SPAPEROPOLI GIANBATTISTA SCHIEPPATI Valter Casini Editore Valter Casini Editore, Roma ISBN 88-88807-55-1 Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta. Di questa città tutto ciò che non è ricordo è sogno. Ciò che non è stato è sognato. Un paperino che non è il ricordo di Paperino è il sogno di un Paperino. Questa è la città di un sogno di un paperino. Per brevità Spaperino. Benvenuti a Spaperopoli. … dicono che in vita sia su e giù, così ci pensi ad una qualche mobilità, ma da una certa data la mia vita si è coricata senza fiato e non si muove più. Overflash delibera: viaggiare per non tornare mai più Overflash compita: viaggiare per non tornare mai più… Marlene Kuntz, Overflash … massacrato all’ombra delle pallide visioni riemergendo alla finestra delle stupide passioni la mattina non è fiore né diamante né letame è soltanto un’orgia orrenda di atti osceni da legare ma la luce già ci inonda e il respiro si fa breve sarà meglio essere in piedi ora che il vomito viene… Estra, Risveglio A Federico, il più bel paperino del mondo Un ringraziamento a la repubblica de iQuindici, a Monica e agli scrittori WuMing, per avere scelto questo romanzo e averlo portato fino a qui. Uno con tanto affetto a Davide a Giovanni a Roberta e al Teatro Inverso tutto, perché senza non sarei ancora qui a scrivere. E poi quello alla mia Manu per la felicità che c'è e ci sarà. E un saluto a te, Lidia. Sei sempre con me. Spaperopoli INDICE Prologo pag. 2 Cazzo hai da ridere? pag. 5 Mattonelle pag. 7 Gastone da bagno pag. 9 Apatia pag. 12 Grandine pag. 13 Ombra pag. 16 Paura pag. 17 Papernonna pag. 18 Il sole che suda pag. 21 PaperDroga pag. 22 Timidezza pag. 28 Diagnosi pag. 30 Particolari pag. 31 Giovanna che scompare… pag. 32 Ciccio a rotelle pag. 34 Ombra (reprise) pag. 41 Vertigini pag. 45 Viaggiare per non tornare mai più pag. 48 Prima volta pag. 49 PaperDroga (reprise) pag. 53 Sei grande pag. 57 PaperoZione pag. 59 PAP pag. 62 Rabbia pag. 64 UNSOLEBASTARDO pag. 66 Sangue e piume pag. 67 Qualcosa che mi sfugge pag. 68 Immenso e vuoto pag. 71 Corridoio pag. 72 Dei mostri pag. 74 Crescendo pag. 77 Grande pag. 79 Spaperopoli Prologo La vignetta è in bianco e nero. Particolare: la mia guancia e l’occhio destri. Sto sudando e le goccioline saltano su uno sfondo a quadri bianchi dal bordo nero. Allarga: questo sono io, questa è la mia faccia. Mattonelle dietro di me. Visione completa: ora si capisce il luogo: un cesso. C’è odore di merda, disinfettante, fumo. E l’odore unto della stazione. Sono in piedi e guardo davanti a me, in basso. Il pavimento è inclinato. Sento la pendenza che porta rivoli di umido verso lo scolo là in centro. Guardo in quel punto vuoto. Questo è uno di infiniti giorni. Un momento di infiniti momenti. Da quanto? Non lo so. Il tempo si contorce nelle stesse vignette. Un fumetto senza fine, senza inizio. Questa è una delle infinite vignette. Primissimo piano. Spavento: un fischio fuori campo: una grande frenata di treno. I miei occhi si voltano di scatto. Vista dall’alto: bianco, contorno nero, un piccolo punto perso là in fondo, nel centro. Sono io? Torno a guardare per terra. Una parte dell’occhiata resta diretta verso la porta. Il grande rumore è cessato. Ora si sente solo il mio respiro. Sudo. Non si capisce più se le goccioline sono per il caldo o per la paura. Chiudo gli occhi. Buio. Respira. Respira! Apro. Ora è a colori! C’è una finestrella sopra di me. Un raggio di sole filtra nella nebbia del caldo. Tre paperotti, sul davanzale all’interno, sorridono. Sono uguali ma portano cappelli e marsine di colori diversi. «Sei» dice il primo. «… ancora…» continua il secondo «… qui ?!» finisce il terzo. E poi altro triplice fumetto. Uno per ogni becco. «Giochiamo -un po’-assieme?» Certo, dico io ma mi sposto, rigido, a mettere la mia schiena contro il muro. «Scemo…» -«…chi arriva…» -«…ultimo». E cominciano a correre lungo il davanzale. Poi lungo il muro. Seguendo una linea orizzontale. Ridono loro. Rido anche io nello scricchiolare della mia cassa toracica. Frenano con groviglio di zampe e piume sulla verticale dello specchio e del lavandino davanti a me. Risate. Vignetta lunga, verticale. In alto i tre che sorridono. In basso il lavandino otturato e pieno d’acqua. In mezzo lo specchio frantumato in una raggiera di vetri intorno al segno di un pugno. I tre guardano in basso, poi verso di me. «Forza!», dico e loro con maschere boccaglio e pinne si lanciano nel vuoto. Spaperopoli Paperotti multipli nei riflessi delle schegge dello specchio caleidoscopico. Tre schizzi d’acqua. Nuotano senza sporcarsi nell’acqua densa di sputi e capelli. Poi si mettono sul bordo, aiutandosi a vicenda ad uscire dall’acqua. A testa in giù, corrono veloci sotto il lavandino, sulle tubature, fino al pavimento. Slalom tra i resti di carta igienica, assorbenti e altro. Una volta al centro, sullo scarico, nel fulcro delle linee concentriche della scacchiera del pavimento, si siedono sopra i loro fondoschiena pennuti, a zampe larghe e con le mani nelle mani: mi guardano. Sorridono. Bianco e nero. Mi stacco dal muro. Vista dal basso all’alto, di schiena. Cammino barcollando lungo il corridoio, nella direzione opposta alla porta. Sui due lati orinatoi. Poco oltre c’è la zona delle turche. Mi fermo alla prima. Estraggo ed espleto mentre il mondo si è trasformato in un’enorme barca in rollio sulla tempesta. Piscio a getti ripetuti e schizzi incontrollati. Didascalia: «è nera. La turca intendo. È nera. Non bianca». Primissimo piano. Ancora gli occhi. Grandi e vuoti. Con dentro il fastidio di quella paura che non se ne va. Didascalia: «plastica nera». È l’ennesimo di infiniti giorni fatti di questi passi e di queste azioni. È uno di quei giorni tutti uguali, compressi tra le linee nette di vignette grigie. In questo caldo di estate sporca. In questa merda di pensieri molli sciolti tra le orecchie. Qui dentro. «Quack!». Vignetta con linee di velocità: il mio culo in caduta libera sulle gambe che si sciolgono di colpo. «Quack!». Cado davanti alla turca, allargo le braccia per ancorarmi alla parete e non cappottarmi all’indietro. Gira tutto. Questo stracazzutissimo mondo quadrato mi gira intorno come fossi su una giostra isterica su un mare di merda molle. Chiudo gli occhi. Li riapro. «E se piangessi?». «Ma lascia stare che è ora di un po’ di surf!». A colori! Dal basso: serbatoio dello sciacquone. Là in alto un paperotto scapigliato con occhiali da sole e una tavola da surf sotto un’ala. Appena sotto le sue zampe arancioni un classico “DIO C’È” e un “WLAFIGA”. Un po’ barcollante zampetta verso il bordo dove c’è la catena. Mi osserva con un’attenzione da fumetto curioso e sorridente. Con un salto senza gravità va ad abbracciarsi alla catena. Con una zampa tiene ancora la tavola. Con l’altra si tiene appeso. Guarda giù. Inghiotte un “GULP”, poi con le zampe tremanti si cala. Fino alla fine. Appoggia le zampe posteriori sul pomello. Dà uno strattone. La catena oscilla e gli fa sbattere la testa sulla parete. «UACK». Altro strattone e stavolta lo sciacquone scatta. L’onda comincia a gorgogliare dal fondo. Grida di felicità e si lancia nel vuoto tenendosi la tavola sotto i piedi. Io mi alzo di scatto che non ho voglia di bagnarmi. Mi passa a pochi centimetri dal naso sotto forma di scia colorata sullo sfondo di mattonelle bianco sporche, disegnate e scritte con pennarelli smunti. L’ondata si gonfia e lo investe proprio nel momento in cui sta per toccare ciò che resta della plastica nera della turca e delle pisciate della massa. Fumetto allungato da papero in equilibrio sopra la cresta. «Yahoooo», mentre l’onda tracima oltre la latrina stessa e si lancia all’esterno, sopra le mattonelle verdi, verso lo scolo al centro del bagno. Doccia ai tre già seduti che sputacchiano e si lamentano. Ultimo ribollio d’acqua e il papero scende dalla tavola e si siede. Anche lui mi sorride. Spaperopoli Bianco e nero. Esco barcollando sul mio stesso peso. Faccio passi di gelatina lungo il corridoio delle turche. Fino in fondo. Mi siedo senza rispetto per le mie chiappe che sbattono sul pavimento. Appoggio la schiena al muro. Da qui è come stare in un tunnel. Ai lati le porte delle turche, poi gli orinatoi e quindi la zona lavandini con lo scarico e i paperi che mi sorridono indefessi. In fondo, al lato opposto di dove sono io, la porta. Dà sulla banchina dell’ultimo binario. Oltre. Ombre pesanti di passanti e treni in corsa, frenanti o partenti disegnano sfaccettature al buio di questa estate che si squaglia. C’è gente, là fuori, che passa e se ne va. Io, invece, resto qui. Non riesco ad andarmene. «Perché?» mi chiedono i quattro colorati seduti là in fondo. Non rispondo ma guardo fuori. Questo è un microcubo di mattonelle con una porta sul vuoto. È un fumetto unico di un’unica vignetta. Resto rannicchiato nell’angolo più basso. Qui dentro, nella mia testa, ci sono pensieri informi di densità diverse: da frasi sbocconcellate a interi racconti, da colori a flash ad interi paesaggi. Carponi, abbraccio le mie stesse zampe. Schiaccio la fronte sul pavimento. Mi annullo in questo disegno di tasselli sbrecciati di mattonelle e latrine. «Fuori... ». Sollevo la testa. Guardo fuori, oltre la porta, la stazione. E vedo il vuoto, quell’immenso vuoto appena compresso dalla gigantesca volta fatta di lamiera e di ragnatele in cemento. Poi, un altro lampo a colori. Stavolta perso nel grigio di tutto il resto. Una paperotta, più anziana degli altri entra attraverso la porta da sotto quella stessa cappa nera. Ha un passo tranquillo e mi guarda con due occhi materni. Sorride, sorrido. Cammina placida sulle mattonelle, arriva al centro del bagno, sullo scolo. Prosegue oltre, verso di me. Mi guarda, a pochi centimetri dal viso. La mia vista si stempera nei colori morbidi di questa papera che sembra disegnata. Mi sorride accarezzandomi con un tocco morbido di piume calde. Frugo nella mia tasca. Estraggo una PAP. Sento al tatto il disegno sul suo dorso. Sorrido e ingoio. Nel buio della mia testa si traccia il contorno di un papero. Di un intenso colore rosa, poi blu oceano, poi azzurro cielo poi... Sono un papero. Mi chiamo Spaperino. Questa è la mia Spaperopoli. Spaperopoli Cazzo hai da ridere? «Vedo nel tuo sguardo la determinazione di colui che farà di questa domenica una giornata indimenticabile», bercia questo paperone, zio, entrando nella latrina letto di Spaperino. Spaperino si stropiccia fuori dalla turca, a gattoni. Quattro passi da scimmia sognante poi si evolve alla posizione eretta con la coreografia di uno sbadiglio. «Ciao», biascica nel clangore di questa domenica in stazione. I treni partono ed arrivano anche oggi. I gastoni continuano a passare sulla banchina davanti al bagno senza quasi mai entrarci. Spaperopoli non è per loro. Se ne schifano. «È sempre un piacere vederti fiorire in questo modo dal letame... te e le tue chiappette». «Hai soldi?». «Come sempre». «Occhei, occhei». «Vedo nel tuo sguardo la determinazione di chi volterà le sue dolci chiappette al suo magnanimo e magnidotato zio... ». A colori! PaperoZione entrava correndo nel giardino di Spaperino. «Nipote!» urlava al papero più dormiglione del mondo. Spaperino si svegliava di scatto, si agitava, cadeva dall’amaca. Di sedere. Stelle di dolore dalle piume del posteriore. «Nipote – continuava – ho una cosa da darti: un lavoro». Questo è il suo lavoro. Spaperino preme le mani sulla parete del bagno e sente il fiato caldo dello zione sul collo. L’unico lavoro che si può sperare di avere vivendo in una latrina. PaperoZione è un omone lardoso e pelato, con un serpente e una rosa tatuati sulla parte sinistra del teschio, un boa di piume intorno al collo. Ma soprattutto, ha due gambette secche e nervose, bluastre, che spuntano dai pantaloncini rosa, due calzini marroncini al posto dei quali starebbero benissimo due ghette arancioni. PaperoZione ha soldi. Paga poco per i servizi che pretende ma abbastanza per l’economia domestica di questa casa. Dopotutto Spaperino si accontenta di poco. E nella latrina paga le sue bollette, faccia al muro, fissando le mattonelle bianche. Fuori miriadi di gastoni cravattati e puliti cominciano e finiscono viaggi che non hanno nulla a che vedere con quelli di Spaperino. «Ehi mi fai male», borbotta con la faccia schiacciata contro la parete. «Zitto stronzo», gli grugnisce in risposta lo zio. Spaperino stringe i denti, fa forza sulle braccia e allontana la faccia dal muro. Così può tornare a guardare le vignette del bagno. «Com’era quella storia?», si chiede... Spaperino disegnato seduto per terra, un giardino verde dai fiori gialli, contorni da bordi sporchi di mattonella, odore di carta e inchiostro, fumetto da «LASCIAMI IN PACE», risposta espirata di «stai zitto che poi ti pago», odore d’orina, due occhi rotondi e grossi sopra un becco arancione e basette sotto un cappello a cilindro. Un altro fumetto: «ti ho trovato un lavoro», «non voglio il tuo lavoro» e ansimi e colpi in testa e male di culo. Colore giallo del sole sorridente e rumore di treni e Spaperopoli stelle che si perdono nell’aria e PaperoZione che sferra un gran colpo con il bastone a Spaperino a colori già sofferente e Spaperino a colori che «SQUAQUARAQUACK! Lasciami in pace!!!» e Spaperino in bianco e nero che, mentre ansimi altrui si placano di ritmo, osserva la mattonella davanti a sé disegnata con Spaperino a colori che salta arrabbiato con quella espressione che solo Spaperino arrabbiato poteva avere. E Spaperino, fuori, che ride. Ride. «Che cazzo hai da ridere?», mugugna Zione riallacciandosi i pantaloni. Ma Spaperino ride, seduto per terra, sulla turca, ancora a culo nudo. Si guarda le mani, si guarda i peli delle zampe, poi guarda il ciccione che si riveste e ride. Un fischio di treno sull’urlo gracchiante di SQUAQUARAQUACK! Lasciami in pace!! ridente. «Ma vaffanculo, sei sempre più sfatto», gli ringhia il ciccione offeso. Scuce un centone e glielo lascia cadere davanti alle scarpe. PaperoZione esce saltellando sulle sue zampette mentre il riso di Spaperino si trasforma, roco, in un fruscio da pagina accartocciata. Spaperopoli Mattonelle Quello che più pesa, quando non puoi fare nulla contro le tue incapacità è il passare del tempo. Sai che comunque la decisione, quella più difficile, la dovrai prendere prima o poi. Aspetti, rimandi. Ma lo dovrai fare. Ma Spaperino, davvero, non riesce a muoversi da dove è, uscire, andarsene. E allora si lascia spingere dai minuti, ognuno cattivo come il primo, ognuno spietato, perché nessuno di essi lo aiuta a dimenticare ciò che non sa fare. TIC-devi farlo-TAC-fallo-TIC-devi-TAC-farlo... Un ticchettare fatto di treni che sferragliano e di voci che entrano dalla porta a rimbombare nel tuo angolo a ricordarti che là c’è anche un fuori che non riesci a dimenticare, che ti spaventa ma che non puoi fare a meno di desiderare. E ogni minuto che passa è un fallimento in più. E la paura monta la sua ira e si prepara ad annientarti. TIC-TAC Perché un’indecisione reiterata diventa impedimento. E ti rassegni all’evidenza che un cumulo pesante di minuti impietosi ti sta divorando la vita e non puoi farci nulla. TAC-TIC Tranne che non pensare. Lasciare che il tempo si maturi da solo, senza di te. Non pensare. E allora Spaperino sta accovacciato nel suo angolo e fissa la parete. Le mattonelle. Tutte uguali. Bianche, un po’ sbrecciate. Sporche di scritte e cazzi e resti di adesivi. Tutte uguali. Come i minuti in questo bagno. Spaperino resta accovacciato e fissa la scena del nulla della mattonella bianca. Fissa fino a perdere il fuoco. TIC-mattonella-TAC-devi-TIC-mattonella-TAC-usci... mattonella-TIC-TAC Mattonella. Mattonella. Vede solo quella. Null’altro. E poi gli occhi fanno male, allora sposti lo sguardo su quella immediatamente a lato. La fissi fino a perdere di nuovo il fuoco. Ed è come annullare tutto in una macchia sfocata. Con un po’ di allenamento si impara a non pensare. Mattonella-sfuochi-mattonella-sfuochi. È come un film, al rallentatore, di immagini sporche e vuote. Un film di niente e di nessuno. Nessuna paura, nessun devi, niente. Fissi e senti che, dopotutto, se il tempo non passa non devi e non dovrai fare mai nulla. Se lui non cambia perché lo devi fare tu? Mattonella. Mattonella. Mattonella. La prima mattonella di questo bagno diventa un paesaggio colorato: colline verdi sotto un sole assonnato che cala sbadigliando, una stradina. La seconda mattonella entra nella solitudine di Spaperino regalandogli un campo lungo della stradina. Ai lati ciuffi di erba e fiori che si chiudono con sorrisi beati. Sulla stradina, in lontanza, la figura di un paperino. Nella terza mattonella di questo bagno già un po’ meno grigio c’è Spaperino che passeggia. Indossa un cappello da pescatore. Sulle spalle una canna da pesca con un grosso pesce penzolante dalla lenza. Spaperino, dentro e fuori la vignetta, sorride... Spaperopoli Gastone da bagno Spaperino, con zainone in spalla scalava la ripidissima montagna di Spapnama, eremita burbero custode di un grande tesoro. Affaticato dall’impervia salita si arrampicava grugnendo, motivato dalla furia di PaperoZione che minacciava di sfrattarlo se non gli avesse portato il tesoro. D’un tratto un asino volante gli era balzato addosso dal cielo azzurro costringendolo a rifugiarsi in una buia caverna dalla stretta entrata. Solo e infreddolito restava accovacciato nella grotta guardando tremebondo gli occhi furiosi dell’asino. In quel momento un gastone entra nella grotta per pisciare... Gastoni pisciatori: ci sono quelli che entrano, pisciano dove capita, sgrullano e se ne escono veloci veloci. Ci sono quelli che scelgono con cura il dove, si movimentano meditando sul come, pisciano con trasporto pensieroso, sgrullano come fosse un amen e poi se ne vanno. Poi quelli che non ce la fanno così all’aperto, entrano in una turca, chiudono la porta, pisciano fischiettando per nascondere il rumore. E poi quelli come questo qua che se ne sta entrando come dovesse fare una rapina. Guarda ogni angolo e ha lo schifo sulla faccia. Non gli frega dell’asino assassino che ha gli zoccoli con il rumore delle rotaie. Sta in punta di piedi, ha passettini da ballerina. Studia il pavimento prima di avanzare. Passa davanti agli orinatoi: tutti sporchi, puzzano, che schifo. È indeciso, credo vorrebbe andarsene. Ma qualcosa dentro gli fa pressione. Arriva nel reparto anche-solidi. Alla porta della prima turca dà un calcetto per aprirla. Ispeziona e si smorfia di schifo. Passa a quella accanto. Altro calcio. Schifo. Altra porta, calcio e schifo. Si mette un fazzoletto sul naso e si infila nella seconda. Da qui, seduto nel mio angolino, lo vedo che strappa carta igienica, tanta, e la distende sul buco della turca. Forse è antispruzzi. Usa il piede anche per chiudere la porta. Ma deve mettere l’altro sulla turca. Non deve essere facile equilibrarsi con una mano sul naso. I gastoni che entrano nelle turche non tirano quasi mai lo sciacquone. Questo, tra l’altro, è uno di quelli dall’onda lunga: una marea di acqua, piscio e merda che tracima oltre la ceramica, sulle scarpe, fino al limite della porta prima di finire di gorgogliare nello scolo. Per questo la ceramica è tutt’altro che pulita. Sdrucciolevole di certo. Il gastone equilibrista perde la sua posizione. Lotta tra la gravità e il disgusto poi è costretto ad appoggiarsi, con la mano e il fazzoletto sulla porta virgolettata di merda. Ringhia, butta il fazzoletto nello scolo e chiude la porta con la mano nuda. Cadute molli su carta, sospirone, fruscìo di carta, rifruscìo, e poi la porta si riapre. La mano è guantata nella carta igienica. Questo è un gastone giudizioso: crede nell’importanza della pubblica pulizia. La porta è aperta e lui potrebbe andarsene mettendo fine alla sua sofferenza igienica ma ha un fortissimo senso del dovere e non può recedere dalla civilissima tirata della civilissima catena. Lo fa con un gesto rapido e deciso, un colpo secco che dovrebbe porre fine alla vicenda. L’onda lunga della sua merda dipinge le superga di tela bianca. Esce, di corsa, bestemmiando. Ritorno a guardare le vignette delle piastrelle. Spaperino era ancora nella grotta, triste per non essere riuscito a farsi portare fuori dal gastone che se ne era andato senza degnarlo di attenzione... Mi ha guardato ma non mi ha visto. Il suo sguardo è scivolato sopra di me come l’acqua dellosciacquone. È scappato fuori senza notarmi. Spaperopoli Spaperino si sentiva solo. Questa mia posizione rannicchiata funziona, quindi. Già. Funziona: mi mimetizza. Mi difende dall’attenzione dei gastoni. Dovrei sentirmi rassicurato. Eppure... Sono deluso, quasi offeso. Il gastoname scorre davanti alla porta. Davanti a questo posto che è l’unico che posso vivere, Loro corrono alla ricerca del prossimo luogo da raggiungere, in treno, a piedi, con la testa. Non mi notano. Ecco, questo è strano: mi dispiace perché per loro io sono esattamente il nessuno che so di essere. Forse vorrei fare qualcosa perché mi notassero. Prima, quando il gastone fuggiva da questa mia casa-grotta-bagno ho avuto, per un istante, la tentazione di fermarlo, per parlargli, forse, fargli sapere che esisto... Spaperopoli si era già svegliata da parecchio e la mattinata proseguiva produttiva sotto un sole giallo sorridente. Nelle case rosse e verdi le massaie stavano facendo le pulizie. I bagni già sfavillavano di igiene fresca. Solo il gastone si svegliava a quell’ora così tarda, che l’impresa che gli faceva le pulizie, per una certa lotteria da lui vinta, era già andata via. Un risveglio sorridente e dinamico. L’inizio di un’altra giornata certamente fortunata. Il gastone entrava in bagno con un salto giulivo. Tutto intento a rinfrescarsi e pettinarsi fischiettando era stato sviato da una voce timida e intimorita: «Scusi signor gastone». «Chi è?», si era guardato intorno allarmato. «Sono qui, signore. Esisto anche io». Per terra, in un angolo tra le piastrelle, un grumo di sporco timido. «ODDIO LO SPORCO CHE PARLA!!!!» aveva urlato il gastone. «Ma... mi scusi» aveva detto lo sporco avvicinandosi. «ODDIOLOSPORCOCHEMISPORCA!!!». «Ma io non sono sporco-sporco. Sono un papero sporco ma pur sempre papero». «ODDIOLOSPORCOCHEÈUMANO!!!!». Già ce lo vedo, il gastone, a scappare via a caccia di una botte di disinfettante. Quei gastoni indifferenti là fuori cosa farebbero se io riuscissi a farmi notare? «Scusassero signori gastoni... ?». Magari mi guarderebbero. Dall’alto certamente, e non solo perché sono seduto per terra. Un bello sguardo attento e sospettoso dalla faccia ai piedi, dai piedi alla faccia. Qualcuno penserebbe se e come aiutarmi: cinquecento lire? Un panino? Chiamare la polizia che almeno lo curino? Ma altri, alcuni di quelli con le scarpe grosse e rinforzate, davanti, con la punta in ferro, mi picchierebbero per averli disturbati: calci e pugni in faccia e sulle costole mentre sto sdraiato, piegato, accartocciato per terra tra la loro orina e la loro merda. Così, per sfogarsi dalla rabbia che gli fa vedere che la loro città è così imbruttita dalla mia faccia. Che la loro città ha anche la mia faccia. Mi picchierebbero… (?) Spaperopoli Resto qui, fermo, in silenzio. Guarderò ancora per un po’ le piastrelle. Forse fermerò il tempo smettendo di aspettare, mentre la città là fuori continuerà a cagare merda qui e sopra e dentro di me. «Città sei e città sarai». È grande questa città di merda. Fa molto caldo. Ho sonno. «Papà mi fai compagnia finché mi addormento?». «Sì, papà, grazie per essere qui con me». «Si, papà, lo so che devo diventare grande... ». «No, non andare via». «Ti prego». «No, papà, non ce la faccio, davvero». È troppo grande questa città. Ancora-una-PAP. Un’onda di fantasia mi rassicura. Grazie PusherDuck per questa mia Spaperopoli. Macchie rosa e verdi e blu e rosa e verdi e blu. Paperini a colori fosforescenti. Colori forti da camera per bambini a dipingere paperini e paperotti qui intorno a vorticare. E io che rido, in silenzio, senza muovere la bocca. E io che rido mentre fuori la volta della stazione è grande come l’intero universo ed è buia e nera e vuota. Mi spaventa ma io rido, dentro, in questo angolo che sa di coperta e di affetto e di storie rilassanti a vignette di un paperino. Grazie PusherDuck per le tue rosa pastiglie a fumetti perché ora riesco, sì di nuovo, ad inventare. Riesco ad immaginarmi un mondo fuori da questo. Più colorato, rilassante. E buono. Spaperopoli Apatia Pensieri molli su una linea retta e uno sguardo a parabola verso l’oltre porta. E strascicare passi pesanti sul pavimento, da un lato all’altro, da un lavandino all’altro. Caldo. Come muoversi in un’aria densa come melassa. Ogni idea, ogni emozione, ogni pensiero si sfalda ad ampie masse spugnose di rifiuti di coscienza. Apatia. Come essere un meccanismo fermo. Guardare i treni e i passanti che si muovono ma non notare alcun movimento. Come una coltre appannata sugli occhi. Braccia rilasciate. Lasciarsi sedere per terra. Guardare fuori. Un minuto infinito di paesaggio. Alzarsi. Indifferente. Guardarsi allo specchio e non vedersi. Ogni giudizio è sospeso. Anche il mondo pare fare lo stesso. Una strana afa che appesantisce la pelle. Chiedere di essere dimenticato. Tutto ciò che è fermo che resti fermo. Tutto ciò che è sbagliato che resti sbagliato. Spegnersi. Spegnere. Ancora una PAP. Spaperopoli Grandine Mi sdraio per terra, molle come il caldo. Sto sotto i lavandini tra il pavimento e la parete. Fermo a farmi crollare le palpebre. Una leggera pioggia dalle tubature che perdono mi rinfresca. Deve essere pomeriggio perché tutti i rumori arrivano attutiti e caldi. Dormo dentro uno spigolo tra il pulsare del sangue nelle mie orecchie. Un pomeriggio fermo. Solo l’increspatura di un ricordo. A Spaperopoli, quel pomeriggio, era l’ora della siesta. Nel silenzio solo il ronzìo di un paperino dormiente. Un divano dai contorni morbidi e bombati, in un salotto dalle pareti gialle. Quadretti appesi di paperi sorridenti. Tende lilla alle finestre. Un tappeto tondo verde e lilla. Una lampada rossa. Una grossa televisione. Spaperino dormiva su quel divano, con un’espressione placida di calma assoluta. Era pomeriggio dopo pranzo, il sole filtrava da dietro le persiane semichiuse ed eravamo in una leggera penombra. Avevo sei anni e leggevo il mio fumetto. C’era mio padre, lì, al mio fianco che sfogliava il giornale. Erano minuti lenti che sembrava si stessero addormentando nel nostro salotto. C’era quelprofumo di carta e inchiostro che saliva dalle vignette e mi entrava nella testa. È ancora qui, più forte di questo odore di piscio. Leggevo. Stavo lì a sentire il suo respiro e il fruscìo delle mie pagine nelle sue. Ogni tanto, tra una storia e l’altra mi fermavo a guardarlo. Ha un naso affilato mio padre, che gli prende tutto il viso e lo tira in avanti. Tutto il resto – gli zigomi, le labbra taglienti, i piccoli occhi e le sopracciglia sottili, i pochi capelli – tutto è disposto su linee che partono dalla punta del naso e si protendono indietro. Era tremendo quando era arrabbiato perché quelle stesse linee si riempivano della sua rabbia e, come canali in piena, la portavano a concentrarsi con una forza che poteva terrorizzare. A me terrorizzava. Ma allora, in quel pomeriggio, ricordo mio padre con un’espressione calma, rilassata e buona. E sento ancora il pulsare di quella pace. Uno di quei momenti che non se ne vanno mai. Lo guardavo per un po’, poi riprendevo a leggere. Una linea di velocità a parabola dalla porta al divano. Un palloncino. Pieno d’acqua. Un’esplosione bagnata con in mezzo gli occhi stupefatti del papero. «SQUAQUARAQUECK!!». Serie di «SPUTT, SPUTT, PUFF». Fumetto di «chi ha osato?» sopra un paperino arrabbiato in salto con i pugni chiusi e il becco dai denti a tagliola. Poi vignetta del papero che corre fuori urlando: «chi ha attentato alla mia vita?». In mezzo al giardino i tre suoi nipotini: in piedi tra palloncini esplosi e rivoli d’acqua. Zampette calcianti di immaginari, dita intrecciate sulla pancia. Espressioni d’imbarazzo sui musi. «Voi tre… ». E loro: «scusaci… » -«… zio… » -«… non volevamo». E poi ancora: «ma fa così caldo… » -«… e tu non vuoi comprarci… » -«… la piscina e allora… ». «Ve la do io la piscina!», aveva urlato correndo ad armarsi di canna dell’acqua. Getto prepotente sui tre paperotti stupiti. Il primo, Qi che risponde con un palloncino scagliandolo contro Spaperino. Qo e Qa che chiamano la ritirata e corrono verso il loro covo sull’albero. Spaperino che aumenta il getto. Qi che lancia palloncini, Qo secchiate, Qa secchi Spaperopoli pieni. Spaperino che si arrampica sull’albero facendosi largo con la canna, Qi che lancia secchiate, Qo secchi, Qa palloncini, Spaperino che… Poi mio padre s’era alzato di scatto ed era corso ad aprire le persiane. Oltre la finestra il cielo si era fatto di colpo nero. Grandinava. Grosse palle di ghiaccio che facevano un frastuono da mitragliata. «La macchina!», aveva urlato papà ed era corso via. Il rumore era fortissimo, come una serie di esplosioni. Come fosse scoppiata una battaglia tra il cielo e la terra. Come se tutto avesse di colpo perso la sua nitidezza e si fosse confuso in un mare di puntini e macchie solide. Mi sembrava di guardare la Tv su certi canali disturbati. Il giardino, la ringhiera, la strada e poi mio padre sotto quell’ombrello inutile, erano tutti confusi in quel turbinare grigio di forme stravolte e mischiate dal vento. Come se nulla fosse più al suo posto. Dopo poco lui era rientrato: «tempo di merda», urlava mentre fuori stava già tornando il silenzio e le linee del cielo e della terra riprendevano lentamente a disegnarsi nette. Quel pomeriggio ho aspettato a lungo prima di riprendere il mio fumetto. Speravo che lui si rimettesse in poltrona, ricominciasse a leggere il giornale e a condividere il suo respiro. Non lo fece. Ripensandoci ora, mentre mi rimetto a sedere sotto questi lavandini luridi, ricordo che io ripresi a leggere, più tardi. Ma la luce si era scurita, cadeva stemperata dal buio in arrivo. E il pomeriggio si era trasformato in un contenitore vuoto. Spaperopoli Noia La noia è fatta di tutti quei minuti che non vanno via. Accadono ma restano intorno a te a pesartiaddosso. È come un’onda grigia e viscosa che ti sommerge e ferma. La noia, all’inizio, quando comincia ad assalirti, è fatta di tutti i tuoi tentativi di uscirne: scatti di nervosismo e rabbia che si smorzano dentro la morsa del muro di gelatina che si sta ispessendo. Ti agiti e arrabbi per l’inutilità dei tuoi minuti. Ma solo all’inizio. Perché poi la noia ti stanca la testa. E ti annoi anche del desiderio di uscirne. La noia è uno stato stanco della mente che diventa, poi, parte integrante della tua mente stessa: gelatina. Spaperino, ancora, guarda la porta e la stazione. Il suo sguardo è velato di scarso interesse. È accovacciato, rilasciato, spossato, intorpidito da pensieri sordi che si sfaldano in testa. Spaperino si gratta un braccio. Spaperino fissa un lavandino. Spaperino guarda la luce polverosa del finestrino penetrare nella sua noia ferma. Fermo, inerme nel suo angolo, si sente, ora, colpire dalla solitudine. La solitudine è la noia che si cristallizza in una mancanza: un ricordo affilato del padre gli taglia di traverso la coscienza. È la solitudine, ora, a lacerarlo di struggimento: nello stesso istante in cui le PAP gli hanno bruciato il cervello, durante il suo primo viaggio nella città dei paperi fatto in questo stesso bagno, assieme alla paura folle per lo spazio là fuori, è arrivato dalle pieghe della sua memoria il ricordo infantile di suo padre. In quelle serate in cui gli stava vicino, a fianco del letto per fargli compagnia nel primo sonno. L’immagine rassicurante di suo padre che leggeva un giornale mentre lui si addormentava, accompagnandolo, con la sua presenza in sogni tranquilli. È un ricordo bruciante che lo coglie più forte ora che fatica, peggio che allora, ad addormentarsi. Prima di calarsi quella prima PAP credeva di essersene dimenticato. Prima di tutto questo. Spaperino si stringe nelle spalle, ora, e ricorda e soffre al pensiero di suo padre che, una sera, una di quelle più fredde e nere come solo d’inverno possono esserci, aveva deciso di non stargli più vicino. «Puoi farcela da solo – aveva detto con un sorriso prima di andarsene nell’altra stanza – ormai sei grande». «Perché papà si deve crescere? Perché hai deciso che dovevo crescere? È stato tanto tempo fa, lo so. Ma allora perché… Perché ho ancora così paura?». La solitudine è un peso solido che ti schiaccia il cervello sfaldato dalla noia. Come quella sera lontana si rannicchia in se stesso, faccia al buio e cerca di tranquillizzarsi raccontandosi una storia. Scaccia l’angoscia con l’aiuto di paperi e paperini elettrici che si tracciano sulla sua corteccia cerebrale drogata... Ma per Spaperino questa è una indifferente e afosa notte che sta affilando il suo buio. Spaperopoli Ombra Doveva essere domenica sera. Perché i ricordi sono sempre più nitidi se di domenica sera. Era una sera tagliente. Spaperino portava ancora addosso i pantaloni in lamé e le scarpe con la para alta. Di là, in salotto i rumori della televisione… Quei rumori che in certe sere ti ricordano che di momenti come questi ce ne sono già stati. E ancora ce ne saranno. Perché di rumori così, alla televisione, ce ne saranno sempre. Uguali. Tutte le sere. Le note e i lampi del rumore disegnati sul colore grigio della profonda vignetta tridimensionale che è il corridoio. Bordi spessi. In mezzo il papero di allora. «No, niente Tv, stasera». Zampetta, lungo le linee verso un’altra vignetta. Chiude la porta. Sale in piedi sul letto, perché sulla mensola, in quel cassetto là in alto c’è… fruga… ci dovrebbe essere… non c’è. «Non c’è!!!». E dalla finestra un’ombra lunga che filtra tra le stecche della persiana. Si materializza in un alto uomo nero. E un fumetto: «cosa cerchi Spaperino?». «Niente… ». «COSA STAI CERCANDO?» urla l’ombra. Spaperino, nella stazione, esce per un attimo dal ricordo e si spara in bocca l’ennesima PAP. Accucciato, guarda la porta. Fermo, nell’aria che ristagna, attende il colpo. Poi un lampo, lungo la spina dorsale. Spaperino riprende a sorridere. Anche a quella domenica sera. Ed è un ombra che scompare, dissolve se stessa oltre la finestra. Spaperino apre il cassetto e ciò che trova è una musica che ride, lampi di luce che vorticano. Ed era luce dai profumi di inchiostro appena stampato e di torta della nonna e di carta di giornale e dell’odore di suo padre e del sapore dolce aspro di sua madre. E poi dal cassetto, due automobiline che sorridono. E poi un trenino. E un piccolo cane che abbaia. E nel frattempo sempre musica. E forse, davvero, lui stava bene. E quel ricordo d’angoscia in realtà era uno sbaglio. Ma certo, in quel fumetto, gli pare di ricordare ora, c’erano solo due vignette a ripetizione: luce e musica e il «cerchi qualcosa?» dell’ombra ma solo sullo sfondo. Non si sentiva più adesso che la domenica si era fermata. Perché la notte, nei fumetti, se arriva, sorride. E placido, sorridente di sorriso idiota, t’addormenti. Spaperopoli Paura Mi sveglio in un bagno di sudore. Un fischio tagliente mi scuote i pensieri. Scatto con lo sguardo alla porta: treni neri che fischiano in frenata e folla scalpicciante in arrivo-partenza anche a questa ora di notte. Una voce metallica arrota un «servizio... ». Sopra a tutto c’è il mare al contrario del cielo imprigionato sotto la ragnatela di cemento della cupola. Una massa nera nella quale vanno a morire le inutili luci della stazione. Tremo in mezzo al vortice del buio che penetra dalla cupola immensa e vuota, attraverso la porta aperta. Brividi di lame fredde che si affilano sulla mia pelle. Le vertigini mi risucchiano la testa lontano. Le pareti, il pavimento, il soffitto scompaiono dietro la mia cieca retina strappata. Resta solo il vuoto che da fuori grida terrore in questo cesso. Dentro la mia vuota testa che rimbomba. Davanti a me che resto sdraiato con i piedi in direzione di quel fuori, si materializza una profondità tagliente e funesta che mi urla con un’eco sorda. Un vortice rumoroso, una spirale di ferro a fare da ornamento al tragitto della mia prossima caduta. Avverto la lunghezza infinita del volo che farò in quel vuoto ma non capisco dove finirà. Queste mie ossa tremolanti si sgretoleranno come segatura all’impatto con la fine di quella distanza. Tengo i piedi ancorati l’uno sull’altro a sorreggersi a vicenda. Per cercare un punto dove fissare la certezza di esistere. Ma i miei piedi si allontanano, le mie gambe si assottigliano allungandosi nella notte. E adesso la paura prende consapevolezza e monta come schiuma: cadrò e cadrò non una ma mille volte: una per ogni volta che sono già caduto. Una moltiplicata mille per ogni inciampo che ho avuto, milioni per ogni salto che ho fatto, moltiplicata all’infinito per ogni gradino che ho affrontato in discesa. Cadrò per quella distanza che è la somma di tutte le distanze. E allora la paura è la somma di tutte le paure che ho già avuto. Cadrò in quel vuoto che ho intorno e che mi svuota la testa. Cadrò urlando. E allora soffoco in un urlo silenzioso, per un peso sul petto che mi schiaccia il respiro. Si sommano tutti i pianti che ho già fatto, più quelli che avrei dovuto o voluto fare, in un unico urlo afono, un’unica lacerante vocale muta che mi esce dal petto, ingigantendosi da dentro, tagliandomi i polmoni. In un grido silenzioso che non richiamerà nessuno al mio aiuto ma che mi lascerà ugualmente senza respiro. Mi sveglio annegando nella mia saliva. E solitudine più vuoto non bastano a spiegare cos’è la solitudine che sento davanti al vuoto che mi ruggisce da oltre la porta di questo bagno. Una PAP. Ancora. «No, papà, non uscirò mai più da qui dentro». Spaperopoli Papernonna Questa papera, nonna, entra spumeggiando di lardo sotto il suo solito vestito impajettato e sdrucito. Mi guarda compassionevole con quei suoi occhi liquidi. «Come sta il mio viaggiatore folle oggi?». È da poco che ci siamo incontrati, qualche giorno appena, non so quanti ma già mi chiama per pronomi possessivi. E mi abbraccia. Le sue grandi tette mi si sburrano intorno e lei si sdilinquisce in un sorriso lieve. Mi lascio avvolgere e inumidire dal bacio delle sue labbra da saldi di fine stagione e un po’, davvero, mi commuovo. «Ti ho portato un panino». Me lo immagino quel panino, abbarbicato fino a poco fa sul davanzale di un chioschetto dellastazione. È un po’ rancido ma sa del caldo delle buone intenzioni della torta della nonna. È pomeriggio, credo, sia perché la luce plasticata si è leggermente schiarita, sia perché altrimentiPapernonna non sarebbe qui. È passata giusto per un saluto prima di andare a farsi timbrare da qualche parte per il suo lavoro. Mastico in silenzio. Lei mi si siede accanto. E questo è strano. Nessuno ha mai il coraggio di farlo, nemmeno PaperDroga. Mi guarda masticare. Mangio ciò che lei mi ha portato sentendosi un po’ nonna e ora lei mi sente un po’ come suo nipote. Come tale cerca di parlarmi: «non dovresti stare qui. Questo non è un posto adatto a ragazzi come te. Dovresti uscire da qui e da questa stazione. Prendere un treno e allontanarti... ». Forse vede che mi sono inchiodato a guardarla, che l’eventualità di uscire mi terrorizza, perché smette di parlare. Guarda i miei occhi spaventati poi allunga una mano verso la mia guancia, per un tocco leggero, l’altra verso la borsetta per afferrare la bottiglia. Accarezza e manda giù un sorso. «Non fa bene a nessuno qui», dice deglutendo il suo biglietto di viaggio. Fissa gli occhi verso l’uscita. Forse perché è lei ad essere triste adesso che mi viene da parlarle. Dirle qualcosa che le faccia piacere? «Nonna... » e mi fermo perché non riesco ad andare avanti. Cosa posso dirle ora che mi ha fatto pensare alla volta là fuori? Come faccio a dirle qualcosa che la sollevi, per ricambiare, almeno, per il panino? La guardo e vedo che sorride. I suoi occhi sono sognanti ora e sembra più serena. «Grazie» mi dice. «Grazie di che?». «Nonna... di avermi chiamato nonna». Le basta questo. E che l’ascolti. «Sai, non ho avuto una famiglia io. Ho perso la mia occasione tanti anni fa. È stato appena prima di cominciare questa vita. E da allora non ho più avuto il modo di pensarci. Forse sarebbe stato tutto diverso. Avevo la tua età… ». Tira un altro sorso e mi sorride ancora. «Tu me lo ricordi un po’. Era magro come te. E come te se ne stava sempre in disparte. Guardava gli altri da lontano con quel suo sguardo spaurito. Ero una ragazzina. Lui era appena più grande di me. Giovanni si chiamava. Ma tutti gli si rivolgevano con il nome di Badil, per via delle sue mani. Era magro magro come un’ombra ma aveva due grandi mani, immense, sembravano due badili. E aveva quelle sue strane unghie rotonde e i peli sulle nocche. Spaperopoli Non parlava quasi mai. Ma tutti lo rispettavano anche se non era neanche maggiorenne. Era per via di quel suo sguardo. Come se fosse perennemente spaventato a morte da qualcosa. E a stargli vicino si finiva col venire presi da quella paura indefinita. E allora nessuno era mai nello stato d’animo per trattarlo male. Venivano giù in paese, lui e suo padre, ogni fine settimana a portare la legna e qualche cervo che aveva cacciato. Gli altri giorni se ne stavano nei boschi. Suo padre era il suo opposto: piccolo, rotondo e beone. Aveva una faccia tonda e il tipico naso rosso. Durante le feste di paese si scatenava. Nessuno poteva più fermarlo, era tutto un cantare, un ubriacarsi e un molestare le ragazze. Badil, invece, non ballava mai. Se ne stava da solo ad un tavolo, o in piedi al bordo della pista e guardava gli altri saltellare e suo padre impazzire. Beveva e guardava. Poi, a tarda notte, raccoglieva i resti del padre e se ne tornava verso i boschi. Scompariva come la nebbia: senza salutare nessuno. Faceva effetto vederlo andare via, perdersi nel buio assieme ai canti storpiati del padre. Poi ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati. E allora a volte veniva giù da solo e anche durante la settimana per venirmi a trovare. Mi portava a bere la spuma. Tenevamo le mani sul tavolo, le mie sopra le sue. A volte ridevo per quanto erano diverse. Un suo dito era lungo come la mia mano intera. Non sto scherzando. Mi ascoltava raccontare la mia giornata. Beveva il suo vino in silenzio e mi guardava con quel suo sguardo. Mi inteneriva. Una sera gli ho chiesto se aveva paura di qualcosa. Ha detto che non lo sapeva. Dopo la spuma lo accompagnavo per un tratto verso i boschi. A volte ci fermavamo per toccarci un po’. Poteva prendere tutta la mia pancia con una sola mano. E quasi mi abbracciava senza usare le braccia. Ma, forse, questa vecchia chiacchierona ti sta annoiando... ». «No», mi affretto a dirle. Mi piace vederla sognante. Lei mi tira a sé e mi fa appoggiare la testa sul petto. Mi accarezza i capelli. Spaperino sulla sua piccola auto rotonda arriva alla fattoria di Papernonna che il sole splende e il fieno riluce. Ciccio sta dormendo nel fienile. Papernonna esce dalla porta correndo verso Spaperino che sta scendendo dall’auto. Sul muso ha un’espressione preoccupata. I due si abbracciano. Spaperino lacrima: «Sai, Nonna, è tutto così difficile». «Da allora ho pensato spesso a lui. Per tanti anni... ». Tira un sorso da illusioni spezzate. «Un sabato è arrivato in paese piangendo. Teneva in braccio il corpo di suo padre. Dottore! – urlava – chiamate subito un dottore! E piangeva. Un albero era caduto male e gli aveva schiacciato la testa. Quando gli dissero che era morto smise di piangere. Depose il corpo sulla pista da ballo, gli mise una bottiglia vicino e poi se ne andò. Lo rividi il giorno dopo, al funerale. Non piangeva più. Sulla sua faccia era scomparsa ogni traccia di paura. Aveva una valigia. Me ne vado, mi disse, quando lo raggiunsi davanti nel corteo. Spaperopoli Torni? Gli ho chiesto. Se mi aspetti, forse. Mi ha detto». «Ma poco dopo me ne sono dovuta andare anch’io dal paese». Silenzio. Una pausa triste e pesante. Non oso chiedere altro mentre tutto passa nella sua testa. Ma ha anche smesso di accarezzarmi e la sua mano mi pesa sull’orecchio. Avvicino la mia mano alla sua, la spingo piano perché ricominci. Lei accarezza e parla. Papernonna parla con Spaperino: «anche se queste vignette possono sembrarci troppo strette ed anguste, a volte basta avvicinarci un po’ l’un l’altro per sentirne meno il peso». «Da allora non ho più avuto tempo di innamorarmi. Forse è per questo che non ho mai smesso di aspettare. Sai, quando ti fissi su un’idea questa ti può accompagnare per tutta la vita. Io mi ero fissata sul ricordo di Badil, delle sua mani e sulla sensazione che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo. Mi è servito molto sentirlo vicino anche nei momenti più bui. Tanto che dopo anni, quando ormai sapevo che tutto era diventato impossibile, non riuscivo a smettere di crederci. Un’idea del genere ti abitui a viverla e non la abbandoni». Con dolcezza mi sposta la testa. Non vorrei ma mi alzo. «Scusa ma ora devo andare». Non le chiedo nulla. La lascio uscire ma la sua tristezza è ancora qui accanto a me. Nonna, io sono qui se mi vuoi. Torna ti prego. La sua mole fluttuante d’anni pesanti esce dalla porta e sotto la volta si perde. Spaperopoli Il sole che suda Stamattina il sole non ha ritegno e scaglia la sua rabbia qui dentro. L’aria sembra fusa, si mischiacon l’odore del bagno. Si incolla alla mia pelle e mi appesantisce il respiro. È un’aria unta, sembra fatta di sudore. Forse è il sudore di tutti i gastoni che transitano qui davanti, forse il sudore della loro orina. Forse solo l’odore delle mie allucinazioni. Forse. Oppure è proprio il sudore del sole. Come nei fumetti dove le giornate più afose hanno un sole dall’espressione sofferente e gocce stilizzate intorno ai raggi. Forse oggi è così. Il sole mi sta sudando addosso. Con un caldo umido e denso che... ... mi ricorda... Colori. Musica a ripetizione. Tuonare d’aria pesante, io che ci ballo in mezzo. Al centro. E spando i miei raggi su tutto ciò che mi circonda e dono vita, ballando. Un ballo massiccio che mi schiaccia la testa ad ogni passo per spremerne fuori tutti i suoi raggi. Luci strobo, in questa atmosfera nera lacerata da lampi e volti stranieri che provengono da oltre la nebbia per trarre luce dal mio esistere. E io al centro che ballo e regalo i miei raggi in un tuonare continuo del mio cuore, in un sorridere imperterrito che illumina. Sono in un bagno nel mio stesso sudore. Erano ore e ore e ore e ore che ballavo intenso come il sole al centro di tutto. ... Un caldo denso e umido che scioglie tutto ciò che mi è intorno. Resto qui accovacciato a farmi sudare addosso dal sole. Un’aria torbida più di me mi inscatola in questo mondo che sembra così lontano da qualsiasi altra cosa. Fuori, oltre il vetro, la porta, vita comune di gente comune e tempo comune e... «Ciao bambina», faccio, facevo, dal centro di ogni cosa verso un satellite tettuto e illuminato dalla mia sola presenza. Stava per rispondermi sorridendo ma la sua stessa esistenza mi aveva già perso d’interesse. E allora ballavo via su nuove orbite. Lasciando solo la scia del mio umido. «Ciao bambino», dicevo al satellite di me che aveva l’aspetto ebete di un drogato in allucinazione per le mie macchie solari a lui di fronte. «Ciao bambino», mi rimandava e ballava. Poi era una guerra di mondi perché sorridevo e sorrideva, alzavo le braccia e alzava le braccia, gli sferravo un pugno e mi sferrava un pugno e poi i due pugni si erano scontrati. Perché quel mio satellite era in realtà un me riflesso in uno specchio. «Ciao bambino» gli-mi dicevo e allontanavo per andare a donare altrove la mia esistenza. Nuotavo nell’aria bagnata del mio stesso corpo che creava un lago di nebbia sudata intorno. Ed era un sudore che dava vita a tutti i volti che mi osservavano. Io ero il centro di tutto... E io qui che sudo per il caldo di questa estate impietosa e rabbiosa, che mi fluidifica tra le file di mattonelle verso lo scarico al centro del pavimento. Io, ora, solo, estremo satellite inutile e dimenticato di questo sole vero che taglia la mia aria lanciando le lame dei suoi raggi attraverso il finestrino sopra di me o da oltre la porta. Grande, più di quanto io sia mai stato, il sole... suda. Ma se anche lui suda, mi chiedo, prova forse fastidio per questo suo gran caldo? Come io provo fastidio per tutti questi ricordi impietosi che ho in testa? Spaperopoli PaperDroga PaperDroga, cugino, entra con il suo passo ondivago portandosi un sorriso sbilenco che gli tende mezza faccia. In una mano tiene uno stereo. «Guarda – biascica indicando la sua preda – è quasi nuovo». Si siede sul lavandino che sta sopra Spaperino, si mette a tamburellare sui tasti e a masturbare la manopola della radio: fruscio fastidioso-voce cavernosa-fruscìopreghiera- «Cazzoradiomaria»-toccata di palle e altro fruscìo. Spaperino fissa la porta e lo scorcio della stazione. Due gastoni innamorati si baciano sulla predellina. «Ecco!», sussulta PaperDroga: la radio emette un boato elettronico «TecnoTecnoTecnotrance!». Le casse dello stereo tempestano echi selvaggi di musica tecnologica. «CaricoCaricoCarico», urla PaperDroga, con quegli occhi stralunati che vedono incubi eroinici sul soffitto. Salta in piedi e a braccia larghe, con ancora in mano lo stereo, vortica sulle gambe: «Ottovolante!» riurla. La radio urla quanto lui ma nulla vale per impedire che la mano lasci la presa facendole fare un volo compreso di impatto verso un lavandino dall’altra parte del bagno. Pezzi di plastica ovunque. PaperDroga, istupidito dal silenzio che è esploso di colpo, guarda imbronciato una delle casse che agonizza nell’acqua ristagnante. Spaperino continua a fissare la porta, la stazione, i due gastoni. «Ciao, come va», mormora senza spostare gli occhi. «Insomma! Hai visto il pusher?», gli chiede con la sua voce molle. «No, hai un appuntamento?». «Sì ma quello stracazzo di uomo non arriva mai in orario». Spaperino fa due conti e si accorge che la sua scorta di tranquillanti sta per finire. «Devo comprare qualcosa anche io». PaperDroga lo squadra sprezzante. «Solo roba leggera, vero?». «Sì, leggera... », risponde ma cerca di soppesare le sue allucinazioni per capire la vera portata di quella leggerezza. «... Leggera», ridice poco convinto. La stazione ha ripreso a sciabordare nel bagno il suo mormorio. PaperDroga guarda per l’ultima volta lo stereo sfasciato e si siede eccitato su un lavandino: «mi piace così tanto quella stracazzutissima musica! Da sballo. È proprio forte, fortissima». Lo scarafaggio nella tasca ha ripreso ad agitarsi. Spaperino lo accarezza con un dito. «Piaceva anche a me la tecno», dice, lasciandosi solleticare dalle zampe nervose. «Piaceva? Ora non più? È forte, troppo forte, fortissima». «Sì, è fortissima ma... », ripensa alla discoteca e a tutto il resto e si accorge che, ora, non ha un bellissimo ricordo di quell’ambiente. Strano. Che sia questo bagno che gli sporca anche i ricordi? PaperDroga, ansioso, si lancia verso l’uscita e si ferma sulla soglia. «Non arriva ancora quella testa di cazzo?». «Non arriva mai in orario». «Cazzo, ho fretta io, fretta». Ora PaperDroga scatta di nuovo sul lavandino. A gambe ciondoloni guarda Spaperino con due occhi semichiusi e il labbro inferiore cascante. Con suoni flebili, come di sonno, riprende a parlare: «a me una volta piaceva di più quella rock. Hard rock, heavy metal, trash. Sepultura, Twisted Sister, Megadeath, robe così. Poi ho cominciato a farmi di ero e ho scoperto che andare in discoteca con la tecno a palla e le luci strobo e laser era sballosissimo. Troppo sballoso! Spaperopoli Ma prima preferivo la heavy, il metallo pesante. Me la sparavo ogni momento, cazzo, con il mio walkman sempre nelle orecchie. Avevo anche una ragazza ma a lei non piaceva mica, cosa vuoi che ci capiscano le donne di musica dura. Ascoltare l’heavy era solo per i duri, allora, mica per tutti e io giravo per la città con il mio motorino e il walkman e mi ci sentivo proprio duro. Duro duro! Perché è importante essere dei duri e mica tutti lo possono essere. Se ascolti l’heavy lo sei. Questo pensavo a quei tempi là». I suoi occhi a fessura si spostano di nuovo verso l’uscita: «ma non arriva quel cazz... ». Si interrompe e corre fuori senza dire altro. Spaperino estrae lo scarafaggio dalla tasca e se lo avvicina al naso. La luce dei neon disegna striature argentee sul dorso. I due gastoni hanno smesso di salutarsi e se ne sono andati. Sono sicuramente fuori dalla stazione, loro, ora. L’animaletto si agita per fuggire. «Perché non resti afarmi un po’ di compagnia? È anche tuo questo posto, no?». Ma continua a cercare di forzare la presa con il muso, poi con tutte le zampe. Invano. PaperDroga rientra trafelato. In una mano tiene una borsetta da donna: «toccata e fuga, non mi ha neppure visto» sghignazza. Si siede e comincia a frugare. Lo scarafaggio è stato prontamente ricacciato nella sua tasca. Naso nella borsetta, PaperDroga farfuglia: «questo è il lavoro di un vero duro». Dalla borsa alcune monetine e un foglio da cinquantamila vengono trasferiti nella tasca della camicia di PaperDroga: «io vado, le avvicino, strappo la borsetta e poi corro via, fuori dalla stazione, dall’uscita principale e poi rientro da quella laterale. Così loro strillano per chiamare i vigilanti ma poi li spediscono a cercarmi fuori che invece sono qui dentro. Sono mesi che faccio così. E non mi hanno mai preso». Si infila la borsetta vuota sotto la maglietta e corre di nuovo fuori. Spaperino riprende a farsi fare compagnia dallo scarafaggio: «secondo te perché tutti quelli che arrivano qui dentro hanno così voglia di parlare di sé? Capita anche a te che i tuoi amici scarafaggi ti vengano a trovare qui dentro e si mettano a raccontarti tutta la loro vita? Sì? Ma perché secondo te? Forse perché a parlare con uno scarafaggio che vive in un bagno non si rischia nulla? Mica ti metti in gioco, no? Che dici?». PaperDroga rientra di corsa senza la borsa. «… E adesso ho anche i soldi per pagare quella testa di cazzo che non si decide ad arrivare». Si risiede. «Il segreto, bambino, è quello di spaventare la fortuna. Basta sfidarla mostrandole che non hai paura e lei si caga sotto e ti lascia in pace». Guarda Spaperino, arriccia le labbra in un moto di disgusto. «Come cazzo fai a stare seduto su questo pavimento merdoso?». Spaperino non sa rispondere. «Sono giorni che ti ci vedo. Ti sembra un posto da uomo questo? Seduto per terra per giorni interi?». A Spaperino non sembra nulla. «Scommetto che tu ti ritieni sfortunato vero?», dice PaperDroga con una specie di sogghigno tipo auto sfasciata. «Io non mi ritengo nulla», dice Spaperino. «No perché io ne conosco di persone convinte di essere sfortunate. Mia madre ad esempio è così. Dice che la sfortuna le ha deciso tutto e così se ne sta a vivere la sua vita pallosa per tutta la vita. Io non sto mai fermo, sai? Mai. Perché la vita bisogna prendersela senza paura. Devi fotterla quella bastarda, continuamente. Mica restare fermo a cagarti addosso come fai te». Ad esempio, io corro in macchina, sempre e non mi è mai successo niente. Mi lancio sulle strade di notte e a volte spengo anche i fari così, per farle capire, alla sfiga, che non mi spaventa. Spaperopoli E poi mi faccio di tutto, che tanto i soldi ce ne ho che la mia mamma me ne spedisce sempre un pacco per farmi studiare. Una volta mi sono iniettato anche del lucido da scarpe. Così per provare e non è successo nulla. Sono stato solo un po’ male. Ma mica tanto. E io non ho mai neanche preso l’AIDS. Vado a puttane, anche con le tossiche e mica mi metto il guanto che se no lei, la sfiga si accorge che cerco di difendermi e può capitare che me lo buchi ed è la volta buona che mi fotte. Io una volta mi sono fatto tantissimo con la mia ragazza e un mio amico. Ci siamo passati la stessa siringa e abbiamo usato la stessa identica roba. Uguale. L’aveva procurata lei da uno che non conosceva e allora aveva paura fosse roba non buona. Quella stronza ha detto che magari era roba cattiva e che magari ci uccideva. E quel cazzone del mio amico a darle ragione e che bisognava stare attenti, magari provarne poca. Deficienti. Io me ne fotto di queste cose e così le ho strappato la roba di mano e ho preparato tutto io che non volevo fare il cagasotto. E sai cosa è successo? Lo sai? Che quei due deficienti sono morti di over. Io no. Perché se la sono tirata dietro la sfiga. L’hanno chiamata. E poi perché loro non avevano capito che la vita ti viene da come la affronti. Vedi, io ho capito questo e non mi è mai successo niente. Loro non l’avevano mica capito. Lui era un povero sfigato che si faceva per noia. A lei, invece, non piaceva per niente l’heavy. Come fai ad essere duro e a capire come va davvero il mondo se non ti piace almeno un po’ l’heavy? Bisogna essere duri, dentro e non farsi mai schiacciare. Mai. Io, ad esempio, quando lei è morta, non ho pianto neanche una lacrima. Che non volevo fare capire alla sfiga che mi aveva colpito, un po’, uccidendomela. E così non mi è mai più successo nulla. Sai, bambino, la cosa importante è non avere paura. Poi puoi fare tutto quello che vuoi Certo ci devi avere anche tu dei princìpi. Che senza quelli sei un vero figlio di puttana. Che so, non stuprare mai o non uccidere. Quelli sono buoni princìpi. Che poi la sfiga è buona se si accorge che anche tu lo sei e segui i tuoi princìpi. Il problema è trovare i princìpi che ti vanno bene e che soddisfano la tua sfiga. Ad esempio non è mica detto che devi per forza non uccidere. Io conosco gente che ha ucciso un pacco di gente e non è mai stata presa. Uno che conoscevo, ad esempio, aveva ucciso un pacco di tossici come te che gli avevano rotto i coglioni e non gli era mai successo nulla. Però non aveva mai rubato. Lui mi diceva, prima che lo prendessero, che non aveva mai rubato niente, perché a lui stavano sulle palle quelli che rubavano. Che una volta gli avevano rubato una cosa alla quale ci teneva molto e si era incazzato tantissimo. Poi un giorno aveva trovato un cazzo di portafogli per terra e l’aveva raccolto. Non aveva mica tenuto conto che roba trovata mezzo rubata. E così l’hanno beccato e l’hanno messo dentro. Perché ci devi stare attentissimo. Attentissimo alla sfiga che controlla se tu segui i tuoi princìpi. Io ad esempio ho il principio che voglio bene alla mia mamma e al mio papà. Sembra una cazzata. Che tutti vogliono bene ai propri genitori. Ma questo è il mio principio. L’ho capito un giorno che avevo fregato una borsetta e quasi mi beccavano. Ho dovuto fare una di quelle corse e poi buttare via il malloppo. La sfiga, a volte, se gli gira bene, ti dà un avvertimento prima di fotterti. Io ho capito che quel giorno mi aveva dato uno “sta attento” e allora mi sono messo a ragionare su cosa avevo sbagliato. Sai cosa avevo fatto di sbagliato? Mi ero dimenticato di telefonare alla mia mamma per un mese intero. Il giorno dopo che le ho telefonato lei mi ha spiegato che mi era venuta a cercare a casa. Per fortuna si era dimenticata la chiave del mio appartamento se no entrava e vedeva tutto il casino e le mie siringhe che avevo lasciato in giro e capiva di sicuro che mi faccio. Sicuro sicurissimo che se lo scopriva ci restava secca. Io da allora le telefono tutti i giorni e le dico che le voglio bene e faccio di tutto perché non sappia che mi faccio che altrimenti non riesce mica a capire e ci resta secca dal dolore. Spaperopoli Ad esempio io oggi le ho già telefonato e allora sono sicuro che non mi beccano». Altro salto oltre la porta. Spaperino estrae lo scarafaggio, lo solletica e lo fissa negli occhi. PaperDroga rientra con un balzo, nessuna borsetta. «Non ho incontrato vecchie stavolta». Si risiede sul lavandino-cattedra. Spaperino rimette lo scarafaggio nella tasca-prigione. Lo schiaccia verso il fondo con un dito: «non è bello uscire, amico» pensa, mentre sullo sfondo PaperDroga riprende ad insegnare. «Bisogna avere dei princìpi, qualcosa che dia un senso alla tua vita e poi puoi fare tutto quello che vuoi. E devi essere forte, fortissimo, dentro. E mostrare sempre alla sfiga che non hai paura. Quel giorno che i due deficienti si sono fatti fottere dall’ero, ad esempio, pioveva a secchiate e io ho passato delle ore a girare in motorino incazzato come una biscia. Ero incazzato con la sfiga che li aveva fottuti. Ma volevo dimostrarle che io non avevo paura di lei e che non mi aveva fatto nulla. Non mi aveva toccato neanche quella volta. Perché è proprio quando sembra che ti abbia preso, anche solo di striscio, che devi reagire subito e mostrarle che sei invulnerabile. Pioveva e il cielo era grigissimo. L’aveva fatto apposta, la sfiga, per sfiancarmi, a rendere tutto ancora più triste. Sperava che io me ne tornassi a casa bagnato fino alle mutande e mi chiudessi in camera e magari che piangessi perché la mia ragazza era morta. Ma io non gliel’ho data ‘sta soddisfazione. Mi sono fermato per un attimo sotto la tettoia di un condominio per rollarmi una canna e ho visto arrivare davanti al cancello una BMW blu scura. Nuova di pacca. Da quella stracazzo di macchinona è uscito un testa di cazzo in giacca blu e cravatta blu con un ombrellino da fighetto di quelli di ferro e una figona esagerata in minigonna e tanga sotto che si vedeva. Sono scesi tutti smelensi e sbaciocchiosi e sono saliti in casa. Era la sfiga quella, che mi faceva vedere quella coppia vera e goduriosa. Voleva farmi sentire un po’ solo. Voleva che facessi cose tipo piangere. Io, invece, sai cosa ho fatto? Ho pensato che era il caso che fossi io a fottere la sfiga, in quel momento, che rovesciassi il suo attacco. Perché è una vera e propria guerra questa. Per prima cosa ho pensato che avrei dovuto farmi la figona: mi sono messo tutto impettito a guardare quel pezzo di figa da gara dritta dritta negli occhi, per farle vedere che io ero molto meglio del suo omino, e che non avevo paura di loro. Ma lei non mi ha neanche degnato di uno sguardo. Li ho guardati entrare dal cancello. Mentre il cancello si chiudeva sono stato lì lì per saltargli addosso con tutto il motorino ma poi mi sono bloccato a pensare cose tipo “peggio per lei che è così stupida da perdermi”, “chi non mi ama non mi merita” ma, soprattutto, che lui era più grosso di me». Ride e, gettato fuori uno sguardo da rapace addormentato, si rilancia a caccia. Lo scarafaggio, rimesso all’aria, impalato sull’indice, non fa alcuno sforzo per fare un’espressione intelligente ma tanto vale per Spaperino: «cosa dici? Che se è vera la storia che dicono che “chi non mi ama non mi merita” allora quello che non è amato da nessuno è anche il meno meritato? E che non essere meritato significa essere meglio di chi non ti merita? Che non essere amato da nessuno significa essere meglio di tutti? Dici? E allora perché io non mi sento tanto meglio degli altri? Dici che dovrei? Dici? Secondo te Dio mi ama se mi ha fatto finire qui? No? E allora com’è che non mi sento più divino di lui? Dici che sono fuso? Probabile... ». Lo rimette in tasca perché PaperDroga è già di ritorno «... Probabile». Spaperopoli PaperDroga ansima ma ha due borse ora: «neanche se ne sono accorti, no, sono un mago». Lavandino e inizio della ispezione delle sue prede. Spaperino vorrebbe renderlo partecipe delle loro (sue e dello scarafaggio) perplessità: «secondo te quella frase che... ». «Sono rimasto lì anche dopo che se ne erano andati, a mordermi le labbra per la rabbia», altri due pezzi da cinquantamila e monetine sono il frutto del nuovo esproprio. «Sì ma secondo te quello che hai detto prima... ». «... Avevo voglia di un’altra botta d’ero. Così mi sono scrostato da là, che tanto non valeva più la pena, e mi sono lanciato da un mio amico che ne aveva di roba». «Si ma, volevo dire... ». «Così mi sono fatto pesantissimo. Ho anche pipato il crack che non l’avevo mai provato. Non è mica niente di speciale, sai. Meglio l’ero. Comunque mi sono messo in trip cattivo mentre in testa mi restava a frullare l’idea che la volevo fottere la sfiga, che mi aveva attaccato con quella figona legata al fighetto». «Sì ma, cercavo di dirti... ». «Ho ripreso il motorino e sono tornato a quel palazzo che se non c’era l’auto entravo in casa e fregavo tutto quello che mi capitava oppure, meglio ancora, se lei era sola me la facevo di sicuro. Anche se non voleva. Quella era una buona idea. C’aveva un culetto da favola quella troia. E poi non violentare non è mica il mio principio». Allarga quella bocca sdentata con le gengive marce e ride. «Sì ma… ». PaperDroga allarga quei suoi occhi addormentati e ride. Di un riso così gracchio da sembrare isterico, con una voce così rauca da sembrare falsa, con un tono così fastidioso da sembrare forzato. «Sì ma... », PaperDroga continua a ridere «... dicevo che». PaperDroga ride. «... Dicevo... ». Ride. «...» Ride. «Insomma la vuoi chiudere quella cazzo di bocca marcia e starmi a sentire!?!». Solo adesso PaperDroga si ferma, tira un respiro, si ricompone a sedere sul lavandino e riassume la sua espressione da sonno profondo. Fissa Spaperino stupito. «Dicevo che, riguardo alla frase di prima che hai detto, quella sul “Chi non... ”». «... Quando sono arrivato ero tutto calmo, calmo calmo, perché non avevo paura di nulla. E avevo proprio voglia di una bella scopata». «...» «Però c’era ancora quell’auto davanti al cancello... ». Spaperino torna a nascondersi nel suo buco sotto il lavandino. Piano ricomincia ad accarezzare lo scarafaggio. Anche lui ha smesso di zampettare... «Hai mai provato a sfasciare una macchina sotto un temporale di quelli giusti? Con tutti i lampi e i tuoni? Puoi fare tutto il rumore che vuoi che tanto non ti sentono. Prima cominci a prenderla a calci da davanti. Guardi la carrozzeria che si accartoccia con i buchi a forma di suola. Ma il meglio è da dietro: ti giri di schiena e cominci a darci così, di tacco, e di suola: bum, bum, bum», così dicendo si mette di spalle alla parete e comincia a scalciare colpi con gli anfibi: «bumbumbumbum e vedi i vetri che schizzano». «Già, bum bum – mormora Spaperino demoralizzato – bum bum». «Sì. bum, bum, bum. L’ho spaccata tutta quella macchinona da fighetto testa di cazzo. E lei che urlava con l’allarme ma nessuno che accorreva che tanto di allarmi se ne sentono sempre. E picchiavo. Picchiavo la sfiga che se ne andava spaventata. Bum bum bum». Ride, di nuovo e continua a dare calci al muro. «Bum bum bum bum... », si mette le due borse sotto la maglietta e corre di nuovo fuori. «Bum bum». Spaperopoli PusherDuck non accenna ad arrivare. «Ehi, scarafaggio, mi dici perché, secondo te, la gente che viene qui dentro parla tanto con noi ma non ci ascolta? Forse perché da uno scarafaggio che non riesce ad uscire dal bagno lurido di una stazione non ci si aspettano espressioni che contino qualcosa? Dici che è così? È così?». Spaperopoli Timidezza Come un'esplosione e il cinema delle mattonelle e il rumore cullante dei treni, questo mondo senza tempo si dilata e comprime. In nulla. Scompare. È un millesimo di secondo. Solo il tempo di un pensiero. Ma è lo stesso come un'esplosione. E Spaperino si ritrova ansimante, di nuovo nel suo presente sporco. Sudori gelidi sulla pelle. È stato un fulmine che lo ha riportato indietro, in un passato che qui dentro sembra remotissimo. Si accuccia, si abbraccia. Uno sguardo lento intorno, cerca di rilassare il respiro, che se respiri a fondo ogni cosa ti sembra meno pesante. Anche questa. No questa no. Non è mai servito a nulla prima, respirare o non respirare, abbracciarsi o darsi dei pizzicotti per costringersi a fuggire da quelle sensazioni. Perché dovrebbe servire ora? Non pensare. Non pensare. Puoi riuscirci e altri di questi minuti se ne andranno via senza lasciarti altri segni. Non pensare. «SERVIZIO... » è la voce fuori. «Servizio... » dillo anche tu... «... IL CAPO MACCHINISTA DUE TRE DUE... ». «... Il capo macchinista due tre due... ». «... AL BINARIO DODICI». «... Al... binario... ». Un’altra esplosione che lo squassa. Un flash di rumore da discoteca, tecno a solidificare infinite pareti intorno, attraverso una massa di individui saltellanti tutti ugualmente indefiniti dalle luci che deformano i volti, un mare urlante, di un unico urlo unisono, sopra l'onda piatta di luci, corpi, musica. «... Do… » i volti noti di alcuni di quelli con cui è venuto in disco questa sera, che si fantasmano davanti alla sua vista. «... Di... » lui che sorride con un imbarazzo che gli sembra paralizzare le labbra. «... Ci». Ora Spaperino in piedi e rigido si sente esattamente come allora. Quel peso acuminato nella testa, quei sudori inutili da timido irrecuperabile. Un tuffo nel passato, a precipizio, in quella solitudine violenta, davanti a gente che neanche più ti parla visto che non riusciresti a spiccicare parola ma resteresti lì, ebete, ad arrossire e a sorridere. Ad alimentare il rimpianto per le cose che non riesci mai, comunque, a fare e che già ti riempiono la vita e te la fanno sembrare impossibile. Due passi barcollanti e si appoggia al lavandino. Lo specchio rimanda un'immagine che non è la sua. Giovanna, con il suo caschetto nero, due fossette sulle guance con le quali gli ha sorriso quella sera. Gli si era avvicinata e gli aveva parlato. «Ma tu non parli mai?». «…» «Perché? Non ti piace parlare?». «…» «Non ti piace la gente?». E lui era rimasto affascinato dal fatto che qualcuno potesse prendere questo suo mutismo come volontario. «Non piace molto neanche a me... in genere non mi ascoltano mai. Credo sia perché non sono carina. Ma a me non importa. Me ne sto in disparte, li osservo. Per vedere quanto sono stupidi. Sai io credo che quasi tutti quelli che sono qui dentro siano molto stupidi. Non si fermano mai a pensare. Mai. Sembra facciano tutto in modo automatico. E se gli chiedi perché vengono qui, perché ballano Spaperopoli come dei pazzi, perché ascoltano questa musica, il massimo che possono risponderti è un piattissimo “perché mi piace” e basta. Non pensano mai. Mica come me, che me ne sto in disparte e li osservo e penso. Anche tu stai così. In disparte. Si vede che pensi molto... A cosa?». Spaperino si stacca dal lavandino, va verso l'uscita, guarda fuori. Si ferma. Solo allora, a quella domanda Spaperino si era accorto che non pensava a niente. Se non alla sua timidezza. A come vincerla. Se si poteva. Così non aveva detto nulla. E lei se ne era andata. Non era vero che non era carina. Spaperopoli Diagnosi «È questo il mio posto?», si domanda Spaperino. «Questo è il posto fatto per me?». «Sono nato per questo?». Ormai non ricorda più da quanto tempo è qui dentro. Di certo sa che, dopotutto, non ci sta malissimo. Non sa perché ma qui non ci sta malissimo. Davvero. «Meglio così», si dice, perché anche volendo non riuscirebbe ad andarsene. Eppure il posto è squallido. È scomodo. Sporco. È... Tanto non potrebbe uscirne. Non potrebbe. «Questo è il mio posto». Spaperino infila una mano in tasca a controllare che ci siano ancora PAP. Queste pastigliette ovali con la siluette di un papero sono la causa del suo soggiorno qui. Ma, anche, gli consentono di restarci. E-poi-questo-posto-non-è-così-male. Spaperopoli Particolari I particolari. «Prova con i particolari, Spaperino». Una PAP e comincio a fissare ogni particolare di ciò che mi circonda. Così, per dimenticarmi del complesso. Il bordo della mattonella sbrecciata accanto al mio sedere, scogliera su un mare fermo. Il riflesso unto dei miei pantaloni, smorti per la luce fissa, non danzante. La mia mano, appoggiata sulla coscia. Una delle mie dita. L’indice. Concentro la mia attenzione sull’indice, sulla sua forma allungata che termina in un’unghia che sembra una bombatura. Il nero che traspare da sotto la punta, le scaglie di pelle morta a fare corona, dove spesso infierisco con i denti. E poi le grinze, come collane, lì dove la falangetta si piega. E la verruca, proprio al centro della falangetta, che mi guarda come uno stupito occhio ciclopico. Lo fisso, con l’energia degli strali della mia testa bloccata su questa visione ristretta. Lo fisso fino a sfuocare tutto il resto. Finché tutto scompare e il tutto diviene il mio stesso dito. Ingrandito. Si alimenta con l’energia della mia testa e cresce, più delle altre dita, poi più della mano, fino a divenire quanto me. Fino a trasformare me in sua appendice. Mi guarda, stringe l’occhio e poi, con uno strappo si stacca. Un solo istante da occhi nell’occhio, ci salutiamo; alla pari e di pari dimensioni. Vorremmo dirci qualcosa. Forse sul nostro reciproco volerci bene, che io a lui m’ero affezionato, che lui a me si sente legato. Ma non sappiamo parlare, noi. E allora mi strizza l’occhio, ricambio e lui comincia a saltellare. Lungo il corridoio, due saltelli poi si ferma davanti alla mia camera da letto. Guarda dentro poi riprende a saltare. È tra i lavandini ora, davanti ad uno specchio. Perplesso. Si osserva. Ha un po’ di sporco sotto l’unghia ma è pur sempre un dito presentabile. Poi la porta. «Non andare… » direi ma lui è già fuori. Mi alzo, corro sulla soglia. Solo ora sento il dolore alla mano menomata. Mi fa male. Ma lui è già oltre, sulla banchina. Flussi e riflussi di gastoni in corsa, treni dormienti, altri in partenza sferragliante, sotto l’immensità dello spazio. Un dito dalle dimensioni umane, al centro di tutto, saltella guardandosi in giro curioso. Si ferma davanti al manifesto di una figona seminuda. Poi altro saltello davanti ad un grasso uomo sonnolento su sedia a rotelle che fissa un binario. Si guardano i due. Per un secondo. Poi un treno arriva su quel binario e l’uomo si illumina di un sorriso che sembra incollato su una faccia che non sembra fatta per sopportare sorrisi. Due colpi alle ruote della sedia e l’uomo scorre verso il treno. Dito riprende la sua passeggiata. È sulla soglia della stazione ora. Guarda fuori. Il gastoname del treno defluisce lungo la banchina. Il rotellato si accorge di avere preso un abbaglio e il suo sorriso spacca faccia si smorza. Dito è ancora lì. Guarda fuori. Si gira verso di me, mi guarda con l’occhio spalancato, scuote la falangetta in cenno di saluto. Mentre Rotellato attende, Dito fa un salto e, fuori, scompare. Rabbrividisco. Spaperopoli Giovanna che scompare… Un altro ricordo che cade dall'alto con il fragore di un masso nella palude del suo cervello. Ed è l'immagine di lui, Spiz e Marco, vicini allo stesso pilone della discoteca, nell'unica area in cui la musica non ti martella la testa e ti lascia la possibilità, se hai voglia, se ne sei capace, di parlare, e magari, di conoscere qualche fighetta... Spiz appoggiato con la schiena al pilastro, due dita della mano destra nella tasca anteriore dei pantaloni attillati color domopack, altre due dita a tenere la sigaretta e la mano sinistra sulla testa a giocare con le corna di capelli e gel. Lo sguardo che vaga indifferente sulla pista. Marco, il palestrato, respira senza mai espirare a fondo per tenere il torace ben teso. Si guarda intorno famelico ad ogni accenno di parvenza femminile. Spaperino un po' più indietro, tiene una spalla sul pilastro e si bilancia tra il desiderio di farsi notare, anche lui, in qualche modo e la paura che davvero qualcuna di quelle ragazze lontane e indifferenti lo possano vedere. Un’altalena spastica di sensazioni gli straccia il viso con un’espressione mista di sorriso ebete e sguardo accigliato e, dentro, un senso di mancanza di identità che lo annienta. Sa di non esistere in questo luogo, non più almeno di un ignorato chiodo idiota piantato nel pavimento. Vorrebbe schiodarsi da lì. Sa di non esserne capace. Poi, davanti a loro due ragazze: quella alta, dai lunghi capelli neri sulle spalle nude, un top francobollo sui seni, l'ombelico nudo e una gonna lunga, aderente, con spacco e gamba nuda; quella più bassa, capelli corti e jeans. «Ehi belle» fa Marco gonfiandosi tipo omino Goodyear. Quella alta si gira appena già armata di sguardo tagliente come il freddo. Spaperino si ripiega sulle pieghe del suo imbarazzo. Poi lei scorge Spiz e allarga i suoi occhioni: «Spiz! Sei tu?». Spiz sveglia appena il suo sguardo, degna di attenzione le sue forme poi emette un «ciao Sara» da concessione. «È da un bel po' che non ci si vede», fa la ragazza ancora più sorridente. «Dalla fine delle medie... Ti sei fatta più bella». «Grazie». Marco sorride, si gonfia, si avvicina a Sara, la guarda in attesa di un cenno. Poi si sgonfia e sposta l'attenzione delusa su quella più bassa «... Giovanna». Spaperino resta fermo a pesare ogni muscolo della sua faccia alla ricerca di una qualsiasi espressione simil-spontanea. Da dietro il pilone osserva Sara che gioca con una ciocca di capelli, tenendo la testa leggermente reclinata a completare la curva dei fianchi che si attorciglia intorno all'ombelico, salta tra i seni per poi terminare in un atterraggio morbido sulla linea del collo lungo. Giovanna che resta rigida e fa vagare lo sguardo intorno mentre si sforza di rispondere alle domande di Marco: «che fai nella vita?», «studio», «ah», «vieni spesso qui?», «qualche volta», «ti piace?», «insomma». Poi Marco che se ne va con il passo pesante del bisonte ferito. Spiz si allontana, ma con Sara, tenendole un braccio intorno ai fianchi. E poi è solo Giovanna. Al centro di tutto. Il locale sembra vorticarle intorno… Il suo sguardo si incrocia con quello di Spaperino che vorrebbe, ad esempio, dire... ecco... cosa? E poi il ricordo di Giovanna che scompare dentro la nebbia sudata della pista... Spaperino strappa uno degli asciugamani di carta, lo appoggia allo specchio, si inventa un pennarello e prova a disegnare: un quadrato che è una vignetta, poi un altro dentro che è una finestra. Un cerchio ed un triangolo che è un becco, due occhi grandi. Un collo e un ovale che è un corpo di papero. ... Lui davanti alla finestra della sua camera, a casa, a guardare fuori. 31 Spaperopoli Un cubo che è lo stereo. Tratti di note e fulmini di inchiostro nero che ne escono ed è la musica. Tecno. ... Lui, faccia alla finestra, che guarda fuori e ascolta tecno acida. Nel rettangolo della finestra, in lontananza, una strada e un sole che cala. E altri piccoli paperi lontani. Tanti, sotto a fumetti carichi di lettere. ... Lui che guardava la strada sotto la sua finestra, il bar dove tutte le sere gruppi di ragazzi, ragazze, si incontravano, parlavano... abbracciavano anche. ... Lui fermo, come inchiodato, a desiderare di essere tra loro. A sentire tutto il peso di quella distanza incolmabile. Spaperino guarda il disegno, poi si guarda intorno: il bagno, la porta là fuori, i passanti. Appoggia il gomito sullo specchio, avvicina la testa al disegno, fino quasi a toccare la carta con il naso. Lo fissa e ci si perde dentro. «Un po' come tornare a casa». Ci vorrebbe del colore. Appoggia la punta del pennarello sulla carta e lentamente tira una riga sottile, obliqua. Ascolta il rumore della punta che striscia da un lato della vignetta all'altro. Poi un'altra riga, parallela alla prima. Un'altra. Un'altra più veloce. Ancora. Più veloce. La mano è più pesante ora, si muove a scatti, uno scatto per ogni riga. Righe non più dritte. Sempre più spesse. Righe tutte intorno alla finestra. Righe mentre il bagno torna ad urlargli nella testa, a ricordargli dove è, lui, ora. Righe... E ora c'è solo il quadrato della finestra, la strada, il sole, gli altri paperi lontani. Tutto intorno solo righe nere. Colore di inchiostro nero a cancellare un papero solo. Spaperopoli Ciccio a rotelle Dopo un po' che stai fermo in un luogo cominci a sentire di farne parte. Così sto seduto in questo angolo di bagno e sento che i miei contorni si espandono oltre lo spazio fisico che occupo. È una vista piatta che assimila al mio essere anche queste linee di mattonelle che sul pavimento si allontanano dalle mie ginocchia fino alle pareti. Concentriche, sembrano. Partono da me e da questi piccoli pensieri sciolti dal caldo, si estendono a spirale in un macro pensiero di esistenza che mi fa sembrare tutt’uno con tutto questo che ho intorno. E poi i muri e le loro macchie, come impresse nella mia retina, che mi fanno compagnia come disegni mentali. E poi il soffitto e il neon spento che oscilla inutile quanto questo mio esistere, visto che c'è già luce fuori e quindi io sono qui, buio, a farmi avvolgere dall'aria, appeso su minuti sporchi e macchiati. Seduto; ma con la fantasia prendo la rincorsa sulle mattonelle, due colpi d'ali lungo le linee e sono già fuori con i miei occhi che tipo zoom si avvicinano all’immagine contornata dalla porta di Ciccio a rotelle. Sta, morbido come i suoi contorni obesi, sulla banchina del suo solito binario. Guarda oltre, fuori campo, in attesa. Intorno a lui neanche un gastone semovente. Solo il grigio-nulla della stazione, l'afa pesante e il rumore della voce metallica. Tutto fermo, immobile. Come un punto messo al niente. Poi uno stridore sordo e lo sfondo dell'immagine si riempie dei contorni bombati di un treno in frenata che blocca la sua ira pesante appena prima della fine del binario. E una fiumana di gastoni sotto forma di bambini ridenti, ragazzetti infighettati, donne ingioiellate e borse a tracolla, valigie trascinate con rotelle che urlano come fantasmi, bastoni per vecchi accaldati. Qualche minuto, qualche sgocciolio di trafelati gastoni ritardatari e il cigolio, di nuovo, del treno che si strappa via dal suo sonno greve. E Ciccio, ancora, fermo, da solo, che non guarda più avanti ma per terra. «Niente compagnia oggi, anche per te – penso guardandolo girare sulle ruote per allontanarsi dalla banchina – tornatene a dormire che è meglio». Ha uno sguardo che vaga intorno a cercare in ogni angolo la persona che aspettava. La sua testa tonda si gira a scatti rapidi mentre mosse molli delle braccia lo fanno procedere nell’afa. Poi, per caso, guarda verso di me. Ferma il vagare degli occhi. Mi fissa. Proprio me. E i miei occhi ritornano alla base, direttamente nelle mie orbite. Questo sguardo altrui mi ridefinisce come limitato e solitario essere schiacciato in un bagno lurido. Mi rannicchio. Mi sta guardando fisso. Sorrido un po' spaventato. Un colpo netto ad una ruota e devia la traiettoria della carrozzella. Altri due colpi rapidi e aumenta la velocità di avvicinamento. Sorrido, decisamente spaventato. Mi guarda. Un’onda dei suoi doppi menti accentua il movimento che sfodera i suoi denti appuntiti come quelli di un pesce. Sembra ringhiare guardandomi. Dal mio angolo assisto alla linea retta del suo rotolare verso di me. Verso questo bagno, vicino la soglia. Oltre la soglia. Lascia che il suo mezzo scivoli sulle mattonelle fino ad andare a sbattere contro la porta del ripostiglio. Continua a fissarmi. Dalle pieghe del grasso del suo viso i suoi occhi come due spilli. Una mano fruga nella sua tuta-straccio. Solo ora noto l’FFSS sul suo petto. Estrae una mazzo di chiavi. Ne sceglie una ed apre la porta. Ci si infila. «FFSS – penso – può mandarmi via se vuole». Sto per alzarmi, andare a chiudermi nella mialatrina ma lui esce ringhiando dal ripostiglio. È armato, con una scopa. Punta il manico contro di me e si avvicina ancora. Che cazzo sta succedendo? Parla, pesante, con la sua voce che sembra provenire da una grotta: «in che modo te la saresti fatta? – chiede con tono minaccioso, reso ancora più teso dalla scopa con la quale mi punta – in che modo? Dimmi?» e agita il manico a due centimetri dal mio naso. Indietreggio ancora, mi schiaccio al muro. Piccolo. «Vero che te la saresti fatta? Dillo che te la saresti fatta». Mi rannicchio ancora di più. Mi dà un colpo sulla testa. Spaperopoli «Cosa?», dico portandomi la mano dove mi ha colpito. «Lo sai, cosa» altro colpo. «Ma cosa? Cazzo! Non capisco». «Lei, dico, lei! Te la saresti fatta, lo so. Quante seghe ti sei fatto pensando a lei?». «Chi? La tua amica?». «Sì, la mia amica. Ho visto come la guardavi quando mi veniva a prendere. Si vedeva che te la saresti scopata subito?». «No... ti sbagli». «Dimmi!», urla, «dimmi come te la saresti fatta – si avvicina ancora. Una ruota è proprio davanti al mio naso – da dietro, in bocca, dove glielo avresti messo? Dove? Le avresti strappato quelle magliette attillate, le avresti leccato quell’ombelico nudo? E le chiappe? Le chiappe, le avresti strette, stritolate tre le mani, vero? Te la saresti scopata tutta?». Mi dà un altro colpo, più forte. Sto zitto. «Fuori!! – urla – fuori di qui! È troppo che ci stai. Devo fare pulizia io. Fuori!». Mi colpisce al fianco, mi costringe a piegarmi e a spostarmi verso l’uscita. Là fuori lo spazio ringhia. Poi mi colpisce il ginocchio piegato. Questa fa davvero male. E allora mi alzo, afferro il bastone, «che cazzo credi di fare?», urlo, strattono ma non riesco a strappargli la scopa. Dalle maniche dello straccio chegli fa da tuta escono due braccia muscolose. Lui ringhia. È paonazzo e due occhi furenti tra le pieghe del grasso mi arroventano l’aria intorno. «Che cazzo vuoi da me?» ri-urlo. «Che cosa voglio? – Urla in risposta, strappandomi di nuovo la scopa di mano ed indicando l’uscita – vai fuori! Fuori di qui! È un posto pubblico, questo. Non un albergo per straccioni». Mi rimetto a terra, mi accovaccio, arretro. «Fuori ho detto. Fuori!». Mi porto le mani sulla testa e attendo i colpi. Non voglio uscire, non ancora. Penso alla stazione là fuori, ai treni che fischiano, allo spazio sopra di loro. E poi mio padre e poi a... La voce che mi esce è flebile: «no non me la sarei fatta, amico, la tua donna. Non me la sareifatta, davvero. È la tua donna, non la mia». «NON È LA MIA DONNA!!» urla. Attendo il colpo. «Non lo è», mormora. Sento il rumore delle ruote che si allontanano. Ciccio quella mattina aveva mangiato una torta stregata ed ora vagava per la città in preda ad una furia distruttiva che lo spingeva a sfasciare ogni cosa gli ostacolasse il passaggio. Era appena passato davanti al giardino di Spaperino e con un grugnito aveva ribaltato la sua auto svegliandolo di colpo e facendolo cadere dall’amaca. Alzo gli occhi. È faccia alla porta e mi dà le spalle. La testa rasata e tonda, con un braccio tiene la scopa in piedi accanto alla ruota destra. Il bicipite si dilata e comprime a scatti. Il gastoname fluisce e rifluisce a onde disaggregate. Un treno stride in una frenata greve. «Dovrebbero stare più lontani dai binari quei cazzoni». Dice. Lascia la scopa che cade sul pavimento. Porta le mani alle ruote. Dà un colpo. Poi frena. Proprio sulla soglia. «Io non le potevo bastare», dice. Altro colpo ed esce. Tiro un sospiro di sollievo. Spaventato ed assonnato, Spaperino guardava Ciccio ruggente allontanarsi lungo la strada. Vorrei dormire. Un sonno teso mi prende di colpo tutto il corpo. Chiudo gli occhi e mi abbraccio. Sono ancora qui. Ancora. Spaperopoli Spaperino tornava sulla sua amaca convinto di essere stato preda di un brutto sogno. Fila di “Z” a riempire la vignetta. Poi un grugnito fuori campo: «tu le guardi, vero, le cassette porno?». Apro gli occhi. È ancora lui. È tornato. «Certo che le guardi. Tutti voi le guardate». Mi colpisce con la scopa. «Vero?». Altro colpo. «Vero?». Non rispondo. «Quando?». «Quando cosa?» chiedo. «Quando le guardi? Con gli amici, alle feste? Con gli amici e anche le amiche? Vero?». Scompaio. Di colpo, non sono più qui. Ricompaio in un ricordo, ora, una volta. Ad una festa. C’erano anche delle ragazze. Ma io ho visto solo pochi secondi di quei corpi nudi su video. L’imbarazzo. Me ne sono andato subito, mentre loro, le ragazze, mi guardavano, deridevano e riprendevano a guardare finto-timide la scena. Altro colpo alla testa, poi sulle nocche della mano. «E poi – riprende a farneticare – riguardi le tue amiche e le pensi nelle posizioni dei film, assieme a te che glielo metti tutto, dappertutto. Perché vorresti, vero, scopartele tutte, con quell’appendice selvaggia che tu hai ancora tra le gambe. Vero? – bastonata – Vero?». Alzo gli occhi. Lui sta sollevando ancora la scopa in alto, prepara un colpo davvero forte. «No – alzo una mano verso il manico e parlo con parole senza orgoglio – non me le farei, io. Amico. Ho paura di loro. Davvero, amico, davvero, ho paura. E poi loro non mi vogliono». Ferma la scopa, in alto. I suoi occhi tagliano la mia pelle ora. Urlano di rabbia assieme alla sua voce: «te? Non ti vorrebbero? Te?». Un treno, fuori, geme sotto il suo stesso peso in partenza. «Fuori! – urla e bastona – fuori! – urla e mi prende ad un fianco – è un posto pubblico questo – sono costretto ad alzarmi – devo pulire, io!». Sono quasi all’uscita, mi sta buttando fuori e allora comincio ad urlare anch’io «basta adesso!» ma lui bastona sempre più in fretta e fa male e ho paura e allora urlo «basta!» ma è un altro colpo che mi prende in faccia e allora «BASTA!» e salto, al collo. In due, più carrozzella e scopa, roviniamo sul pavimento in un urlare unito di basta-fuori-ora basta-fuori di qui. Gli sono sopra gli strappo la scopa mi rimetto in piedi e con un calcio allontano la carrozzella e alzo il braccio armato che glielo darei, davvero, questa cazzo di bastonata che sento nel braccio e che pareggerebbe tutte quelle che mi ha dato se, solo, la sua tuta avesse le gambe e non ci fosse una specie di urlo atavico interno che mi impedisce di ferire un disabile anche se è un grandemente abile figlio di puttana. Gli lancio lontano la scopa con un grugnito che veicola la mia rabbia all’esterno, rimetto in piedi la sua carrozzella e lo afferro per il bavero. Lo sollevo e lo rimetto sulle ruote. Lo lascio lì e me ne vado nella mia latrina con ancora nei muscoli la sensazione molle e disgustosamente fredda del suo corpo leggero come quello di un bambolotto vuoto. Chiudo la porta mandandolo mentalmente ‘affanculo. Tiro lo sciacquone e guardo l’acqua gonfiarsi e defluire. Un respiro e la rabbia è scomparsa. Resta solo l’idea che ho fatto male a lasciarmi andare, che ora lui uscirà e mi denuncerà e mi porteranno fuori senza ascoltarmi e sotto la volta immensa io ci morirò. Che non dovevo reagire. Non dovevo. Poi bussano alla porta. «Ehi, lì dentro. Scusami non volevo, non... ». Vaffanculo, vorrei dire, ma non lo faccio. Spaperopoli «Va bene», gli dico senza neanche cercare di contrattare per il mio onore. «Loro, le donne, vorrebbero te più di quanto vorrebbero me. Vogliono essere scopate. Non si accontentano di un amore diverso. Non si accontentano di me». Non me ne frega un cazzo, direi, mentre i bernoccoli sulla testa pulsano. «Hai mai amato tu?», chiede. Domanda del cazzo. Cosa te ne frega? Cosa? Direi. «... Da lontano. Hai mai amato da lontano una ragazza?». Certo, brutto stronzo, certo. «Ti è mai piaciuta una ragazza che non conoscevi? Che non ti degnava di uno sguardo? O solo che era troppo bella per non spaventarti e inchiodarti lì, quando ti passava davanti, incapace di dire una sola parola? Hai mai sognato di avere una ragazza senza neanche sapere il suo nome? E ti è mai capitato di sentirti impotente, sì impotente, così lontano da lei?». Sempre, testa di cazzo, sempre. È sempre stato così per me. Sempre. «... Sì… » dico sommesso. Dà un colpo alla porta e ricomincia ad urlare: «mai come me, stronzo! Mai!». Ho sbagliato ancora. Mi rannicchio. Poi bussa. «Scusa». «... Di niente... », dico. «Il fatto è che tu, anche se le sei lontano, puoi sempre sperare di averla, un giorno. E magari, qualche volta ce l’hai anche fatta, con qualcuna». Io? Penso. Ti sbagli. Non riesco neanche ad avvicinarle, io, le donne. Non posso farci nulla. Un’altra frenata sibila nell’aria spugnosa. «Non sono spaventose queste frenate? – Dice Ciccio. Sembra che tenga la testa appoggiata alla porta. La sua voce rimbomba in questo anfratto della mia casa. – Pensa alla massa che hanno i treni – i treni, sento come fosse eco. – A quanto più di un uomo pesa uno solo dei vagoni – vagoni – quando frenano è come se affondassero gli artigli nella terra – terra – non sembra anche a te che insieme, il treno e la terra urlino di dolore?». Sto zitto. Dolore. Dolore. Dolore da Ciccio al mio bagno fin dentro la mia testa. E tutto intorno i treni. Un fumetto di “Dolore” sopra un pianeta terra ricoperto di treni e di vagoni e di gastoni investiti. «Hai fame?», mi chiede. «Sì». «Se esci ho qui un tramezzino». Mi alzo e apro la porta. Non ha più in mano la scopa. Mi porge un tramezzino schiacciato smunto. «Grazie». Mangio in silenzio, seduto per terra guardando i suoi occhi che non mi vedono. Guardano attraverso me e il muro sul quale sono appoggiato. Poi sorride: «era carina, vero?». «Chi?». «Federica, lei, che mi veniva a trovare». Non so che dire. Non voglio correre rischi. Sto zitto. «Tornava dal lavoro con il treno delle 19:15 e tutte le sere passava a trovarmi. Mi portava a passeggiare per il parco o a bere qualcosa. Una sera siamo persino rimasti fuori a cena. Spaperopoli Eravamo amici ma la distanza da colmare era enorme. Più di qualunque distanza che voi “interi” possiate mai avere provato – sottolinea la parola “interi” arricciando il naso in un moto di disgusto tutto concentrato su di me. – Questo non mi dispiaceva. Davvero». Non riesco a reggere il suo sguardo. Abbasso gli occhi sulle scarpe. «Sono abituato, io posso solo guardarle. Non potrei farci nulla con l’unico testicolo che mi è rimasto. O con il catetere che uso per pisciare». «Ma a me, davvero, questa cosa, questo non potere, mi dà molto». Mi guarda e soppesa la mia reazione. Mastico. «Le guardo, da questa sedia a rotelle e le desidero. Forse, se potessi farei come voi, cercherei di avvicinarle. Con l’idea fissa: penetrarle in tutti i buchi con la mia appendice più sporca. Insozzarle con la mia schiuma viscida. In faccia, sì, soprattutto, in bocca dove deve dare più fastidio. Dominarle come un animale. Forse. Ma non posso e questa cosa, dopotutto, non è così male. Non si sentono sporchi tutti quelli che fanno le videocassette? E voi che non fate le cassette ma scopate lo stesso? Io da questa sporcizia mi sono sempre tenuto fuori. E me ne vanto. Perché io so amare veramente». Mi guarda e pretende una reazione. «Io so farlo, meglio di tutti voi. Amare. Io so farlo veramente». «Sì... di sicuro», farfuglio masticando l’ultimo boccone. Il suo volto si distende. Dà un colpo con il braccio alla ruota destra e così si gira verso la porta. Guarda dove lo vedevo incontrarsi con la ragazza. «È un amore forte il mio. Una cosa di cui andare fieri». Con le braccia solleva il busto e raddrizza la schiena. «Guardavo Federica quando mi stava vicino. Quelle tettine appuntite sotto la camicia... le cosce tese. Quel sedere tondo come ogni cosa perfetta. Mi sentivo bene perché ero preso dal benessere del mio amore disinteressato per lei. Io non me la sarei mai scopata. Per questo dico che la amavo da lontano e che questo mi faceva stare bene. Perché non esistono persone che vogliano bene gratis. Io sì. Se stavo vicino a lei e al suo corpo era solo per amore disinteressato. Amore da poesia». Guarda il binario da cui attendeva il treno. «Ti piace la poesia? Sai, io sono molto poetico, dentro. E ho tanto amore dentro. Io sono diverso, migliore di tutti gli altri come te che non amano davvero ma vogliono solo scopare. Migliore». Si gira. Dà un colpo alle ruote e fa uno scatto verso di me. Si ferma a pochi centimetri dalle mie gambe che per istinto richiamo al petto. «Migliore!» ordina. «Sì» rispondo al comando. Ora il suo sguardo oscilla alla mia sinistra. Guarda il muro. «Stasera non è venuta a trovarmi. Non verrà più». «Perché?» chiedo automatico. «Perché lei questa cosa di me non l’ha capita». Riassetta la tuta rimboccandosi i pantaloni sotto i moncherini. «Ieri sera l’ho invitata a casa mia. Ci è venuta volentieri. Abito qui dietro in un locale delle FS. Non è niente di speciale ma me la lasciano gratis, un po’ perscusarsi dell’incidente. È un po’ squallido ma volevo che vedesse dove vivo. Era tanto che una donna non entrava in casa mia. A parte mia madre. Quando gliel’ho detto ha sorriso e mi ha dato una carezza sulla guancia. Ha anche delle mani bellissime. In, casa, quando ha visto tutte le mie videocassette mi ha guardato meravigliata». I suoi occhi hanno ripreso a non vedere. «Allora le ho spiegato che io le guardo, sì, quelle schifezze ma solo perché mi fanno sentire più puro. Mi fanno capire quanto io sono meglio degli altri uomini che vogliono solo sudarti addosso, le Spaperopoli ho detto, che vogliono solo fotterti, Federica, usarti come una cagna in calore ma non ti amano mai veramente ma solo di carne perché non esiste, Federica, un amore vero che sia anche così animale, le ho detto. E poi che io sono diverso, che io ti amo veramente senza chiederti di fare nulla per me, che non c’è bisogno che ti abbassi sotto di me o che ti pieghi o che ti apra in tutte le tue parti per essere amata e che... Con un mezzo sorriso mi ha detto di stare zitto che era lusingata ma che ero un po’ strano. Strano, capisci?». Ha ripreso a fissarmi cattivo. Mi rannicchio. Ho paura. «“SPECIALE” le ho detto, “io sono speciale”. Ha sorriso e non ha detto nulla. Non mi ha dato ragione. Si vedeva che non mi aveva capito: non mi riteneva speciale. Solo strano. Anzi, no, pazzo. Solo pazzo, capisci? Pazzo. Io? – si avvicina ancora – ti sembro pazzo? Solo perché so amare veramente? E allora le ho spiegato ancora che io porcaputtana sono senza gambe e senza una palla e senza tutta la canna, e anche che uso un cazzo di catetere per pisciare e che sono un mezzo uomo ma così il mio sangue ha meno carne da riempire e allora mi si concentra tutto in petto e che allora tutto ciò che mi manca e che non posso dare è compensato, sì, compensato, da sentimenti più forti, molto più intensi di quelli degli uomini interi che devono sprecare il loro inutile sangue per nutrire il loro cazzo e le loro gambe che per questo io sì, te lo ripeto e mettitelo bene in testa, le ho detto, sono speciale». «Speciale» mormoro ma lui non mi sente e riprende a parlare: «sì mi ha detto guardando la porta e aggiungendo che se ne doveva andare. Era presto. A quell’ora lei aveva sempre tempo per me. Era chiaro che le davo fastidio, non capiva, che tutto quell’amore per lei era sprecato. Che la amavo, le ho urlato, più di quanto si meritasse. E troia, le ho detto. E cagna, non ti piace questo amore, vorresti essere sotto di me adesso, vero? Ho urlato, aperta, e perforata e macchiata e sudata? Ha detto che dovevo stare calmo, che doveva andare, di aprirle la porta e perché l’avevo chiusa, che aveva paura e voleva andarsene. E il mio unico testicolo mi ha dato del coglione e ho cominciato a vederla, lei, in quelle cassette. Mi sono venute in mente miriadi di quelle scene che avevo guardato disgustato in tutti questi anni da solo in questa casa davanti al videoregistratore. In tutte quelle posizioni oscene c’era lei. Lo schifo mi ha preso. Capisci? Lo schifo per lei. Ed ho capito che se lo sarebbe meritato di essere trattata così da me e ho sentito che avrei dovuto prenderla, aprirle le gambe e farle tutto quello che desiderava, che si meritava. E allora io e il mio unico coglione ci siamo buttati addosso a lei che squittiva spaventata perché volevamo farle capire che... ». Silenzio. Occhi liquidi su guance molli. Fischio di treno. «Non so – dice timido – cosa volevamo farle capire. Cosa volessi dimostrarle. Davvero non lo so. Sono finito a terra con la carrozzella rovesciata ad annaspare verso di lei che aveva afferrato la chiave caduta fuori dalla mia tasca, aveva aperto la porta ed era corsa via pestando i tacchi lungo la tromba delle scale... ». Ciccio mi guarda fisso negli occhi. Cerco un’espressione da sospensione di giudizio. Sto zitto, immobile. Aspetto che lui si decida ad andarsene. «Oggi non ho voglia di pulire», mi dice mentre esce. Si ferma di fianco alla scopa e la afferra. Si gira verso di me. «Scoperesti qui in giro al posto mio?». «Certo», dico. Mi alzo. Ciccio affaticato torna sotto la volta. Prendo la scopa e faccio finta di passarla sul pavimento. Mi pago il soggiorno. Poi la rimetto nel ripostiglio. Tiro la porta che si chiude automaticamente. Spaperopoli Ciccio a rotelle non dorme. Guarda un vagone solitario all’ultimo binario. Mi accovaccio e guardo dove guarda lui. Chiudo gi occhi. Fila di “Z” a riempire la vignetta contornata di treni di vagoni e... Spaperopoli Ombra (reprise) Ecco, di nuovo. Non posso farci niente. Di nuovo quella domenica sera. La solita. Ce l’ho in testa che assume forme fredde e il peso angoscioso dei rumori della televisione che rimbombavano per tutta la casa. I miei di là, seduti sul divano. Me li vedevo, anche se ero appena entrato ed ero ancora nel corridoio: lui a schiena dritta, lei che teneva la testa appoggiata sulla sua spalla. Stavano sempre così davanti alla Tv. Io qualche volta, mi sedevo per terra, sul tappeto. Anni prima, o secoli, stavo invece sul divano, tra di loro. Spesso mi addormentavo. Tra il profumo muschioso di mio padre, quello dolce-aspro di mia madre e gli squittii della Carrà. Ora. Io. Ancora. Ricordo. Perché? Perché mi ostino a farmi così male? Non andai di là, quella sera. Non ce l’avrei fatta. Ero distrutto. Sudato. E i jeans di plastica erano troppo stretti. E poi non sarei riuscito a starci, seduto, fermo, con la notte che stava per arrivare. La sentivo fischiare nella mie orecchie, e fremere nelle mie ossa a contorcermi lo stomaco. Perché continuo a ricordare quella maledetta domenica morente? Qui che le domeniche non esistono. Solo notte, solo quella. E dovrei essermici abituato. Ecco, forse, non fosse per questo maledettissimo ricordo, credo, ce l’avrei già fatta a vincerle queste mie paure. Ma come faccio, se questo qualcosa che ho nella testa si ostina a ricordarmi che la notte, a me, terrorizza. Come quella domenica. Un grande drago volante, che urlava e strideva tra il buio. E mi stava per caricare. Come un treno lanciato con tutto il suo peso, contro di me. Sollevava polvere e gridava che mi avrebbe schiacciato. Questa era la notte che sentivo arrivare. Già il terreno mi tremava sotto i piedi. Quella domenica. Come tutte le altre. Ma posso fare qualcosa per ucciderlo quel drago. Sì. E allora altre tre PAP. Una per la notte, una per il ricordo, una per tutte le domeniche morte fischiandomi nelle orecchie. Vai piccolo papero. Riprendi il tuo colorito. Dormiente nella sua stanza, Spaperino. Ai piedi del letto il cane Luto sonnecchiante. Un rumore alla finestra. Un’ombra oltre le persiane. Luto, scattava ad abbaiare. Spaperino s’era svegliato di colpo. «Smettila, Luto! Sto cercando di dormire». Poi vedeva l’ombra. «Aiuto!». Si tirava la coperta fino sotto gli occhi. «Chi è?». Nessuna risposta. «Chi è?». Niente. Luto continuava ad abbaiare. Poi una lampadina sulla testa di Spaperino. «Ma certo! – aveva esclamato – è PaperoZione. Dovrei lavorare per lui oggi. Lucidare tutte le sue monete». Spaperopoli «Vattene ziaccio. Sono molto stanco!». L’ombra non rispondeva. Spaperino zittiva con un cenno Luto e poi riappoggiava la testa sul cuscino. «Vedrai che se ne andrà». Luto ora era zitto ma non convinto. Restava a fissare la finestra. Spaperino fingeva di dormire. L’ombra restava imperterrita oltre la finestra. Troppo inquietante per riaddormentarsi. Spaperino era scattato di nuovo a sedere. «Insomma te ne vuoi andare, aguzzino sfruttatore di poveri paperi stanchi!» aveva urlato con i pugni ben protesi. Luto abbaiava. «Vattene!!». Spaperino era saltato giù dal letto, si era rimboccato le piume delle braccia ed era corso furibondo alla finestra. «Ti faccio vedere io, adesso». Seguito da Luto ringhiante. Aveva spalancato le imposte. Non era Zione. Non era neanche un papero. Ma un occhio. Un grosso occhio fluttuante a mezz’aria lo fissava accigliato. Spaperino e Luto s’erano zittiti con le piume e i peli dritti sulla testa. «Co-cosa-de-desidera?». «Niente» aveva vibrato una voce e poi una rima «Niente sto facendo che non sia concesso nessun sopruso né eccesso Solo osservo la tua testa e il tuo servo Per capire finalmente dove andrai a finire Se mai ti deciderai a farti svegliare Andare finalmente a lavorare». «Sì, certo – aveva risposto terrorizzato Spaperino – adesso… vado… sì … dallo zio». «NO – aveva ripreso la voce – Non dallo zio devi andare ma da un altro a lavorare. Un concorrente o un suo nemico Colui che ti continua ad osservare». «Un suo avversario? Chi? PusherDuck ?». «Lui». «E cosa dovrei fare?». «Ehi, bimbo, come ti va la testa? Non credevo di trovarti ancora qui». È PusherDuck, è tornato finalmente. Sta pisciando all’orinatoio davanti a me. Mi dà le spalle. Lo riconosco dai capelli rasta. Spaperopoli «Vieni spesso qui?». Non rispondo. «Ci sei nato seduto lì per terra oppure aspettavi qualcuno?». «Nessuno in particolare». «Ho incontrato il tuo amico panzone giusto ieri notte». Guarda in giro se c’è qualcuno, sgrulla, riabbottona la patta poi si volta. Ha un gigantesco nasone adunco su un volto ovale quanto un piatto per il pesce. Un sorriso dai denti a ciuffi come i suoi capelli e una voce gracchia, da papero con laringite. «Ha detto che le PAP non sono piaciute un granché ai ragazzini del suo giro. Dicono che non gliene frega un cazzo di passare le notti in discoteche tappezzate come camere per bambini idioti. Pare siano piaciute solo a te». «Davvero?» dico alzandomi in piedi. Mi do una lisciatina ai pantaloni. «Ma sei sempre vestito uguale? Non ti tiene caldo tutta quella plastica?». Lui porta due calzoni hip-hop al ginocchio, un marsupio color giamaica e una maglietta con la faccia bisunta di Bob. «Ci sono affezionato», sbocconcello fuori. Pusher si passa le mani sotto l’acqua del lavandino, poi la testa. «Scusa… », gli dico. Lui si tira su con uno scatto e lancia una sventolata capelli-acqua fino al soffitto. Doccia anche me. «Stammi bene», dice e si avvia verso l’uscita. «Scusa… », gli ripeto. «Che c’è?», mi fa senza voltarsi. «Ne avresti delle altre?». «Di che? PAP?». Faccio solo un cenno d’assenso con la testa. «No. Amico. Non si smercia». Infilo la mano in tasca. Non ne ho tante. Poi guardo fuori. Troppo poche. «E potresti procurarmene?». «No. Troppo pochi acquirenti. E non si comprano mica al dettaglio». Fa un cenno sopra la spalla di saluto. Ma poi volta la testa. Vedo il suo profilo appuntito con una vaga espressione di meditazione. «Però… sto pensando ad una cosa… », mormora. Dà uno sguardo fuori per vedere se arriva qualcuno. «Sei un po’ un pirla e poco attendibile ma posso proporti un altro piccolo divertente lavoro da assaggiatore». «Cioè?». «Ti posso concedere di provare gratis un altro paio di viaggetti appena appena rilasciati da una mia agenzia di fiducia». «Che roba è?». «Sicuramente più forte delle ultime che hai provato». «Niente PAP?». «Ti ho detto che non ce n’è più in giro. Forse in Francia. Là vanno ancora. A Disneyworld le vendono come patatine. I francesi si sballano e poi vanno ad incontrare Topolino e Paperino». «Niente… PAP». «Ma sei ancora rintronato? Ti ho detto che te ne faccio provare altre due. Diverse. Più forti. Così, per svezzarti un po’. Dopo queste non ti ricorderai neanche dell’esistenza di quelle merde rosa col paperino». «No, guarda. Grazie». «Senti. Ho anche qui un centone. Ti do anche un centone. Basta che smetti di tirartela». «Grazie. No». «Ho capito, tu i favori li fai solo al quel finocchio del tuo amico perché ti paga a carne. Te ne do duecento». «Grazie. No». «Sicuro?». Spaperopoli «Sicuro». Torno ad accovacciarmi mentre Pusher, da sopra la spalla mi mostra il medio e se ne va. Un trenone tutto bianco e dal muso a punta sta partendo. Forse va in Francia. Disneyworld. Là di PAP è pieno. «Avresti dovuto O cretino beccuto Seguire il consiglio Per andartene Da questo nascondiglio». Diceva l’occhio arrabbiato. Cazzi tuoi, adesso, Spaperino. Cazzi tuoi. Spaperopoli Vertigini È tornata ancora, Papernonna, e stavolta mi ha portato una torta. Una torta vera. È una di quelle preconfezionate che si trovano nel reparto surgelati ma non riesco a non immaginarmi Nonna armeggiare davanti ad un forno a legna di una fattoria, tirarla fuori e metterla sul davanzale della finestra a raffreddare. Mi guarda mangiare questo pezzo di torta che sa di colori intensi, di fieno luccicante e di boschi oltre la finestra con orsi dal muso pacioccone e lupi sfigati con porcellini antipaticissimi e... Il suo sguardo è da nonna che guarda il nipote malaticcio mangiare un piatto che lei ha cucinato con tanta cura. Finita anche l’ultima briciola tendo un sorriso. Lei non mi sorride e si siede. Mi prende la testa e se la avvicina al petto. Socchiudo gli occhi. Il rumore di rotaie là fuori. Il silenzio ripetitivo della stazione che assorbe i suoi pensieri. Il tempo passa sotto la sua mano gonfia. Da fuori il vuoto urla. «Sai... », dice in una domanda sospesa che è la fine del suo rimuginare. Non so nulla io, mi viene da dire, ma chiudo gli occhi. Mi perdo in un mare acido io, nel buio delle mie palpebre. Nonna, tu lo sai che io non so quasi neanche più cosa sono e non so chi tu sei? Lo sai, Papernonna, che anche se tu parli di te io ti vedo, ti sento, sì, ma come il personaggio di storie idiote e senza trama di cui io sono il protagonista? E lo sai, vorrei chiederle mentre spingo la testa per sentire meglio il suo calore, lo sai Nonna che tu fai la parte di un’allucinazione a forma di vecchia papera? «Lo sai... » ricomincia e quello che vedo, a occhi chiusi, è una papera dal becco simpatico sotto una nuvoletta su cui c’è scritto: «... io e te abbiamo in comune questa città. Ce l’abbiamo negli occhi. Lo vedo da come guardi fuori dalla porta che spaventa anche te. Passo la mia vita sotto quei giganti in vetro e cemento, eppure mi spaventano sempre. A guardarli da così in basso, vederli scomparire nel cielo… Di pomeriggio lavoro meno e allora me ne sto sul mio marciapiede a guardare la gente che mi corre davanti. Compaiono e scompaiono dalle porte di quei grattacieli. Chissà quanta gente si può perdere lì dentro? Cerco sempre di tenere il mio sguardo basso. Ma non ce la faccio mai. Prima o poi devo guardare in su. E allora mi perdo via. Per ore intere a farmi prendere dalle vertigini che mi dà quell’altezza. Rabbrividisco. Perché per me è come quando guardavo le Alpi». Guardava le Alpi Papernonna? Qui nella città dei paperi ci sono le Alpi? Non le ho mai viste. Solo palazzi, alti, sì, ma non tanto, non grattacieli. Direi piuttosto piccole casette con il tetto a punta, coloratissime. È il cielo, quello sì, che è alto. È lo spazio che c’è intorno che spaventa. Ma a Spaperopoli dovrebbe essere più gentile lo spazio. Solo qui, in questa vignetta sporca, lo spazio è gentile. Colorato, sì... sì. Tu lo sai che è colorato. «Nel mio paese, in montagna c’era meno gente. Si conoscevano tutti. Le case erano basse. Ma c’erano le Alpi. Era verso il tramonto che le guardavo. Cercavo, io, di non guardarle perché sapevo quanto mi spaventava trovarmi faccia a faccia con loro. Avevano quelle immense rughe cattive. Mi facevano sentire piccolissima. Schiacciabile. Ma non ci riuscivo: immancabilmente mi voltavo a guardarle. E restavo a fare correre lo sguardo tra i boschi che stavano diventando sempre più neri e freddi per la notte. E sebbene fossi lontana, non potevo, davvero non riuscivo a non immaginarmi il mio Badil che si perdesse tra quegli alberi. Solo, tra i solchi delle rughe delle montagne. Sotto la notte fredda che arrivava. Rabbrividivo sempre anche allora». Un piccolo papero piangente e nudo, vagava per un bosco freddo e buio. Papernonna, dalla sua fattoria oro frumento e torta profumata sentiva gli strilli senza sapere che fare. Spaperopoli «E adesso guardo da sotto quei palazzoni alti e grigi e ci vedo dentro tutti quegli uomini e, sarà il ricordo delle Alpi, sarà che sono una povera vecchia che vorrebbe essere nonna, sarà che sono stupida, ma davvero quei palazzi mi spaventano». Continua, nonna, papera, continua ad accarezzare questo paperino nudo e intirizzito in un viaggio acido che sta per marcire. Mette mano alla fondina del marsupio e si spara un sorso lungo. «Sai... » strascica riavvitando il tappo. «Sai... » lo risvita. Rispara. «Sai... » riavvita e ricomincia a fumettare il suo discorso: «... venerdì scorso… ». Era un venerdì pomeriggio tardo. La Spaperopoli lavoratrice stava finendo la settimana. Papernonna stazionava su un marciapiede sotto i grattacieli per uffici. Un’auto le si inchiodava davanti. Un uomo arrabbiato le urlava un “sali” dai contorni appuntiti. Papernonna era spaventata. Un uomo nero dietro di lei la spingeva a salire. «Ok, ok, vado», diceva sommessa. Saliva. La macchina partiva a razzo. «La macchina di quell’uomo era grande. Portava una giacca, una cravatta, un orologio d’oro al polso e aveva la fede al dito. Tutta roba da grattacielo. L’uomo pestava pesantemente sull’acceleratore e guidava a scatti. Nei suoi occhi sembrava ci fosse una rabbia furibonda. Guardava davanti a sé. Non mi ha degnato neppure di uno sguardo. Dove andiamo? Gli ho chiesto, cercando di sorridere. Zitta. Mi ha urlato di stare zitta». L’uomo si fermava, inchiodando, in una piazzola di sosta della tangenziale, in periferia davanti ad un campo incolto. «Ha spento il motore e mi è saltato addosso. Rabbioso. Ehi! gli ho detto, cercando di fare la voce dura. ZITTA!! mi ha urlato». L’uomo le strappava i vestiti. Le apriva le zampe. Papernonna lo guardava. Per tutto il tempo lo guardava fisso negli occhi. «... C’era una tristezza rabbiosa. Sembrava si dovesse sfogare per qualcosa. Mi è venuto addosso, menandoselo sulla mia pancia con una foga tale che sembrava se lo volesse strappare. Ehi!, gli ho detto cercando di fare la voce dolce e preoccupata. Mi ha urlato ancora di stare zitta». Nonna è triste mentre parla. Anche se biascica. Anche se è ubriaca. Anche a me questo viaggio sta prendendo male. «Sai… ». L’uomo si rivestiva alla svelta, buttava soldi addosso a Papernonna e si rimetteva a guidare per tornare in città. Guidava più lento ora. Papernonna non osava parlare. Spaperopoli «... Lo guardavo distendere i lineamenti e riempirsi di tristezza. Sembrava si stesse rimpicciolendo su quel sedile». Mi prende male questo acido. E non è rilassante di certo. «Poi ho notato le sue mani sul volante. Non so perché non le ho notate prima. Forse perché prima guidava troppo nervoso». Tira un altro sorso. «Sai... poi ho notato le sue grandi mani, enormi, con quelle strane unghie rotonde, quei buffi peli grigi sulle nocche». Sorso... fumetto vuoto... Accarezza, Nonna! Accarezza! Sorso... «Sai... l’ho riconosciuto... ». Ferma ogni carezza. La sua mano mi pesa sulla testa. L’altra affonda nel marsupio. Fermo ogni pensiero. Ogni fantasia. Nonna... «Sai... » e poi è silenzio di stazione. «Sai... » e poi è rumore di gastoni su rotaia. Ed è un treno che parte. Qualcuno di loro sta sicuramente sorridendo. «Sai, lo guardavo e vedevo la sua tristezza e sentivo ancora la sua rabbia sui lividi delle gambe e ricordavo... le sue mani leggere e dolcissime sopra di me... ... lo guardavo e… ricordavo la sua paura. Quella alla quale non era riuscito a dare un nome». «... Non gli ho detto nulla. Cosa potevo dirgli?». «... Mi ha riportato sul marciapiede ed è ripartito. Si è perso lontano, con la sua macchina, dietro l’angolo di uno di quei grattacieli altissimi». Tira un sorso. Con una mano dà una sventolata all’aria davanti ai suoi occhi, come a scacciare una mosca. Mi dà un pizzicotto su una guancia. «È tardi adesso». Si alza. Mi abbraccia. Spaperino fruga in una tasca. Nell’altra. In entrambe. Nulla. Le PAP ora, sono finite. Le PAP sono finite ed ora è tutta solitudine. Le PAP sono finite e la vita là fuori preme per entrare. Ha bisogno di un’altra PAP. Papernonna non parla e non lo accarezza. Ha bisogno. Nonna se ne è andata. Silenzio ferroso di stazione. Spaperopoli Viaggiare per non tornare mai più Mi sveglio di colpo. Intorno a me solo spazio vuoto. Niente più pareti. Niente più bagno. Solo vuoto immenso come lavolta della stazione. Più della volta. È spazio. È vuoto. Mi schiaccio per terra, poi le urla della stazione mi straziano la testa. Mani sulle orecchie, naso per terra. Occhi chiusi. Occhi chiusi. Poi silenzio che pulsa con il sangue nei timpani. E il cullare del mio respiro. Respiro. Respiro. Apro gli occhi. Ora vedo le pareti, lo spazio definito del bagno dove vivo. Il colore verde e bianco delle mattonelle, il beige dell'intonaco. E respiro sollevato. Ma ora le pareti sembrano avvicinarsi. Come se il pavimento si sciogliesse e contraesse e i muri si dilatassero contemporaneamente per stringere questa mia prigione, per appesantire questo mio spazio vitale. Pareti che pulsano e io che ho la testa che gira e il mio cuore che urla e colpisce il mio sterno. Le mani che mi tremano e il bagno qui fuori che si espande e si comprime e urla e si zittisce e... Mi alzo in piedi. Cerco di farlo. Appoggio una mano alla maniglia. I miei piedi si allontanano da me. Le mie gambe rollano in turbine. Io sono nero come lo sporco della latrina. Io mi allungo come un’ombra della sera alla luce metallica del lampione là fuori che si dilata qui dentro. Appoggio la testa, o ciò che né è rimasto, in questo mio sciogliermi, sulla porta. Graffiti: «voglio una figa blu» c'è scritto. I miei occhi si siedono sulla lettera F, tra le due stanghette orizzontali. Li seguo. Mi ci verso sopra anche io e mi siedo. Respiro ma l'aria dentro di me gorgoglia come l'acqua dello sciacquone. E anche la lettera si ingigantisce e scompare. E sotto di me il colore blu di un'apertura che inghiotte i miei piedi. Mi ci fluidifico dentro in uno schizzo viscido. Un volo urlante. Un crollo in un gorgo immenso. Silenzio. Il bagno. Il mio bagno. Tutto normale. Sto solido e seduto sulla turca. Guardo i graffiti della porta. VIAGGIARE PER NON TORNARE MAI PIÙ. «Mai più... ». Sto sudando. «... Mai più». Sto piangendo. Spaperopoli Prima volta «La prima volta che ho provato l'acido... ». Era già mezz'ora che vagava per la discoteca alla ricerca di uno dei ragazzi della compagnia. Temeva che se ne fossero già andati, che stavolta si fossero dimenticati veramente di lui. Era spaventato perché la discoteca era davvero molto lontano da casa. Era già tardi. Poi aveva incontrato Marco: «sono tutti fuori nel piazzale... ». Si era fatto timbrare la mano all'uscita e li aveva raggiunti. Stavano in cerchio vicino alle macchine, Marco, Giovanna, Sara e tutti gli altri guardavano Spiz appoggiato al cofano del furgonato. «Nessuno la vuole provare?» diceva. «Non so... – aveva detto Sara – ... dicono sia pericolosa». «E poi è illegale... » aveva aggiunto Giovanna. «Anche superare i limiti di velocità lo è e nessuno va a 50 all'ora in città. E poi chi l'ha detto che fa male? I vecchi? – aveva detto Spiz – Non siete curiosi? Dicono possa essere bellissimo. Ci potremmo divertire un casino». Un attimo di silenzio e Spiz aveva aperto il palmo della mano per mostrare le due pastigliette bianche al gruppo. «... Dicono che se è tagliata male... » aveva bofonchiato Marco. «Me l'ha data un amico, mi fido, mi ha anche fatto lo sconto». «Non so», aveva detto Sara che teneva una mano dietro la schiena e uno sguardo indeciso sulle pastigliette. Spiz aveva guardato tutti negli occhi. Uno per uno alla ricerca di un barlume di decisione. Poi aveva incrociato lo sguardo di Spaperino che cominciava appena a capire di cosa si stesse parlando. «E tu?», gli aveva chiesto fissandolo negli occhi. Spiz non gli parlava quasi mai direttamente. Di solito si limitava a parlare al plurale se lo incontrava con qualcun altro. Ma non lo aveva mai interpellato così direttamente. «Co... cosa?», aveva balbettato in risposta. «Non vuoi provarla, tu?». «Cosa?». Spiz gli si era avvicinato, gli aveva messo una mano su una spalla e gli aveva parlato nell'orecchio, solo a lui... «Ho qui una cosa che fa sballare... Ti fa diventare un altro. Vorresti essere un altro no?». «Non so. È pericolosa?». «No. È bellissimo, vedrai». «Ma tu l'hai mai provata?», aveva chiesto a Spiz. Lui era rimasto interdetto. «L'hai mai provata?», aveva incalzato. Da dietro le spalle un “appunto” con la voce di Giovanna sembrava avere dipinto l'imbarazzo sotto i capelli in gel di Spiz. «No», aveva detto con un bofonchio. «E allora perché non la provi tu?», aveva staffilato da dietro Giovanna. Spiz era rimasto in silenzio, troppo per lui che aveva sempre la battuta pronta, specialmente per sottolineare la sua superiorità, in particolare per dare dello sfigato a Spaperino. Forse è per questa esitazione di Spiz, lì sospesa sui respiri del gruppo in cerchio, appesa sui loro sguardi curiosi e un po' stupiti, forse per quell'attimo di silenzio prodotto da sue parole pronunciate, tra l'altro, senza balbettii, o, forse, per quel “vorresti essere un altro” che ancora lo solleticava che Spaperino aveva detto: «fammele provare». Spiz aveva sorriso, gli aveva battuto la mano sulla spalla e, come parlando a un suo pari gli aveva regalato un «grande!». Spaperopoli Due piccole pastigliette bianche con sopra una X incisa. Le aveva raccolte dalla mano di Spiz e le aveva portate alle labbra. Si era goduto per un istante gli sguardi di tutto il gruppo per la prima volta rivolti, con interesse, su di lui e poi le aveva ingoiate. Echi del gruppo: «come stai?», «ti fa qualcosa?», «vedi qualcosa di bello?», «hai delle visioni?», «sì, hai delle visioni?». «Non sento niente». «Come niente?», «Spiz sei sicuro che fosse roba giusta?», «sì, sono sicuro», «stai a vedere che si scopre che lo sfigato è così tosto che quella roba non gli fa nulla», «ma dai», «davvero non ti fa nulla?». Si era guardato intorno: facce dei ragazzi, parcheggio, automobili, passanti vari, più sopra la notte, là in fondo il capannone della disco. Tutto normale. «No, niente». «Mi sa, Spiz, che ti hanno fregato», «ehi, stronzo, ti ho detto che me l'ha venduto un amico», «dai non t'arrabbiare. Magari ti ha preso in giro», «vi ho detto che è roba giusta», «sarà... », «non sembra proprio». «Torniamo a ballare? », «sì, andiamo che è meglio», «andiamo». Spaperino era rimasto fermo appoggiato al furgone a guardare le spalle degli amici che rientravano in discoteca. Le linee dei parcheggi erano ancora ben salde sull'asfalto. Solo mezz'ora dopo, tornati dentro, nella musica, nelle luci, tra gli sguardi curiosi Spaperino aveva cominciato a sentirsi finalmente diverso. Spazio cubico visione piatta quattro lati luci strobo colorate musica cattiva. Cattiva. Altri due lati. Ragazzi allucinati a decorare la vista laterale entrano ed escono dal lato piatto della visione. Mi muovo fluido sono sciolto come acqua dentro la massa di gente fluidifico e scorro loro compaiono e scompaiono. Apro gli occhi. Chiudo gli occhi. Apro gli... Mi sento forte. Quasi cattivo. Sì, cattivo! Ballo sballo ballo sballo. Luci suoni luci urlo. Urlo. Poi è un'unica vista. Lo spazio si comprime, si riassume in un'unica figura: le due ragazze: Sara e Giovanna. Solo loro, contornate da ombre che saltano. Belle. Guardarle ballare, flessuose e morbide. Guardarle... Giovanna. Ma Sara è magnifica. Lei è il massimo. Davvero il massimo sotto l'alone delle luci. È bellissima, lei. Troppo per me... Giovanna. Lei mi piace. È simpatica. Mi avvicino che tanto mi sento forte. Fortissimo. Giovanna sei già mia. Lo sento dal flusso sordo nella mia testa che si aggrega in grumi di convinzioni. «Sono il migliore con le donne» mi sento dirmi. Le sorrido. Lei anche. Anche Sara. Sento poco la musica dietro il mio sangue che pulsa. Giovanna. Le sono vicino. Mi guarda. Il mio sguardo, lo so, assomiglia a quello deciso di Spiz. La soppeso. Poi mi volto. «Sono troppo per Giovanna». Sposto lo sguardo e dico «ciao Sara, come va?». Lei sorride: «cosa?», è assordata dalla musica. «Dicevo – urlo – Ciao Sara come va?». «Bene». «Sei bellissima». Guarda l'amica. Scoppia a ridere. Giovanna resta seria. Sara si tiene la pancia dal gran ridere. «NON MI PRENDERE PER IL CULO», le urlo. Queste parole non sono mie. Sono dell'acido. Grazie acido. Sara diventa seria. La mia vista si riassume nei suoi occhi che si addolciscono, nel suo sorriso di sbieco. «No. Scusa... Grazie». Spaperopoli «Ti va di bere qualcosa?». «...» «ALLORA?», urlo. «Sì». Vicino al bancone del bar. Spingi che ci sediamo. Cosa ordinerebbe Spiz? Due Cointreau e Coca. Lei è appollaiata sullo sgabello con tanto di cosce fuori minigonna, caviglie accavallate e sorriso da centro del mondo. Io sorrido molleggiato, disinvolto. Non è il mio sorriso questo. «Non abbiamo mai parlato molto io e te», le dico. «No, non molto» e ride. Ride troppo. «Ridi troppo tu». Si fa seria di colpo, come dispiaciuta: «scusami». «Non so neanche cosa fai nella vita». «ISEF». «Avrei dovuto capirlo. Hai un fisico da paura». Ridacchia. «Ti piace fare l'ISEF?». «Abbastanza». Ho centinaia di domande di convenienza che mi saltano alla mente ma mi accorgo che, dopotutto, non mi frega niente delle materie che preferisce, di cosa farà dopo e cazzate così... «Sei bellissima, lo sai?» le diciamo in coro io e l'acido. Ridacchia «Anche quando ridacchi». Luci. Sorseggio il drink. Lei pure. Mi sento bene. Forte. È come essere una cosa sola con la musica e la mia-non mia convinzione. Grazie acido. Poi è lei a parlare per prima. Strano. «Sai, anche tu mi piaci parecchio... mi sei sempre piaciuto anche se non parlavi mai. Cercavo di piacerti e invece tu... non mi parlavi». Ricerca rapida di frasi d'effetto: «Ehi baby – baby? – ti ho sempre ammirato da lontano». Ridacchia. Ed è un flusso strano di sangue che mi schizza dentro e che mi fa capire esattamente quello che ora dovrei fare. Perché non c'è alternativa. Perché tutto il mondo ruota intorno a questo mio momento e all'azione che mi accingo a fare... Avvicino il mio volto al suo. Non è un mio movimento questo. Ma inevitabile. Sono vicino. Mi fermo a sentire il profumo caldo del suo alito. «Scusa – si alza – devo pisciare». Cointreau e Coca più una tequila più altro Cointreau secco e lei ancora non torna. Mi riascolto la sua frase «... mi sei sempre... ». Allora bastava che io mi facessi avanti? Le piacevo già prima? Qualcosa dentro mi dice che è così. Non potrebbe essere altrimenti. Non posso che piacere, io. Tequila e ho finito i soldi che il babbo mi ha dato. Sorseggio piano sotto l'ombra delle mie sopracciglia e nel pulsare denso del mio sangue. «Ehi baby – baby? Sì, baby – sono stanco di aspettare. Ti vengo a prendere». Nuoto tra le ondate di tecno trance progressive e di corpi sudati a look iperplasticato. Vedo la coda delle ragazze al bagno. A passi solenni mi avvicino alla folla. Sono tutt'uno con i suoni. A ritmo di 200 BPM mi catapulto davanti ad una fila di spettinate sconosciute. Sara è dentro adesso? «Sara!», ticchetto con una gamba. «Sara!», penso al ritmo delle percussioni. Qui continuano ad uscire masse sinuose di donne ma non la mia Sara. «Ok baby, adesso entro». Sgomito. Sguardi appuntiti di donne si infrangono sul bozzolo che mi circonda. «Fanculo, sono in missione per conto di Acido». Spaperopoli Il bagno è zeppo. Decine di ragazze scosciate che si pettinano, spettinano, arrossettano, strizzano alzano abbassano tette, accorciano allungano gonne. Niente Sara qua. Esco. «Fanculo!», urlo. «Dove cazzo sei?». Sguardo a ventaglio sulla pista e sulla zona divanetti. Eccola là. Ora Spaperino guarda la porta e la stazione ma vede ancora Sara, su quella poltroncina, agganciata a Spiz. Sotto a Spiz che sussulta. Si baciano. Rivede la scena e risente i pensieri esplodere mentre si avvicina a falcate da manifestazione di possesso. Toccata di schiena a Spiz sussultante. Toccata più decisa. «EHI!», urla. Sara lo vede, fa un gesto con il mento a Spiz che si gira che sta già ridendo. «Che vuoi?» «La ragazza – baby? Vaffanculo – era con me». «Lo so» e ride. «E allora?». «Non mi sembra che sia tanto contenta di vederti». E invece era contenta, baby fanculo, lo era tanto che rideva, tanto da non riuscire a respirare, tanto che le lacrimavano gli occhi. Ridevano i due. Lui no. Lui e l'acido, alzarono il pugno... Spazio cilindrico, visione a parabola: facce dei due stronzi ridenti, impalcatura delle luci e delle casse sul soffitto, colpo alla testa, gambe dal basso di saltellanti indifferenti. E la sensazione calda del sangue che cola dal labbro colpito. La musica che torna a farsi sentire fortissima. Spaperino guarda la stazione e non ride. Spaperopoli PaperDroga (reprise) «Blu», dice PaperDroga. È seduto per terra, schiena al muro, guarda con uno sguardo fisso gli specchi sopra i lavandini. «… Un incubo», parla come fosse solo. «Che è successo?», gli chiedo avvicinandomi. «Blu... erano blu. Erano ancora seduti a guardare la televisione». «Chi?». «La televisione era ancora accesa». «Insomma, chi?». Scongela per un istante lo sguardo e lo rivolge verso me. «Ciao», dice, come mi vedesse solo ora. Con una mano si sta sfregando l’avambraccio destro che tiene rilasciato sulle gambe. «Chi era blu?». Gli chiedo sedendomi accanto a lui. Il caldo si è fatto più denso qui dentro. È un’estate pesante questa. «Hai visto il pusher?». «Sì». «Lo sapevo… Mi è rimasta pochissima roba». La sua voce sembra rotta da un’emozione che non riesco a decifrare. Non in PaperDroga. «Fa molto caldo». Continua in un sospiro. «Sì, molto». Continua a massaggiarsi il braccio, delicatamente. Come gli facesse male. «Ti fa male?» gli chiedo. «Eh?», si scuote, guarda il braccio come notasse solo ora la sua esistenza. «Dico, ti fa male?». «No». Mi metto a fissare il suo stesso punto pochi metri avanti sul pavimento. L’aria è particolarmente carica di fumi di orina stamane. L’afa densa come miele si incolla sotto i vestiti. «Mi sembra di essere ancora là – riprende – là davanti a guardarli. Le loro facce blu e gli occhi chiusi. Come addormentati. Lei aveva la testa appoggiata sulla spalla di lui. Non l’aveva mai fatto prima. Non ricordo. Di solito, quando guardavano la televisione lui stava sulla poltrona e lei sdraiata sul divano. Ieri, invece, si era addormentata con lui al fianco». «Ma chi?». «E la televisione era ancora accesa. Sembrava si fossero addormentati a guardarla. Ma era mattina. Quella scena. Non riesco a levarmela di dosso. Ce l’ho appiccicata alla pelle. Come il sudore». I rumori da fuori faticano a prendere peso in questo caldo. Un fischio molle di treno. Chiacchiericcio strascicato di passanti. «C’è una doccia qui dentro?», chiede allargandosi il collo della maglietta con un dito. «No». PaperDroga si alza e va ad un lavandino. Fa scorrere l’acqua e ci infila sotto la testa. Lascia scorrere sulla nuca. «SERVIZIO... » l’aria si squassa appena per fare passare la voce della signorina metallica. PaperDroga solleva la testa, chiude il rubinetto, fissa la sua faccia nello specchio poi, di scatto, si gira verso la porta. «Magari ritorna». «Non saprei». Si toglie l’acqua dalle sopracciglia con una mano poi si siede sotto il lavandino. Schiena al muro, gambe dritte. Riprende a massaggiarsi il braccio. Spaperopoli «Fortuna che quando sono entrato non ho acceso la luce. Ho sentito subito l’odore del gas. “Mamma” ho chiamato, “papà”... C’era solo la luce della televisione e loro davanti, seduti sul divano. Sono corso alla finestra e l’ho aperta. Il sole è entrato immediatamente. Ha illuminato subito le facce. Blu. Ferme». PaperDroga fissa la porta. Anche io. Là fuori un angolo grigio della volta e i piloni d’acciaio. Una voce fredda continua a urlare parole senza anima. Un treno fischia di dolore. «Ho bisogno di una dose», dice. PaperDroga entrava squaccheggiante in casa di Spaperino dormiente sul divano davanti alla televisione. «Cugino! Ho una fame gigantesca, hai qualcosa da mettere sotto il becco?». Spaperino si svegliava di soprassalto. PaperDroga riprendeva a parlare. Primo piano sul suo muso scapigliato e fumetto: «sapessi che giornataccia... Ho chiuso il gas e ho chiamato l’ambulanza, i vigili del fuoco. Non si muovevano. Chissà da quanto. Li hanno portati via in sacchi plastica neri. Poi ho spento la Tv». PusherDuck. Non credo tornerà. «Si sono suicidati – ho pensato. Hanno scoperto che mi faccio si sono ammazzati per la delusione. Non so perché ma l’ho pensato. Stavo lì in piedi aspettando le ambulanze e fissando il sole che entrava dalla finestra. Tutto intorno l’ombra del soggiorno. Al centro il fascio di luce che li beccava in pieno, in faccia. Come se questa cazzo di estate fosse stata fatta apposta per non darmi via di scampo. Ci fosse stato buio non mi sarebbe toccato vedere tutto così chiaramente. E invece… la mia testa è andata fuori giri! Io qui in piedi come un cazzone, il sole, mia madre, mio padre, mia madre, mio padre morti. La sfiga mi ha preso, alla fine, per punirmi. Io, mia madre, mio padre, io ho ucciso mia madre, ho ucciso mio padre. Devono avere scoperto che mi faccio e non hanno retto allo sconforto. Mia madre che scopre la cosa perché una cazzo di sua amica mi ha visto bazzicare qui in stazione, che parla a mio padre, seduta al tavolo della cucina, a pranzo, sopra la tovaglia a scacchi rossi, mio padre che smette di mangiare, che lascia cadere la forchetta. Mia madre che scoppia a piangere. E la sfiga che sogghigna. E poi loro che aprono il gas, staccano il tubo e si mettono davanti alla Tv, pensando a me. A quello che credevano che ero, a quello che non sono mai stato. Morti di delusione per colpa mia. Solo per colpa mia. Mia. Poi i vigili del fuoco hanno parlato di quel tubo liso. Un incidente, hanno detto. Nessun suicidio hanno detto. Spaperopoli La mia testa ha frenato. Sono rimasto ancora lì impalato in piedi per mezz’ora. Alla fine mi è venuta una voglia pazzesca di una dose». «Ho fame – diceva PaperDroga – andiamo in cucina che ti racconto». «Sono uscito di casa che volevo solo venire qui. Ma mi è rimasta troppa poca roba. E mi sono ricordato di non avere soldi, che a casa dei miei ci ero andato per chiedergli la lira per un po’di libri dell’università. Ma non avevo voglia di tornare su. Così me ne sono andato in giro per un po’. Quando mi sono accorto che camminavo a testa bassa strascicando i piedi, che ero triste, mi sono reso conto che la sfiga avrebbe potuto colpirmi al volo se non mi davo una mossa. Che essere tristi non è da duri che non hanno paura di lei. Ho dato un colpo ad una lattina e ho tirato un grosso respiro. E mi sono detto che non me ne fregava un cazzo se erano morti. Che erano una coppia di smidollati che si erano lasciati schiacciare dalla sfiga e basta. Che non meritavano che anche io mi facessi schiacciare per loro. Volevo strafarmi e poi tornare in casa per sfasciare tutto. Tutto. Per fare capire alla sfiga che non mi aveva colpito. Neanche stavolta. Allora sono entrato in una gioielleria». PaperDroga si strizza un labbro con i denti e si preme il braccio. Poi mi guarda. Nei suoi occhi non c’è una sola parvenza di sicurezza. Paura. PaperDroga ha paura. «Era quasi vuota, solo una signora al banco. Il gioielliere era un vecchio rimbambito e le stava mostrando una serie di anelli. Volevo aspettare che la vecchia se ne andasse così sarei saltato addosso al rincoglionito per fregargli il sacchetto mentre lo metteva via. Mi sono avvicinato ai due facendo finta di guardare gli orologi. Loro stavano parlando di un anello». PaperDroga si ferma, immobile. Lo guardo. «Sembrava l’anello di fidanzamento di mia madre. Aveva una pietra dura a forma di cuore. E il vecchio stava dicendo che era quello di una signora che abitava lì vicino e che gliel’aveva venduto per tirare su soldi per una cura per qualche malattia di suo figlio. Io una volta ci avevo giocato, con quell’anello, anni fa, da bambino. Volevo vedere se tagliava il vetro come il diamante nei telefilm. La pietra si era sbrecciata. Avrei voluto saltare addosso al vecchio e prendere quel cazzo di anello. Per controllare. Ma in quel momento è entrato un poliziotto. Un cazzo di poliziotto. Era la sfiga in divisa. Era la sfiga che mi perseguitava. Ha chiesto al vecchio se andava tutto bene. Mi hanno guardato e io sono dovuto uscire. Sono corso fuori. Sembrava proprio l’anello di mia madre. Sentivo l’alito della sfiga sul collo. Volevo dimostrarle che non ero spaventato. Che quella cosa non mi aveva colpito. Sono corso su in casa. Sono entrato di corsa. In salotto ho cominciato a dare calci alla tele, poi alla radio di mio padre, ho sollevato il tappeto e l’ho tagliato con un coltello per il pane, poi ho ribaltato le poltrone, ho strappato via le fodere, ho smembrato tutto il contenuto. C’era lana dappertutto. Poi ho tirato giù tutti i quadri e li ho rotti picchiandoli sulle ginocchia. Ho preso tutti i soprammobili di mia madre: le terrecotte idiote, gli argenti, quei cazzo di vasetti di finto cristallo, il posacenere in peltro. C’erano anche due animaletti in cristallo. Una tartaruga e un elefante. Ho accatastato tutto al centro della stanza e poi ci sono saltato sopra con tutti i piedi. Li ho distrutti tutti. Non la tartaruga, però, che quella porta fortuna. Poi stavo per ribaltare il divano ma mi sono fermato. Anche se era vuoto ci vedevo ancora i miei addormentati con quelle cazzo di facce blu. Spaperopoli Allora sono passato in camera loro. Ho spaccato tutti i soprammobili anche lì, che mia mamma soprammobilava tutto, poi ho spaccato i quadri, poi ho sollevato il materasso. Lì sotto c’era un pacco di soldi. Ho intascato tutto e ho continuato a distruggere. Anche la cucina. Anche in bagno. Tutto. Poi ho chiuso la porta, ho urlato alla sfiga che non mi aveva toccato e sono venuto qui. Mica ci pensavo più all’anello, a quel cazzo di discorso sulla malattia. Credevo di essermi sbagliato. Poi, in un bagno della metropolitana, ho tirato fuori i soldi e mi sono messo a contarli. Dieci milioni. Un pacco di dosi. E un articolo di giornale». PaperDroga congela il suo sguardo a fissare i suoi pensieri. «Che cazzo ci faceva mia madre con un articolo sulla disintossicazione da ero? Diceva che con dieci milioni ti ripulivano tutto il sangue di un tossico e te lo rimettevano a nuovo. Certo dovevano anche curargli la testa con la psicologia ma te lo ripulivano. Il tossico. E mia madre aveva quei dieci milioni. E mia madre aveva venduto il suo anello di fidanzamento. E chissà cos’altro». «L’ho capito appena entrato in stazione. E ho ricominciato a vedere le loro facce. Blu. Blu. Morti asfissiati per colpa mia. Che mia madre era sempre molto attenta col gas. Cambiava sempre in tempo le guarnizioni. Se non l’aveva fatto era perché era distratta da qualcosa. Chissà da quanto lo sapeva? Io li ho fatti soffrire. Tanto. Io ho fatto del male a mia madre e a mio padre». PaperDroga richiama a sé le ginocchia. Si abbraccia le gambe. Guarda fuori spaventato. «E ora la sfiga è arrabbiata con me. E mi può colpire quando vuole. E io sono senza forza. E io... ». PaperDroga riprende a massaggiarsi il braccio. «Scusami ma sono stanco», poi tira fuori dalla tasca il cucchiaino, il limone, l’accendino «mi faccio almeno questo». Spaperino si alza e torna nella sua latrina. Che qualcosa del privato altrui lo spaventa. In silenzio chiude la porta mentre PaperDroga, lacrime agli occhi, accende la fiamma. Spaperino mette le mani in tasca, appoggia la schiena al muro e si lascia scivolare giù, fino a sedersi. Passa lievi le punte delle dita sul fondo delle tasche, come stesse carezzando il vuoto che vi è contenuto. Per un attimo gli pare di sentire ancora lo spessore tondo delle PAP. Ma è solo un attimo. E il resto è solo vuoto. Spaperino chiude gli occhi. Spaperopoli Sei grande Rosa, rosse, verdi, con croci, teschi, con cani, farfalle, sigle, ne ha provate tante in quel tempo dilatato fatto di week-end e buchi bianchi di settimane scomparse. Venerdì, sabati, domeniche fatte di ballo e sudore in mezzo a bolgie urlanti. Senza pausa. Senza pausa perché ogni pausa era oblio. Spaperino ricorda solo i fine settimana e il resto è scomparso nella sua testa. Gli sembra di essere vissuto in discoteca per un anno intero. Del resto della sua vita in quel periodo ricorda poco. Una cosa, quella sì, solo e soprattutto quella... Doveva essere domenica sera perché ricordando si sente ancora addosso la depressione del post rave. Si strascicava per casa con ancora addosso i pantaloni plasticati e le scarpe con la para alta. Di là, in salotto, rimbombavano i rumori della televisione davanti alla quale suo padre e sua madre attendevano al dovere di santificazione delle feste. Si muoveva verso la camera con passi sempre più molli a causa del vuoto che gli si espandeva dentro. Perché tornare, dopo due notti di acido e ballo, nella sua camera buia, mettersi davanti alla finestra a guardare fuori il sole che calava lungo la via, era per lui ripiombare nel nulla da cui era riuscito a tenersi lontano nelle ultime quarantotto ore. E allora, arrivato in camera, chiudeva la porta, guardava le luci della strada tracciare segni sulle pareti e poi apriva il cassetto della scatola che teneva sulla mensola sopra al letto. Quella del Roipnol, quella del Valium. Badando di non fare cadere lo sguardo nella direzione della finestra sulla strada cercava i calmanti che gli avrebbero consentito di dormire fino all’indomani pomeriggio. Così da cominciare a non vivere neanche questa prossima inutile solitaria settimana. Solo che quella sera il cassetto era vuoto. «Non è possibile!», mentre tirava fuori il cassetto e lo vuotava sul letto. «C'era, lo so» si diceva mormorando di spavento e frugando febbrile tra le cose. Ricordi di bambino: due macchinine, un pupazzetto di un cane di gomma che fischiava ancora se spremuto, un Topolino vecchio dalle pagine ingiallite, un trenino, ma niente gocce, niente pastiglie calmanti. Frugava e si spaventava mentre fuori la notte stava per far cadere la lama del suo buio... Spaperino, nella stazione, guarda la luce imbrunirsi e ricorda quel senso di notte spietata: «la notte che arriva. La notte in bianco con ancora i fremiti della musica, con la camera intorno che ti schiaccia, al buio, la notte che arriva che ti coglie sveglio... la notte ti terrorizza. La notte da solo ti schiaccia con il suo peso insopportabile». Un soldatino di plastica, un altro pupazzetto... nulla che gli servisse ora. Si era inginocchiato davanti al letto, con lacrime isteriche che gli rigavano la faccia. Le mani tra i capelli in strette convulse. Un pianto strano, incontrollabile ma che lui non sentiva suo perché contemporaneamente, una parte di lui si sentiva distante e si stupiva di vedersi così… disperatamente drogato. Spaperino piangeva ma contemporaneamente era come levitasse nell'aria, ad un passo dal se stesso sofferente, osservandosi, un po' stupito, vagamente interessato. Fu in quel momento che suo padre entrò ed accese la luce. «Cerchi questa?», gli aveva detto mostrandogli la boccetta di Valium che teneva in mano. Lui si era messo a sedere sul letto asciugandosi le lacrime con una manica. «Sì… – aveva mormorato avvilito – … non riesco a dormire senza... sono un po' nervoso» e aveva cercato di sorridere per non fare capire l'angoscia che lo prendeva. Il padre l'aveva guardato duro. Spaperopoli In piedi sulla porta aveva detto solo questo: «... sono fatti tuoi. Decidi cosa vuoi fare della tua vita. Sei abbastanza grande per farlo». Gli aveva lanciato il flacone sul letto e poi se ne era tornato in salotto. I passi di suo padre sul pavimento. Le pantofole che si allontanavano, verso il salotto, la televisione. E lui dietro a seguirli tendendo l’orecchio, con l’idea vaga che avrebbe voluto spiegare qualcosa. Ma cosa? Forse solo che avrebbe voluto un aiuto. Che no, non si sentiva abbastanza grande per fare nulla. Che... Era rimasto seduto con gli occhi chiusi perché la luce del lampadario sembrava gli tagliasse le pupille. La televisione continuava a diffondere le voci metalliche di presentatori, vallette, musiche e rumori. «Pazzesco – aveva pensato – quanto la televisione faccia gli stessi rumori da anni» perché in quel momento era tornato bambino, quando ancora passava le serate sul divano, tra sua madre e suo padre. Non da drogato seduto sul letto della sua camera. Ma ora era "abbastanza grande”. Spaperino valutò davvero l'alternativa di non prenderle quelle gocce, di non andare più in quelle discoteche e di smettere con le pasticche. Gli sarebbe piaciuto potere tornare pulito di colpo, magari alzarsi, andare in bagno e vomitare fuori tutto il marcio che lo divorava. Poi togliersi i vestiti sudati, farsi una bella doccia calda, mettersi il pigiama e poi andare di là, davanti alla televisione. Piccolo e accoccolato tra sua madre e suo padre. Ma ormai “era abbastanza grande” perché l'unica cosa che potesse fare fosse ingoiare tutte d'un fiato le 40 gocce. E rimettersi ad attendere il prossimo week-end. Spaperopoli PaperoZione Tre CCCP, un Token puntinato e una Karen. E solo un misero sballo veloce come effetto. Ora se ne stava fuori dalla pista e guardava tutti i ballanti che si assatanavano nel flusso della musica. Qualche ragazzacubo spiccava sopra le teste serpentando le sue curve nell'atmosfera pesante di flash. Lui non sentiva nulla. Solo suo padre in testa, quel maledetto "... ormai sei grande” e il suo sguardo duro. Quel lasciarlo solo nella stanza. Un altro sparo in bocca dell'ultima chicca, due passi laterali per spostarsi sotto una cassa rullante di garage. Energia sonora che gli passava dentro senza toccarlo. Lui, in mezzo, in down completo. Diventare grande. «Significa cavarsela da soli». Da soli. Guardò silenzioso la pista, i vestiti sgargianti, i cappelli alti, i petti nudi, le ragazze in reggiseno. Provò ad immaginare suo padre lì in mezzo: giacca e cravatta, la testa quasi pelata ben rasata, fermo in mezzo alla bolgia con il suo sguardo teso e monolitico. Adulto. Deciso. Diede uno sguardo al suo di abbigliamento: fuseaux grigio metallizzato, scarpe azzurre con la para di 10 cm, gilet sul petto nudo. D'un tratto la bolgia, l'intera struttura della discoteca, con la figura di suo padre in mezzo gli risultò spaventosa, estranea e ostile. Desiderò di andarsene, riprendere il viaggio acido che gli permetteva di non pensare. Una particella nuova, un'altra fuga. Ancora solo una. Ma la scorta era finita e con essa i soldi. Si spostò dalla cassa per lasciarsi cadere su un divanetto. Chiuse gli occhi. Nel buio interno della sua mente il ronzìo della musica e delle urla si contorceva e raggruppava in grumi densi di angoscia che prendevano vita in una morsa allo stomaco, brividi alle gambe, sudore. Lo prendeva male quella sera. Troppo per non cercare una fuga. Si alzò di scatto e si mosse in cerca del pusher. Forse gli avrebbe fatto credito. PaperoZione o come cavolo si chiamava (che tanto in questo bagno Spaperino non ricorda alcuno dei nomi veri dei personaggi che popolano le storie del suo passato), lo zio papero era come al solito appena dopo le scale che scendevano dalla pista ai bagni. Era seduto sul divanetto che doveva essersi portato da solo tempo addietro perché nessun’altro avrebbe mai sognato di stare lì nel flusso continuo di esseri ureaurgenti. Evidentemente l’occhio lungo dello zio gli aveva suggerito che quello fosse il luogo più appartato per i suoi affari. Quando Spaperino arrivò si stava riassettando il boa di piume sintetiche blu sopra la tunica rosa tipo saio. Sulle mani portava una ferramenta di anelli, sul collo una vistosa collana di perle. Sul cranio pelato il tatuaggio di un serpente attorcigliato su una rosa gli copriva una vasta zona sopra l’orecchio sinistro. Il saio lasciava scoperte le ginocchia e i piccoli polpacci solcati da vene varicose. Se ne stava seduto accarezzando il suo boa e ispezionando attento ogni gonfiore tra le gambe dei ragazzi che passavano. Era ubriaco. «Ciao», gli aveva detto Spaperino. «Ciao bello», gli aveva risposto con un’occhiata intensa lungo ogni contorno «… necessiti forse di qualcosa di particolare che la mia modesta persona ti possa fornire così da arricchire la tua giovane serata?». «... Sì». «Qualcosa di attraente che ti renda la testa itinerante?». «... Certo». «Orsù dimmi, allora, il biglietto che vorresti. Per che tipo di viaggio? Chimico necessariamente? Perché, sai, la mia stessa persona fisica ti potrebbe altrimenti proporre un biglietto speciale per un viaggio tutto carne e piacere», e così dicendo si era portato una mano al pacco inumidendo le ultime parole con una punta di lingua sulle labbra. «... No, sai, solo un paio di calate». «Ok, ok, ho capito che stasera dovrò alzarmi da qui e cercare da solo il modo di arricchire la mia nottata... Cosa vuoi allora?». Spaperopoli «... Qualcosa di forte ma pulito. Niente tagli sporchi». «Ehi bambino, io do sempre e solo roba pura... io gli affari li faccio bene». «... Sì, lo so». «Ho giusto qui due flyer... fortissime, di prima scelta. Una partenza rapida e non rientri fino al prossimo week-end». «Come andare sullo shuttle con stewart tutti nudi», aveva aggiunto con un sorriso sbilenco. «... Vanno bene quelle». «Ok, fuori la merce». «Che?». «La lira bambino, la lira». «... Senti, tu mi conosci: è da tanto che compro roba da te... ho finito i rifornimenti. Se mi fai credito ti pago di sicuro domani». «Ehi, bimbo, qui si paga in anticipo. Non siamo mica una società di mutuo soccorso per sfigati». «Solo per un giorno. Per favore. Stanotte mi sta prendendo male. Penso troppo... ». PaperoZione aveva altalenato lo sguardo da Spaperino allo sfondo, poi, con un sospiro: «capisco, il pensiero è deleterio per piccole menti come la tua. Voi piccoli non avete le capacità di reggere il peso dei pensieri. Solo pochi ci riescono. Io, ad esempio, penso sempre, e me ne vanto. Ho sempre una marea di idee che mi frullano in testa. Ma loro a me fanno compagnia, perché sono idee vere, non come quelle cose inutili che rimbombano nei vostri vuoti mentali e che vi spaventano perché vi fanno sentire l’eco dello spazio che avete tra le orecchie. Va bambino, va a farti un bel giro che magari ti viene anche l’idea di non rompere più le balle a gente che lavora. Vai». «Guarda, ti lascio un gilet in pegno. Basta che mi dai una sola delle fly. Io te lo lascio fino a domani quando ti do la lira. Anzi no, guarda, te lo regalo. Vale più di centomila. Più della pasticca di sicuro». «Non siamo cavernicoli che vanno ancora a baratto. Il baratto è accettabile solo se lo scambio è sul piano del sublime, non semplice abbigliamento». Aveva ri-sfoderato il sorriso sbilenco e ripiazzato la mano tra le gambe, sul suo concetto di sublime. «No, guarda, non è il mio genere questo scambio». «Peccato. Abbi una buona serata». Così dicendo aveva ripreso ad analizzare la folla scorrente. Spaperino era rimasto fermo, in piedi davanti a lui senza sapere che fare. Perché dentro gli ribolliva ancora la paura di dovere passare la notte con quei pensieri nella testa: suo padre, il sentirsi solo e tutto il resto. L’unica persona che poteva sollevarlo da quell’angoscia era lì davanti e fingeva di non vederlo. Era come annegare in una piscina affollata, gridare aiuto ma non riuscire a farsi sentire dai bagnanti a pochi metri. Era come morire di sete davanti a bambini che giocano a gavettoni. Era come... «A meno che... – gli aveva detto PaperoZione ricominciando a guardarlo – A meno che tu non abbia voglia di venire a farti un piccolo viaggietto con me. Un viaggio vero. Sulla mia macchina». «... ?» «Non si tratta di questo – indicandosi ancora tra le gambe – ma di affari». «Cioè?». «Mi deve arrivare una partita di trip nuovi e mi serve qualcuno che li provi e mi dica se sono buoni». «Cosa? Robe tagliate?». «No, ti ho già detto che non tratto cose sporche?». «E allora perché non le provi tu?». «Ehi se non ti va puoi anche andartene. Sei tu quello disperato qui. Ti offro una pasta gratis, che è quello che volevi e tu mi rompi i coglioni perché non ti fidi? Se vuoi saperlo io non mi calo mai, che ci tengo ai miei pensieri e alle mie idee. Se non ti va a me non frega un cazzo, ma sparisci dalla mia vista». «... No... Senti, scusa». Spaperopoli «...» «Ci vengo». «Non so. Mi hai offeso». «Scusa ti ho detto». PaperoZione l’aveva guardato dall’alto in basso, si era sfregato in mezzo alle gambe e aveva sorriso. «Va bene... Andiamo». «Dove?». «Alla stazione dei treni». Spaperopoli PAP «Come si chiamano?», aveva chiesto a PusherDuck girandosi la pastiglia rosa tra le dita. «PAP», aveva biascicato PusherDuck mentre fingeva di lavarsi la faccia nel lavandino. «Immaginavo qualcosa del genere... », aveva detto fissando la figura incisa sulla superficie che appunto assomigliava al profilo di un papero: quello dei fumetti. «Provala!» gli aveva ordinato PaperoZione che fingeva di pisciare all’orinatoio. «Ok, ok». Spaperino l’aveva ingoiata poi PusherDuck e Zione erano usciti. «Torniamo tra mezz’ora, che è il tempo che ci vuole perché abbiano effetto» aveva detto PusherDuck. «Tu non ti muovere da qui», gli aveva detto Zione. Spaperino era rimasto a guardarsi intorno, quel bagno anonimo, sporco più dei normali bagni delle stazioni. Ascoltava il rumore della voce di servizio che annunciava i treni, il rumore metallico sulle rotaie e la tristezza tagliente che gli affettava la testa. Suo padre, ancora, che si allontanava da lui con uno sguardo che sembrava indifferente, arrabbiato, un misto. «Ormai... abbastanza… grande». Buio. Il buio era calato sui suoi occhi. Buio completo, di colpo. Una cecità fulminante. Aveva annaspato nell’aria intorno finché non era riuscito ad appoggiarsi ad un lavandino. Poi, da lontano, dall’orizzonte scuro della sua percezione una sagoma blu. Prima un puntino lontano poi con uno scatto, più vicino. Una sagoma di papero. Poi ancora più vicino: uno sguardo dagli occhi vuoti di un papero come quello dei fumetti. Poi un altro e un altro ancora. Un buio pesto popolato di paperini e paperotti. E lo spavento era rientrato nel guscio. La respirazione si era calmata e una sensazione placida lo aveva invaso. «Come in una vignetta – si era detto – una coloratissima vignetta». E la serenità chimica lo aveva preso, disteso i muscoli e rilasciato i pensieri. Paperini che si mischiavano alla sua pena e che gli facevano compagnia, in un riquadro che aveva qualcosa di familiare... «Come va?», da fuori la voce di zio Pap. «Quack». «Come?». «Quack, benissimo». «È andato». «Sì, ma dal sorriso pare andato bene». «Pare... Ehi, bambino, stai bene?». «Quack, benissimo». «Ok, le prendo». Paperi, paperotti, paperini a colori a fargli compagnia. Flussi di sguardi a colori attorno a lui a farlo sentire al centro di qualcosa. «Dai, bambino, ora possiamo andarcene», aveva detto Zione. Paperini e paperotti ad abbracciarlo. «... Andiamo!». Si era sentito tirare per il braccio e si era irrigidito «Andiamo o no?». «No, io resto qui, in questa vignetta... è bellissimo». «Ma che cazz... questo è fuso». «Sì e ti dico che ne avrà ancora per un bel po’». «Bene». «Io me ne vado». «Vai, vai, io resto qui a fare un regalo al bambino». Spaperopoli «Che?» «Vai, vai». Paperini, paperotti a baciarlo. Spostato nella latrina, faccia al muro, Spaperino aveva visto per la prima volta le mattonelle da vicino. Vignette. E mentre sentiva lo sbuffo dell’alito di PaperoZione sul collo si faceva fare compagnia da una storia. Spaperino, appeso ad un paracadute su un albero rimbalza ripetutamente con il fondoschiena per terra... Paperini e paperotti a... Spaperopoli Rabbia Sono solo specchi questi. Ed è solo un piccolo inutile bagno sporco. Solo questo. Nulla che ti trattenga, Spaperino. Nulla che ti leghi. Eppure resti qui inchiodato. Per colpa di tutto quello che sei. Che sei stato. Che sarai. Per colpa tua allora? No? Dici di no? Spaperino è accovacciato di fronte allo spigolo del muro: una unica linea retta verticale che gli divide la vista in due. Si tiene abbracciata la pancia. Dondola frenetico sulle gambe piegate. Che frenesia è questa che ti prende? Cos’è che ti si muove dentro? Ricordi? Ancora? Davvero credi che non sia tutta colpa tua? Non è colpa tua se resti qui, inutile, a buttare il tuo tempo nello scarico? E di chi allora? Non tua? Di chi? Spaperino si alza, di scatto. Punta i pugni sui due muri. Sempre faccia alla linea di separazione tra i due piani. Digrigna i denti. Spinge. E allora, dimmi chi ti ha portato qui? Quel ciccione pelato? Quel pusher sporco? E ti ci hanno costretto qui? Loro? No? E allora chi? I tuoi amici? Quelli della discoteca? O, meglio, sì, Sara ? Quella stronza. Lei e Spiz, certo. Sono stati loro a portarti qui. Certo. Spaperino scuote la testa a dire no. La linea resta imperterrita e tagliente a fissarlo. No? Non è colpa loro se non sei mai stato capace di farti degli amici? E allora di chi? Di tua madre? No? Lei no? Già, lei non è mai contata per nulla. E allora? Che cazzo vuoi da rompere le balle e farti montare dentro questa rabbia che ti fa spingere i pugni contro i muri? E che ti fa dare colpi alle mattonelle? Che ti sta facendo ringhiare? Cosa cazzo vuoi da questo bagno che stai prendendo a calci? Cosa? Con chi ce l’hai? Con chi? Con tuo padre? Ma sì, certo. Povero bambino: perché non ti porta più i tuoi fumettini, non ti coccola, non ti sorride, non ti fa compagnia quando dormi? Con lui, no? Spaperino se ne sta fermo in piedi, in mezzo a tutto ‘sto casino ed ansimante. Ha le nocche che sanguinano. Si è quasi spaccato un piede. Fissa la porta. Ma sì, certo. È lui, no, che ti tiene qui dentro, chiuso, che non ti fa uscire? Che ti impedisce di andartene da qui. Ti sta legando lui, qui dentro, no? Spaperino scuote ancora la testa. No. Neanche lui. E allora chi? Nessuno? E allora che cazzo ci fai qui? Vattene fuori, vattene affanculo e smettila di spaccarmi i coglioni! Dai, vai, grand’uomo incazzato, vattene. Usala ‘sta rabbia che ti scoppia dentro e che ti fa fare tutta ‘sta cagnara. Spaperino si fruga in tasca. No amico. Sono finite. Vattene. Spaperopoli Spaperino si prende la testa fra le mani. Allora te ne vai o no? Qui non ti lega nessuno. «VAFFANCULO!!» urla Spaperino e fa due passi, due, verso l’uscita. Ancora uno, stronzo, e sei fuori. Uno e la smetti di spaccare. Uno. Spaperino ringhia. Si gira indietro e corre, verso il muro. Dall’altra parte. Spaperino torna ad accovacciarsi. Fissa il muro. Piange. Perché la rabbia contro se stessi fa solo male. Spaperopoli UNSOLEBASTARDO Unsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsol ebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastard ochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiapr elatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardochetiaprelatestaunsolebastardocheti UN BASTARDO SOLE DI POLVERE CHE TI APRE LA TESTA CHE TI SPORCA LA TESTA CHE TI SECCA LA TESTA CHE TI UCCIDE LA TESTA CHE TI… Un bastardo sole senza via di scampo… Spaperopoli Sangue e piume La luce è cambiata ancora una volta; dal finestrino filtrano i fasci di due lampioni che si incrociano, dalla porta i neon hanno il coraggio di entrare solo per qualche metro. Non c’è luna qui dentro. Solo luci che non tramontano. Ancora una volta hanno acceso i lampioni. È di nuovo notte, quindi. Da questo angolo tra le piastrelle e il buio, me la immagino quella luce che entra qui di sbieco cadere anche sul marciapiede oltre il finestrino dove Papernonna ha ancora il coraggio di battere e i suoi clienti di vivere. Io vorrei solo dormire ma non ci riesco. Non ancora. E l’effetto dell’acido è finito. Non ne ho più. La città dei paperi è spenta, buia. La fantasia, i fumetti, i paperi, i paperini, tutti sono in letti neri. Sono morti, loro, fermi nelle vignette tombali di questa notte in cui io non riesco a respirare. Fuori dalla porta la volta è immensa. Fuori dalla porta c’è gente che dorme e sogna, le puttane battono e forse stasera si sentono utili. Io, qui non riesco a dormire. Vorrei un lenzuolo pulito, o mio padre o una storia da raccontarmi. Ma l’acido è finito. La fantasia è finita e quello di cui avrei bisogno non si trova in questo buio elettrificato. Hanno riacceso i lampioni, per continuare a vivere anche di notte. Io non vivo neanche di notte. L’acido mi ha fulminato il cervello, mi ha fatto crescere dentro questa paura fottuta per lo spazio aperto che c’è oltre la porta e questa agitazione che non va via. Il mio cervello non funziona e puzza di marcio come questo posto come la mia pelle e la mia bocca. L’acido è finito. Non riesco più a tranquillizzarmi. Provo lo stesso? Prova dai. Prova! Spaperino camminava per la strada. Una strada colorata di grigio e palazzoni rossi e verdi e il cielo azzurro uniforme e... PaperoZione si avvicina e Spaperino «sì Zio?» «NIPOTASTRO!». «Sì Zio». «Perché sanguini?». Spaperino piange. Sanguina. Muore. Vignetta nera. Spaperopoli Qualcosa che mi sfugge Sono seduto, rigido sui miei piedi, mentre il liquame denso dei pensieri defluisce tra le mie suole. Una massa liquida che scorre via come fosse altro da me. «C’è qualcosa che mi si scioglie dentro e gorgoglia fuori!». Verso lo scarico là al centro. Al centro di tutto questo c’è un buco. Un punto unico, centrale, verso cui tutto tende. E c’è un piano obliquo. Da me a quel punto del nulla. «Qualcosa che se ne sta andando!». Si decompone e scioglie in un rivolo melmoso, giù per questo piano tagliato a quadri e a spigoli di mattonelle sbrecciate. Come fosse sporco che trasuda. «Ecco, sì! Sto trasudando». «Mi sto purificando?». E resto, accovacciato su me stesso, a riprendere solidità. Un piano inclinato. È quello di una scacchiera, vuota. C’è una piccola carcassa macilenta arroccata su questo spigolo, vicino al muro: un pedone non più deambulante dalle complesse forme di papero indefinite in quelle di un ragazzo. Quadri neri e quadri bianchi e poi i ricordi e le paure in un rivolo melmoso che scorre lento verso il vuoto, laggiù. Apro gli occhi. Li chiudo. Li strizzo e poi riapro. «Mi sta sfuggendo questo qualcosa… ». Scorre via. E io resto come appendice solida di questo rivolo, in un angolo. Ho un mondo molle intorno che pare si stia riaggregando, pian piano, intorno all’alveo di questo rigagnolo. Come se solo adesso gli spigoli, qui intorno, si stessero ricordando quale è il loro esistere. Muri. Ho dei muri intorno. Non immagini riflesse o ricordi malati come molli parti di complessi melmosi. Ma solo muri e in quanto tali duri, solidi, fissi, intorno a me e al dipanato mio cervello. Guardo il rivolo e lo saluto mentre un respiro teso e profondo, calmo, mi passa attraverso. Il cubo che mi circonda prende solida forma attorno alla melma. E io, io stesso, lo sento, sto riprendendo forma. Non so perché, forse la carenza di PAP. Forse bastano poche ore di astinenza per tornare normali, perché il mondo riprenda le sue forme. E sento un dolce peso sopra di me, sulla mia pelle, come un’armatura, come se le calde linee nere del mio disegno si siano tracciate, protettive, intorno alla mia identità. Come se mi sentissi, di colpo, di nuovo, ben definito. Come se fossi, di nuovo, solido, saldo su me stesso. Guardo ciò che era in me, mio, strisciare silente verso il centro che lo assorbe. E una leggerezza solo un po’ sporca mi prende. E un sorriso che non so da dove viene mi si apre in faccia. Il piano torna orizzontale; e solo di mattonelle. Intorno a me solo pareti. Un bagno. Un normalissimo bagno come tanti altri mi circonda. Sto ancora sorridendo e un pensiero semplicissimo mi pervade: «uscire?». Ma è una domanda che ha del retorico, perché il mio di nuovo lineare cervello traccia una pensiero logico diretto verso il «sì, ovviamente, cosa stai aspettando?». E allora mi alzo, in piedi. Sulle mie gambe. Faccio due passi. Non barcollo. Sto saldo su me stesso. Spaperopoli Mi guardo allo specchio mentre la cortina di stupore e sudore mi si dissolve dinanzi. Dei capelli: neri. Una massa appiccicaticcia di fili silicizzati. Poi due sopracciglia e due occhi, veri, neri. Un naso e una bocca. Dei denti tra le labbra tirate. E una strana peluria intorno al tutto. «Barba?». Non l’ho mai avuta. In nessuno dei mie viaggi. In nessuno dei miei ricordi. Appoggio la mano sul mento. Fruscia. Un rumore che non avevo mai sentito. Mi giro. Appoggio il sedere al lavandino. Guardo lo scolo. Braccia conserte. Accavallo le gambe. Posso farcela mi dico. Posso. È giunta l’ora che io me ne vada. Sposto lo sguardo verso la porta: non ho paura. Oltre la porta. Dei treni con tanta gente intorno, e fischi e annunci di voci metalliche. Posso farcela, mi dico. Devo, mi ripeto. Perché è ora. E allora ho due passi dentro, nelle carni: un moto semplice e naturale tutt’uno con l’impulso e la forza per dargli atto. E allora cammino. E me ne vado. Sì, mi dico, me ne vado. Ma c’è qualcosa che mi sfugge: mi monta dentro come un’onda di piena. Mi esplode dentro, senza controllo. E deflagra come un getto melmoso che mi gorgoglia. Dalla bocca. Un urto nello stomaco, uno scatto, un fiotto nel lavandino. «Mi sfugge». E crollo, di nuovo, su me stesso, in rivoli e schiume, dalla mia bocca allo scolo, di nuovo per terra. Questa cosa che esce a urla e stridori, a calci nel mio stomaco e artigli nella gola. Sfugge, sfugge via. A sussulti. A spruzzi. Densa di bile. A colpi nello sterno. Con ruggiti che mi stracciano la gola. Strappi dietro le tonsille. Un urlo soffocato. Gorgoglia. Sfrigola. Romba. Colpisce. Urla. Mi strazia e grida. … Schiacciato… per terra… Un altro colpo. … Di nuovo. Sfiata con un fischio. E mi saluta con due rantoli. Resto, sfiancato, vuoto, inutile. Lorda massa spugnosa di me stesso. Resto… E poi due lampi di colore e il ricordo di pastiglie rosa con il volto di papero e ricordi di sorrisi dai becchi disegnati e ricordi di casa e di calore e ricordi di odori di carta stampata e di abbracci e di… frugo in tasca ma mi tremano le mani. Tremo io sussulto mi abbraccio tremo di freddo, sconfitto io. Guardo là fuori: c’è una massa di esseri semoventi. Gambe che si incrociano all’altezza del mio naso e che portano sguardi che non si voltano verso di me. Che non mi vedono. Solo i bambini che passano, trascinati da mani adulte hanno gli occhi all’altezza dei miei. Loro potrebbero, loro vedermi. Come quella bambina, quella là che porta quel vestitino rosso fuoco lei, sì, potrebbe vedermi, lei che si lascia trascinare per il braccio da quella grossa mano femminile, potrebbe guardarmi lei che cammina silenziosa perché sta leggendo, potrebbe almeno lei sorridermi lei che legge quel giornalino, lei come me, che anche io, una volta, leggevo… potrebbe, lei, notarmi. Ma il mio mondo mi risucchia in uno scolo bambina, urlerei se la mia gola ci riuscisse… Bambina mi risucchiano direi, perché non ho io, bambina, alcune cose che tu non conosci ma che tu hai, piccola bambina felice… E quelle cose, simpatiche gentili assassine, le ho finite, sai, direi, e non ci riesco, bambina a vivere senza. Urlerei, sì. Ma non riesco… E allora io, ora, da qui, mi alzo, perché senza non vivo e mi trascino, devo. Quella bambina, lei, è felice, lo so... E allora ci spostiamo, io e la mia carcassa, perché quella Spaperopoli bambina sta leggendo... E poi allora corro, molle su gambe molli perché lo voglio io, che non sono più felice, quell’ammasso di colori e buoni odori che questa bambina ha in mano e lei allora, lei, adesso, spaventata mi guarda dal basso e nei suoi grandi occhi blu usciti dal sogno ha dello stupore perché l’ho distratta dalla lettura così, correndole incontro, che sono molto più alto di lei e lei ha spavento, anche, negli occhi che sognavano e lei urla lei adesso che gliel’ho strappato questo concentrato frusciante di colori e di odori e me lo porto al naso e aspiro io aspiro bambina l’odore, io aspiro forte questo ricordo e aspiro il profumo e aspiro e aspiro oh piccola bimba felice bimba e aspiro e… «Ehi tu!!» mi urla una grossa voce femminile che mi svia. Esco dal sogno che una massa di occhi su gambe altrui mi osserva e spaventa e mi volto che ci sono occhi ovunque e mi accovaccio e «lascia stare la bambina!» e mi alzo e scatto e un grande fischio mi lametta la testa e una grande massa stride e io corro ma non c’è terra sotto di me e cado. Righe, sassi, legno, ferro, binari. Alzo la testa. Di fianco a me un muro: la banchina. Sopra di me occhi. Sopra di me occhi e sopra di me… vuoto. E allora urlo e tengo stretto il mio fumetto, il mio paperino, e scapperei ma ho un dolore fortissimo che mi taglia ogni fuga, dal basso, dalle gambe, come scossa mi spegne il cervello mentre «prendetelo» -«aiutatelo» -«attenti» - «arriva il treno»… Spaperopoli Immenso e vuoto Un piccolo inutile essere. Un corpuscolo sussultante nel saltellare e sferragliare di un’ambulanza neppure urlante. Una branda in una scatola bianca. Un grido interno di un dolore torvo dalla gamba a tutto il resto. E pensieri frammentati ma pesanti, ognuno. Come corpi morti in gelatina densa. Come foruncoli e pustole su carne morta. Putridi pensieri sbocconcellati dall’affamata paura. Serpeggia, la paura, in ogni silenzio che mi si materializza dentro. E poi il rumore. È traffico questo. Auto e gente a pochi metri da me, dal mio corpo steso e legato. «Legalo», ha detto quello alto che adesso guida. L’altro, quello grosso mi ha afferrato con due mani fredde che sembravano morte, mani che mi hanno morso la pelle e stirato i muscoli su questa panca che ondeggia. Il terzo, più magro, mi ha legato, con le stesse cinghie che ora mi limitano. Mi alzerei, scalcerei, tirerei questi pugni inutili che si tendono nelle mie mani. E urlerei. Per la rabbia, paura che mi sta prendendo. «Smettila di fare casino!», mi ha ordinato una voce che sapeva di assassinio minacciato. E mi sono fermato, io, o meglio, la mia pulviscolare parte cosciente. «Smettila!», mi sono ordinato ma il resto ha continuato a sussultare e continua, ancora adesso, a farlo seppure legato. Clacson, lì fuori, a meno di un metro dal mio orecchio. E rombi e scoregge di auto da folla. C’è traffico là fuori. Clacson e urla e stridio nella mia testa. «Sedalo se non la smette di rompere i coglioni», dice lo smilzo da dietro al giornale rosa. «Cazzo gli do? – chiede il grosso – ne ha già troppa di roba nelle vene». E poi si mette a guardarmi con le braccia conserte. «Valium, morfina, cosa si dà a un droghino in crisi d’astinenza?». «Non mi ricordo. Una botta in testa?». Ridono mentre il sole filtra dal finestrino e mi si spalma sulla faccia. Sono in una vignetta compressa ma solo per poco ancora. C’è il mondo qui fuori che mi sta ruggendo. Scalpiterei, mi strapperei i capelli, urlerei cazzo, urlerei. E poi li prenderei a calci questi due stronzi, e li butterei fuori, loro. Penso a dove mi stanno portando e se la apriranno all’aperto questa bara che corre. E se mi ci metteranno sotto al nero del cielo assolato, a quell’immenso pesante niente che mi schiaccia. «Come le montagne – penso – come le più grandi montagne Papernonna. Sono sotto la montagna nonna». Chiudo gli occhi e vedo l’immenso drago pesante del cielo che divora la mia nullità nel suo esistere. E sento frenare. E ogni frenata è l’arrivo per me. Tra poco apriranno le porte e non vedrò niente altro che la fine di tutto. «Avevi paura, Spaperino? Beh, ora sei fuori». E allora un pensiero mi si traccia dentro e mi urta e mi spinge contro le cinghie e mi fa grugnire e poi ringhiare e poi urlare. «QUESTO – urlo – INFERNO – ringhio – IMMENSO – urlo – E VUOTO». Grido. Ancora: «Vuoto immenso inferno!». «Mettilo a nanna». Bofonchia lo smilzo. È un ago quello: assieme allo sguardo del grosso mi perfora. «IMMENSO», urlo ma poi tutto si appanna. Una coltre di macilenta carne morta si schiaccia sui miei occhi e chiudo tutto, occhi compresi, al vuoto. Spaperopoli Corridoio Gira la mia testa gira, come in un placido fiume verde intenso, gira, in anse morbide tra i miei occhi. Calma e silenziosa la stanza, in un buio da notte di petrolio, tagliata a fette del chiarore che filtra dalla tapparella. Sono su un letto fresco di biancheria e bianco. Sono lavato. Sento sulla mia pelle il morbido. Gira, la mia testa, tra pensieri placidi dalle forme lente che prendono vita ad un metro da me, qui sopra, nell’aria davanti ai miei occhi spalancati. È notte. Non so dove. Sembra un ospedale. Ho una gamba ingessata e miele che mi si appiccica alla pelle, si scioglie ammorbidendomi tutto ciò che ho intorno. Da lì in alto, sospeso nel vuoto mi osservo. Ho un sorriso ebete, due occhi pesti seppure spalancati. Cosa mi hanno dato? C’è un campanello sulla testiera del letto, potrei suonarlo e chiedere chi è stato? Cosa mi ha dato? Per ringraziarlo, sorridendogli con questo mio sorriso lesso. Perché così bene non mi sono mai sentito. Ai miei lati ci sono due letti occupati da altrettanti corpi stesi nella penombra. A destra dei rantoli, un fischiare affannato di polmoni canterini, qualche sussulto ogni tanto. A sinistra solo un corpo buio. Mi alzo. Sbatto il mio piede malato per terra. Il gesso scricchiola. Nessun dolore. Scivolo molle in questo acquario d’aria e luce elettrica. Oltre le fessure della finestra, giù di tre o quattro piani, c’è una serata che sembra fresca. Apro la porta, esco. Un corridoio semimorto dai grandi finestroni chiusi da tapparelle. Qualche luce di sevizio evidenzia la sua lunghezza da qui al buio là in fondo. Faccio passi erranti con intenzione di non ritorno, ma solo due perché poi una voce si materializza dura alle mie spalle nell’eco rimbombato di questi spazi vuoti: «tu, là in fondo!». Mi volto e sorrido. Un omone tondo, una pancia circumnavigabile e una faccia di burro. Indossa un immenso camice verde. «Dove stai andando?». Non rispondo che tanto non lo so. «In che stanza sei?». Accenno alla porta dalla quale sono uscito. «Sei quello della stazione?». Credo di sì. Rispondo abbassando gli occhi. «Ce ne hai messo per svegliarti». Poi mi afferra un braccio con la sua mano fatta di salsicce e mi trascina: «devo farti un paio di domande». Io sorrido, osservando il retro della sua piccola testa che ciondola sopra le spalle tonde. Mi fa entrare in uno sgabuzzino con la scritta accettazione. Mi fa sedere al buio su una sedia davanti alla scrivania, si siede dall’altro lato e tira fuori da un cassetto un modulo verde e una matita. Poi preme il pulsante della luce. Scarabocchia una data, un’ora, fa due segni in due caselle. Solleva lo sguardo e mi fissa. Sopra di noi il neon sfarfalla intermittente. L’uomo ha due occhi acquosi e neri che compaiono e scompaiono nella luce-buio. «Come ti chiami?», chiede aggrottando le sopracciglia. Sono folte come la muffa che c’era nel mio bagno dietro i lavandini. Io sorrido, non che abbia smesso da quando mi sono svegliato ma ora lo faccio di più. Sono in pace col mondo. Non voglio rogne. «Non ti abbiamo trovato documenti addosso. Dimmi come ti chiami». «Quack!». Aggrotta, mi fissa e poi scoppia a ridere. Rido anche io. Ho un riso strano. Come se avessi una sveglia in gola. Poi lui aggrotta ancora e mi fissa. «A giudicare dallo stato in cui eri quando ti hanno portato qui devi essere rimasto a dormire per terra per un bel po’ di tempo. Non hai una casa? Dei genitori?». Spaperopoli Smetto di sorridere, dentro almeno. Sulla faccia la piega sotto il naso resta fissa. «Se non mi dici come ti chiami non potremo riportarti a casa». «Quack!» dico e mi alzo di scatto. Una fitta mi prende la gamba. Non mi reggo. Crollo. Mi appoggio alla scrivania. Scatta anche il panciuto, manda la sedia a sbattere contro il muro alle sue spalle. Sollevo la zampa ferita e saltello fuori preso da sudori freddi lungo la schiena. «Aspetta!». Ma io non aspetto proprio niente. Due balzi, un salto e sono fuori dallo sgabuzzino. Un infinito corridoio bianco e verde ruggisce di vuoto alla mia vista. Cado, sudando, in ginocchio per terra. Mani sulla testa. Testa contro il muro, testa contro il muro testa contro il muro. Mani dalle dita grasse, scalpiccìo, «sedatelo!», altre mani, una siringa… Spaperopoli Dei mostri È mattina. L’infermiere enorme è venuto poco fa a portarci la colazione. Avrebbe voluto sollevare la tapparella ma gli ho detto di no, non farlo, ti prego. Ha guardato gli altri due della stanza, il vecchio alla mia destra non si è mosso, tanto era preso nel suo sonno continuo. Il ragazzo con la testa fasciata, alla mia sinistra, ha alzato le spalle. Non l’ha sollevata, la tapparella, poi mi ha dato il vassoio con le pappine ciondolando la testa in segno di rassegnato e pietoso diniego. Poi è uscito. Sono sveglio. E riposato. Guardo le lame di sole filtrare dalla finestra e gioco con il pulviscolo dell’aria. Tanti saltellanti esseri compaiono e scompaiono colpiti dalla luce. Sorrido, ancora, come stanotte. E sto bene, benissimo, così adagiato su questo cuscino e questo materasso. «Hai picchiato la testa?», chiedo al fasciato. Mi guarda con due occhi grigi e spenti. Soppesa diffidente la mia esistenza poi mugugna un «non proprio». «Anche io l’ho picchiata, credo» gli dico. «Mi fa un po’ male. E poi non è che mi sia mai funzionata tanto bene». Rido. Sono di buon umore. Occhi grigi non reagisce. Mi fissa cattivo. «Li vedi anche tu i mostri?», chiedo idiota. Il ragazzo spegne i suoi occhi, li riaccende, poi si volta sull’altro lato e non risponde. Guardo la finestra chiusa e mi rendo conto che è idiota vedere i mostri. E che ho chiesto di non aprirla ma solo per abitudine. Perché ai propri mostri si finisce col farci l’abitudine. E anche quando non ne hai più paura continui a cercare di nasconderli. E anche quando non ci credi più continui a ricordarti la paura che ti avevano provocato. Io, ad esempio, adesso, non ho paura. Non più. E se guardo la finestra sento, dal morbido profondo dei miei pensieri che potrei anche aprirla e guardare fuori, tutto quello spazio sconfinato di cielo e città. Potrei farlo. Stamattina sono cresciuto. Da stamattina, lo sento, non avrò più paura dei mostri. Da adesso non avrò più paura. Lo sento. Mi alzo con l’intenzione di aprirla, metto giù i piedi dal letto ma davanti a me due occhi da vecchio mi stanno osservando gelidi. Mi blocco. Non credevo che questo corpo sofferente avesse occhi. «Si è svegliato?», chiedo intelligente. «Perché sono qua?», mi chiede con un fischio. Poi ansima un paio di volte per riprendersi. «Non saprei», gli dico. «Perché sono qua?», richiede fissandomi gelido. Salto giù dal letto mentre il suo sguardo mi fissa con rabbia. Fischia dal petto ostruito. Non rispondo, né mi fermo alla finestra come avrei voluto: fa troppo freddo qui dentro. Mi dirigo verso l’uscita. «Credi che io sia vecchio, vero?», mi sibila rabbioso. Sono sulla porta mentre fischia anche un «credi che me lo meriti, vero?». Chiudo la porta. Il corridoio è chiaro, ora. Le tapparelle dei finestroni sono semi-aperte. Luce al neon e sole si mischiano per dare uno strano melmoso colore all’aria. C’è l’infermiere rotondo che mi osserva, da dietro la vetrina dell’accettazione. Gli passo davanti silenzioso e muto. Spaperopoli Sala d’attesa. Mi siedo su una poltrona ed attendo. Con le chiappe sul morbido osservo davanti a me il vuoto del corridoio. C’è una porta bianca, sulla parete opposta, in legno e vetro, con le ante basculanti, davanti a me. È l’uscita. Ho indosso solo un camice verde. Sotto niente. Penzola tutto fuori se non sto attento. «Altrimenti sarei già fuori», mi dico placido e mi annuisco convinto. Il ragazzo con la testa fasciata compare nella mia visuale. Ciondola dinoccolato nel riquadro della porta. I suoi occhi mi osservano spenti. Tiene le braccia conserte sul petto. Entra e si siede, accanto a me, prende una delle riviste dal tavolino e si mette, con me, ad attendere. Restiamo per qualche minuto in silenzio. Una suora bianco pinguina ci scorge. «Come va?», chiede premurosa guardando solo lui. Non risponde, la fissa solo, silenzioso e grigio. Dopo un istante da soppesazione lei se ne va in uno sguardo che sa di carezza. Mi alzo di scatto, vado alla porta, metto fuori la testa: «ehi, sorella!», lei si volta. «A me va benissimo» le urlo. Resta un po’ stupita, poi sorride un «mi fa piacere». Rientro e mi siedo. Un certo rumore di fondo, come un ronzìo pare provenire dalle pareti. Come se l’ospedale respirasse. Guardo l’intonaco bianco mentre vari secondi si accatastano ronzanti su questa nostra attesa. Il ragazzo sfoglia il giornale, volta pagina dopo pagina, monotono e disinteressato. Io sorrido, perché ho finalmente voglia di farlo. Prima davanti a me, poi mi volto e mi rivolgo a lui. Sbatte due ultime pagine in fretta, poi mi parla. «Quanto resterai qui?». «Poco». «Bene». È grandissimo questo palazzo, immenso di certo. Ronfa col russare della moltitudine che dà il respiro alle pareti. «Quando sei arrivato, ieri notte – riprende – ho chiesto subito cosa avessi: una gamba rotta ed è strafatto. Mi hanno detto. E che lo sanno che non dovresti stare in questo reparto. Mi hanno promesso che ti porteranno via appena si libera un altro letto». Ora un tremolio sale dal basso. Credo stiano portando un grosso carrello oltre la porta. A che piano saremo? «A che piano siamo?», chiedo. «Al terzo». Non lo guardo più in faccia. Mi è sembrato non abbia gradito il mio sorriso. Riprendo a sorridere alla parete. «Stai davvero bene come dici?» mi chiede. «Certo». «Perché?». Non è una domanda alla quale voglia rispondere. Prende un altro giornale e riprende a sfogliare senza guardare. «Ce l’hai con me?», gli chiedo. «Forse». «Non ti ho fatto niente». «Non vogliamo un idiota che continua a ridere nella nostra stanza». Tanti vani. Deve avere talmente tanti vani questo palazzo. Centinaia. Ed ogni vano deve agirecome cassa di risonanza. È da lì che viene questo ronzìo. Un vano accanto all’altro. L’uno ronza per Spaperopoli l’altro che ronza per l’altro che ronza per l’altro che… Canticchio mentalmente: «l’uno ronza per l’altro che ronza per l’altro che ronza per l’altro che… ». E tutto si concentra in questa stanza qui. Che sembra respirare, quasi. Sembra. «Sai che l’ho visto piangere», mi dice. «Il vecchio, l’ho visto piangere. L’altra notte. Prima chearrivassi tu. È venuto suo figlio a trovarlo. Gli ha chiesto come andava. Solo questo. E lui ha cercato la sua mano e ha pianto. Come un bambino». Sfoglia, imperterrito e parla con quella sua voce che sembra il respiro di questo palazzo. Io resto, fermo a sorridere. È giunta l’ora di sorridere, per me. «Lui dice che non è mai stato così bambino. Mai come adesso. Che non ha mai vissuto la sua infanzia come in quel letto d’ospedale. Mi parlava, prima che arrivassi tu a disturbarci. Diceva che non c’è istante, uno solo, del giorno o della notte, che stia dormendo o sia sveglio, in cui la sua infanzia non gli si disegni davanti come se la stesse vivendo adesso. Niente della sua maturità, niente del suo matrimonio, nulla della morte di sua moglie o della nascita di suo figlio. I giochi, dice, i giochi da bambino ha in testa. Cose come il freddo del pavimento sotto la credenza, il sole che tagliava il salotto in due, il campo di fieno vicino a casa e la marmellata di more di sua madre. E diceva che a forza di vederle queste cose, riesce anche a convincersi che ha solo un’influenza, che tra poco arriverà sua madre, che domani sarà di nuovo in piedi. E riprenderà a correre sotto il sole, sul prato davanti a casa. E a badare a Cristina, la sua oca. Questo dice, lui». Silenzio e ronzìo. «Fossi in te smetterei di sorridere». Non ora, mi dico. «Io invece – riprende – non penso ai ricordi, in questi giorni. È il futuro che non avrò che mi ossessiona. Vedo solo quello. Fisso e fermo, davanti a me. Come una serie di istantanee non ancora scattate: io con una ragazza, io sposato, io in giacca e cravatta, io e un bambino. Come se avessi un album in testa. In bianco e nero. Lo sfoglio in continuazione. E non riesco a chiuderlo, mai. Farebbe meno male se ci riuscissi». Il ronzìo sussulta, adesso, è un po’ più alto. Sembra si stia trasformando in un rombo sommesso. «Tu non hai di questi problemi – sibila – … e continui a ridere». «Quanti anni hai?», gli chiedo. «Venticinque». «Io, invece, da bambino… ». Il ragazzo si alza, lascia cadere il giornale per terra e se ne va. «Se non ti togli quel sorriso da testa di cazzo… », dice in un secondo sibilo. Resto con la mia frase a mezz’aria e il sorriso sospeso. Non c’entro niente io qui. Ho tutto il tempo davanti, io. E voglia di sorridere. «È ora» mi dico. «Adesso sì». Spaperopoli Crescendo Esco dalla sala d’attesa. Non mi si addice più. Corridoio completamente vuoto. Linee sottili e una fine punta di freddo. Porte e vetrate ad arginare i miei passi. Cupo boato soffocato e impatti del mio gesso sul pavimento. Niente altro. La porta della mia stanza. La loro. Entro silenzioso. Il ragazzo non si vede. C’è solo lui, il vecchio, perso nel rollìo del suo naufragio. Ansima e fischia. Sorride. Un sognante sorriso beato, un po’ idiota sotto il naso. Come me, prima. Non sorrido, ora. Non si sorride se non in contemplazione del futuro, o del passato. Ed ora non ho più niente a che fare né coll’uno né coll’altro. Vivo solido e deciso nel mio presente. Vèstiti. Mi dico «Vèstiti!». Apro l’armadio davanti al letto del vecchio. Un’anta scorre scricchiolando e mostra uno specchio. E una giacca marrone, una cravatta grigia e lunghi pantaloni in tinta. Col risvolto. E una camicia, bianca. E mutandoni, una canottiera. Un cappello. Il cappello non mi interessa. Tutto il resto sì. Ed è così che mi cambio, io! Alla luce della lampadina di servizio, nella penombra tutta ospedaliera, dentro il fischiare gracchio del petto anelante del vecchio ancorato a sé bambino. «Basta – mormoro – basta – dico – è ora». Mi spoglio del camice. Resto nudo a guardarmi allo specchio. C’è una lunga linea a curve e segni di costole nello specchio, l’ombra allungata del mio corpo, scolorita e semplificata dalla luce chiaro-oscurante. Poi la mia mano afferra un mutandone e una canottiera. Indosso in silenzio mentre il fischio si fa più acuto. Come il rumore di una frenata. Di treno, forse. E tutto intorno un rombo sommesso e brontolante riprende ad assumere forma solida. Respira, questo ospedale respira. Camicia bianca: abbottono. Bottone dopo bottone, asola dopo asola. Stiro con le mani il tessuto fresco sul petto. È il suo respiro che rantola. Il respiro dell’ospedale. Questo ospedale rantola. Il vecchio tossisce. Del catarro gorgoglia. Pantaloni. Lunghi col risvolto, grigi anch’essi, con la piega. Lunghe gambe di disegno stilizzato si inforcano in pantaloni da adulto già vecchio. Dal profondo di ogni cosa risale il respiro del vecchio. Prende forma più solida partendo da questa stanza, passando a quella vicina e poi a quella vicina e poi a quella vicina e poi… per poi tornare qui, in questa, sotto forma del rombo cupo di un ospedale che vorrebbe tossire. E poi la cravatta. Annodo e tiro il cappio, accomodo e ripiego il colletto. Ancora, con le mani sul petto, stiro il tutto. E la giacca. Un bottone, uno solo. Un corpo vestito mi osserva e rimanda osservazione dallo specchio in bianco e nero. Un rasoio elettrico. Passo, ronzìo sul ronzìo le lame sulla testa e sulla faccia. Passo, ronzìo sul ronzìo metallo adulto sulla pelle da uomo. Ronzìo sul ronzìo ciuffi di inutili capelli di bambino cadono a terra. Sguardo appuntito, naso aquilino sotto la mia finalmente di nuovo calva testa. E decisione: Sprizzo decisione, materializzo decisione tra il chiaro e lo scuro della luce di servizio. Ho linee rette che disegnano la mia faccia. Si tirano taglienti e si concentrano sulla punta del mio naso aquilino. Il tutto per accentuare la mia rabbia mista a decisione mista a maturità adulta. Con le mani ripulisco la giacca dal grosso dei capelli. Guardo il vecchio. Ansima come tutto il resto. Poi si raschia la gola. Calze. Una sola. E una sola scarpa. Marrone, di vernice. Il resto non mi serve. Spaperopoli Esco. Corridoio orizzontale, grossa trachea. A passo rapido mi dirigo verso la porta, là in fondo, dalle due ante basculanti. «Sorella… », saluto la suora con un cenno della testa. Mi rimanda uno sguardo di saluto senza riconoscermi. Passi tra pareti che tremolano. Passi sotto la luce al neon e tra il ronzìo. Due braccia aperte, mani decise ad aprire le ante e sono fuori dal terzo piano. Rampe di scale. Una rampa a scalini vasti come pianure, si intreccia da qui al profondo e cantilena come tromba amplificando il rombare non più sommesso. Voci, passi, cigolare di carrelli e salire scendere di ascensori originano il grande sospiro. Sta prendendo fiato, ora, l’ospedale. Un salto, sul piede sano ed è il primo gradino. Mi afferro con la destra al corrimano. Altro salto tenendo l’appendice ingessata in alto. Salto, saltello e salto. Rombo d’aria che fischia, contorcersi a chiocciola di un ospedale che ansima mentre corro-saltello giù verso la vera unica uscita: grande bocca stanca ma sorridente forse, di un sorriso idiota. È quando incontro un medico, verde nel camice, che rallento la caduta e faccio discesa di gradini con la vera dignità che mi si addice. Non devo correre. E poi è l’ultima rampa. La faccio piano, passo dopo passo, saltello dopo saltello, tenendo il piede ingessato il più vicino possibile al suolo. Piano terra. È qui che tutto si concentra. Rumore di respiro che si addensa dietro le mie spalle, proveniente da più in alto, da tutti i vari piani di questo immenso corpo fatto di bronchi e bronchioli malati e putridi che si respirano addosso, l’uno su quello vicino che respira su quello vicino che respira su quello vicino che… Una grande massa d’aria carica la sua ira dietro la mia schiena… Il vecchio tossisce, lo sento, io. E dalla grande porta del pronto soccorso, come spinto, come sputato, finalmente esco che era ora, esco che era ora, sono fuori. Spaperopoli Grande Guardo, attento e teso, dall’alto di questa scalinata-scivolo il vuoto accerchiante dei giardini. Due file concentriche di siepi: paiono disegnare l’effetto di un’onda d’urto, da me al resto. Sguardo fiero. «Sguardo fiero!», mi dico. Perché il mondo non sopporta la fierezza. E le fa strada. Solo qualche essere umano tra le siepi, da qui al muro di cinta. C’è una strada pedonale, semideserta. Piccola striscia grigia sulla quale depongo i miei passi. Silenzioso, altero e sicuro come un patriarca dirigo il mio sguardo superbo in avanti a ferire quest’aria leggera. Il muro, il cancello, le strade. Le strade. Intrecci sporchi di strade nervose. Masse innumerevoli di auto rumoreggianti, e passanti e esseri viventi che mi vedono, osservano e poi vanno via in moti intimi di deferenza. Resto torvo e deciso al centro di un flusso di masse. Scorrono, auto e uomini, e decorrono nel mio presente. Resto torvo e deciso a soppesare i minuti di questo presente. Miriadi di strade rumorose e sporche, centinaia di persone e auto sedimentate su strati su cui spiccano palazzi e smog. Non so dove sono. Sapete che ore sono? Che via è questa? Sapete dov’è casa mia? Ma non voglio chiedere aiuto a nessuno. Prendo la prima strada che incontro, appena fuori l’ospedale. Cammino, zoppo e sicuro verso una direzione che non conosco. Cammino, zoppo e sicuro. Cammino, zoppo e sicuro tenendomi con una mano i pantaloni troppo larghi. FINE