "l'Unità", che gli telefonò appena ebbe notizia della rozza manovra, per dirgli "Che schifo" e tornò a telefonargli a operazione esaurita, per dirgli "Che merda". E Giulio, per penuria di spazio nella redazione, quando parlava al telefono, quasi sfiorava il corpulento Aldo De Jaco, il macrocefalo messo di guardia in quella sede da Napolitano, Chiaromonte e Cacciapuoti. Precauzioni non ne avrebbe avute nemmeno Giorgio Quadro, il piantone, se avessero avuto occasione di incontrarsi ancora. Ma non ne ebbero. Perché Franco rassegno le dimissioni dal Partito Comunista e dalla CGIL. E gli sembrò di suicidarsi. Lasciò anche Napoli per qualche anno, per un probabile lavoro di giornalista a Roma, con Mara e Annalisa, che non sapevano e con Luca, che non avrebbe saputo mai e che lui e Mara portavano per mano, stigma che li avrebbe segnati per la vita. S'incamminavano per le strade sconosciute, tracciate nelle tenebre di un avvenire inimmaginabile, che attendeva Franco ancora al palo di partenza, a quasi cinquant'anni. Lasciava macerie alle sue spalle e innanzi non aveva che il vuoto. Mara lo esortava ad aprirsi con più speranza alla nuova esistenza. Senza saperlo, sorreggeva un uomo sulla via del nulla, del vuoto, che sapeva di essersi dimesso da se stesso. Lo attanagliavano interrogativi che erano veri colpi da maramaldo. Era stanco, confuso, disorientato, quasi impaurito di una solitudine che lo opprimeva. Si chiedeva se non fosse già andato a rinchiudersi nel carcere delle anime tarpate, se non fosse già parte della mandria di montoni sospinta dal nodoso bastone del mercante. Sentiva dentro di sé il bruciore di una tenaglia rovente, da cui non tentava di evadere, che riteneva equa, meritata. La sua convinzione della possibilità concreta di sovvertire gli ordinamenti iniqui, di cancellare la sudditanza di enormi masse di uomini, proni alla volontà e agli interessi di ristretti gruppi di potenti, sopravviveva in lui caparbia, ma andava sempre più assumendo i tratti dell'eremo, che si contenta di declamare, per se stesso, la letizia della pace e del silenzio. La ferma convinzione della priorità dei valori essenziali sopravviveva in lui e riusciva ancora a proteggerla dalla canea, dalle urla triviali, dalla folla, che rincorreva, laggiù nella città tumultuosa, i propri puerili interessi, il benessere di se stessi, senza gli altri, contro gli altri. E distingueva senza odio e nemmeno deprecando, ma con vivo dolore, nella ressa di esagitati, i propri assalitori, quelli che ingiungevano l'alt alle lotte operaie, alla voglia di riscatto dei subalterni, per meritarsi il certificato di buona condotta, l'idoneità al potere, a qualunque costo, scalciando come indemoniati, contro ogni limite, ogni regola, senza scrupoli. Ed erano questi i momenti in cui provava sollievo a seminare chilometri su chilometri tra lui e la sua Napoli; gli sembrava di lasciarsi dietro incubi mostruosi, che riuscivano a suscitare la sua rabbia, ma anche paure, avvilimenti quasi infantili. Mara aveva creduto alla sua versione dei fatti, sapeva che aveva mollato tutto per assicurare finalmente un po' di serenità alla famiglia. E, nonostante il ritardo con cui l'avrebbe fatto era piena di premure e di gratitudine per il suo compagno. Che si vergognava come un ladro. Il loro amore era approdato incredibilmente indenne. Erano andati per erte impervie e non sempre mano nella mano e spesso nemmeno tanto vicini, ma le unghiate che li avevano martoriati, non erano mai penetrate a fondo, fino a ledere, o lambire, l'essenza interiore del loro legame. Vivere insieme, per loro, non era mai stato soltanto passare i giorni nella stessa casa, l'uno vicino all'altra. Essi si erano calati nell'altro diventandone parte cospicua. L'identificazione, solo in parte voluta dallo slancio d'amore era anche il risultato dell'opera di intelletti volenterosi, che avevano trapiantato, di volta in volta, dolore, rabbia, dignità e forza d'animo, dall'uno all'altro, senza ombra di rigetto. Per cui, nei momenti più duri del loro rapporto, ogni ipotesi di soluzione banale appariva remota, non pertinente, insensata, mediocre. Quando Mara, la sera di San Silvestro, nella gelida e grande casa rifugio di corso Novara, prendeva lievemente fra le sue dita appena il mento del suo compagno, come si fa con il bambino sofferente per cui si trepida, ma che non si vuole violare nemmeno con un bacio sulla guancia, era sì la giovanissima amica che Franco scelse e trascinò nel tugurio di via Foria, ma era anche molto di più. Imparavano insieme la forza poderosa di nuovi sentimenti, nuovi trasporti emotivi, di cui non sospettavano l'esistenza. Comprendevano che voler bene è ben altro, assai altro, che dismissione di amore o di passione: è il bacio che va a posarsi sugli occhi, anche rosi dal tracoma, se hanno pianto di dolore e di amore. La calda carezza che sfiora il viso, anche butterato dal vaiolo, se è mille volte sbiancato, per pene, paure e ansie d’amore. E Franco, in particolare, che in quei giorni, in un’eccitata visione delle dimensioni, sentiva sulla pelle l'odio selvaggio delle due metà del mondo, follemente accanite contro di lui, aveva il vitale bisogno di approdo su rive sicure, su terraferma solida e riposante. Aveva bisogno di lei, di Mara. Insieme ai suoi figli, gli appariva come l'unica certezza, in un deserto di miraggi rivelati. Franco la fissava, a volte, in segreto, alla sua insaputa e ripensava ai versi del poeta cileno: "...Non mi fermai nella lotta, non cessai di marciare verso la vita, verso la pace, verso il pane per tutti, ma ti alzai fra le mie braccia e t'inchiodai... e ti guardai come mai occhi umani torneranno a guardarti”. Era necessario che uscisse dal coacervo di sensazioni e pensieri laceranti, spesso contraddittori, a volte incoerenti, che lo tenevano stretto in quei giorni e ancora avulso da quanto gli accadeva intorno. E intorno c'era la sua famiglia, c'era Mara che, trascinata da lui, aveva sacrificato ad un dio, che ora andava trasfigurandosi in pigmeo ansimante nella corsa al tornaconto, gli anni irripetibili, i più determinanti della sua esistenza; c’era Annalisa, derubata del diritto all’infanzia, alla letizia dell’innocenza. E c'era Luca, cui avevano tracciato, con mano sicura, un percorso ostile, oscuro, senza speranze di schiarita, che gli permettesse di riconoscere e cogliere diritti inalienabili, che ad altri vanno elargiti per naturale giustizia. Così, inutilmente, Franco e Mara si chinarono per la vita, a srotolare tappeti morbidi e caldi, innanzi alla andatura incerta del loro ragazzo triste. Capitolo ventitre. Residui scrosci BIAGINO Durò poco più di un anno la permanenza a Roma. Tornarono a Napoli per avere quello che la Capitale non offriva. Per il recupero, da parte di Mara, della voglia di vivere e per il bisogno terapeutico di Luca di essere circondato da calore umano, non potevano restare "forestieri". A Napoli c'erano le famiglie, le sorelle di Mara, tanti amici e soprattutto c'era Biagino, una sorgente imponente d’amore in particolare per Mara, la sorella prediletta e per Luca, cui era molto legato. Biagino fu felice del loro ritorno, non aveva mai smesso di sollecitare Franco a rientrare. Ma non durò molto. Circa un anno dopo, quando Franco accorse alla telefonata concitata di Mara, Biagino era già morto. Lo aveva stroncato l’infarto, il coagulo di poche gocce di plasma aveva distrutto una vita passata a lottare strenuamente, per il diritto di vivere. Mara sembrò che impazzisse. A Luca non si poté dirlo per quasi due anni. Tra sgomento e incredulità, Franco riviveva sensazioni che non aveva dimenticato. Gli sembrava che una scure gigantesca avesse infranto la sua stessa integrità fisica, che gli toccasse andare in giro sfigurato per il resto della vita. Proprio come allora. Si era appena concluso (quasi surreale, inammissibile) il funerale di Biagino. Mara e Franco si aggiravano per casa come anime smarrite, che solo l'inquietudine teneva in vita. Vivevano le ore in cui, solitamente, il trauma che sconvolge pare si dissolva e invece diventa dolore che attanaglia. Come l'alluvione che pare si prosciughi e invece si nasconde, dipanandosi in rivoli, che s’insinuano nel profondo ed erodono, a volte mutilando fondamenta anche solide. Fu allora, nell’incipiente travaglio della mutazione del risentimento, che Davide Cortese telefonò a casa di Franco. Questi era un compagno dai trascorsi di valoroso sindacalista, costretto ancora giovane, dalla cirrosi epatica, a vivere gli ultimi istanti di impegno politico alla direzione del sindacato dei pensionati. Gli disse che per sapere il suo numero di telefono si era recato nel quartiere degli Orefici, ove sapeva che c'era un suo cognato infilatore di perle. - "Tuo cognato non ti ha detto niente?" - “No” - “Gli ho detto che ti cercavo urgentemente, che è stato presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge che ti riguarda personalmente. Devo vederti subito." - "Quando lo vedesti?" - "Ieri l'altro, da allora non l’hai ancora incontrato?" - “Sì”. - "E non ti ha detto niente?" - “No” - "Ma come ? Parlammo a lungo, simpatizzammo..." - "Di che cosa parlaste?" - "Di tutto. Quando toccammo il tasto delle ragioni per cui tu mollasti tutto, reagì come se lo sentisse per la prima volta. Si senti male….” - "Male in che senso?" - "Divenne pallido, pareva che si accasciasse, si portò una mano sulla fronte e con un filo di voce disse "carogne..." e non disse più una parola. Ma lo sapeva? O non gli avevi mai detto niente? Franco, mi senti?" -"Si, ti sento!" -"Ora come sta? Sta bene?" - "Va be', ti ringrazio. Verrò domattina in ufficio e parliamo." BONANOMI A quel tempo vigeva un'apposita legge, che sanciva il divieto per i dirigenti sindacali, di avere una posizione assicurativa per la pensione (una estrema lubrica forma di persecuzione antioperaia). Si prefigurava, quindi, un degno corollario, per la vecchiaia di Franco e Mara. Giunse, però, la Legge 36 del 15 febbraio 1974, che si proponeva un risarcimento, molto parziale, dei danni subiti dai lavoratori, per la persecuzione politica e sindacale sofferta, a cominciare dal licenziamento per rappresaglia. Lo Stato si obbligava a ricostruire la posizione assicurativa dei licenziati "a vita". Dato che era impossibile trovare un nuovo lavoro quando si veniva marchiati, come accadeva agli ebrei con la stella di David, con la dicitura "Comunista". Per la verifica della fondatezza del diritto reclamato, si instaurava una rigorosa istruttoria caso per caso. Il dr. Emilio Bonanomi chiese di essere interrogato dalla Commissione indagatrice, alla quale assicurò di avere perseguitato Franco anche dopo il licenziamento di rappresaglia, avvalendosi di autorevoli amicizie, a livello di Questura e di Prefettura. Non fu inopinato rigurgito di coscienza. Bonanomi non aveva mai estromesso la coscienza. La stendeva per terra e ci ballava sopra, come gli orsi al circo sui carboni ardenti, per compiacere il padrone, per la zolletta in più. Ma ne usciva, invero, con i piedi doloranti, per piaghe che bruciavano. Il disegno di legge era stato presentato da Rumor (DC), La Malfa (PRI) e Bertoldo (PSDI). Nessuna firma, in calce al progetto, di parlamentari comunisti. ANTONIO SOMMELLA Dai verbali d'istruttoria depositati nella Cancelleria del Tribunale di Napoli, relativa al processo penale a carico di Sommella Ciro, accusato di duplice omicidio e associazione camorristica, finalizzata al commercio di stupefacenti: - "Allora, nome, cognome, soprannome, se c'è, data e luogo di nascita. - "Sommella Ciro, fu Antonio e di..." - "Lasci stare, la paternità e la maternità non glieli ho chiesti" - "Ah, allora, Sommella Ciro, nato a S. Giovanni a Teduccio..." - “A Napoli, allora” - "Si, a Napoli, insomma” - "Nato a Napoli il 29 ottobre 1957" - "E non ha un soprannome?" - “Ah, il soprannome? Mi chiamano Pappafummo" - "Pappafummo? E che cosa vuoi dire?" - "Il pappafummo sarebbe, come si chiama?, il fodero della pistola" - "La fondina?" - "Si, la fondina" - "E perché le hanno affibbiato questo soprannome? Praticamente ritengono che lei abbia la pistola incorporata?" - "Ma no, signor giudice, noi i soprannomi li mettiamo cosi, per sfizio, sfrocoliare, non c'entra la persona" - "Senza un significato, senza un motivo?" - "Si, signor giudice, per esempio mio padre buonanima lo chiamavano Purpetiello. Che significa? Che se lo dovevano cucinare nel sugo per condire gli spaghetti?" -"Capisco..." Franco aveva aderito all'invito dell'avvocato Alfano ex compagno, pure lui fuori dal Partito perché, cosi diceva, aveva cambiato strada. L'aveva incontrato nei pressi del Tribunale e gli aveva detto: - "Vieni con me, faccio un salto in Cancelleria e poi ci andiamo a prendere un bel caffè, facciamo quattro chiacchiere, è tanto tempo che non ci vediamo". Nel bar, appena la folla lo consenti. Franco si avvicinò e gli chiese: - "Lo conoscevi il padre del tuo cliente, di Sommella?" - "Eh, come no. Lo feci scarcerare tre o quattro volte. Lo arrestavano sempre, fuori dalle fabbriche, nei cortei, mentre faceva il volantinaggio. Ma è per questo, che sto facendo questa causa. Io non faccio mai cause di camorra. Ma, che vuoi, per questo qui mi è sembrato di dover accettare, per un rispetto alla memoria del padre. Tu lo conoscevi?" - "Si, lo conoscevo, Purpetiello." - "Già tu cominciasti proprio nella Raffineria, mi pare..." - "Proprio nella Raffineria." Non fecero più le "quattro chiacchiere", stettero alcuni minuti ancora insieme, ma in assoluto silenzio. Al momento di lasciarsi, si abbracciarono. Senza sapere perché. HERMANN Dopo quattordici anni, nel maggio 1980, Franco incontrò Hermann. Egli attendeva il tram alla fermata di via Mergellina e indossava un doppio petto grigio e la cravatta. E aveva, perfino, una valigetta ventiquattrore, che reggeva diligentemente con la mano sinistra. Non fu un incontro allegro, non vi furono pacche sulle spalle come tra vecchi commilitoni. Non vi furono nemmeno rievocazioni nostalgiche. Hermann era cupo, parlava quasi soltanto a monosillabi, guardava per terra. Disse a malapena, col tono di chi confessa di essersi dedicato alle rapine, che faceva il professore di fisica nucleare al Politecnico di Napoli. Apparve risollevato solo quando potè indicare il tram in arrivo e sorridendo sparì nella folla, all'interno del veicolo. Franco rimase assorto a fissare le luccicanti rotaie, appena liberate dal vecchio convoglio, che sferragliando sembrò essere la colonna sonora di uno antico film di fantasmi, da relegare in archivio, da dimenticare, necessariamente da rimuovere. Ma alla ribellione intima e inconfessata di Franco, contro ogni opportunistica esigenza di rimozione della memoria storica, fu presto assestato un nuovo colpo. Alcuni mesi dopo il malinconico incontro, sbirciando le pagine de "Il Mattino", gli balzò agli occhi il ritratto di Hermann. Era in apertura di un articolo, sotto il titolo a caratteri tondi, su due colonne: "È morto Gustavo Hermann". Seguiva la descrizione concisa e puntuale della vita intensa e combattiva, del professore prematuramente scomparso, nelle file della CGIL e del PCI. Neanche una riga su "l'Unità". CACCAVELLO Il sig. Emilio Caccavello ex capo della vigilanza in Raffineria, quello della "grande scrivania", alla quale, secondo Bonanomi, si sarebbe potuto sedere Franco "molto più degnamente" e che si arrovellò per un anno e mezzo, alla ricerca della buona occasione di stilare un bel rapporto a carico di Franco, rintracciò Riccobene nell'elenco telefonico. Lo pregò vivamente di intercedere perché potesse incontrare Franco. Disse che aveva tanta voglia di rivederlo e di abbracciarlo. Franco aderì volentieri, ma per banali contrattempi familiari, non ebbero possibilità di incontrarsi. Franco, solitamente, accoglieva con istintiva gioia le prove di stima e di rispetto dei suoi ex avversari. Ma gli sembrava di ingoiare uno di quei medicinali gradevoli al palato e che subito dopo, ancora in gola, si rivelano amari come il fiele. Era l'apoteosi della smobilitazione. Sentiva che i sentimenti dei suoi avversari di un tempo, germogliavano anche all'ombra della mediocre innocuità della sua condizione. ROSARIO BONARRIGO A Scalea, in provincia di Cosenza, ove ormai solitamente trascorreva le vacanze con la sua famiglia, Franco era tentato spesso di recarsi a Castrovillari, nel tentativo di rivedere Rosario, il ragazzo che aveva lasciato in lacrime, a Roma, nel naufragio del sogno universitario. Ma non ne conosceva nemmeno il cognome. Eppoi Castrovillari non è un borgo di periferia. Certo, se si fosse recato alla locale sezione del PCI, dato che il PSIUP, il partito del ragazzo era intanto confluito nel Partito Comunista, forse avrebbero potuto aiutarlo, ma non era che una sparuta possibilità. E continuava a pensarci. Si diceva di essere sicuro che il tossicodipendente Rosario Bonarrigo, detto "o' smaniuso", per la consuetudine di gesticolare, di agitare le mani nella conversazione, di anni 37, che un paio di anni prima, secondo il "Giornale di Calabria" era precipitato dal terzo piano di un rudere, alla periferia di Castrovillari, non avesse niente, proprio niente, a che fare con il suo giovane amico della foresteria romana. Il cronista scriveva con sussiego del "giallo di Castrovillari"; non era stato ancora accertato se il ragazzo era caduto accidentalmente, o si fosse suicidato, o l'avessero spinto giù, in una lite fra disperati. Il giornalista non mancava di zelo e aveva anche asserito che lo sventurato era stato due volte incarcerato, per manifestazione sediziosa. Cosi si definivano, allora, i cortei di protesta, contro soprusi e prevaricazioni da parte del Potere. "Ebbene? - mormorava Franco - I Rosario in Calabria sono migliaia, tutti i meridionali gesticolano, sono indizi insignificanti". E' innegabile che se si fosse recato alla redazione del quotidiano calabrese, avrebbe forse saputo chi era davvero il ragazzo trovato morto all'alba del 18 agosto 1982. Ma Franco non si recò mai nella sede del giornale. Ricordava Rosario cosi pieno di certezze, cosi fermamente convinto che la sua generazione avrebbe cambiato la società, conquistando uguaglianza e giustizia per tutti, che agitava le braccia, parlando, come avesse avuto in mano la spada di Robespierre. E gli bastava per convincersi che tra il suo amico Rosario e la droga e il suicidio, c'era una impercorribile distanza. - "Impossibile, - continuava a dirsi, rafforzando il diniego con marcati cenni della testa, come se avesse dovuto convincere un incredulo interlocutore, - impossibile, no non è possibile”. Ma quando gli balzava agli occhi, fra le segnalazioni stradali, “Castrovillari”, abbassava lo sguardo, come un disertore posto innanzi alla lapide dei caduti. CONTRONATURA Come fossero debitori di un mostruoso dio, famelico e insaziabile, a Franco e Mara, ai primi degli anni '90, fu richiesta ancora una difficile prova di coraggio. A circa settanta anni, dovettero abbrancare con le loro mani stesse e reciderle, le massicce radici che li legavano alla loro città. Alla loro età, fu quasi un gesto contronatura. Erano chiamati ancora a lievitare ammenda, per aver creduto, imperdonabilmente, di poter contribuire alla conquista, per quelli che verranno, di un mondo ove giustizia, dignità, uguaglianza, non fossero parole vuote, infarcite solo di retorica, spesso di comodo. Luca, conscio dei propri limiti, andava emarginandosi, prima che vi provvedessero gli altri. Cadde in vari cicli di pesante depressione psichica, lunghi periodi, nei quali le sue sofferenze erano inimmaginabili. Apparve inevitabile trasferirsi in una regione ove le istituzioni mostravano più sensibilità e senso civico e diventavano partecipi del problema, ove i servizi sociali sono una realtà indiscussa e non un obiettivo, come a Napoli, che avanza arrancando, sulla strada del riscatto, ma che ha ancora tanta strada da fare. E si trasferirono in Emilia, a Carpi, oltre Modena, lontanissimi dalla città, che avrebbero imparato a rimpiangere, insieme a tutte le sue molte brutture, le sue arretratezze, ma che aveva dalla sua parte il punto di forza irriducibile: era la loro città, la loro casa. Da sempre. LA RADIO A CINQUE VALVOLE Lo "status symbol" degli anni '50, il cui prestigio saliva insieme al numero di valvole, secondo la concezione popolare del tempo, che voleva combattere i ricchi, a colpi di valvole in faccia era muta da quarant'anni. I radiotecnici più pazienti e comprensivi di Napoli, di Roma, di Modena e di Carpi, avevano assicurato a Franco che non si poteva riparare, che i pezzi di ricambio dell'apparecchio non si fabbricavano più dal tempo delle guerre puniche. A Napoli, prima di partire, aveva scelto un radiotecnico con la faccia di S. Antonio di Padova, che irradiava bontà e tenerezza, dal mite, quasi mistico sguardo. Andava a trovarlo ogni giorno, gli offriva caffè e sigarette surclassandolo Babbo Natale e gli dava ragione sempre, anche quando lamentava che la moglie, un'autentica arpia, pretendeva che si lavasse le mani prima di mettersi a tavola per il pranzo. Ma al momento del congedo, immancabilmente gli stringeva la mano a lungo e fissandolo negli occhi, come volesse ipnotizzarlo, sussurrava: "Quella radio, lei me la deve riparare". Alla fine l'uomo, disperato, sul punto di prorompere in pianto, con le mani nei capelli nel gesto di strapparseli con furia, gemette: "Mi dovete credere sul bene dei figli, su quell’anima benedetta di mamma mia, la vostra radio non si può riparare!". Le ultime parole ("non si può riparare"), le pronunciò in un brusco e inatteso balzo di voce, un vero urlo, come avesse dovuto sentire qualcuno sull'attico dell'edificio di fronte. Cambiò zona, prese ad aggirarsi in provincia. In città erano troppo modernizzati, non si impegnavano per riparare una semplice radio, vecchia di quarant'anni. Ai nuovi malcapitati opponeva, ai loro argomenti, i pregi estetici di "quel gioiello": "Guardi questa cornice, sembra il frontespizio di un affresco, pare madreperla. E qui, sotto il quadro millimetrato, questo bassorilievo, non sembra il ciborio, con le sue colonnine di sostegno? Come si fa a dire che devo buttarla, questa radio?" Sapeva che accumulava cretinate, ma come poteva spiegare? Chi l'avrebbe capito? Temeva che la radio stesse diventando il presepe di Lucariello, nel "Natale in casa Cupiello" di Eduardo. Eppure, proprio nell'amaro, drammatico finale di quella commedia, si nascondeva la soluzione della patetica ricerca degli introvabili pezzi di ricambio. Al petulante che ha settant'anni, infatti, si può agevolmente dire che la Telefunken, ogni venti o trent'anni, usa dare fondo ai suoi magazzini, immettendo sul mercato vecchi prodotti e pezzi di ricambio ormai inservibili. E che la prossima occasione è prevista per il 2010. Ovviamente, Franco e Mara non avrebbero potuto riscontrare la fondatezza della notizia. Ma avrebbero custodito la loro radio, proprio come Lucariello di Eduardo tiene strette fra le sue, le mani della figlia e del suo amante, credendo che fosse il marito. Morente, non seppe mai la verità. L'avrebbero conservata come si coltiva un ideale nel fondo della propria anima, l'avrebbero tenuta abbracciata come una fede, una sicura promessa. L'avrebbero difesa, con tutte le loro forze, dagli attacchi dei tarli, dalle insidie degli acari, l'avrebbero curata come un seme destinato a germogliare, a rivivere. Era triste tenerla come l'urna con le ceneri di una cara amica, morta di vecchiaia. Avevano dato l'anima per una felicità del futuro, per quelli di dopo. E si erano già nutriti di sola illusione. Ma i radiotecnici non lo sapevano e rubarono al loro eccentrico cliente, un'altra piccola porzione del suo diritto all'utopia. In realtà il piano di programmazione economica della potente ditta costruttrice tedesca aveva imposto per sempre il silenzio alla mite compagna di Franco e Mara. Ma egli allungò lo sguardo oltre la presumibile linea di confine della propria caducità: accettare di doversene andare prima era l'unica concessione che sentiva di poter fare ai sopraffattori. Niente avrebbe mai potuto cancellare l'anelito universale, che aveva imparato a celebrare nelle file del popolo comunista: uomini e donne, popoli interi, che sarà molto difficile trasformare in una sterminata distesa di piccole radio portatili a cinque valvole. ?? ?? ?? ?? 4