Città Perfetta a Susina, e ai disgraziati dell’altra volta. Pochi, sentiti ringraziamenti. Tutta la mia riconoscenza ai Quindici e all’instancabile Monica che li coordina; senza di loro nulla sarebbe successo. Grazie a Giovanna De Angelis che ha tenuto a freno con garbo le mie intemperanze stilistiche, e a Severino Cesari per la disponibilità e per la contagiosa passione. Devo a Francis il carattere e le sembianze di uno dei personaggi migliori di questa storia. Sebastian e io gliene siamo grati. Germana ha sacrificato molti finesettimana aspettando che io finissi di scrivere. Spero che continui a farlo, un giorno glieli renderò. Ma lei starà dormendo sul divano, come al solito. Via dal canale, dalla gabbia, dalla voce che sul tram sussurrava parole tenebrose; via dalla mia stanza e dalle pagine appena scritte, che aspettavano di essere rilette – era lì che era scritto tutto – e che io non volevo rileggere. Corsi a perdifiato verso sud, sulla spiaggia, senza guardarmi intorno. Nel mondo perduto. Ray Bradbury, La morte è un affare solitario Nel regno della noia, indosso pantaloncini principeschi. Mark Leyner, Mio cugino, il mio gastroenterologo I. Vigilie 0. Si allunga dalla sedia a sdraio e con la punta delle dita prende l’olio. Comincia a spalmarsi con molta cura, tutto il corpo. Unto dorato e nudo, si stira, tende piano i muscoli mentre il vento che soffia sul terrazzo gli scivola caldo lungo le spalle. Il giorno è immobile nel tepore e nella luce di questa incredibile estate di San Martino. Di là dal parapetto, nove piani più sotto, lente figure di gesso si muovono senza voglia. Chi mai deciderebbe di camminare sotto il sole, con un tempo come questo, se solo potesse scegliere di non farlo? Non smette di massaggiarsi mentre si affaccia a guardare. Da sotto la sdraio sfila un lenzuolino di seta nera, che si annoda attorno al collo, drappeggiandolo lungo la schiena. Conta i passi: uno due tre quattro. Ripete mentalmente e gira su se stesso con le braccia discoste dal corpo e le palme rivolte in alto. Come per abbracciare quanto più può. Respira. Fa guizzare un paio di volte i muscoli dei bicipiti. E poi uno due tre quattro e giù con un bel tuffo. Vento fresco che preme sul petto e sulle braccia. Dannata sensazione di aver dimenticato qualche cosa. 1. King Kaleb cammina lungo il buio corridoio sotterraneo. L’eco dei suoi tacchi si confonde con un sinistro rumore metallico, sempre più vicino. Fin qui va bene. Gocce di umidità stillano dalla parete di pietra su cui si deposita la condensa del vapore azzurrino e spettrale in cui King Kaleb si addentra sempre più. Bene anche questo. Una vibrazione nell’aria lo avverte che dietro l’angolo lo aspetta qualcosa. Un qualcosa che respira. Breve sosta per selezionare l’arma dal menù (fucile a impulsi), e poi si lancia. Il Cyber-troll si avventa con un balzo su Kaleb, e lui spara. E, Cristo, qui non va bene per niente! – Maaaax! – Vorrei vederlo saltare in aria, vorrei che il mio urlo spezzasse i perni di sicurezza della stupida poltroncina ergonomica a diciotto posizioni su cui bamboleggia tronfio come al solito, vorrei vederlo capitombolare a terra come un comico degli anni Venti. Quello che vedo, invece, è la sua bella faccia abbronzata (troppo bella, troppo abbronzata) che si volta verso di me e assume un’innocente espressione interrogativa. – Cos’è ’sta roba? – Indico lo schermo tester 16/9 su cui sto lavorando. Max si alza e si avvicina con la strafottente camminata elastica che tanto piace alle donne. – Guarda il fucile di King Kaleb mentre spara, – gli intimo. – Cos’è questo sfarfallio dell’immagine? Perché diventa opaca? Max sbuffa: – È un problema di memoria video. – Questo lo vedo da me, ma perché non è stato risolto? – Non si può. – Usando un frattale? – Non con quello sfondo. – E se cambiassimo lo sfondo? – Andiamo, è solo un buco di una frazione di secondo. Non la fare tragica –. Torna al suo posto senza aspettare una risposta. Se c’è una cosa che ho sempre odiato è la logica delle persone superficiali. Una filosofia fatta di scorciatoie e approssimazione; un tribunale corrotto che, invece di affogarli nei sensi di colpa, assolve i fannulloni con una scrollata di spalle. Mentre invece condanna me, e tutti quelli come me, giudicando la nostra ricerca di precisione e di lavori ben fatti come la pretesa assurda e irraggiungibile di menti perverse. Tu bastardo nazista, come ti permetti di chiedere di più? Comunque sia, Max, il bellissimo Max, il sempre brillante e divertente Max, Max il dio del sax (fra l’altro), nonché mio inestimabile collega e compagno di stanza è, si può dire, il poeta laureato della logica superficiale. Max ha una prorompente personalità – o almeno così dice in giro – e dev’essere per questo, temo, che non c’è mai stata, a mia memoria, riunione di programmazione in cui non abbia provato l’urgenza di attaccarmi o buttare lì una di quelle sue frecciate sarcastiche o ignorare minimizzare dimenticare i frutti delle mie fatiche. Abbiamo tempi di consegna strettissimi, uno dei massimi parametri di valutazione del nostro lavoro è proprio la perfezione grafica, e lui come se ne esce? È solo un buco di una frazione di secondo. Non la fare tragica. Minchia. Non è il mio capo (ci mancherebbe altro) e non è più bravo di me, ma ha un gran talento – questo devo riconoscerlo – nel farmi imbestialire. Mi logora con patetici scherzi da seconda elementare, si serve in modo abusivo del mio user id per iscrivermi a newsletter porno o ad associazioni di Alcolisti Anonimi elettronici, cosicché mi ritrovo la mailbox sempre piena del peggior ciarpame informatico mai visto. Centinaia di pagine di confessioni di ubriaconi mitomani, obese donne nude che si fanno infilare oggetti impensabili in luoghi innominabili, filmati AVI di voraci coprofagi e via così. Ma lui rimane tuttavia il buon agnellino intelligente che viene annichilito dall’isterico paranoico che sarei io. Andiamo, cerca di essere elastico! Definisce elasticità la sua approssimazione ed esasperazione maniacale la mia competenza. Lo odio. Bubu, c’è una buona colazione! La voce campionata di Yoghi avverte Max che nella sua casella e-mail lo aspetta un nuovo messaggio. Questa sua mania di collegare rumorini e frasette idiote a ogni funzione del suo software, poi! Capacissimo di giocarci per mattinate intere, e io lì, costretto a lavorare sotto una contraerea di pi-ping, crash, stump. Se Max fosse un videogioco, sarebbe uno di quei legnosi beat’em up degli anni Ottanta, tipo Street Fighter. Porcherie bidimensionali in cui due energumeni mascelloni se le dànno di santa ragione con ridicole mosse di pseudokarate in un finto ambiente di degrado urbano. Il genere di roba per cui andavano pazzi i quattordicenni in esubero ormonale, pestando come forsennati sulle manopole degli arcade nelle sale giochi. Ridacchia. – Mi è arrivata una nuova storiella della serie Donna del Mistero. Secondo questo tizio, la Donna del Mistero è una supertestimone inserita nel progetto di protezione del governo. Potrebbe dare un contributo fondamentale a smantellare il racket di feti su cui si basa l’ultima perversione del momento: la bebé cuisine, che offre piatti a base di carne di neonato ai ricchi depravati che se lo possono permettere. Carino, vero? – Max ha un’idea molto personale del significato della parola carino. – Morboso, direi, ma degno di essere inserito nell’antologia. Per l’inventiva, se non altro. Salvalo. Crash! Aaahh! Piatto rotto e urlo di donna. Questo effetto sonoro non me lo ricordavo. – Che diavolo sta succedendo di là? Chi ha urlato? – reagisce il reattivo Max. – Sarà meglio andare a vedere –. Altra sua caratteristica: è prevedibile come la replica di una soap-opera. Quanto a me, devo proprio essere tech fin nei più remoti anditi dei miei cromosomi, se ho potuto scambiare il vero urlo di un essere umano per un suono sintetizzato. Forse devo farmi vedere da qualcuno. Le mie ex risponderebbero che mi basterebbe vedere qualcuno, almeno ogni tanto. Ma a pensarci, c’è un preoccupante compiacimento autolesionistico nell’immaginare le battute acide che ti farebbe una tua ex, se fosse presente. L’urlo sembrava provenire dalla stanza accanto alla nostra, più raccolta e confortevole, nella quale lavorano, in un’atmosfera di post-punk vittoriano, il Conte e Bella di Giorno. Ci muoviamo. Marianna e Max, incrociatisi nel corridoio, stanno in testa, poi Chiara e io a chiudere arrancante il corteo. Bella sta dritta; davanti ai suoi piedi i cocci di quella che è stata una tazza di caffè formano la prima chiazza di disordine che io abbia mai visto in quell’ambiente. Trema. – È pazza. Giuro su Dio che è pazza! – Il Conte non si è nemmeno alzato e continua a scuotere la testa, indeciso se guardare la scena o tornare ad annullarsi negli algoritmi che vibrano sul suo schermo. – Che cosa le hai fatto, Conte? – Marianna parte all’attacco, come il suo istinto di sindacalista incompresa, femminista mancata e attivista politica delusa le impone. Il Conte sbotta: – Tipico di voi donne! Una vostra compagna di sventura combina un casino perché è in piena crisi isterica premestruale e voi non trovate di meglio che colpevolizzare il primo maschio che si trovi nei paraggi. – Cosa intendi quando dici compagna di sventura? – … e continuate a rimuginare su particolari insignificanti che rappresentano, per voi, prove inconfutabili di una mai superata discriminazione sessuale, perdendo di vista il vero nocciolo della questione –. Il Conte si sta infilando in una strada senza uscita. – Non so se te ne sei accorto, ma c’è del disprezzo nelle tue parole, Conte –. Marianna prosegue imperterrita. – Quello si chiama sarcasmo, cara, ma non preoccuparti: sapevo che avresti faticato a cogliere la differenza. – Lo avete sentito tutti? Mi sta insultando! Forse è arrivato il momento di dare un taglio a questa scena penosa. – Uno di voi due vorrebbe spiegarmi per favore che cavolo è successo qui? – dico, cercando di non prendere l’atteggiamento di uno che si assuma delle responsabilità. – Finalmente un grano di sano pragmatismo maschile… – Conte! – Va bene, va bene, mi limiterò alla cronaca –. Il Conte sfoggia quel tono di ironico e pedante distacco a cui deve il soprannome. – Bella stamattina ha preso quattro caffè. A Bella non piace il caffè. Non l’avevo mai vista berne più di una tazza canonica, giusto per sopravvivere alle prime ore di lavoro del mattino. Così alla quarta volta che faceva il pieno – sottolineo: non alla seconda o alla terza, ma solo alla quarta, e non mi si dica che non so farmi gli affari miei – le ho domandato se ci fosse qualcosa che non andava. Lei niente, come se non avessi aperto bocca. Allora ho pensato che fosse distratta e ho ripetuto a voce più alta, senza ottenere apprezzabili risultati. Avrei forse dovuto desistere, lo ammetto, ma appartengo a quella categoria di persone demodé a cui è stato insegnato che è buona abitudine rispondere alle domande almeno con un cenno. Dunque mi sono permesso di ribadire il concetto e ho anche aggiunto una cosa come Potresti degnarti di grugnire un no, se proprio non ti va di parlare. Questo è stato il mio orribile atto di prevaricazione, e a quel punto Bella ha buttato per terra la tazza urlando. Coraggio, condannatemi, impiccatemi. Il delicato centrino di pizzo, che Bella tempo fa ha sistemato con orgoglio sotto la sua stampante, stilla gocce di caffè lungo il profilo panciuto del tavolino e giù sulla testa di un assurdo levriero di ceramica la cui bruttezza nessuno ha avuto il coraggio di far notare. Dalla posizione privilegiata di un poster, lo sguardo spaesato di Alan Turing domina l’intero ambiente, soffermandosi, sembrerebbe, sulla bacheca di sughero pitturato di nero che raccoglie post-it e stampate varie fissate con quelle meravigliose puntine a forma di teschio che il Conte ha recuperato Dio solo sa dove. I foglietti appesi riportano appunti di lavoro e promemoria, glossati da brevi note di commento che vanno da un Ecco l’indiscutibile testimonianza della mia genialità a Finalista del premio Philip Kindred Dick nella categoria Miglior Cazzata Tecnologica dell’Anno. – Scusatemi… scusatemi tutti. È colpa mia –. Bella si guarda imbarazzata intorno e poi fugge alla volta del bagno. Marianna le tiene dietro come un segugio. Chiara che, a dispetto del nome, è di capelli e carnagione scurissimi, ci scruta da sotto gli occhiali, in cerca di un cenno di assenso. Quando crede d’averlo percepito, si avvia anche lei, incerta come sempre del suo ruolo. Proprio mentre noi maschi ci guardiamo con l’imbarazzo del superstite, arriva Ken, di ritorno dal supermercato. Ken è il nostro adorato padre-padrone, che ci provoca perversi miscugli di complessi edipici e sindromi del capo-ufficio. Il nostro indispensabile, rassicurante, protettivo schiavista, che tutti noi ama e che noi tutti veneriamo. Il nostro Papà Lavorativo. Unico e solo. Benedetto e salvatore che da tutti i mali ci ha liberato. È carico di buste per la spesa piene di lattine di liquidi frizzanti. – Il distributore automatico era a secco un’altra volta e ho fatto un po’ di scorta… – … – Non è che qualcuno per caso prova l’irresistibile impulso di darmi una mano? – … – Successo qualche casino mentre ero via? – … – Gesù, non vi si può lasciare un attimo! 2. Abbassò le palpebre pesanti, e una cascata elettrica di fosfeni multicolori gli riempì il cervello. Riaprendo gli occhi dovette constatare che la duchessa (così almeno si presentava) Severa Maria delle Erinni non era scomparsa nel nulla, né era svenuta, né era stata gravemente ferita da una provvidenziale quanto improbabile pallottola vagante. Sarebbe stato troppo bello, pensò, e le cose belle… La sedicente duchessa, invece, continuava a parlare con piglio volitivo standard, per nulla sfiorata dal dubbio di non essere al centro dell’attenzione di chicchessia. Raccontava del brillante futuro che lei aveva progettato, costruito e, diciamolo pure, voluto («volontà, signore, assoluta incrollabile volontà, questo è il segreto») per le amatissime figlioline. Così le apostrofava con tenerezza di chioccia aristocratica: figlioline. Le quali figlioline, peraltro, avevano contribuito con l’applicazione del loro notevole ingegno e di quella insuperabile volontà che doveva certo essere una caratteristica di famiglia. – Mi creda… Niente come mandarli a studiare all’estero! E non solo per l’organizzazione e i supporti didattici che non sto nemmeno a dirle le figuracce che si farebbero qui da noi in confronto. Ma soprattutto per le lingue, caro mio; senza di quelle non si va da nessuna parte, e una volta che le impari all’età giusta… Poi sa che le dico? A star da soli all’estero, all’età giusta, si matura molto di più. Non immaginerebbe mai quello che mi ha detto l’altro giorno al telefono (intercontinentale, è ovvio) la mia piccolina. Una frase di una profondità da restare a bocca aperta… Ci rimanessi tu a bocca aperta, almeno per cinque minuti pensò, ma non disse, Ganimede Borsch che, dall’alto del suo metro e novanta per centoquaranta chili di coriaceo imprenditore, subiva quell’inarrestabile fiume in piena, offrendo a intervalli regolari, unica sua difesa, il miserabile argine di un sorriso impacciato. Rivolse lo sguardo alle scarpe della duchessa: un orripilante esempio di art design applicato a una scarpa da sera – tacchi alti a base quadrata e fibbie in velcro. Pretenziosa mancanza di gusto. Lo colse un altro pensiero inespresso: E se tu non fossi la consorte del re del macinato in scatola con che cacchio la pagheresti la retta dell’università delle figlioline? Si accontenterebbero ad Harvard della tua incrollabile volontà, o ci dovresti metter sopra anche quel titolo nobiliare in subaffitto che ti ritrovi? Ma Ganimede, pure esuberante nel fisico, mai avrebbe dato in escandescenze nel modo che gli suggeriva l’istinto, e continuò dunque a parare alla bell’e meglio i fendenti di Severa Maria con tutte le risorse che pazienza e convenienza gli fornivano. Si morse il labbro e muto maledisse l’istante in cui, per vanità e calcolo, aveva presentato la sua domanda di adesione a quel club di servizio. Cosa c’era di peggio che un convivio di beneficenza autoreferenziale? Stronzi da gran sera che duellavano socialmente a colpi di orfanelli branditi come spadoni. Meglio un turno di notte in fonderia. Intanto annuiva assorto a un pelato macrocefalo occhialuto, ordinario di economia politica, fasciato da un lucido completo verdolino sopra dignitosi ma modesti mocassini marrone chiaro, che lo indottrinava sulla crucialità della specializzazione. – L’importante è tenere d’occhio la domanda e l’offerta nel mercato del lavoro. Se c’è richiesta di gente che, con rispetto parlando, pulisca il sedere ai cavalli, tu ti fai il tuo bel master in Pulitura di Sederi Equini, acquisisci il know-how, e ti fanno il contratto in quattro e quattr’otto. – Ah ah ah! Che idea, professore… Pulitura di Sederi Equini! – La Severa Maria era assai divertita o, forse, non voleva rischiare di smarrire il centro della conversazione. E qui Ganimede venne colto da una fitta di senso di colpa al pensiero della di lui diletta figlia, nonché unica erede, Dorotea. Da padre incosciente, non le aveva mai pagato un master per incrementarle il know-how, mai nemmeno una vacanza studio all’estero all’età giusta, come avrebbe consigliato invece la duchessa. Non che avesse davvero bisogno di lavorare – alla situazione finanziaria aveva ben rimediato lui da tempo – ma un’occupazione per farla sentire realizzata, una carriera, un po’ di ribalta personale non si sentiva di negargliele. Certo, avrebbe potuto inserirla nella gestione dell’azienda di famiglia, ma lei non sembrava granché versata per l’imprenditoria e, in fin dei conti, Ganimede produceva scarpe; scarpe buone, per carità, ottime, ma relegarla per la vita a un destino di scarpara… Avvertì un’improvvisa sensazione di soffocamento. Chi sono io? Che cosa ho fatto in tutti questi anni? Fuori. Per favore, fuori di qui. Devo scappare, correre, sfuggire alla mia «giusta» porzione di responsabilità. Abbassò la testa e si guardò le punte delle scarpe (un mocassino di vitello spazzolato di gran lusso). Le punte delle scarpe sostennero il suo sguardo, come a dire: «Cosa speri, che ti diamo noi la risposta? Ammettilo: non eri preparato». Rialzò lo sguardo, sconfitto. Hanno ragione loro, pensò. Le punte delle mie scarpe mi hanno inchiodato al muro della rispettabilità sociale… Il che non è molto dignitoso. Una meravigliosa valle immersa nella natura più incontaminata e clinicamente controllata. Diecimila ettari di verde e costruzioni avveniristiche riposano al temperato benessere di un microclima computerizzato. Alimenti biologici, acqua debatterizzata, aria antiallergica con polline monitorato. Vita naturale al trecento per cento. Con la collaborazione delle Industrie Genetiche «New Mutation Inc.» Da un messaggio pubblicitario della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 3. Che cosa c’è di meglio che passare la serata con i tuoi colleghi nella sofisticata e ombrosa atmosfera di un jazz-bar, intavolando stimolanti ma rilassate discussioni con sottofondo di buona vera musica? Rispondo: stare a casa tua, ecco cosa. Perché mai dovrei trascorrere il poco tempo libero che mi rimane in compagnia di persone che sono già obbligato a vedere dieci ore al giorno, in un luogo dove si beve e si fuma (io che non bevo più e non fumo più) e dove non si può guardare bene in faccia i tuoi interlocutori perché qualche architetto d’interni, marcio dentro ma esperto di illuminazione decadente, ha deciso che nei posti di atmosfera la regola debba essere questa? Inoltre, il non vedere va sommato al non sentire, perché la musica è suonata sempre a un volume che ti rende impossibile condurre una discussione senza fare una fatica tale che io, per me, ci rinuncio. E non sarebbe neanche peggiore di altri locali, se non si respirasse pure quell’aria di noia elitaria che sembra ricordarti a ogni istante che Questo è un jazz-bar, mica un karaoke. Per suonare qui ci vogliono quattro quarti di nobiltà musicale. Io, poi, odio il jazz. Per me è solo un’accozzaglia random di rumori isterici; e sono pronto a giocarmi qualsiasi cosa che il novanta per cento dei presenti la pensa come il sottoscritto, anche se ci vorrebbe la garrota per farglielo ammettere. Per concludere, stasera suona Max. C’è solo un posto nella mia classifica dei locali da evitare che batte i jazz-bar: le discoteche con dee-jay imbecilli che parlano in continuazione sopra la musica dicendo cose come: «Ci stiamo riscaldando? Adesso facciamo sul serio! Voglio sentire la voce del Popolo della Notte!» Cazzoni. Comunque il punto è che trascorrerò la serata in un bar pretenzioso, in compagnia di gente che mi farebbe bene non vedere per un paio di mesi almeno, ascoltando musica che non mi piace e, per giunta, suonata da Max, con quel suo ridicolo affare di ottone che lui tratta con l’orgoglio e la delicatezza che riserverebbe al proprio pene. In questo stesso momento potrei godere della compagnia di persone che arricchiscano il mio bagaglio socio-culturale, attori shakespeariani, poeti, viaggiatori di professione appena tornati dalla Patagonia, inviati speciali in paesi medio-orientali che mi raccontano dell’ultima volta che hanno rischiato la vita su una jeep presa d’assalto vicino al confine nord-occidentale del Pakistan. Potrei essere a casa a dormire. Invece no. Sto qui. Con i miei amici e colleghi tech, tali e quali a me, da cui non imparerò mai nulla. Uomini e donne che per professione stanno seduti davanti a un monitor a fare calcoli, progettare algoritmi, correggere codici. Gente che può andare avanti per ore a parlare di C++ (il che è mediamente grave), e che è persino convinta che la cosa sia del tutto naturale (il che è gravissimo). I bravi, vecchi, buoni tech. I piccoli dissociati tecnologici, che ieri erano primi della classe sempre guardati con sospetto dai compagni, oggi sono adulti disadattati che raccontano incomprensibili barzellette sui linguaggi informatici (tipo: «Cosa fa un applet di Java su un sito di skinhead?») e si stupiscono quando non ride nessuno, che hanno un Q.I. di trecento ma non sanno usare la lavatrice né rispettare una dieta che non sembri inventata da un dodicenne. Di mestiere progettiamo e realizziamo demo di videogiochi. Wow dicono le ragazze alle feste, quando lo vengono a sapere. Un entusiasmo che dura quindici secondi. Ben proporzionato, in effetti, visto che la parte eccitante del nostro lavoro dura una media di quindici secondi al giorno. Tirato fuori e messo a punto il canovaccio dell’azione di gioco (ossia il lato divertente), il resto è pura noia di programmazione. Ciò che mi spaventa è che a me (a noi tutti) quella noia piace. Mi rappresenta. Ci rappresenta. Tech: la quintessenza della monotonia della modernità. Quello che siamo. Tranne il versatile Max, è ovvio. Tutti qui insieme, appassionatamente. Me la sono anche voluta, nessuno lo nega. Quando Marianna mi ha proposto la seratina, avrei potuto declinare con eleganza, fingere un impegno precedente, simulare un infarto. Il che è proprio quanto mi accingevo a fare, quando la cara ragazza mi ha bloccato con uno sguardo sparachiodi incollandomi alle mie responsabilità di collega e amico. E io, debole, non ho saputo dirle di no. – Dopo quello che è successo oggi, non avrai mica intenzione di defilarti come al solito? Stasera ci sono due compagni di squadra che si aspettano il nostro appoggio –. Quando parla di colleghi, Marianna usa sempre definizioni come compagni di squadra, compagni di viaggio e altri simili, inappropriati appellativi. In qualche modo la disturba il pensiero che ci frequentiamo solo perché siamo pagati per farlo. – Max suona per la prima volta in un club serio e Bella ha passato dei brutti momenti, stamattina. Mostriamo loro il nostro apprezzamento. Cerchiamo di tirar fuori il vecchio spirito di corpo, eh? Di quale spirito di corpo stava parlando? Mica siamo i Navy Seals. Non credo che ne abbiamo mai avuto uno. A meno di non considerare i quintali di posta elettronica deficiente che ci scambiamo o le lotte selvagge per accaparrarsi l’ultimo pacchetto di croccantini al formaggio rimasto in mensa: quello, mio nonno non lo avrebbe chiamato spirito di corpo, ma spirito di patata. Comunque ora che siamo qua, a sprizzare apprezzamento e surrogato di spirito di corpo, Max ci ha appena degnato di un saluto distratto e se n’è andato a parlare fitto fitto con i suoi compari musicisti. – È molto nervoso, ma si vede benissimo che gli fa piacere vederci qui –. Marianna ha tenuto a difenderlo ancor prima che io sbottassi. Immagino che Marianna lo ami. Quanto a Bella di Giorno, non è ancora arrivata e dubito che si farà vedere in giro. – Lo sai com’è fatta Bella, no? – Marianna ci riprova. – Certo che lo so. Dopo essersi applicata i suoi quattordici piercing notturni, sarà andata a distrarsi in una di quelle topaie malfamate che le piacciono tanto –. È per questo che la chiamiamo Bella di Giorno: ama il piercing, ma non abbastanza da portarselo dietro sul luogo di lavoro. Chiunque abbia affrontato il dolore e la paura di farsi bucare pance, nasi, orecchie e altro non perde mai occasione per mostrare come ha cambiato il suo corpo e a che prezzo. Non Bella. Una parte di lei si vergogna dell’altra parte, che prova a sua volta imbarazzo per la prima. Sempre combattuta fra un’educazione bourgeoise e l’istinto post-punk che la porta a farsi aprire spifferi nella lingua e a frequentare postacci davanti ai quali io non avrei neanche il fegato di passare. Se Bella di Giorno fosse un videogioco, sarebbe una fusione fra Dungeons & Dragons e Biancaneve: mistero, spaventosi segreti, e cunicoli sotterranei dentro cui si aggira lo spirito inquieto di una casalinga. – Non puoi fargliene una colpa, – insiste Marianna. – Io no, ma il mio spirito di corpo l’ha presa male. – Idiota! – Lo vedi che sei tu la prima a diventare aggressiva e intollerante quando sei a corto di argomenti? – Il Conte non perde tempo a far sentire il suo dente avvelenato. – Tu fatti gli affari tuoi! – rincara Marianna. – Appunto: aggressiva e intollerante. Sempre ammesso che noi siamo una squadra – come tieni sempre a dire tu – allora anch’io ho il diritto di dire la mia. E secondo me venire qui non è stata l’idea dell’anno. In questo sono d’accordo con Giona. Be’, sì. Mi chiamo Giona. Chi ancora si chiedesse perché non parlo ai miei genitori da sette anni, con questo è accontentato. Tengo a precisare che i miei vecchi non sono testimoni di Geova o Mormoni o frequentatori ad alcun titolo del Libro dei Libri. Non c’è una sola spiegazione decente del perché mi abbiano condannato a questo ergastolo onomastico. All’epoca della mia venuta al mondo non avevano grandi idee in proposito (non ne hanno mai avute su niente, in realtà), e pensavano che «Giona» avesse un suono carino. Gli suonava carino, ai bastardi! Per questo li odio ancora di più. Ci fosse stato almeno uno schifo di spiegazione da dare a tutti quelli che pronunciavano il mio nome come se stessero vomitando: Giona? Ti chiami davvero così? Ma è un nome da sfigati! Adesso potrei cambiarlo, se volessi, ma a che pro? Il danno ormai è fatto. Tutti i traumi del caso li ho già subiti; dai compagni di giochi che mi credevano uno iettatore, alle ragazze che mi scansavano ridacchiando mentre io disperavo di conquistarle. Dopo aver sofferto tutto il soffribile, non mi ribattezzerò certo adesso. Turbe infantili a parte, credo che tocchi a me cambiare discorso. Ken, il nostro unico adulto responsabile, è a casa a prendersi cura della sua famiglia, e a me spetta evitare che il Conte e Marianna si sbranino. Visto che di queste cose non son pratico, adempio con la seguente, inopportuna domanda: – Qual era, poi, la ragione del microdramma di Bella, stamattina? – La sua domanda di ammissione alla Città Perfetta è stata scartata –. Marianna confessa giocherellando col sottobicchiere. – Non sapevo nemmeno che l’avesse presentata. Ci teneva così tanto? – La doppia personalità interclassista di Bella mi stupisce sempre più. – No, è che ogni tanto le serve una scusa per spaccare le sue tazze da caffè e rinnovare il servizio… Certo che ci teneva, scemo! – Se teneva tanto a quella fascistata, allora se lo merita –. Il Conte insiste a cercarsela e, a questo punto, io mi chiamo fuori. – Conte, non ti ci mettere anche tu… Cosa c’entra adesso il fascismo? – sbotta Marianna. – Scherzi? Un progetto che ha il fine di creare la società perfetta operando una selezione degli aspiranti è fascista dalla A alla Z. – Cazzate! Nessuno è obbligato a prendere parte alle selezioni, e se non si viene ammessi non c’è mica il rischio di essere caricati su un treno piombato. – Su questo non giurerei. Magari fra qualche annetto… – E poi la selezione è un procedimento naturale per la conservazione della specie. – Buon Dio! Ma chi erano i tuoi nonni, Darwin e Mengele? Innanzitutto la selezione naturale è naturale solo se avviene in natura, non certo sbarrando le caselle di un test e sperando di imbroccare le risposte esatte. In secondo luogo, se non te ne fossi accorta, uno dei principali risultati del progresso sociale, politico e tecnologico è stato proprio quello di porre un freno alla tua selezione naturale. O forse preferiresti che i bambini delicati crepassero ancora di influenza? E poi chi ha ideato i test? Superman? Dio? Secondo quali criteri vengono corretti? – Sai benissimo che quei criteri sono stati elaborati da professionisti competenti sulla base di principi collaudatissimi. – Ah be’, allora sto tranquillo. Ma dimmi una cosa: chi ha inventato i criteri per selezionare i selezionatori? È un serpente che si morde la coda. – Cos’è, ti brucia che il tuo Q.I. non sia abbastanza alto, o ti dà problemi il Coefficiente di Creatività Potenziale? – Eccoli i tuoi metri di valutazione: Q.I., C.C.P., tabelline anoressiche e parametri idioti. Se si doveva arrivare a questo per giudicare il valore di un uomo, potevamo risparmiarci milioni di anni di evoluzione. Bastava continuare a fare a colpi di clava come ai vecchi tempi. E comunque, se proprio vogliamo star lì a misurarcelo, io ce l’ho molto più grosso del tuo, il coefficiente. Ma non mi sognerei mai di prendere parte a quella nazi-arcadia da due soldi. Tieniteli pure i tuoi ridicoli super-ometti. Già me li vedo, patetici riccastri sessantenni semirincoglioniti e viziati figli di papà a cui i genitori hanno deciso di regalare una vita di marca. Voglio proprio vedere se ai ricchi gliele controllano le dimensioni del quoziente. I potenti sono sempre indulgenti con se stessi. – Complimenti per la volgare regressione misuratrice prepuberale, Conte. – È la società che si pone problemi di dimensione, non certo io. Le prime strombazzate di Max arrivano in tempo a coprire le battute successive, ed evitano il peggio. Lo zenith dell’incazzatura stava arrivando proprio sul tema principe del momento: la Città Perfetta. Sono ormai più di otto mesi che non si parla d’altro. Per strada, alla tele, sui giornali, in rete, sui cartelloni pubblicitari, il bombardamento è continuo. L’attesa è stata programmata con millimetrica precisione dagli uomini di marketing. Cifre di cui non saprei contare gli zeri sono state investite per la realizzazione di questo sogno socio-economico. Un’intera valle è stata acquistata, ripulita, dotata di un microclima a controllo computerizzato; vi sono state costruite case, scuole, ospedali all’altezza dei più elevati valori estetici e qualitativi. Entro un anno dall’inaugurazione, se le previsioni degli analisti sono corrette (e lo sono) verranno fondate un’università e una Borsa valori. Eccola qui la Città Perfetta: aria pulita, cibo pulito, paesaggi non sporcati da cartelloni pubblicitari, un’oasi moderna senza palme, ma con una densità di bancomat per chilometro quadrato da far impallidire la Svizzera. Al momento mancano solo gli abitanti, che arriveranno presto, selezionati fra centinaia di migliaia di richieste in base a rigidi criteri meritocratici: cittadini perfetti di una città perfetta. Non che la città come entità fisica sia l’aspetto più importante della storia: la vera città è quella invisibile, quella fatta di privilegi. Ogni suo residente avrà una corsia preferenziale per qualsiasi servizio possa essere offerto dalla società civile: istruzione, sanità, investimenti, divertimento. A quanto dicono, poi, la C.P. è anche un esperimento sociale a lungo termine: si spera che nell’arco di tre quattro generazioni possa rappresentare un fattore di inversione di tendenza, nonché la definitiva dimostrazione della teoria secondo la quale chi ha una vita migliore diventa un uomo migliore. Un baluardo contro il decadimento e la spinta autodistruttiva della nostra società (cito da una delle tante brochure che si trovano in giro). Una specie di comunità ecologica di pseudogeni con lo stile yuppie al posto di quello hippie, e tutto quel che consegue. Tipo Amish capitalisti, o una di quelle sette religiose dedite alla trasmigrazione su Andromeda, ma con il private banking al posto del suicidio di massa come mezzo evolutivo spirituale. Per quanto mi riguarda, non ho ancora un’opinione precisa in merito. Il tutto mi sembra una via di mezzo fra una grossa beauty-farm e una nuova carta di credito extralusso. Ammetto però che, sotto luci appropriate, questo affare assume contorni sinistri. La cosa irritante, oltre al martellamento continuo, è che i genietti del marketing della C.P. hanno preso al balzo le polemiche sulla sua etica e democraticità (polemiche della stessa natura di quella fra Marianna e il Conte), e ci hanno costruito su spot autoironici e grotteschi per depotenziarne l’effetto e spezzare le gambe ai critici. Autoironia in pubblicità: l’ultimo salutare tabù sgranocchiato dai denti instancabili dei copywriter. Il locale adesso è immerso nell’ombra, a parte le luci che inondano il palchetto dove Max si contorce sudando attorno alla sua dorata estensione sessuale. È la prima volta che lo vedo sudare e lo spettacolo, devo dire, mi piace parecchio. Al termine della prima parte del concertino (chiedo scusa: della session), gli applausi più forti, com’è giusto, arrivano dal nostro tavolo. Applaudo anch’io, la mia coscienza perdoni, vedendolo dirigersi ansante e disidratato verso di noi. Rifiuta i complimenti eccessivi che gli rivolgiamo, trangugia d’un fiato una birra (suonare secca il palato), e attacca. – Avete saputo di Bella, vero? Che assurdità! – Per quieto vivere incenerisco il sorriso beffardo del Conte con un’occhiata. – Aveva tutti i numeri giusti. Chi meglio di lei, dico, chi… – La sua lingua, ancora intorpidita dal sassofono, incespica di continuo nebulizzando cirrocumuli di saliva tutt’intorno. – Se ne parlava proprio adesso, – dice Chiara, neutra come al solito. – Dev’essere stata quella sua mania idiota per il piercing; avrà influito sulla valutazione del suo profilo psicologico. – Andiamo, Max! Cosa vuoi che gliene importi dei piercing? Non l’avranno nemmeno saputo. – Loro sanno tutto, Marianna, devono sapere tutto… E tutto è importante. Ecco qua, ci mancava solo una dose di 1984. Cerco di spezzare la tensione a modo mio: – Ehi, sapete cosa fa un applet di Java su un sito di skinhead? Sta zitto, sperando non si accorgano che è extracomunitario. 4. L’umore di Ganimede non migliorò di certo scrutando allo specchio ciò che di lui rimaneva dopo i misurati bagordi della serata conviviale al club (misurati è proprio il termine, visto che trattavasi di quattro tisici rustici mignon a testa e un bicchiere di bianco inconsistente, il tutto consumato all’impiedi o, peggio ancora, poggiando il culo in pizzo a una di quelle assurde sedie con cui strapagati designer pretendono di rimodellare il posteriore di chi se lo può permettere). Proprio questo pensava Ganimede, massaggiandosi il fondoschiena: Io mi posso permettere di pagare spropositi per cenare male in un club esclusivo e farmi venire le fistole al culo a causa di costosissime sediacce che il comitato direttivo ha acquistato con la mia quota annuale. E allora? Cosa ci guadagno, a parte le emorroidi? Il bufalone in abito da sera stropicciato borbottava così, indagandosi le occhiaie violacee e i preoccupanti capillari rosso acceso che sempre più spesso ormai gli spezzavano il cuoio uniforme delle guance. Dallo specchio si mosse alla tazza, dove pisciò via il vino ingurgitato. Con lentezza venne fuori dal bagno e attraversò l’ampia camera da letto, affacciandosi sul corridoio. Stanze enormi, soffitti alti, corridoi larghi il doppio di quello che serve, spazio per la vista più che per il corpo: questo il suo ideale di casa. Un ideale alla fine realizzato con maniacale precisione e cura dei particolari, ma anche con irreparabile ritardo. Infatti Mariella, la sua dolcissima, la sua silfide meravigliosa, la sua musa, la sua voglia, la sua delicata compagna, la sua metà (o, meglio, metà della metà) lo aveva lasciato per sempre. Un male carogna se l’era portata via poco dopo che l’ultima tenda di mussola era stata messa su. Magra come la volontà, nell’ultimo periodo si sforzava di condividere l’entusiasmo di suo marito per i restauri e per la scelta di oggetti e tessuti. Un entusiasmo che Ganimede aveva smarrito strada facendo nelle pieghe della sofferenza di lei, nel suo sguardo sempre più acquoso, nel grigio innaturale di una pelle morente. – Ti spaventerai la mattina che al risveglio ti troverai accanto una morta? – Lei lo prendeva in giro ridendo piano, e con lui prendeva in giro se stessa, in un atto estremo di protesta beneducata. Alla fine doveva essersi ricordata delle proprie parole, perché quell’ultima mattina, allungando una mano nel torpore caldo delle lenzuola, Ganimede strinse il vuoto. Poi strinse uno stupore assonnato, poi strinse una rabbia muta, infine strinse una umana impotenza. Affacciandosi al bordo, la vide rannicchiata ai piedi del letto, piccolissima e tenera, persa nella camicia da notte troppo larga. Calma. Doveva aver sentito l’ospite ingeneroso e puntuale arrivare, e nel buio aveva scelto – era una scelta, la compostezza della sua persona lo rivelava – di scivolare fuori dalle coperte e dalla vita in silenzio, distesa su un fianco, avvicinando le ginocchia al petto e con una mano a proteggere la guancia dal pavimento. I fili delle flebo staccati e penzolanti, come un paracadute vuoto, impigliato sui rami di un albero. Rimase a guardarla per un pezzo: gli sembrava così tranquilla e graziosa da aver paura di toccarla. Una prefica di paese l’avrebbe detta «una bella morta». Lui non disse nulla, ma conservò uno strano ricordo dolce di quel momento. Grattandosi la testa, camminò accompagnato dal suono incerto dei propri tacchi, che rimbombavano nel corridoio troppo spazioso. Non calzava mai pantofole: le considerava un’offesa alla propria dignità professionale. Scese le scale accarezzando il corrimano di mogano, solcò i tappeti del salotto inglese e attraversò lo studio dalle incombenti librerie zeppe di volumi intonsi – «la mia meravigliosa stanza inutile», lo chiamava. Poi si fermò per qualche attimo a guardare il giardino d’inverno. E qui Mariella di nuovo lo raggiunse. Lui: – Bello il giardino d’inverno… ma non sarà un po’ troppo… Lei: – … da parvenu? Lui: – Eh! Lei: – A te piacerebbe? Lui: – Sì, ma… Lei: – E allora cosa te ne frega? Grazie ancora per il giardino, pensò Ganimede, avviandosi verso la camera della figlia. Spinse piano la porta e, man mano che la luce avanzava nella stanza, venne investito dal rosa patetico della tappezzeria. Quello era l’unico ambiente che non incontrava il suo gusto: una specie di casa delle bambole, tutta tulle e accessori cretini in costante disordine. Ma che farci? Alla bambina piaceva. La bambina, Dorotea, stava dormendo placida nel suo lettino, che, incurvato ai limiti del cedimento strutturale, gemeva sinistro a ogni volgersi della ragazza. Piccola, in realtà, Dorotea era rimasta solo nella mente di Ganimede che insisteva, con paterna capacità di mentire a se stesso, nel vederla sottile, riconoscendo in lei le lievi fattezze della madre. A ventiquattro anni, la piccola misurava uno e settantaquattro per ottantacinque chili al mattino prima di colazione. Ma si sa, un padre… Sul petto di Dorotea, che andava su e giù con regolare borbottio di motore diesel, si affacciava l’unica macchia scura di quell’ambiente: un poster a grandezza naturale di Daryl Domino, l’idolo assoluto di lei e di migliaia di altri come lei. Era uno strano incrocio fra un chitarrista rock e un predicatore, ma a Ganimede sembrava solo uno straccione con un nome difficile da ricordare. A Dorotea però piaceva, e poi bisognava ammettere che quel tizio aveva qualcosa… qualcosa di non ben definito, ma di sicuro qualcosa. Ritornando a vegliare il sonno della piccola e la sua espressione di ottusa serenità, Ganimede ripensò alla duchessa Severa Maria delle Erinni e alle sue figlioline harvardiane e al know-how e a tutto il resto. Venne così di nuovo sopraffatto da uno spasmo colpevole, una colica di rimorso per la propria inettitudine di padre imprevidente. Uscì a passo di marcia dalla stanza, costeggiò, senza quasi degnarlo d’uno sguardo, il giardino d’inverno (scusa, Mariella), e si diresse nello studio. Sedendosi dietro l’enorme scrivania notarile, poggiò la mano sulla cornetta del telefono e ristette qualche attimo con lo sguardo fisso nel nulla, a pensare. D’un colpo compose il numero di Thomas Cardoni, suo segretario particolare, il quale all’ottavo squillo sibilò nel ricevitore un’impastata via di mezzo tra un «pronto» e un «vaffanculo». – Ciao Cardone, sono io. Scusa per l’orario ma ti devo chiedere un paio di cose. – Ingegnere! Buonasera, non si preoccupi non dormivo affatto. Dica pure –. Tommaso Cardoni, ribattezzatosi Thomas (per oscuri motivi), detto da Ganimede «il Cardone» (per motivi lampanti), affetto da una grave forma di servilismo opportunistico, nonché primo e unico pretendente della piccola Dorotea, si ostinava (anche alle due di notte) ad apostrofare il suo capo «ingegnere». Non si era mai accorto che la cosa, più che lusingare Ganimede, lo faceva incazzare: giusto lui, fiero dei suoi due anni persi in baldorie all’istituto tecnico, ingegnere proprio no! – Non chiamarmi ingegnere, sai benissimo che non sono neanche diplomato. – Mi scusi ing… – Zitto! Rispondi solo alle domande, che è già tardi senza bisogno dei tuoi vaniloqui. – … – Bene così. Numero uno: ti ricordi che domani devo incontrare l’incaricato del ministero della Difesa per il rinnovo del contratto triennale di fornitura di stivali anfibi per l’Esercito? – Certo ing… signore, proprio oggi ho ricontrollato la pratica e posso assicurarle… – Non c’è bisogno che assicuri. Ho già assicurato abbastanza io pagando lauti premi assicurativi al sottosegretario. Tu posticipa; posticipa almeno di un paio di giorni, anzi, facciamo una settimana. – Ma mi sembrerebbe più opportuno chiudere… – Posticipa! – Bene signore, e cosa devo dire? – E io che ne so? Inventa una scusa, fai lavorare la fantasia, giustifica il tuo stipendio! – Giustificherò, signore. – Numero due: ti risulta che quella fabbrichetta di scarpe di cartone che ci voleva soffiare il contratto tre anni fa sia una società «figlia» della holding del vecchio Morgan? – Mi risulta. – E l’amministratore delegato di questi scarpari da due soldi; quello col nome ridicolo… – Celso Grande. – Appunto. Il caro Celso non è una specie di figlioccio di Lorenzo Morgan? – Sissignore: il vecchio non ha eredi e lui lo marca stretto. Si dice che sia suo figlio naturale. – Bene. Fissami per domani un appuntamento con Celso… Devo chiedergli un favore. 5. Come prima cosa, la mattina devo lavarmi i denti. Fondamentale farlo prima di colazione, o tutta la giornata avrà lo stesso schifoso sapore di pollo bollito. Seconda cosa di un buon giorno sono i pantaloncini. Adoro i pantaloncini. Credo che se non potessi andare a lavorare in pantaloncini cambierei impiego: devo stare comodo, io. Se no, ragiono male. Non è una questione di stagione o di temperatura, perché li porto anche d’inverno. Per sviluppare una concentrazione adeguata ho bisogno di avere le gambe fresche e libere, di potermi grattare i polpacci e tiracchiare i peli. Si potrebbe pensare che io sia un feticista delle mie gambe (potrebbe anche essere vero: ho delle gambe bellissime), ma il punto è che mi piace il contatto con l’aria. Per questo vado a lavorare e in genere mi sposto in bicicletta. L’aria. Il vento (caldo, freddo, temperato) che mi stimola i recettori; quel soffio di mondo che filtra sotto l’orlo dei bermuda e mi fa respirare l’interno coscia. Ci sguazzo, io, nel traffico delle otto, a schizzare fra le macchine, bardato col mio caschetto di polimeri e gli occhiali gialli. Certo, respiro anche i gas di scarico e le puzze più svariate e cancerose che una città possa offrire, e allora? Mi piacciono i boulevard intasati: sono vivi. Solo ciò che è vivo è sporco. Di sicuro non sono uno che si fa le gite pedalando la domenica in collina. Silenzio, salite e sudore non sono per me. E poi non potrei, perché la mia bici non ha i rapporti. La prima modifica che ho preteso quando l’ho comprata è stata l’eliminazione dei rocchetti. Non voglio nessun demoltiplicatore di realtà, almeno fino a quando arrivo in ufficio. Pedalare e basta, in pianura se possibile e con molta gente attorno, questo mi va bene. Dovevo dunque capire subito l’andazzo della giornata dal suo fetente inizio. Driiiiiin cacchio la sveglia no è ancora presto allora il telefono, pronto? nemmeno quello allora che… la porta dev’essere la porta… La porta? Chi si permette di suonare a quest’ora a casa mia ora gliene dico un paio che… Max! – Di’ un po’, vieni sempre ad aprire in mutande tu? – Nessuno che bussi alla mia porta a quest’ora merita di meglio. – Hai ragione, chiedo perdono. Posso entrare? – mi fa, mentre, passandomi davanti, si siede sul divano. Dico, cosa chiedi il permesso se poi non aspetti la risposta? – Siediti pure, caro! – Battuta inutile: fare del sarcasmo con Max è come spiegare il Rinascimento italiano nello spogliatoio di una squadra di hockey. Già comodo sui cuscini, mi guarda come se fossi una specie di idiota. Il che è vero, ma non della specie che crede lui. – Senti questa, mentre venivo qui mi è venuta in mente una storia nuova per la Donna del Mistero: è l’unica erede di un enorme impero economico, ma è svanita nel nulla quando ha scoperto che il suo avido zietto la voleva far fuori per beccarsi tutta la torta. Che ne dici? Potendo lo strozzerei, ma non ho le qualità fisiche e morali per farlo, dunque rispondo: – Naaa, banale, già visto, senza ironia. Ma non mi dirai che mi hai svegliato a quest’ora per parlarmi della Donna del Mistero? Scrolla le spalle e abbassa la testa, assumendo un’insolita, ma sempre stupida, aria seria. – Ti devo parlare. Se ce la fai a vestirti in fretta, ti offro la colazione in un posto che conosco… A proposito, per una volta vedi di mettere qualcosa che ti copra anche i polpacci. Oggi vengono gli Assorbenti in visita, e dobbiamo sembrare tutti maturi e affidabili come fondi d’investimento trentennali. Mi ero quasi dimenticato che oggi riceveremo una delegazione di cacciatori di teste incaricati dalla Morgan Holding di valutare la convenienza dell’assorbimento della nostra piccola compagnia. Per questo li abbiamo ribattezzati «Assorbenti». I soloni della finanza che decideranno se siamo vendibili, e dunque degni di essere ricoperti di soldi, o se siamo insignificante paccottiglia informatica dell’ultima e già scaduta generazione. Sembra però che questa faccenda ci stia un po’ sfuggendo di mano: insomma, chiedermi di rinunciare ai pantaloncini! Non essendo, comunque, un’anima polemica, pesco dal fondo dell’armadio un paio di calzoni lunghi coloniali pieni zeppi di tasche, e li indosso. Il risultato, a giudicare dalla sua espressione, non incontra il gradimento di Max. – Okay, sono un po’ sformati, ma non chiedermi di più! – lo prevengo. Per far prima rinuncio anche al mio lavaggio di denti standard, per il quale impiego dai quindici ai venti minuti consumando uno spazzolino alla settimana (sono abituato così), e questo è già il secondo sacrificio da quando ho aperto gli occhi trecento secondi fa. – È inutile che tu prenda la bici, ti do un passaggio io: ho la macchina. Qui si esagera. Rannicchiato dentro la trappoletta sportiva a due posti che Max guida concitato nel traffico, ringrazio il Padreterno di essere ancora a stomaco vuoto perché, se così non fosse, fra l’andatura a strattoni e il dopobarba al sandalo del mio amico gli dipingerei un Jackson Pollock di vomito sugli interni in pelle. Il bar dove mi porta a far colazione è uno di quei localetti col complesso di superiorità, arredati come un aeroporto cubista, che recano in menù voci tipo European Breakfast (uova e pancetta con pane e marmellata), Piatto arabo del giorno (cuscus in scatola sette giorni su sette) e l’immancabile Fantasia del Cuoco: secondo la ricetta segreta del nostro chef (ovvero un orrido poltiglione di tutti gli avanzi raschiati in cucina il giorno di pulizia settimanale). Max è il classico soggetto che si orienta verso la Fantasia, non prima di aver rivolto al cameriere un ammiccante Lei cosa dice, me lo consiglia? Mi fido di lei, eh? Quale micidiale processo di autostima scatta in chi, come Max, è certo di ricevere un trattamento di favore al ristorante solo perché sfoggia dieci secondi di democraticità paternalistica facendo il simpatico col cameriere durante l’ordinazione? L’aneddotica degli inservienti dev’essere piena di fregature rifilate a babbei con velleità interclassiste da cocktail. Io mi limito a ordinare una Insalata di frutta (macedonia). Davanti alla sua indefinibile porzione di Fantasia del Cuoco, Max comincia a confessarsi. – Sono preoccupato, Giona, sono molto preoccupato… – Perché? – Non so da dove cominciare. Cristo, sai bene come sono fatto io! – Purtroppo. – Un carattere aperto, amicone di tutti, generoso di me stesso. Per un amico, guarda, per un amico mi farei… mi farei… – e qui gli mancano le parole perché, dall’alto della sua generosità, non riesce proprio a vedere nulla che gli garberebbe sacrificare sull’altare dell’amicizia. – Insomma, hai capito. Ma quando si tratta di me, di condividere i miei dubbi e le mie paure, ecco, divento buono a niente. Fa un’espressione strana, e per un attimo temo si sia accorto che mi scappa da ridere, ma è solo un falso allarme: è assorto, ispirato. – Quand’ero piccolo mi piaceva Zorro. Lo adoravo. E a me? – Nascondersi dietro una mascherina e una spada di plastica, e sentirsi invincibili… Bei tempi. Mi ha sempre attratto la semplicità di Zorro, sai? Altro che robot giapponesi. Sì, ma a me? – Quel suo essere essenziale e completo al tempo stesso. Niente sovrastrutture né ipertesti. Un archetipo. Una forza elementare indomabile, racchiusa in una simbologia povera ma di grande potenza evocativa. Cappello nero, mantello nero, maschera nera, cavallo nero, spada lucida: tutte qui le sue icone. Incommentabile. – Nessun altro eroe manifesta in modo così chiaro l’urgenza di liberarsi dagli innumerevoli diaframmi che separano l’uomo dalla sua volontà primaria… Forse solo Tarzan si spinge più in là, ma crescere in mutande in mezzo ai gorilla per me è davvero troppo. Va bene spogliarsi della complessità degli schemi, ma non sarei mai riuscito a lasciarmi andare fino a quel punto. Prego solo che dai tavoli vicini non ci stia ascoltando nessuno. Forse dovrei picchiarlo. – Conosci la mia famiglia, Giona? Hai una pallida idea di che razza di ambiente mi abbia tirato su? Mia madre è la più buona, gentile, premurosa donna che si possa incontrare. Mi ha insegnato lealtà e tolleranza, mi ha infuso coraggio e ha sempre creduto in me, senza mai chiedere niente o caricarmi di responsabilità. Mio padre (Dio l’abbia in gloria), prima di venir eletto senatore è stato uno degli architetti più geniali e innovativi del Paese, e molte delle sue opere resteranno per secoli a memoria della sua grandezza. Devo proprio dirti, poi, che sono sempre stato il primo della classe, finalista cinque volte su cinque alle olimpiadi della matematica? Devo dirti che dai sei ai diciotto anni ho vestito la fascia di capitano della squadra di calcio della scuola? Che ho avuto sempre, ma proprio sempre, un successo soprannaturale con le donne? Mi sto innervosendo appena. – Fortunato, diresti. Fortunatissimo, cazzo, fortunatissimo. Irrimediabilmente fortunato, questo è il guaio. Mai niente di quello che ho avuto mi sono potuto godere. Fino a dodici, tredici anni era solo un’indefinita macchia di colore più scuro sullo sfondo, ma poi ho capito. E ho capito grazie a Zorro. Ah, ecco. – Desideravo, volevo essere come lui. Me lo sognavo anche. In principio erano sogni niente male, ma poi, proprio verso i dodici anni, il Sergente Garcìa cominciò a rovinarmeli. Mi guarda ammiccando, come se la cosa fosse ovvia. – Il Sergente Garcìa, capisci? Il più innocuo dei nemici di Zorro. Nemmeno un vero nemico, direi, ma una macchietta, l’intermezzo comico che smorza la tensione del racconto. Cominciò a farla da padrone nei miei sogni. Terrorizzava Zorro, lo umiliava davanti a tutti, lo irrideva. E io ne risentii anche da sveglio, quando giocavo. Non mi mettevo mai il mantello senza prima controllare che non ci fosse in giro il terribile Garcìa. Ero diventato l’unico Zorro del mondo che se la fa addosso davanti a un panzone coi baffi. Molto poco divertente. Fu lì che il velo cominciò a cadere. Nessuno Zorro può temere il Sergente Garcìa, nessuno. A meno che il Sergente Garcìa non rappresenti qualcos’altro… Mi segui Giona? – …? – Il Sergente Garcìa è il destino. L’intima, burlesca certezza che prima o poi le cose si metteranno male… e io non potrò farci niente. Quel giorno il Sergente Garcìa ballerà con la fidanzata di Zorro in mezzo a due ali di folla acclamante. In tutto il suo fulgore, ecco il mondo interiore di un cazzone. – Questa non è angoscia, Max, si chiama fifa, – generata dalla mente contorta di chi non ha mai avuto un cazzo di problema in vita sua, vorrei aggiungere. – Come vuoi tu, ma tutta la fortuna che ho avuto finora, l’innaturale stato di grazia in cui vivo da sempre, dovrò pure pagarlo, a un certo punto! Amerei che fosse così, caro, ma quelli come te non sono mai chiamati a rendere il conto. – Scusa, ma perché ne parli proprio adesso? – E PERCHÉ, CRISTO SANTO, PROPRIO A ME? – Mi sa che il momento è arrivato. L’ufficiale giudiziario sta per bussare alla mia porta, entrerà e pignorerà tutto quello che trova –. Compreso il mantello da Zorro, immagino. – E chi sarebbe l’ufficiale giudiziario, secondo te? – Gli Assorbenti, no? Quei fighetti odiosi che oggi gironzoleranno in mezzo alle nostre workstation, come se si trovassero fra gli espositori di un supermercato. Attenti a separare ciò che per loro è buono da ciò che non lo è… – e che magari lo sarebbe stato se tu avessi lavorato come Dio comanda, mi viene da dirgli. – …a stare appresso alla loro ingordigia compulsiva da insetti. È una storia che non mi piace per niente. Se gli va, faranno un boccone della nostra compagnia, la masticheranno fino a ridurla in pezzi e rivenderanno i cocci. E se anche non dovessimo finire in mezzo a una strada, ci toccherà vivere e lavorare ai loro ritmi. Perderemo l’indipendenza, l’impronta del nostro gruppo, lo spazio che avevamo ritagliato. Il nostro stile, direi… è triste. – Secondo me la fai troppo drammatica. Nessuno nega che siano ingordi, affaristi e un tantino laidi, ma cosa guadagnerebbero a comprarci per poi distruggerci e rivendere i pezzi? Non abbiamo molto da rivendere, no? Non varremmo neanche lo sforzo, per gente ricca come quella. Per come la vedo io, invece, ciò che li interessa – sempre che li interessi davvero – è l’unicità di quanto produciamo, il che è frutto del come lo produciamo. E se gli piacciono King Kaleb III (nonostante quegli imperdonabili difetti di programmazione), o Aloisius Starr e Wiz at Trivia, ci lasceranno continuare col nostro sistema. Se invece non gli va giù come lavoriamo, non credo che faranno affari con noi. Insomma Max, rifletti: noi non facciamo scarpe o mattoni o circuiti elettrici o che so io. Noi progettiamo e realizziamo videogiochi, elaboriamo qualcosa che è frutto delle nostre capacità, ma soprattutto della nostra creatività, e dunque dei nostri gusti, di quello che mangiamo o beviamo, di quello che guardiamo in Tv. In due parole del nostro stato mentale. Agli Assorbenti non conviene affatto cambiarlo. Perciò rilassati, non finiremo a cantare l’inno della Compagnia due volte al giorno con la mano sul cuore, se è questo che ti spaventa. – Se ho capito bene, mi stai dicendo che siccome facciamo un lavoro (Dio mi perdoni) creativo, loro non cercheranno di modificare le nostre condizioni di operatività. È così? – Esatto. – E anche se un nostro programmatore molto valido fosse, mettiamo, alcolizzato, loro pregherebbero perché lo rimanesse in eterno. – Puoi giurare che lo rapirebbero e gli pomperebbero alcol etilico nelle vene, se dovesse mai convincersi a smettere; lo obbligherebbero a scrivere codice con una flebo di Johnny Walker attaccata al braccio, se fosse necessario. – Cristo Giona, sei un vero mago a tranquillizzare la gente. 6. «Dev’essersi rincoglionito del tutto», pensò Celso Grande appena uscito dall’ufficio di Ganimede Borsch. La stanza era così piccola e arredata con oggetti talmente minuscoli e delicati, da far apparire Ganimede ancora più enorme di quanto non fosse in realtà. Il colosso aveva continuato durante tutta la discussione a giocherellare con un fermacarte di cristallo molato, che sembrava dovesse frantumarglisi fra le spesse dita da un momento all’altro. Frammenti e scaglie di vetro si sarebbero posati su ogni cosa, come tagliente polvere di apocalisse. Su ogni cosa, tranne, manco a dirlo, su Ganimede, il quale era troppo coriaceo perfino per il Giorno del Giudizio. Sarebbe stato un giorno come tutti gli altri per lui, appena un po’ più faticoso, forse. Se ne stava lì, quel concentrato di energia elementare, plasmato in una tozza massa di carne scura e compatta, seduto su una poltroncina che per magia spariva sotto la sua mole, regalando l’illusione ottica di un’improbabile levitazione. Galleggiando così, dietro lo scrittoio di ciliegio e pelle amaranto, Borsch, lo squalo del mercato calzaturiero, il virtuoso della pelle martellata, l’audace ma concretissimo tattico del cuoio lavorato a fini pedatori, gli aveva fatto balenare davanti agli occhi e al portafogli il miraggio di un ghiottissimo affare. Il più succulento e apparentemente vantaggioso che fosse mai capitato a Celso in tutta la sua carriera. La testa di Celso Grande rimbombava dei rumori di uffici e corridoi percorsi a ritroso, ubriaca di voci, tacchi di segretarie e insulse musichette d’ascensore. Davanti agli occhi gli volteggiava un’unica parola senza peso, ultima boa di soccorso nel mare di frastuono. Una voce piatta continuava a ripetere sempre la stessa sequenza di fonemi, rivelata nella ridondanza di un avverbio: apparentemente. Stava scritto su tutti i muri, ora che ci faceva attenzione, sulle targhette delle porte e in calce a ogni lettera commerciale che gli era capitato di sbirciare in quel palazzo. Apparentemente. Apparentemente vantaggioso, apparentemente facile, apparentemente un affarone, apparentemente folle. Ganimede Borsch si impegnava a cedere in subappalto alla società di Celso Grande l’intera commessa per la fornitura di stivali e accessori in pelle e cuoio alle Forze armate, una vera e propria manna benedetta dal marchio dell’Esercito. Il tutto in cambio di una piccola intercessione presso il suo potente padrino Lorenzo Morgan. Una cosa da nulla che mai avrebbe potuto pareggiare i piatti della bilancia. Decisamente, incredibilmente, apparentemente folle. Solo apparenza poteva essere, infatti, quella che gli mostrava il confine di una grande occasione senza prospettargli alcuna traccia di dogana. Doveva esserci un trucco, qualche informazione o dettaglio decisivo che gli sfuggiva. Mentre l’ascensore scivolava verso il basso, Celso vagliava diverse ipotesi: possibile che Borsch non gli volesse chiedere altro che quel trascurabile favore? Che non ci fosse proprio niente di più? E se fosse stato uno scherzo? No, no, quello non era il tipo d’uomo che perdeva tempo in simili scherzi. Chi lo era, del resto? Forse lo Stato maggiore dell’esercito aveva deciso di far marciare i propri soldati a piedi nudi, o magari di dotarli di calzature costruite in qualche assurdo costosissimo materiale, imposto da quelle tecnologie spaziali del cazzo per le quali sembrava ormai vitale produrre pantaloncini da mare come se si dovessero affrontare sessioni di bagni solari su Venere. No, non aveva alcun senso. Gli alti papaveri militari sono legati alla tradizione come un bambino di tre anni lo è alla propria cacca. Si ricordava ancora che durante il suo servizio militare (volontario in accademia, ovvio) gli avevano fornito un demenziale zaino da combattimento zeppo di cinghie, la cui funzionalità appariva ferma a un brevetto di guerra del 1915. Certo, non sarebbe stato affatto male svecchiare l’equipaggiamento bellico inserendo qualche nuovo accessorio. L’apertura recente al sesso femminile, a esempio, spalancava orizzonti nuovi di zecca. Si poteva riproporre il portagioie da campo in scamosciato lavabile che era stato bocciato insieme all’intero pacchetto della sua offerta di tre anni prima. O magari qualcos’altro, tipo un portacaramelle balsamiche in cuoio per il corpo paracadutisti, un salvarossetto in pelle e inserti d’argento per le truppe d’assalto, chissà… Magari, dopotutto, Borsch non aveva bluffato. Ciò che a Celso sembrava futile, poteva invece risultare di cruciale importanza per il suo concorrente. Le vie del profitto sono spesso tortuose, accidentate e oscure. L’offerta, anche sotto questa nuova luce, rimaneva sproporzionata, ma lui non avrebbe accontentato Ganimede per niente di meno. Questo lo sapevano entrambi benissimo, e una simile osservazione rendeva, forse, l’intero affare più plausibile. Per qualche motivo che Celso non riusciva a capire, Ganimede Borsch voleva una cosa che solo lui poteva assicurargli: una posizione che poneva il grosso imprenditore alla mercé del suo piccolo avido avversario. Borsch non si era però scoraggiato, anzi sembrava pronto a pagare senza battere ciglio… Tutto sommato era il caso di sfruttare la situazione, concluse Celso con un sorriso affilato e lupesco, mentre veniva fuori dal parallelepipedo opaco che racchiudeva la sede amministrativa dell’azienda di Borsch. Camminando attraverso la grigiomeccanica animazione del distretto degli affari, Celso si sentì possente e leggero. D’istinto portò la mano a stringere le due sferette di pelle di bufalo che teneva sempre in tasca e sulle quali stava scritto l’elegante motto «Strizza le palle al tuo avversario!» Strizzando con pacata fermezza, si diresse verso la Morgan Tower, a operare presso il grande vecchio una piccola intercessione. 7. – Dovevate vedere la faccia di Ken! Ommadonna, dovevate proprio vederla mentre il Conte mostrava agli Assorbenti gli algoritmi del salvaschermo del suo cellulare spacciandoli per un rivoluzionario gioco di ruolo. E gli imbecilloni impomatati ad abbassare la testa come capre, fingendo di capire tutte quelle scemenze! Il Conte avrà pure difetti da riempire una discarica, ma potrebbe tenere una conferenza alla Bloomsbury Group Society su T.S. Eliot senza averne mai letto una riga, e lo applaudirebbero pure. Campione mondiale assoluto di faccia di culo. Recitava cazzate assurde come se fossero puro vangelo, mentre Ken gli rivolgeva smorfie e occhiatacce tipo testa di minchia se non la smetti ti taglio la gola. – Facevano pure delle domande, gli stronzi. Hanno chiesto proprio a Ken di commentare gli interessanti spunti del suo collega, e lui si è dovuto inventare balbettando non so che storia sull’ottimizzazione della risoluzione grafica e blablabla. Mi stava scoppiando la pancia per tutte le risate che ho dovuto inghiottirmi. Gesù, quelli credono che dot com sia l’abbreviazione di dottore commercialista! Mentre Max, divertito e già dimentico delle angustie confessatemi stamattina, racconta la sua microavventura di accompagnatore della delegazione di Assorbenti nel magico mondo ipertecnologico della nostra Compagnia, Ken lo avvolge con quel suo tipico, benevolente sguardo di rimprovero. Ken è il nostro papà, il nostro mentore, l’uomo dotato della lungimiranza e iniziativa necessarie a tirar fuori ognuno di noi dalla melma personale in cui si era seppellito, per portarlo a lavorare qui. Ken ha sufficiente talento per capire ciò che funziona o non funziona nel mondo dell’intelligenza artificiale, ma non così tanto da rimanere un teorico privo di senso organizzativo imprenditoriale (tipo noi). È l’unico che può farci da manager perché, oltre alle sue indiscusse doti di rompipalle responsabile, ha dieci anni più di noi, il che lo rende un capo perfetto: ancora solidale e in grado di capire le nostre esigenze, ma già abbastanza démodé da rendersi appena ridicolo e dunque, come capo, molto più apprezzabile e rilassante. Inoltre, ha la moglie più bella che abbia mai visto (ho visto qualche ragazza bella come lei, ma mai nessuna moglie). Se avesse l’abitudine di indossare orrendi vestiti di lamé e di guidare un sinuoso spider rosa, sarebbe identica a Barbie. Per fortuna sembra preferire jeans e mezzi pubblici, e la sua conversazione si attesta su livelli più alti di: «Ciao ragazzi, ho appena finito di giocare a tennis, vi va di prendere un tè freddo in piscina da me?», che immagino sia il livello standard di Barbie. È a causa sua che chiamiamo Ken Ken, il quale, in realtà, non si chiama affatto Ken. Ormai il suo vero nome compare solo in calce alle lettere commerciali, e nessuno di noi si sognerebbe mai di ripeterlo, perché da quando fummo abbagliati per la prima volta dalla visione della sua splendida Barbie, lui venne all’unanimità ribattezzato (e per sempre rimarrà) Ken. Se fosse un videogioco? Tetris al cento per cento. Mettere ogni cosa al posto giusto è il suo scopo; a prima vista sembra noioso, ma quando ti ci abitui non puoi più farne a meno. Oggi, Max (che è senza discussione il più bello di noi) e Ken hanno illustrato agli Assorbenti le nostre inesauribili (?) potenzialità, portandoli in giro per le cinque stanze in affitto dello scatolone di cubicoli-ufficio che ospita la nostra società. La nostra società si chiama «Simpliciter», e tutto ciò che facciamo con essa è ideare-progettare-realizzare videogiochi. Tocca dirlo a voce bassa perché non dà grande idea di rispettabilità. Per chi abbia passato l’età del sollazzo per il sollazzo – un’età che può scorrere avanti e indietro con ampia escursione lungo il righello della vita, e non mi sognerei mai di fissarla con una puntina da disegno al tavolo da lavoro – esiste una bella varietà di definizioni per i frutti delle nostre fatiche. Tutte negative, le definizioni. Anche fra i molti che non disdegnano le avventure virtuali smanettando su una consolle, si cerca di ostentare un certo distacco. I videogiochi: tutti li conoscono, molti li usano, nessuno ne parla bene (a parte qualche freak e rivista freak). Ammettere che l’homo sia ludens prima che sapiens, non si può. Come gli uomini di buona volontà si riferiscono ai videogame le poche volte che ne parlano con smorfia di disgusto disegnata sul labbro superiore: rubatempo allo studio, custodi cattivi dell’epilessia, vera piaga del nostro tempo, responsabili del generale cretinismo giovanile, dispensatori di maldimare e malditesta, dove arriveremo mai, fra un po’ si farà così anche al cinema e allora addio, fabbrica di dissociati, consolazione di disadattati, istigatori alla violenza. Potrei continuare per altre due pagine senza sforzo; quando uno di noi si imbatte in un nuovo lusinghiero epiteto riferito ai giochi elettronici, se lo segna e lo comunica agli altri. Abbiamo un file apposito dove li trascriviamo tutti, ed è di grandezza sorprendente per essere un file di scrittura. Non che ci importi molto, del resto, anzi. Il nostro lavoro ci piace, e il fatto di essere invisi alla benpensante maggioranza è pur sempre una soddisfazione. I nostri più grandi successi: Aloisius Starr, il primo lavoro, il più amato. Un adventure storico. Un viaggiatore nel tempo, attraverso diciannove livelli, visita diciannove differenti epoche ed eventi storici rilevanti, dall’Inghilterra vittoriana alla Rivoluzione francese, al Rinascimento italiano. Aloisius deve, per esempio, salvare la testa di Danton, dare una mano a Lorenzo il Magnifico a sfuggire alle coltellate della congiura dei Pazzi, battersi per difendere la vita di un cardinale riformista durante il Concilio di Trento e via così in un’altalena di storia e fantastoria. All’epoca eravamo dei veri dilettanti e riuscimmo a tirarne fuori solo un grezzo demo che poi rivendemmo a una delle società mostro sacro del settore per una cifra che ci sembrò tutti i soldi del mondo. Non erano tutti i soldi del mondo. Ce ne accorgemmo quando, grazie al nostro gioco il mostro sacro aumentò le sue entrate annue di cifre che sarebbe stato impossibile per noi spendere anche con l’aiuto di molta fantasia. Poi arrivò Wiz at Trivia, il nostro vero trionfo commerciale. L’elaborazione grafica di un gioco di ruolo testuale basato sulla manipolazione combinatoria dei destini di vari personaggi. Cabal, il mago del fare, viene visitato nella sua roulotte da dieci persone che gli chiedono di migliorare in vari modi la loro esistenza. Lui può mutare dieci particolari della vita di ciascuno di loro. Piccole cose che però possono avere grande risonanza nel futuro. In modo graduale, poi, le storie dei dieci si intrecciano, moltiplicando esponenzialmente gli effetti delle decisioni del mago, che deve cercare comunque di accontentarli tutti con i cento interventi a sua disposizione. Giocare è un po’ come fare lo sceneggiatore di una soap, o come essere Dio. Fu un successo. Di nicchia, per gusti raffinati, ma un bel successo. Ormai ci eravamo fatti più bravi e più furbi: la versione che vendemmo al mostro sacro era perfetta e, cosa fondamentale, ottenemmo una percentuale sulle vendite. Microscopica, la percentuale, ma ci campiamo ancora adesso. Il nostro guaio è che siamo piccoli; abbiamo capacità, inventiva e qualità, ma per fare il gran botto ci mancano le risorse finanziarie e una rete di distribuzione indipendente. È per questo che ci interessano le offerte degli Assorbenti: sono il salto di qualità che aspettavamo. Forse. Ci hanno commissionato la terza versione di King Kaleb, un adventure classico, tutto sotterranei, zombie e shoot’em up, di cui hanno acquistato i diritti. Non il nostro genere, ma è una prova per valutare la nostra duttilità produttiva. Stiamo andando avanti bene, direi. Rispettiamo i tempi di consegna. Lavorare consegnare lavorare consegnare. Codice codice codice. Questi i nostri ultimi mesi. Siamo dei professionisti seri, ma rimane la maledizione dei videogames: per quanto impegno ci possiamo mettere, non ispireremo mai serietà & affidabilità & solidità. Dev’essere per questo che Ken, nel presentare tutti noi – ben fissi e splendidi nelle rispettive postazioni – ha infiorato un po’ qua e là. La stanza dove lavoro con Max è diventata Settore Progettazione e Revisione Processo, quella del Conte e di Bella di Giorno, Ricerca e Sviluppo, il settore di Chiara e Marianna è Look and Graphics e Ken ha riservato per sé la fase di Ottimizzazione e Pubbliche Relazioni. Non ci aveva avvertito prima di queste sue «concessioni retoriche», credo per paura che ci costruissimo su un tormentone – cosa che senz’altro faremo – e perciò poco c’è mancato che, in reazione ai suoi salamelecchi, dai nostri settori partissero pernacchie e sghignazzi. Per fortuna nulla del genere è successo; siamo stati adulti e responsabili (tranne, forse, il Conte), abbiamo tenuto a freno l’umorismo e il nostro papà è di certo fiero di noi. Quando, al termine della visita, Ken si è espresso sulle forti probabilità che avessimo suscitato una buona impressione sugli Assorbenti, è stato bersagliato senza pietà, preso di mira dalle corna aguzze del toro e infilzato nel posteriore al termine di una breve ma intensa corrida del dileggio. – Scusa Ken, non ho ben capito se sono io che devo sviluppare ciò che ricerca Bella, oppure se tocca a lei sviluppare, perché in questo caso… be’, potrebbe aiutarmi a sviluppare l’erezione che sto ricercando da stamattina –. Il Conte: la scorrettezza politica innanzitutto. – Sai Ken, credo sia ora che tu ti decida a ottimizzare la mia stanza, perché è un vero casino, e se ti avanza tempo dovresti dare un’ottimizzata ai vetri delle finestre: sono così sporchi che non ci si vede attraverso –. Io. – Ehi Ken, ora che ci penso anche il cancello di casa mia avrebbe bisogno di una buona mano di ottimizzazione e di antiruggine… e visto che sei un P.R. ti dispiacerebbe trovarmi un fidanzato? – Marianna. Ken ha cominciato con lo schermirsi e ha finito col mandarci a fare in culo. 8. La luce azzurrina del televisore sporcava il rosa confetto della stanza, creando con pulsazioni intermittenti un’insolita contaminazione. Dorotea Borsch si nutriva di tavolette al cioccolato rinforzato con nocciole ipertrofiche ricoperte di caramello e semi di papavero, mentre subiva la voce ansiogena e la gestualità appena autoritaria di un presentatore di quiz televisivi. L’anzidetto presentatore era assurto a notorietà per la sua geniale e immancabile battuta di apertura: «Buongiorno a tutti e ricordatevi che… siete delle merde!» Come più del novanta per cento della popolazione telespettatrice mondiale, Dorotea soffriva di un’acuta forma di «Sindrome televisiva di Meursault», ossia una cronica mancanza di coinvolgimento e tensione emotiva per ogni tipo di intrattenimento televisivo. Il trasporto e l’attenzione che le generazioni passate avevano tributato a patetici e ingenui giochi a premi si erano ormai perduti nella noia della coazione a ripetere. C’era stato ancora qualche sussulto con la Tv urlata, il bestemmione in diretta, l’aggressione fisica al conduttore, la violenza carnale del giovedì (ore 23:30), i revival dei revival dei come eravamo, piccoli cult come: «Chi cazzo se li ricorda?» o: «Chi mi sono fatto per arrivare qui» (proprio il programma in cui si inseriva lo scatologico incipit del presentatore già citato). Ma si trattava solo di riflessi da rigor mortis, il rutto triste ed esausto di un intestino già defunto, le ultime schegge di legno raschiate dal fondo del barile. Questa condizione mentale induceva Dorotea (e molti altri come lei) ad accettare ormai in modo del tutto passivo qualsiasi programmazione e palinsesto, così come una formazione millenaria e stratificata di roccia basaltica accetta la pioggia e il vento. L’ancestrale riflesso condizionato di accendere il televisore era rimasto intatto, ma il libero arbitrio e l’istinto di sopraffazione, collegati al controllo del telecomando, andavano via via scomparendo. Per i più, assistere a una tribuna politica, a un’esecuzione capitale o a una televendita era la stessa vecchia broda. L’unico programma che facesse davvero vibrare Dorotea, che la facesse smettere di sgranocchiare, inducendola per una volta a pigiare forsennata sui tasti del telecomando, era costituito dalle apparizioni di Daryl Domino. Il problema, però, stava nel fatto che nessuno sapeva quando queste cominciassero, né su che rete o con quale periodicità si svolgessero. In verità, nessuno sapeva nemmeno chi accidenti fosse Daryl Domino. D.D., come in genere lo chiamavano i suoi fan, era una figura misteriosa e affascinante, un terzo rockstar e due terzi predicatore. Un pirata elettromagnetico, il cui arrivo veniva preannunciato dal dissolversi dei pixel della trasmissione di turno in un appannato effetto mosaico dal quale emergeva lui: fantasma diafano che schizzava dentro e fuori i programmi altrui senza la minima autorizzazione. Spolverino e chitarra neri sotto un volto pallido. Pochi accordi magistrali e stridenti e qualche parola. A volte un messaggio breve, altre volte una storia strana o un ricordo struggente. L’effetto dei suoi interventi poteva essere micidiale o catartico; sembrava risvegliasse le coscienze di botto, ma sempre con una certa gentilezza, per così dire, un suo modo, una sua discrezione. Non pareva che queste piccole rotture del gommoso tessuto televisivo rispondessero a un disegno specifico, né che avessero una politica o che curassero gli interessi di qualcuno. Niente organizzazione. Solo entrare, dire una cosa, uscire. Pulito. Misurato. Senza alzare la voce o sbraitare contro il sistema. Una dolce interferenza. Un eroe povero. L’apparecchio telefonico collegato al numero privato di Dorotea cominciò a squillare. La manotta unta di burro di cacao sollevò la cornetta a forma di caramella. – Sì? – Dot, sei tu? Passa su Canale Otto; è appena comparso. Risollevandosi fulminea dal torpore zuccherato in cui era immersa, Dorotea si avventò sul telecomando (con agilità che un romanziere definirebbe insospettabile in una donna della sua mole). Lisciò per troppa frenesia i primi due tentativi di cambiare canale, ma al terzo, il profilo un po’ astratto di Daryl Domino apparve sullo schermo. Otto o nove anni avrò avuto… forse dieci. Sì e no arrivavo con la testa alle maniglie delle porte. Porte larghe e alte a casa mia, a doppia anta e con certi maniglioni d’ottone stile liberty piazzati a un metro e venti da terra. Casa vecchia. Casa enorme. Casa assurda. Corridoi lunghi e deserti, freddi come tunnel. Fanno eco alle pedate di un bambino che corre avanti e indietro. Sempre tenendosi lontano dal buio stanzino delle scope delle streghe. Sempre da solo. I tabù: il salone con le colonne, il salone pizzi e damaschi – con quel loro schifoso odore di confetto vecchio – lo studio-boiserie di papà. Non entrarci mai lì, che Dio ti fulmini. Perché papà lavora. Perché papà non ha tempo. Perché papà non può essere disturbato da uno stronzetto perdigiorno come te. E chi ci entrava in quella stanza pallosa, se non me lo vietavano? Io no di certo. Ma se te lo proibiscono il discorso cambia, non ti puoi trattenere. Zitto, allora, dietro la spalliera del divano, accucciato a respirare piano. Papi non va disturbato? E chi lo disturba? Io sto zitto e buono e buono e zitto qui rannicchiato nella polvere, mentre lui parla al telefono. Ride. Anzi, finge di ridere. Io lo capisco quando mio papà finge. Capita di continuo. Adesso finge perché sta cercando di vendere qualcosa a qualcuno all’altro capo del telefono. Pungiglioni, dice, o roba del genere. Per forza che deve fingere: chi può mai voler comprare dei pungiglioni; come si fa a vendere pungiglioni? Anche avendo il sistema di puntamento che mio papà sta offrendo al compratore, a che serviranno mai? Papà con me non finge. Grazie papà. Grazie perché non fingi, grazie perché non mi vendi niente. Grazie per i nostri bei vestiti e le belle maniere che usi con la mia maestra. Che bel papà che hai, devi esserne fiero, dice lei dopo ogni incontro coi genitori. Ti sono grato per come fingi con gli altri, per le cose che hai, e che mi dài. Grazie per i giocattoli, per le macchine veloci e i viaggi. Grazie per le pillole di mamma. Ti ringrazio per questa grande casa e per le cameriere che la tengono pulita. Anche se è un bel po’ che dimenticano di pulire dietro il divano, proprio dove sono nascosto io a respirare polvere. Ma grazie lo stesso, papi, grazie per gli svolazzanti granelli che mi finiscono in gola e nel naso, che mi chiudono la trachea e mi fanno… tossire. Grazie per non esserti arrabbiato, papà, quando mi hai scoperto. Grazie per aver riso (senza fingere) e per avermi preso sulle ginocchia e spiegato a lungo il tuo lavoro. Grazie per aver usato parole da grandi, anche se non le ho capite. Grazie perché non mi tratti come uno stupido bambino. Grazie per avermi insegnato che le regole si rispettano e i divieti si osservano. Grazie per la disciplina che mi dài e per la punizione che mi impartisci. Me la merito. Sarà una lezione di umiltà e di maturità. Grazie per avermi chiuso da solo nel buio stanzino delle scope delle streghe. Mi sudano le ascelle, qui dentro. Divento caldo e umido, e poi, d’improvviso, sento freddo, perché arrivano gli spiriti. Odio gli scherzi che fanno. Lampi di prurito mi salgono dai piedi su per le gambe, come piccoli pugnali che corrono sulla pelle. Poi arrivano gli spilli nella schiena. Colpiscono a tradimento e mi fanno scuotere e piegare. Dopo, gli spiriti parlano agli scarafaggi e loro si arrampicano sulle mie gambe, mi cadono dentro il colletto buttandosi dall’alto. Passa il tempo e ho sempre più freddo. Le ginocchia mi cedono, ma non voglio sedere per terra, non voglio appoggiarmi al muro. Decine di milioni di scarafaggi mi aspettano lì, e non voglio. Vedo la mia faccia senza occhi, mentre uno scarafaggio mi vien fuori da una delle orbite vuote. Poi la porta viene sfondata dalla luce e io corro via piangendo e colpendomi la testa con le mani aperte, per scrollare via gli scarafaggi dai capelli. Vado in cucina. Dicono che sia l’angolo più caldo della casa. Se lo dicono, sarà vero, non so. Io ci vado perché a me piace il frigorifero. Dalla Stratocaster nera di Daryl Domino parte una sequenza di note e distorsioni che regalano una sublime pelle d’oca. Poi riprende. Cosa c’è di strano? Conosco un sacco di gente che rimane ipnotizzata a guardare dentro un oblò di lavatrice, manco ci fosse dentro Dio che rilascia un’intervista. A me piaceva il frigo. Il suo candore, la sua mole rassicurante, il ronzio con cui borbottava pacifico, da vero patriarca degli elettrodomestici. Prima mi assicuravo di non essere visto, e poi lo abbracciavo. Giuro. A braccia aperte circondavo il gran panzone bianco; e con l’orecchio appoggiato sentivo il suo tranquillo vibrare. Contro il mio petto, il fremere del suo cuore forte. Era… caldo; strano, no? Era uno zio grosso e protettivo. Il mio zione. Sapevo che mi voleva bene, che per me ronzava forte e si impettiva. Lo aprivo di rado, per non approfittare troppo della sua confidenza, ma ero certo che lui mi conservasse le cose che mi piacevano di più, anche a costo di nasconderle agli appetiti altrui, facendole scivolare in fondo a se stesso, dietro un’insalata secca di due giorni, magari. Il bello, comunque, era abbracciarlo, mica mangiare. Sentirlo vicino e commosso dalle mie furtive dimostrazioni d’affetto. Potreste mai capirlo? Potreste mai? Gli accordi leggeri che le sue mani intrecciano sulla chitarra salgono in progressione, mentre un nuovo effetto mosaico si inghiotte l’immagine di Daryl Domino per restituire il talk-show registrato a cui aveva sottratto la frequenza. – Ti prego ti prego ti prego, dimmi che l’hai registrato dall’inizio! – Tranquilla Dot, ne avrò perso al massimo un paio di secondi. – Al massimo al massimo? – Massimo. – Dio, Fanny, non è stato estremo? – Dorotea stava attaccata al telefono, con le ginocchia raccolte al petto sul suo lettino, a parlare con l’amica e collega di venerazione Fanny e a guardare, ancora tremante di emozione, il poster gigante del suo idolo. – Estremissimo, è stato estremissimo! – concordò Fanny. Essere appassionati sostenitori di Daryl Domino non era cosa da tutti. Nonostante avesse un numero enorme di ammiratori, infatti, D.D. era un fenomeno sfuggente, difficile da interpretare e impossibile da classificare. Della sua storia personale non si sapeva nulla; anche il nome «Daryl Domino» era stato desunto dalla scritta su una maglietta da lui indossata nelle sue prime apparizioni. Lo avevano battezzato così, perché tutto, si sa, deve avere un nome. Daryl Domino: un nome, una chitarra, molte storie strane. Nient’altro. Eppure, il fenomeno aveva coinvolto migliaia di persone, in un entusiasmo sempre crescente. Grazie al passaparola i suoi fans erano divenuti un popolo, e si erano organizzati. Ciascuno di loro, quando accendeva la tele, era armato di videoregistratore carico e telecomando, pronto all’occorrenza di un’incursione del suo idolo. Se questo avveniva – nessuno poteva sapere in anticipo ora e canale – si sparava subito il record all’apparecchio di registrazione e si chiamavano amici e colleghi di passione. Erano state fondate società di mutuo soccorso, per avvertirsi a vicenda al momento di ogni performance e per scambiarsi il materiale. E di materiale in effetti ne girava: videocassette, raccolte, diari scolastici, trascrizioni dei pezzi migliori; c’erano decine di siti in rete, e ancora spille, fanzine, biografie fasulle, e poi trattatelli esegetici, più o meno raffinati, che ricostruivano e decifravano il pensiero e la poetica di D.D., e magari si provavano a psicanalizzarne la personalità. Più volte detective privati o istituzionali avevano cercato di scovare tracce che portassero alla vera identità del menestrello dark, ma tutti avevano fallito. Daryl sembrava non esistere al di fuori della sua dimensione catodica e saltuaria. Ma la cosa davvero incredibile, che costituiva il più grande mistero e, forse, la vera ragione del successo di Domino, era un’altra: l’assenza di copyright. Non c’erano diritti riservati. Chiunque avesse innescato quel notevole meccanismo di successo aveva anche deciso di non guadagnarci nulla. Tutto il mercato di registrazioni e gadget era libero. Questo era il bello: D.D. appariva dove voleva e quando voleva, senza mai avvertire, ma sempre e solo gratis. 9. Dire cose divertenti. Sempre dire cose divertenti. È questa l’unica maniera di intrattenere soddisfacenti relazioni sociali in epoca contemporanea. Non che abbia niente contro l’umorismo, o contro il far ridere le donne alle feste dicendo sciocchezze. Anch’io ho attraversato il mio bravo periodo post-adolescenziale spendendo considerevoli quantità di tempo nel tentativo di far divertire ragazze incontrate qua e là, in modo che non si accorgessero da subito di ciò di cui non è bene che una brava ragazza si accorga da subito. Vale a dire che l’unica cosa che interessa davvero il tizio simpatico dalla parlantina svelta che la tampina non è la teoria dei quanti, o la ricetta originale del Martini, o qualsiasi altra scemenza gli esca dalla bocca, bensì sconcissimi pensieri relativi ad ancor più sconce azioni, che potrebbero trovare le suddette ragazze del tutto impreparate (come anche ferratissime e ben disposte, ma non è comunque il caso di scoprire le carte fin dalla prima mano). Del resto un approccio tipo: «Ciao, mi chiamo Giona, vuoi venire a letto con me?» l’ho sempre trovato poco consono al mio carattere e, per di più, ho lisciato di qualche anno (e non riuscirò mai a farmene una ragione) il periodo in cui simili tecniche di abbordaggio erano considerate à la page e nient’affatto riprovevoli. Questo ci porta dritti dritti a Max. È un’ossessione la mia, lo so. Il sistema di rimorchio di cui ho appena riferito (e che non sono così petulante da non considerare ancora con indulgente simpatia) assomiglia infatti in maniera irritante al modo che ha Max di parlare con la gente. Rimane inteso che il suo stile non muta di una virgola chiunque abbia davanti, di qualunque sesso, età, religione, dimensioni, credo filosofico. La definizione assoluta su Max l’ha data uno che faceva il responsabile del catering per una rock-band da due soldi – Sandor qualcosa, si chiamava – incontrato a una festa. Dopo averci chiacchierato per dieci minuti disse di lui più o meno: «Cristo, ragazzi, io pensavo di essere un esperto in questo campo, ma quel tizio lì mi può dare parecchi punti. Si comporta come se tu fossi una fighetta di sedici anni e lui il diciottenne che ti vuole portare a letto. Ma fa sempre così?» Gli avrei volentieri offerto da bere, se non fossimo stati a una festa dove si beveva gratis, e Sandor aveva già ingurgitato una quantità di alcol che solo pochi responsabili del catering riescono a tollerare a lungo. Nonostante tutto, lo spirito alcolico del tipo aveva colto nel segno: Max è così. Max ti vuole sedurre anche se pesi novantacinque chili, hai i baffi e guidi un autotreno. Perché lui vuole sedurre tutto ciò che si muove e respira in maniera aerobica (il che tiene fuori solo i microbi e poche altre forme di vita). Non conosce altro modo di comunicare che questo. Ciò che trovo mortificante non è tanto Max in sé, quanto che il suo stile abbia fatto scuola. Non dico che sia stato lui a corrompere il pensiero occidentale moderno, questo no (anche se mi piacerebbe tanto poterlo dimostrare), ma è innegabile che la seduzione sistematica sia diventata il principio primo della comunicazione. Legioni di simpatici bellocci assalgono le esauste carovane delle nostre vite in continuazione, facendo leva sulla loro verve meccanica e sul loro fascino dozzinale. Puntano il dito su di te, ti fanno sentire unico. Giornalisti che ti impongono notizie e commenti, scandendo aggressivi ogni sillaba come se da essa dipendesse la sicurezza nazionale, mentre fissano la telecamera con sguardo severo e magnetico. Ex attori che fanno i presidenti, ex presidenti che diventano attori, e poi i due ruoli che si confondono. Budda cinematografici con perfetta silhouette da modello e sottile fascino eurasiatico, Gesùcristi con spiritati occhi azzurri. Tutti vogliono stupirti, scioccarti, affascinarti, stregarti, venderti medaglie con due dritti e nessun rovescio. Quello che conta è il colpo a effetto. Questo ci conduce di nuovo a Max, il quale in questo momento sta giocando le sue carte migliori con due cugine quasi carine e quasi maggiorenni di Ken. Io sono stravaccato su una delle comodissime sdraio da giardino del nostro Papà Lavorativo, in completa paralisi digestiva post-prandiale. L’idea di organizzare un barbecue a casa sua per amici e colleghi è stata molto gentile, ma per me micidiale. Quando ho la possibilità di mangiare a mio piacimento, senza il controllo di un cameriere che mi sottragga il vassoio di portata, senza incontrare lo sguardo di rimprovero e schifo di altri commensali e senza che le limitate doti e aspirazioni culinarie di cui dispongo fissino un limite oggettivo al mio appetito, divento pericoloso per i miei trigliceridi. Sono senza freni: non ha alcuna importanza che la fame sia finita, io continuo finché non vedo il fondo, come per una specie di riflesso condizionato da insetto. Per me non esiste la fase della sazietà: passo direttamente dalla fame al vegetare boccheggiante, appoggiato da qualche parte alla mercé di chiunque transiti e abbia voglia di compatirmi o prendermi a calci. Dunque non posso sottrarmi allo spettacolo di Max che flirta con le due sedicenni, starnazzanti alle sue battute da finto ubriaco. È uno dei suoi numeri preferiti. Finge di essere sbronzo per dare un’ulteriore dimostrazione della sua eccelsa capacità di controllarsi e di essere amabile anche in condizioni critiche. Gliel’ho visto fare almeno a una dozzina di feste: si versa da bere un’infinità di volte, centellina appena il primo sorso, abbandona, non visto, il bicchiere da qualche parte e ricomincia. Poi inizia a poco a poco a recitare un leggero stato di ebbrezza, piazzando qualche battuta un po’ più audace del solito e dicendo cose patetiche tipo: «Dio, erano anni che non bevevo così! Dovrò stare attento a chi mi accompagna a casa stasera, potrebbe approfittarsi di me!» E ci cascano pure. Lo guardano con affetto e indulgenza, come fosse un bambinone innocuo e simpatico. Gli strigliano con delicatezza i corti capelli a spazzola. – Bravo il nostro Max, – dicono, mentre paragonano la nobile leggerezza della sua andatura barcollante, appena un po’ alcolica, con la volgarità chiassosa ed eccessiva degli altri ubriachi della serata, i volti lucidi di sudore deformati da ghigni insulsi, i pantaloni chiazzati di vomito, l’odore acido e pungente del loro alito, le parole inconsulte e biascicate… Ancora una volta Max ha il senso della misura; si sa divertire, beve anche, ma almeno regge l’alcol, lui. Le donne ammirano il suo pallore elegiaco in confronto agli sguaiati cori da stadio che provengono dalla solita ruttante combriccola dei beoni. Ancora una volta vince lui. Last man standing. Conferma vivente del principio secondo il quale l’ultimo uomo che rimane in piedi alla fine della festa scopa. Che cazzo. – Lo odi proprio, eh? – Bella di Giorno si accomoda su una sedia accanto alla mia. Tira lunghe voluttuose boccate dalla sua sigaretta e profuma di bucato fresco, il che, a due terzi di una serata fatta di braci e fritture, è un miracolo. – Si vede così tanto? – Scherzi? Ogni volta che ce l’hai davanti sbuffi come un mantice, ti dimeni come se fossi in gabbia, mormori insulti e battute sarcastiche a tutto spiano. Per non accorgermene dovrei essere cieca, o sorda, o Max. Ridiamo entrambi col riso soffocato di chi ha la pancia piena. – Non se ne accorge, vero? – Che tu lo odi? Che qualcuno lo possa odiare? Nemmeno se glielo dicessi in faccia. La possibilità di risultare sgradito a chicchessia non rientra nei suoi schemi mentali. Il sospetto non lo sfiora neanche. Bella mostra un’empatia insolita nei miei confronti, stasera. Sembra molto rilassata. Non sfoggia più di due o tre orecchini in parti abbastanza ortodosse del corpo, il che, essendo il barbecue di Ken un’occasione informale, rivela in lei un certo cambiamento di stile. Le ombre della sera calano umide sul giardino, mentre Ken insegue i suoi due figli – due piccoletti simpatici e tremendi che noi chiamiamo Tip e Tap – per imporre loro la protezione del sempiterno golfino (pensavo che quella del golfino fosse una fissazione tipica della generazione di mia nonna, ma dev’essere comune a tutti i genitori). Barbie, la innaturalmente bella moglie di Ken, guarda la scena divertita, poi scende in campo anche lei e dà una mano alla cattura e alla vestizione dei due giovani golfino-eversivi. Bella sfoggia uno di quei sorrisi commossi che fanno solo le donne vedendo una famiglia unita. Sorrisi che dicono Loro sì che sono carini, e dicono anche Invece la tua vita è solo un inutile, sporco, infantile, patetico casino, guardati! e infine Possibile che tu non senta il bisogno di qualcuno da amare, una casa tua, un figlio da coccolare…, con sottofondo orchestrale di ormoni. Bella di Giorno: la nostra contestatrice punk con latenti pulsioni casalinghe. Questo abbiamo e questo ci teniamo. Si gira verso di me, scrutando il mio mezzo sorriso sardonico, leggendomi dentro come se fossi fatto di carta velina. – Avanti, cinico uomo vissuto, dimmi pure che non sono carini, se hai il coraggio. – Sì, be’… non so. Guarda Ken: moglie, due figli, casetta english style gravata di mutuo ipotecario a strozzo, giardino e barbecue, e non è che sia poi tanto più grande di noi… Insomma, chi è che sbaglia qui? È lui che è troppo giovane per la sua vita o sono io troppo vecchio per la mia? – Sbaglia lui? – Non dico questo. È solo tutto un po’… un po’… – Stereotipato? Lo trovi così terribile? Ho la pancia troppo piena per non arrendermi subito: – Va bene, lo ammetto, sono lo stereotipo della famiglia felice, sono adorabili. Però mi sembra strano. Ken è il nostro papà; il nostro Papà Lavorativo, d’accordo, ma sempre papà è. Non ho ancora ben accettato l’idea di doverlo dividere con due mocciosi di tre e quattro anni. – Cos’è, vuoi il golfino anche tu? – Può darsi. – Keeen! – Bella chiama a tutta ugola. – Checcazz… stai zitta, dài! – Cerco di contenerla senza dare troppo nell’occhio, ma è inutile. – Keen! C’è qui Giona che reclama il golfino anche lui. Si sente trascurato. – No amore, perché? – Ken si avvicina a balzelloni: è raggiante. – Non mi sognerei mai di metterti da parte. Ma non ho golfini della tua taglia. Se per te è lo stesso, ho un bellissimo scialletto che potrebbe fare al caso tuo. – Fanculo Ken, levati di torno. – Il mio piccolo scontroso! Non si parla così a papi, sai? – Si allontana sghignazzante. – Grazie di cuore, cara. – E dài, rilassati! Perché ti comporti sempre come se chiunque dovesse per forza avercela con te? – Perché mi chiamo Giona, no? È ovvio che tutti aspettino il momento di farla pagare a uno con un nome così. – Su questo non posso darti torto –. Per la prima volta dopo anni, Bella risponde a tono a una mia battuta di spirito senza guardarmi come un escremento di gallina: la sigaretta che sta fumando non deve essere molto legale. Insisto: – Va a finire che gli Assorbenti accetteranno di assorbire la nostra società solo a patto che io venga silurato. L’acquisizione va bene, ma fuori dalle palle il menagramo con manie di persecuzione! – Guarda il lato positivo: non sarai più costretto a lavorare con Max. – Ehi, non ci avevo pensato! Se ti capita, metti anche in giro la voce che sono comunista. – Sarà fatto. Piccola ruttante pausa gastrica. La butto lì: – Cosa pensi degli Assorbenti?… Davvero –. Bella si stira, allungando la schiena come un gatto, e si tormenta il piercing al naso. – Dovessi giudicarli dagli analisti che hanno mandato a esaminare le nostre strutture, direi che sono dei coglioni. Ma non credo affatto che lo siano. Nessuno in grado di gestire la montagna di soldi che maneggiano può esserlo, o non durerebbe neanche cinque minuti. Il Conte li ha fatti passare per imbecilli solo perché giocava in casa, e così s’è preso la sua piccola rivincita da genietto contestatore. Magari se ne sono pure accorti e l’hanno lasciato fare. Vorrei vederlo proprio, il Conte, a ripetere il giochetto negli uffici della loro multinazionale! – Su questo sono d’accordo anch’io. Ma credi ci convenga concludere l’acquisizione? – Mettiamola così, sempre ammesso che loro ci vogliano, non sono sicura che riusciremmo più a tirarci indietro. Dovremo abbozzare in ogni caso: venderemo le nostre libere scelte e loro ci copriranno di soldi. Non sarà poi così male. In fondo anche adesso le nostre libere scelte non sono poi così libere. Solo che quando passeremo con gli Assorbenti non potremo nemmeno più fingere che lo siano. La logica di Bella mi sconcerta una volta di più. Non riesco proprio a venire a patti con questa punk scontrosa che parla come un filosofo nichilista e sogna in segreto di essere Sandra Dee. Mi viene voglia di raccontarle le paure che Max mi ha confessato nel suo delirio su Zorro e gli Assorbenti di qualche giorno fa, ma un assurdo senso di lealtà e riserbo me lo impedisce. Ormai la luce del giorno è solo un ricordo, reso nostalgico dal neon dei lampioncini. Bagliori incerti spandono intorno alle linee semplici della casa un’illuminazione giallastra da autogrill. Beviamo con lentezza una grappa alle settemila erbe, che scalda gli stomaci e le discussioni. Marianna e il Conte, come al solito, si accapigliano su chissacosa. Ken racconta, per la duecentosettantatreesima volta da quando lo conosco, la storia di come la Namco gli ha fregato l’idea di Pac-Man quando lui era ancora un ragazzino. La storia suona così: Ken è poco più che un bambino; da qualche tempo si è fissato a disegnare labirinti stilizzati, seminati di molliche di pane (così le chiama lui) e questa palletta gialla tutta bocca che deve mangiare le molliche inseguita da fantasmi colorati; lo aveva immaginato come una specie di gioco da tavolo coi dadi, e lo voleva chiamare SuperPollicino. Poi però l’incauto va a trovare il papà, che tiene dei corsi di management ai dirigenti commerciali del porto di Yokoama. Il destino beffardo vuole che, a causa di una banale questione di overbooking sul volo per Tokio, il piccolo Ken venga invitato a viaggiare in business class senza pagare alcuna differenza. Tutto contento, Ken, per ammazzare il tempo durante le lunghe ore di volo, non trova di meglio che mostrare i suoi preziosi disegni all’uomo che gli siede accanto. L’affabile nipponico in doppiopetto sorride educato, ma dopo aver osservato i suoi scarabocchi rimane assorto, pensieroso. Sei mesi dopo, Pac-Man viene lanciato sul mercato mondiale dalla Namco, ed è un successo senza precedenti. Com’è ovvio Ken rimane con un palmo di naso e un acuto dolore al fondoschiena. Da allora, a suo dire, gli nasce il desiderio di metter su una società come la nostra. Personalmente non credo a una sola parola. Le prime venti o trenta volte era simpatico starlo a sentire e prenderlo in giro, ma tutto ha un limite. – Altro che storie su Toru Iwatami fulminato dall’ispirazione mentre taglia una pizza. Il bastardo era della Namco, capito? – gli sento biascicare dalla distanza. Max si è appartato con la cugina meno minorenne di Ken, e le parla fitto fitto in un angolo. Chiara ha fatto colpo senza volere sull’avvocato che abbiamo assunto per seguire il processo di acquisizione. Ecco una delle cose che ci mette il nervoso, fra l’altro: non avevamo mai avuto bisogno di un avvocato, prima. Il giurista belloccio cerca di impressionarla parlandole del suo lavoro. Bella mossa. Lei gli riserva la curiosità disgustata con cui si guarda uno stronzo di cartapesta a Carnevale. La moglie di Ken si avvia a mettere a letto i bambini, e posso vedere bene che lui, osservandola da lontano, si sente in colpa perché sta recitando il suo spregevole ruolo maschile di intrattenitore degli ospiti, delegando a lei quello femminile di gestione pargoli. Bella ha ragione: fanno schifo per quanto sono carini. Ho voglia di un’alka-seltzer, ma anche di coccole e di confidenze attorno al fuoco; ho voglia di intimità (sarà quella cazzo di grappa), ed è forse per questo che azzardo una mossa inconsulta. – Posso farti una domanda? – chiedo a Bella. – Mica posso saperlo in anticipo. Tu prima falla, e poi ti dirò se potevi –. Non fa una grinza. – Ci sei rimasta proprio così male per il risultato del tuo test di ammissione alla Città Perfetta? – Ummmmm… – Merda, si irrigidisce. – Al momento preferisco che tu mi faccia la domanda di riserva. Bravo, coglione, bravo. 10. Heidi Charisse, la segretaria vecchia e storta di Ganimede, appoggiò con gesto tremulo la tazza di caffè sulla scrivania del suo boss. Il liquido nero ondeggiava tempestoso, bordeggiando il colmo della tazza. Per un pelo non si era rovesciato, macchiando il prezioso rivestimento in cuoio bordeaux del piano del tavolo. Ganimede la scrutò con distaccata severità, fino a farle abbassare lo sguardo e inducendola ad allontanarsi a testa china. Per qualche secondo prese a trastullarsi con l’immagine dei diversi trattamenti che avrebbe potuto riservarle se una sola goccia di caffè fosse caduta giù: cazziatone violento con pugno sbattuto sulla scrivania; commento ironico ma acido, con velata minaccia di licenziamento; ganascino energico dell’orecchio della vecchia con accompagnamento della stessa innanzi agli impiegati più giovani e, ivi, sua esposizione al pubblico ludibrio: «Forse dovrei declassarla a lustrascarpe aziendale. Pensa di riuscire a strofinar tomaie senza fare danno? Avanti, ci provi, su!» E così dicendo, fra le risatine nervose dei suoi sottoposti, le avrebbe calato una mano pesante sulle spalle facendola inginocchiare, e le avrebbe piazzato il piede destro in grembo. La vecchia avrebbe cominciato a sfregare il mocassino coi lembi della sua gonna, piangendo muta e… No, no, sto esagerando disse fra sé e sé Ganimede che, nonostante avesse assunto l’attempata Heidi Charisse con l’unico scopo di tormentarle gli ultimi anni di vita, era pur sempre un uomo di cuore. La vecchia Charisse era stata l’insegnante di lettere di Borsch Ganimede, all’epoca in cui questo formava la sua giovane mente e il suo ancora acerbo corpaccione bivaccando nelle aule di una scuola media gestita con fermezza e pragmatismo da una dozzina di gesuiti. Heidi a prima vista non sembrava il prototipo dell’insegnante che si fa odiare a morte dai suoi alunni. Non era scortese o violenta, e nemmeno applicava le forme di terrorismo comuni ai suoi colleghi: non interrogava a tappeto, non massacrava di compiti per casa, non distribuiva votacci, né pretendeva una ferrea disciplina. Nella sua prima, memorabile lezione nella classe di Ganimede, si era presentata in punta di piedi, con stile discreto e una vocina sottile e simpatica da nonna delle favole (già allora, pur non essendolo del tutto, appariva avanti negli anni). Aveva parlato con dolcezza, dimostrandosi pronta a venire incontro alle esigenze e ai problemi di ognuno. Si era insinuata nei tessuti di quella classe lubrificandoli con la vaselina, ma vi si era poi installata come un tumore. E come un tumore si estendeva silenziosa, nutrendosi ogni giorno di più dell’organismo del suo ospite, fino a provocarne lo sfinimento mortale. Lo stillicidio era iniziato senza che nessuno vi facesse caso. Il suo proclamarsi sensibile ai bisogni degli scolari si era rivelato del tutto falso. L’infame capiva di esigenze adolescenziali quanto capiva di entomologia, e uguale fastidio avrebbe provato nell’accostarsi alle due materie. A parte le belle parole, i suoi ragazzi le davano lo stesso disagio di una blatta nel lavandino. Era dunque l’obelisco supremo dell’ipocrisia, ma non solo questo. Il suo sistema educativo assomigliava alla tortura della goccia, e questa goccia maledetta era sempre uguale a se stessa. Sempre uguale. La sua arma assoluta era la ripetizione. In aula (e anche fuori per chi aveva la sventura di incontrarla) diceva le stesse identiche cose con il medesimo tono di voce. Aveva delle frasi fatte apposta per ogni situazione, che riproponeva instancabile; frasi come: «Niente di nuovo sotto il sole» per indicare che nulla dell’atteggiamento di quei mocciosi poteva stupirla, o come: «È questa la mia classe?» pronunciata con quel fasullo tono di incredulità per sottolineare una condotta troppo rumorosa che non gradiva, o ancora: «Stai su, Ganimede, che sembri una cariatide» quando Borsch rimaneva troppo a lungo col mento appoggiato alla mano. Vestiva sempre lo stesso abito pied-de-poule, faceva gli stessi movimenti, snocciolò per l’intera sua carriera la stessissima lezione: potevano cambiare gli argomenti, ma la sua spiegazione non si modificava di una virgola. Entrava in classe, si accucciava sulla sedia con sempre identici gesti e scricchiolii d’ossa, si puliva gli occhiali mentre gettava un’occhiata incerta in fondo all’aula, si schiariva la voce (con tre invariabili colpetti di tosse) e partiva. A questo punto, se qualcuno stava masticando una gomma, sbottava: «Chi è che rumina? Cos’è quest’odore dolciastro? Il ruminante è pregato di venir qui a gettare la cicca nel cestino. Buttiamola, orsù». Poi, ottenuto il sacrificio, cominciava con un: «Apriamo il libro a pagina 27 e muniamoci di matita». Parlava alla prima persona plurale: facciamo, parliamo, apriamo, buttiamo. Se qualcuno rideva, il puntualissimo commento era: «Cosa c’è da ridere? Risus abundat in ore stultorum». La rompicoglioni perfetta. Le cui vittime subivano la frustrazione di non poter raccontare e condividere con altri la propria esperienza. Nessuno avrebbe capito. Com’è possibile essere colti da una crisi isterica al solo sentire un innocente proverbio? Bisognava provarlo sulla propria pelle giorno dopo giorno, per avvertire il lento soffocamento. La natura di Heidi Charisse dunque non fu di immediata evidenza per i suoi alunni. Il primo anno con lei, nessuno l’avrebbe definita un mostro. C’era appena un sottile senso di disagio, si poteva forse avvertire una minima stanchezza di imprecisata provenienza. Il secondo anno il fastidio diventava palese e focalizzato a perfezione: facce tirate e nervose il lunedì mattina con la letteratura alla prima ora. Guerra aperta il terzo anno: atteggiamenti sprezzanti e bestemmie più o meno sommesse. Pianti incontrollabili, reazioni convulse ed esaurimenti erano fenomeni all’ordine del giorno. Un pesante catafalco di depressione aveva sostituito il soffitto verdolino e asettico della 3a E, e occhi cerchiati di viola lo osservavano come fosse l’ultima cosa che avrebbero guardato in vita loro. Un giorno, verso la fine del secondo quadrimestre, Heidi Charisse, dopo aver beccheggiato con la sua solita andatura lungo il corridoio, apparve sulla soglia al termine di una rumorosissima ricreazione, pronunciando il sempiterno «È questa la mia classe?» Un ragazzo rispose: «È questa, entra troia!» Lei non fece una piega. Si accucciò come al solito, pulì gli occhiali e: «Apriamo il libro a pagina 181 e muniamoci di matita». Allora giunse, con passo strascicato e suole di carta moschicida, la rassegnazione. Dopo gli esami finali, tutti gli alunni della sua classe, uniti e senza esitazioni, le fecero recapitare a domicilio una graziosa confezione di cacca fresca. Scoprirono più tardi, e non senza qualche angoscia, che anche questa era una ripetizione: uno scherzo che tutte le sue ultime classi le riservavano dopo gli esami. Arrivò infine il bel giorno. Parecchi anni dopo il diploma di Ganimede, l’annuale puntualissimo scherzo del pacco di merda si concluse in tragedia. L’alunno postino, quello che doveva depositare il prezioso involto ai piedi della soglia di casa Charisse, si fece prendere dal panico. Avvertì, o credette di avvertire, un rumore proveniente dall’interno dell’appartamento, e si precipitò spaventato per le scale, inciampando e ruzzolando per una rampa intera. Venne ritrovato sul pianerottolo sottostante con il collo spezzato e il volto immerso nel contenuto della scatola, apertasi durante la caduta. La fine raccapricciante, e puzzolente, del giovane virgulto e le pressioni dei genitori diedero impulso a talune stravaganti indagini di polizia, che ebbero un esito assai pittoresco. Venne ipotizzato che la insospettabile professoressa Charisse, per santificare la chiusura dell’anno scolastico, organizzasse a casa sua riti iniziatici a base di coprofagia, sesso violento e altre piacevolezze assortite. L’incidente al ragazzo era stato di certo il drammatico esito di un gioco perverso finito male. Curiosamente, non mancarono testimoni a carico della vecchia, e fu un miracolo se se la cavò con soli sette anni di carcere e l’interdizione perpetua dall’insegnamento (il procuratore che la incriminò era stato fra l’altro un suo allievo). Alla fine della detenzione giunse una donna spezzata, senza un briciolo di prospettiva per il futuro. E fu lì che l’aspettò Ganimede. Le offrì un lavoro. Lei si accese di speranza, attendendo forse un ruolo d’istitutrice per la figlia del suo benefattore. Le toccò invece un impiego da segretaria di terza categoria (caffè, fotocopie). Non si può mica venir meno all’interdizione stabilita dal giudice, vero? Certo che no, io la voglio aiutare signora Charisse, ma… Iniziò così il calvario ultimo di Heidi Charisse, organizzatole con precisione scientifica da Ganimede Borsch, il quale si riprometteva di infliggerle ogni giorno la piccola ferita di una puntuale mortificazione, al fine di distruggerla con lentezza e cesello. Ma Ganimede era un buono. Dopo i primi tempi di dileggi sistematici, irrisioni ed esposizioni alla berlina, la cosa gli venne a noia. Il rossore vilipeso delle guance rafferme di Heidi lo fece un po’ vergognare, se non proprio impietosire, e Ganimede limitò la propria opera a saltuari rimbrotti e occhiatacce. Da paziente e sottile aguzzino, si trasformò in un ruvido capoufficio, riducendo in crepuscolo malinconico quello che, nelle sue precedenti intenzioni, doveva essere per l’ex professoressa un vero e proprio inferno. Quando il telefono squillò, la schiena malcarenata di Heidi Charisse era appena scomparsa oltre la porta. Ganimede tirò su la cornetta meccanicamente, così come meccanicamente aveva adempiuto negli ultimi giorni alle sue molteplici incombenze di capitano d’azienda: controllare i cicli di produzione, risolvere problemi, istruire-cazziare-rincuorare i collaboratori, parlare con i clienti, definire strategie. Tutto con l’automatismo e l’apparente dedizione di un riflesso pavloviano: il campanello squillava e al cane veniva la bava alla bocca, anche se non ricordava più perché. – Sì? – Signor Borsch?… – La voce della sua segretaria (segretaria di primo livello, questa) era contratta. – L’ufficio di Lorenzo Morgan sulla due, signore… Pausa profonda. – Grazie –. A questo punto, Ganimede provò qualcosa che sarebbe appropriato definire come un gran cacazzo. Non che Lorenzo Morgan gli avesse mai ispirato timore alcuno. I loro rispettivi terreni di caccia erano diversi (molto più vasto quello di Morgan, in ogni caso). Nelle rare occasioni di incontri sociali più o meno fortuiti, Ganimede non aveva mai perso un solo grammo del proprio ingombrante aplomb. Ora però era diverso. Il futuro della sua amatissima Dorotea veniva tirato in ballo. E si doveva ballare bene, perdio… – Pronto? – Signor Borsch? – Sì. – Attenda, prego, la metto subito in linea col Presidente –. Danze slave di Dvo?ák in sottofondo. – Borsch? – Una voce curiosa e penetrante, non sgradevole. – Sono io. – Parla Morgan, buongiorno –. Almeno non si dava del Presidente da sé. – Buongiorno… Presidente –. Ma sì, un po’ di basso profilo, data l’occasione! – Sono stato informato del piccolo accordo che lei ha proposto al nostro comune amico Celso Grande. – E…? – Domani alle sette e trenta nei miei uffici. – … – Borsch? – Sì? – Sette e trenta del mattino. 11. – Dobbiamo rifarlo! Marianna costella di punti esclamativi il suo apprezzamento per la serata conviviale consumata ieri nel giardino di Ken. Marianna, per la verità, costella di punti esclamativi qualsiasi cosa; sia che a sinistra del punto metta un «meraviglioso», sia che ci piazzi un «vaffanculo». Ha una certa tendenza a prendere le cose di petto. In fondo ieri sera non ha fatto che punzecchiarsi con il Conte, cioè quello che più o meno fa tutti i giorni della settimana; ma tutto quello che nel nostro gruppo ha l’apparenza di un’aggregazione spontanea a scopo amicale riceve sempre la sua giubilante benedizione. La terrorizza la prospettiva di non riuscire ad avere amici a titolo di prestazione gratuita. Accoglierebbe di buon grado uno sputo in faccia da chiunque di noi, purché avvenga fuori dal contesto lavorativo. Se Marianna fosse un videogioco, sarebbe un Tamagochi, il pulcinotto perplesso che cerca sempre qualcuno che si occupi di lui. – Già, dobbiamo rifarlo per forza. È vero che lo rifacciamo, Ken? Ken cerca di restare sul vago, borbottando qualcosa di incomprensibile e riempiendosi la bocca con due mozzarelle mignon pescate da una vaschetta di plastica della mensa. Le mozzarelle mignon sono la sua unica eterna scelta nella mensa dell’edificio in cui lavoriamo. Dice che, controllata la data di scadenza, almeno può vedere bene cosa c’è dentro: dentro una mozzarella trovi solo mozzarella, mi pare chiaro. Ken non ama le sorprese. Grazie all’affitto degli uffici che occupiamo, ci forniscono grandi quantità di lunch-tickets, i buoni pasto di colore azzurrino con cui accediamo a questo paradiso dell’omologazione alimentare. Neanch’io sono un fanatico della roba che servono qui, ma per la cifra che si paga, cioè zero, non è poi da buttar via. Sempre se riesci a scansare i due casi annuali di botulino e il vibrione del colera sparso qua e là. La mensa, dato l’alto numero di impiegati da servire, ha un’estensione da Casa della Gioventù del socialismo reale, solo un po’ più tetra. Si sviluppa su due interi piani. Quello inferiore è più ampio e per un terzo all’aperto, così da servire da terrazza in estate. L’architettura è essenziale, dai colori freddi; l’unica concessione all’estetica sono le riproduzioni di litografie di Dalì appese alle pareti. Come se roba del genere potesse mai far venire appetito. Questo va benissimo per Marianna, comunque; lei usa il cibo come fosse una penitenza. Mangia la roba più sana e schifosa che esista. Purificazione giornaliera a base di cereali orridi, verdure deprimenti, frutti acidi e detestabili, biscotti asciutti come legno secco e yogurt asperrimi. Dev’essere questa la ragione del suo colorito diafano. Sei ciò che mangi: se mangi grasso sei grasso, ma se mangi in bianco e nero rimani in bianco e nero. Mentre Marianna cerca di contagiare il suo entusiasmo per il sedano scondito crudo a Chiara, riscuotendo solo un timido sguardo di circostanza, nell’angolo della sala opposto a quello nel quale siamo seduti si verifica un insolito trambusto. Cinque o sei analisti, che conosco di vista e che lavorano una decina di piani sopra di noi per una società di indagini statistiche, cominciano a fare qualcosa che non capisco bene. Si sono strappati i vestiti di dosso e hanno infilato assurde parrucche colorate. Sotto camicie e maglioni, indossano reggiseni borchiati e altri indumenti femminili molto osée, che male si adattano alle loro figure di ragazzotti pallidi con tendenza alla pinguedine. Uno di loro sembra sanguinare dalla bocca e ha preso a distribuire volantini, mentre altri due, che non avevo ancora notato, si dànno da fare per appendere uno striscione fuori dalle vetrate. Il tutto ha l’aria di una trovata pubblicitaria divertente, tanto più che la coordinazione e l’economia di movimenti con cui si muovono i vari componenti del gruppo fanno pensare a una coreografia ben studiata. Il volantinaro si avvicina a noi; in realtà non sanguina affatto, ha le labbra impiastricciate di rossetto sbavato. Altri membri del comitato en travesti ammucchiano in più zone vecchi copertoni d’auto e svariate cianfrusaglie di legno. L’atmosfera sta caricandosi di tensione, e quello che a prima vista sembrava un palcoscenico per drag-queens si è trasformato in una piccola barricata. Nessuno degli inservienti della mensa è più visibile e si comincia a sfilare verso le uscite. Gli uomini soprattutto, sulle prime, si dànno un’aria disinvolta, come se stessero prendendo tutta questa cosa con la distaccata ironia che si riserva alle piccole seccature. Vorrei avere anch’io uno di quei volantini, ma il tizio che li distribuisce è stato allontanato dall’onda sempre più cospicua di persone che si avviano verso l’esterno. Chiara e Marianna mostrano evidenti segni di nervosismo e Ken ha già preso su la vaschetta di mozzarelle per portarsela dietro, quando uno degli analisti tira fuori una specie di luccicante spada corta, si inginocchia e se la conficca nello stomaco con un acuto grido di guerra. La reazione della folla al gesto suicida è incongruente. Alcuni gridano, altri rimangono fissi a guardare, come affascinati. Nessuno ha la prontezza di spirito di aiutare il ferito. Mentre sul terrazzo viene dato fuoco al primo copertone, ogni traccia di calma e divertimento è scomparsa. Tiro per il braccio Marianna, evitandole di essere risucchiata dal fiume impiegatizio, e la trascino verso le scale d’emergenza non ancora intasate. Ken ha mollato le mozzarelle e mi ha seguito con Chiara. Nel frastuono avverto urla e cori indistinti. Quando sto per infilare la prima rampa di scale, mi volto e ho la fuggevole visione di un angolo di cielo interrotto da una sottile, altissima colonna di fumo nero. 12. Gli avanzi delle pizze peperoni e funghi sono sparpagliati, bruciaticci e smozzicati, nelle ampie distese di cartone oleoso delle loro scatole da servizio a domicilio, come rovine di una città bombardata. La luce entra in punta di piedi dalle ante semiaccostate della finestra, andando a far visita con delicatezza al contenuto della stanza. Dentro è tutto un tripudio monotematico: fotografie, videocassette, libri, ritagli di giornale, fanzine, adesivi, poster, sciarpe con slogan sovrimpressi, cd-rom, magliette, stampe, mouse-pad, tendine parasole da auto, segnalibri, carta da lettera e ogni genere di oggetto commemorativo, inneggiante o raffigurante il carismatico e sghembo Daryl Domino. Un’ossessione di Daryl Domino, una chiesa, un museo, una fiera ripetitiva dedicata per intero a Daryl Domino. Non è un fan club dei più importanti, in verità, solo la volenterosa iniziativa di pochi appassionati membri. Tre, per essere precisi: Dorotea Borsch, Fanny Globo e Tebaldo Scarlatto. Tebaldo potrebbe definirsi il leader culturale del trio; a lui è demandata l’esegesi del pensiero di Domino. Che cosa ha detto, che cosa ha voluto intendere con quello che ha detto, quali sono, se ci sono, i richiami delle sue parole agli eventi d’attualità, come si inseriscono le nuove performance nel più ampio contesto della sua poetica, con chi sta D.D., oppure con chi non sta (ammesso che uno come lui possa cedere allo scontato e volgarissimo vizio di schierarsi). Queste e altre le domande a cui Tebaldo cerca di trovare una risposta. Non che ne dia tante, di risposte; più che altro impressioni, sensazioni, mezzi commenti. Visioni confuse che abbellisce con i trucchi di una retorica traballante. Ma cosa vogliono, in fondo? Lui è uno studioso, e uno studioso nutre di dubbi la sua dottrina. Tebaldo è sempre pronto a riconsiderare le sue posizioni alla luce di nuove testimonianze, fatti e opinioni altrui. Non potrebbe mai partecipare a un dibattito, perché se qualcuno gli rivolgesse un’obiezione fondata, rimarrebbe in silenzio, a rifletterci su, e poi direbbe: «’azzo, mi sa che lei ha ragione!» Strada fra i professionisti della cultura, dunque, non ne farà mai. Discorsi e conferenze non sono nel suo stile: la grammatica di Tebaldo è composta di condizionali, più che di imperativi. Nel rastrellamento sistematico di materiale iconografico riguardante il suo idolo non è però secondo a nessuno, e il suo club dispone di una collezione di prim’ordine. Quello che lo fa inorgoglire di più è aver ottenuto la collezione completa degli interventi di Daryl, compresi alcuni pezzi rarissimi (frutto di incursioni di Domino su frequenze di emittenti semisconosciute), che gli amatori si fanno vanto di non duplicare né diffondere. Almeno una volta alla settimana, i tre adepti si riuniscono in sede per trascorrere una serata all’insegna del loro eroe, mangiando una pizza, discutendo e sparandosi quantità massicce del Verbo preregistrato. Fanny (la visionaria, il vettore spirituale del trio) spinge la cassetta nella gola del videoregistratore e si accoccola sul divano, gli occhi trasparenti e alcolici fissi sullo schermo. Il pezzo è stato battezzato «Gli amici di Daryl», uno dei più gettonati fra quelli disponibili. Dall’effetto mosaico emerge un fantasma armato di chitarra. La musica sembra una strana filastrocca in tempo dispari. Sette battute e ricomincia, sette battute e ricomincia. Blen blen blen. Domino prende a parlare sopra gli accordi della sua Stratocaster. Amici e donne ti attraversano la vita come il porto le navi. Me ne ricordo qualcuno di amico, di nave, di donna… Ricordo Taddeo, il più misero, il più ultimo degli ultimi, sozzo e straccione come nessuno, maestro nell’arte di elemosinare la giornata. Sempre preceduto dal suo stesso puzzo, che ne annunciava l’arrivo da lontano, come la musica fa per la banda, un puzzo vago ma subito riconoscibile, da finesettimana di servizio in caserma. Taddeo abbatteva in volo a fucilate, una per una, tutte le teorie romantiche sulla vita da strada, poetica – a vederlo appariva lampante – come un ratto morto nel cortile. Raccontava di essere un suonatore di armonica a bocca in disgrazia. Ogni tanto la tirava fuori di tasca, avvolta in un panno. Ma era chiaro che non sapeva nemmeno da che parte soffiarci dentro. Dio sa dove l’avesse trovata… Però Taddeo non sembrava il tipo su cui Dio poteva soffermare a lungo la sua attenzione. Dovendo pronunciare la prima parola che mi veniva in mente guardandolo, avrei detto rancido. Ma… sempre un ma nella vita degli uomini. Il volume del riff si alza di qualche tono; Domino stuzzica le corde col plettro e arpeggia con mignolo e anulare. Ma a lui non importava. Non gli importava di svegliarsi con pezzi di ghiaccio al posto delle ossa, della bocca marcia e della gola in fiamme, dello stordimento costante, di una donna stanca lasciata indietro. Niente gli sembrò così importante da non poterne fare a meno. I più fortunati scelgono quel che vogliono senza badare al prezzo. Lui si era permesso il lusso di far scorrere via il mondo. Osservare senza più remare, trascinato via dalla corrente. Senza lamentarsi. Blen blen blen. E poi ricordo Pablo, detto anche «il singolo», che la leggenda narrava aver smarrito una palla (intesa come coglione) durante una partita di calcio: giunto negli spogliatoi si era accorto di averne una in meno. Così. Doveva essergli scivolata fuori dai calzoncini. Nessuno riuscì poi a trovargliela, né dentro il campo né fuori. Blen blen blen. Il miglior amico di Pablo era Matteo, soprannominato Zero dai suoi compagni di lotta (forse per scherno e forse come fosse un complimento). Zero passò la giovinezza a urlare e a tirare sampietrini a poliziotti e prefetture, finendo poi per necessità a provare concorsi in Polizia e in Prefettura. Non disse niente a nessuno quando li vinse. Adesso controlla la violenza negli stadi. Blen blen blen. Poi ricordo Alice, che sapeva bene di non vivere nel paese delle meraviglie. C’era Donata dai grandi occhi, che chiedevano quello che la sua bocca non osava. C’era Grazia, dalle mani veloci e Vittoria, la sciancata, richiestissima. E infine c’era Cortes, il mio preferito: baffi sottili e modi gentili. Mai saputo come si chiamasse davvero… La sua missione nella vita era di fornire un apporto minimo e decisivo alla destabilizzazione emotiva della gente. Seguace della corrente filosofica della invisibile provocazione. Lo potevi trovare in fila alla posta, dietro uno striscione a una manifestazione di piazza, o in curva nord, o ai cancelli di un palazzetto ad aspettare l’inizio di un concerto. Agiva da professionista: si nascondeva tra la folla, e metteva in atto il suo intento sovversivo. Lasciava che la temperatura emotiva salisse al giusto grado, che la misura fosse colma, e solo allora piazzava la sua battuta. Era sempre una frase di poche parole, dal significato generico, che detta in quella situazione diventava dinamite pura. L’ho visto io, a un corteo di scioperanti, trasformare una passeggiata pacifica in una sommossa. Nel momento di massima tensione urlò: «Quei bastardi lo fanno apposta!» Il risultato fu un macello. Chi erano i bastardi? La polizia? I padroni? I sindacati? Gli autonomi? Non aveva importanza. Quando i tempi sono maturi, trovi sempre qualcuno pronto a mettere le proprie idee confuse dietro alle parole vaghe di qualcun altro. Le armi di Cortes erano innocue solo in apparenza. «Quei bastardi lo fanno apposta», «Ci devono dire chi c’è dietro», «Noi qui a morire e loro se ne fottono». Non erano solo slogan, erano la goccia. A chi lo accusava di essere un irresponsabile e un sabotatore, Cortes ripeteva sempre: «Io sono solo la goccia; sono gli altri a metterci il vaso». Nessuno ha mai saputo perché lo facesse. Cortes diceva che era un hobby; fornire la dimostrazione del suo teorema sulla Stupidità Epidemica delle Turbe Congestionate, il cui enunciato suonava così: «Posto un numero n di persone, racchiuse in un’area programmata per ospitarne al massimo n – 1; data una temperatura esterna non inferiore a 10° C., tendente all’aumento a causa della vicinanza dei corpi; data una variabile x di attrito sociale (sempre presente in contesti variegati); data l’assenza di elementi esterni di distrazione (tipo concerti, ragazze discinte ecc.): dopo venti minuti, il primo che dice una cazzata di contenuto quasi eversivo fa scoppiare un casino. Blen blen blen. Cortes fu schedato come anarchico e arrestato: due settimane più tardi ci fu una rivolta di detenuti, che alcuni dei ribelli spiegarono essere dovuta alla mancanza di latte magro in mensa. Blen blen blen. 13. «LE PUTTANE NE HANNO ABBASTANZA». I caratteri cubitali dello striscione campeggiano prepotenti fuori dalle finestre della mensa nel loro rosso vivace. Sono visibili anche dal bar di fronte all’edificio, dove abbiamo deciso di rintanarci in attesa degli eventi. Ken è riuscito ad avere uno dei volantini che i travestiti contestatori hanno distribuito. Ce lo passiamo di mano in mano e la faccenda diventa più chiara. Venduti e comprati come puttane Sfruttati e spremuti come puttane Dicevano di voler collaborare con noi ma dopo aver acquisito la maggioranza nella nostra società hanno creduto di poterci trattare come puttane Svolgevamo un importante lavoro di ricerca: oggi siamo ridotti a condurre sondaggi per i loro protettorati politici Le puttane ne hanno abbastanza! Siamo ormai lavoratori senza dignità Samurai senza padrone e senza scopo e oggi faremo Seppuku in sala mensa pur di manifestare il nostro sdegno. – Cos’è Seppuku? – chiede Bella. Il Conte risponde a gesti e a parole: – Il suicidio rituale dei samurai quando il loro padrone muore o li tradisce. Ti infili un coltellaccio da un lato della pancia, zan, te la squarci fino all’altro lato, poi in su, zan zan, estrai la lama senza un gemito e porgi la testa all’uomo che hai scelto attribuendogli l’onore di decapitarti con la tua stessa spada. Una cosetta simpatica del Giappone tradizionale. Dunque si è trattato di una classica protesta contro «i padroni», resa più originale dalla performance di travestitismo e più drammatica dal Seppuku. La prima volante della polizia sgomma sul marciapiede insieme alla prima unità mobile di una televisione locale che giunge sul posto. Cameramen e agenti schizzano sul marciapiede stacchettando in maniera autoritaria, ciascuno con i ferri del proprio mestiere in pugno. Il seguito lo potremo guardare nel notiziario delle sei. L’inquadratura traballante di una steadicam fissa nell’obiettivo gli scalini dell’ultima rampa. Poliziotti in assetto antisommossa si piazzano ai lati della porta basculante a doppia anta che delimita l’accesso principale alla mensa. Uno spinge la porta e la tiene aperta mentre altri due entrano con movimenti fluidi e veloci, come si vede sempre in Tv. Infatti siamo in Tv. Fuggevole ripresa di un volto stupito dall’irruzione e pallido di cipria. La porta si richiude scivolando sui cardini. L’intrepido operatore si accoda alla seconda ondata di agenti. Rapida carrellata da sinistra a destra in cerca delle tracce di qualcosa che non c’è. Nessun disordine, niente fuoco, niente copertoni bruciati o barricate, e niente sangue né corpi senza vita. Una ventina di giovanotti abbigliati in modo osée sorpresi a consumare un pasto frugale. Sembra la ripresa di un’irruzione della buoncostume nel refettorio di un bordello svizzero all’ora di cena. Neanche uno dei rivoltosi accenna a protestare o a fare resistenza, nonostante i gesti bruschi con cui vengono sbattuti per terra e perquisiti. La scena ha del surreale e appare chiaro come i manganelli e l’aggressività dei caschetti azzurri susciteranno una pessima impressione sull’opinione pubblica, una volta paragonati alla grazia e alle buone maniere degli analisti in guêpière. Perché malmenarli? Si vede benissimo che sono tutti bravi ragazzi. Sessualmente confusi, forse, ma bravi ragazzi. Un pensiero del genere deve aver colto anche uno dei poliziotti, che adesso è apparso dai margini dell’inquadratura solo per calare una mano guantata a oscurare l’obiettivo. Una voce ripete due volte: – Niente televisione qui! – sovrastando quella dell’operatore che però fa in tempo a rispondere: – Ma se ci avete chiamato voi! – Non sta bene farsi riprendere nell’atto di manganellare quattro checche beneducate. Un brusco effetto neve interrompe la ripresa. Ciò che accade dopo l’oscuramento delle telecamere possiamo seguirlo in diretta coi nostri occhi e in anticipo rispetto a quello che è successo prima, ma che vedremo solo dopo nel notiziario delle sei (la Tv ha un continuum temporale a sé stante). L’epilogo di una retata in un red-light district: una ventina di froci allampanati con i volti ingentiliti dal maquillage, che sfilano a uno a uno facendosi ingoiare da un cellulare blu, semicoperti da giaccotti imprestati dalla polizia. Non hanno l’aria pericolosa; assomigliano a zie un po’ attempate, sorprese nella loro intimità mentre si struccano poco prima di andare a dormire. Quelli che, come noi, si sono scapicollati in preda al panico per fuggire dalla mensa, impauriti dal bizzarro assalto di queste zie delicate, staranno chiedendosi: «Ma che diavolo c’è preso? Davvero siamo scappati davanti a questi qui?» Fondamentale è stato il loro atteggiamento. Davano l’impressione di gente pronta a tutto, che sa quel che fa e lo fa mossa da ideali alti. È stato questo fascino pericoloso del fedayn che ci ha sedotti e terrorizzati. Abbiamo annusato nell’aria gli ormoni barricaderi e ci siamo dati alla fuga, scambiando innocenti falò per fuochi di rivolta e un circolo del tè per Sendero Luminoso. Non proprio un figurone, devo dire. Il portavoce dei travestiti – che noi, in onore alla loro professione, abbiamo battezzato travestatistici –, in un impeccabile completo grigio fumo squarciato dalla lama di una cravatta rosa shocking, con un soffio di mascara sulle ciglia, rilascia un’intervista al telegiornale che conferma le impressioni ricevute dai filmati già trasmessi. – Non abbiamo, né abbiamo avuto mai intenti o finalità terroristiche. Non c’è stato, in nessuna fase della nostra azione, alcun ricorso a violenze o a costrizioni di ogni sorta. Abbiamo voluto solo attirare l’attenzione con un comportamento fuori dalla norma e – siamo disposti ad ammetterlo – ai limiti della comune idea di decenza, su un problema che riguarda la nostra vita professionale. Ciò che i nostri azionisti di maggioranza stanno facendo è annientare e banalizzare l’iniziativa privata, soffocare l’inventiva e la fertilità di un gruppo di lavoro che aveva raggiunto apprezzabili risultati in ambito scientifico. Ci hanno comprato con soldi buoni ma con false promesse, e adesso ci stanno mutilando. Hanno tagliato in maniera drastica i fondi destinati al nostro settore Ricerca e Sviluppo… Sono disposti a foraggiare solo aride analisi di mercato, utili per tenere sotto controllo il polso dei beni di consumo. Hanno comprato le nostre idee per buttarle via e tenersene gli involucri, e noi non vogliamo che questo continui, o succeda ad altri. Non abbiamo intenzione di passare il resto della nostra vita professionale a fare calcoli per scoprire se l’assorbente prodotto da quelli che ci pagano è davvero il preferito dalle trentenni single. Eravamo e siamo un istituto di ricerca, non un centro di indagini di mercato. Ce ne fottiamo degli assorbenti delle trentenni single, noi. – Abbiamo mimato un Seppuku, il suicidio rituale dei Samurai senza padrone, perché non ci riconosciamo più in questa dirigenza; perché rivendichiamo la dignità di Samurai e respingiamo l’immagine di prostitute che qualcuno si era fatto di noi. Le spade erano di plastica e non una goccia di sangue è stata sparsa. I nostri Signori non lo meritano. – È davvero tutto qui, grazie. – Parla chiaro, il tipo! – Marianna, tanto per stare nel ruolo, è entusiasta e ha già preso in simpatia «quei simpatici ragazzi truccati che si battono per la loro indipendenza». – Peccato che sia spontaneo come un prete con un manico di scopa in culo, – chiosa il Conte. Scorie di stress, emesse dai nostri cervelli ormai disinnescati dalle fatiche di una lunga sessione lavorativa, si accumulano e induriscono contro il soffitto della stanza. Mi sembra quasi di vederle, come stalattiti grigiastre e gocciolanti, che rischiano di macchiare il bel tappeto sdraiato davanti alla televisione di Ken, a casa del quale ci siamo riuniti, sfiniti e bisognosi del calore del nostro Papà Lavorativo. – Adesso non venirmi a dire che fanno male a combattere per la loro autonomia! – Ed ecco che Marianna si precipita di nuovo in difesa. Questo schema di gioco comincia a stancarmi. – Innanzitutto non ho affatto detto questo; in secondo luogo non sono certo stato io a scappare in preda al panico, stamattina, davanti a quei bravi ragazzi di cui adesso ti bevi ogni parola; terzo, e non ultimo, potresti ascoltare quel che dico e farmi finire un discorso! – Il Conte fa una pausa, sperando che Marianna ci ricaschi, interrompendolo, ma lei si morde il labbro inferiore e resiste. – Condivido il loro punto di vista. È solo che riesco anche a intravedere la loro pianificazione, e questo toglie un po’ di fascino al tutto. – Pensateci un attimo: il simpatico portavoce, qui, può sparare sentenze al Tg della sera solo perché non è stato arrestato con i suoi compagni. E non è stato arrestato perché con i suoi compagni lui non c’era. Dunque, penso io, gli Allegri Froci Samurai sapevano benissimo come sarebbe andata a finire (e fin qui niente di strano), e hanno preferito che uno di loro rimanesse libero in modo da conferire più autorevolezza e risalto ai loro messaggi. Se nessuno fosse stato in grado di parlare in Tv poche ore dopo il fatto, non si sarebbe potuto battere bene il ferro caldo dell’opinione pubblica. Eppoi non bisogna dimenticare che quelli sono degli statistici. Buoni e simpatici fin che vuoi, ma sempre esperti di arida statistica. Figurati se prima di muoversi non hanno fatto un sondaggio su un congruo campione di persone per valutare l’impatto della loro protesta. L’acuta analisi del Conte non sembra interessare Tip e Tap, i due minimi ma rapidi figli di Ken. Tip si sta applicando, con la seria intensità di cui solo i bambini sono capaci, a leccare l’intera superficie del tavolino da tè di cristallo, che subisce umido in un angolo del soggiorno. Tap, il maggiore, per un po’ gli dà indicazioni e poi si dedica a colpire a testate lo schienale del divano, facendo sobbalzare Max a ogni craniata. Ken e Barbie, sfiniti e arresi, guardano Max con l’aria di chi è molto spiacente ma non ha più la forza per rimediare alla situazione. A quest’ora, dopo una giornata di combattimento, si può solo aspettare che le pile dei due robottini si scarichino. Max guarda Barbie come per dire okay, non fa niente. Nonostante l’espressione sbattuta, i capelli casalinghi e la tutazza sformata, Barbie è bella da far schifo. Max però non sembra notarlo: per quanto ne so, Barbie è l’unico caso di donna attraente cui il nostro amico playboy abbia risparmiato appiccicose attenzioni. Curioso: perfino lui ha un codice morale, o magari la vede davvero come una figura materna, depotenziata di ogni sessualità. Bella e Chiara intuiscono la difficoltà dei padroni di casa e concertano un’azione diversiva per distrarre i piccoli e salvare l’arredamento: – Amorini! Venite, vi insegniamo un gioco. Gli amorini accorrono e Barbie e Ken tributano un sorriso riconoscente. Il Conte e Marianna, invece, continuano imperterriti. – Del resto basta rifletterci un attimo per accorgersi di quanto sia atipica la loro contestazione: voi avete visto fumo, copertoni bruciati, barricate e gente che si infilava scimitarre nella panza, ma, quando è arrivata, la polizia ha trovato tutto pulito e in ordine. Non potranno accusarli di niente, o quasi. Il comunicato del loro portavoce, poi, è un capolavoro: frasi brevi, secche e definitive, che vanno a segno come pugnalate. Pugnalate tirate con garbo, però. Tutto è stato costruito per lasciare la migliore impressione possibile sull’osservatore esterno. Loro hanno ragione, sono le vittime, i bravi ragazzi beneducati e oppressi, il che è vero, fra l’altro, ma non venirmi a dire che hanno improvvisato. – Abbiamo assistito a un’accurata operazione di marketing. Ne condivido i principi, ma non la subirò inconsapevole. Marianna borbotta qualcosa di confuso, ma tutto sommato non si oppone troppo al Conte, che fa suo il round. Abìtuati al privilegio. Vivi in prima fila, non metterti in fila. Con la Città Perfetta avrai prelazioni e opzioni automatiche sull’acquisto di titoli azionari, condizioni vantaggiose al limite dell’imbarazzo su ogni tipo di investimento, insider trading a volontà. E ancora, corsie preferenziali per ogni tipo di prenotazione (voli aerei, prime teatrali, locali esclusivi, concerti da tutto esaurito). Vuoi rinegoziare il mutuo ipotecario di qualcuno che ti fa antipatia applicandogli interessi usurari che lo rovineranno? Nessun problema. Fai valere la tua posizione sociale, prova il gusto della prevaricazione e del gratuito abuso di potere. Diventa anche tu figlio della gallina bianca. Da un messaggio pubblicitario della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 14. – Mi faccia capire bene, Borsch, lei è disposto a cedere in subappalto a mio nipote… mmm… al mio nipote acquisito il contratto di fornitura di calzature per le Forze armate, a un prezzo, diciamo così, politico… – In un certo… – E mi faccia capire ancora meglio. In cambio di questo favore, lei vorrebbe che io facessi ammettere sua figlia Dorotea fra i membri della Città Perfetta, il cui progetto sta per essere completato dal mio gruppo. – Detto così suona un po’ sintetico e brutale, ma… – ma Ganimede non sarebbe mai riuscito a dirlo meglio, – …ma rende bene l’idea. – Sintesi e brutalità costituiscono l’unico modo ragionevole di condurre i propri affari. Sono certo che lei mi capisce… Lorenzo Morgan lo aveva accolto nel suo studio un minuto dopo le sette e trenta antimeridiane, e non si era fatto pregare per arrivare al punto. Per la prima volta da quando vi era entrato, Ganimede fece vagare lo sguardo per la stanza. Non sembrava affatto la sede in cui uno dei soloni dell’economia nazionale prendeva decisioni e metteva a punto strategie. Più che altro assomigliava alla stanza da letto di un adolescente: mucchi di vestiti sporchi accatastati negli angoli, uno scarponcino da basket era rintanato sotto una sedia (forse finito lì dopo una lite col fratello), pile di riviste languivano ovunque (Ganimede aveva colto di sfuggita una copertina di «NBA Today» e un’altra di fumetti Marvel). La scrivania di Morgan si inseriva alla perfezione nel contesto generale; ogni centimetro quadrato era infestato da documenti e cartacce di svariata estrazione, sei o sette quotidiani, fax sbiaditi e spiegazzati, diversi metri semiarrotolati di oscure statistiche stampate su carta a strisce bicolori, un frullatore fatiscente e grondante disgustoso smegma marrone, un paio di quei giochetti da scrivania con le palline d’acciaio tipo moto perpetuo (decisamente morti), involucri di merendine al cacao con resti delle medesime in avanzato stato di decomposizione, una lampada a forma di banana, un portacenere a forma di vagina, una bussola navale dall’apparente peso di novanta chili, un cestino per la carta straccia sormontato da un tabellone da basket in miniatura e uno smisurato telefono in bachelite. Borsch si soffermò con orrore a immaginare cosa potessero nascondere i cassetti (Teste mozzate ed essiccate? Esploratori scomparsi vent’anni fa? Virus sconosciuti e mortalissimi? Presentatori di programmi radiofonici degli anni sessanta?) – Borsch? Mi sta seguendo? – Morgan protendeva la testa pelata e rotonda verso Ganimede, facendo leva con le corte braccia sulla scrivania. – Come un’ombra, Presidente… come un’ombra. – Sa, ho notato che tutti quelli che entrano in questa stanza per la prima volta tendono a distrarsi –. Era di nuovo rinculato sulla poltrona, dondolandosi con le mani dietro la nuca. Vestiva una tuta di felpa verde scuro e Nike Air Jordan consumate. – Entrano, non trovano ciò che si aspettano di trovare – la loro mediocre e patinata iconografia dell’ufficio di un uomo di successo – e assumono l’espressione che aveva lei poco fa. Dove sono gli interni raffinati? Dove i pezzi d’antiquariato? Che fine ha fatto la tela fiamminga che doveva stare appesa alla parete dietro la scrivania? E il leggio con su la Divina Commedia illustrata da Doré? Il completo grigio scuro di Armani? Insomma, dov’è la sacra atmosfera da santuario dell’alta finanza? – Può darsi da solo la risposta giusta: non c’è. Ganimede non era sicuro di dover intervenire nella discussione. L’atteggiamento di Morgan lo faceva sentire come se il suo contributo non fosse richiesto. – Un apparato classico come quello lo avrebbe potuto trovare nel mio ufficio fino a una quindicina d’anni fa. Quindici anni fa anch’io tornavo a casa dopo quattordici ore di lavoro, intrappolato in un diligentissimo doppiopetto ardesia, per poi cercare di rilassarmi infilandomi una tuta comoda e dedicandomi a qualche hobby. Dopodiché sono diventato così schifosamente ricco e potente da potermi concedere di trasformare il mio stesso luogo di lavoro nella stanza dei giochi. – Che cazzo, ci rimango anche venti ore di fila, tanto vale che mi metta a mio agio. Qui dentro si sta alle mie regole. Tanto non devo più fare buona impressione con nessuno; sono gli altri che devono fare buona impressione su di me. Ganimede inarcò le sopracciglia, a sottolineare un disagio interrogativo, che Lorenzo Morgan colse subito. – Mi trova arrogante, vero? Non lo nego, ma sono già arrivato al confine oltre il quale l’arroganza viene definita eccentricità. Di solito non mi disturbo a dare spiegazioni ai miei ospiti, ma poco fa lei mi ha mentito (non ho certo creduto che mi stesse seguendo come un’ombra) e questa è una cosa che non mi piace. Però lei lo ha fatto con una spontanea, delicata intraprendenza, e questo, invece, mi piace. Quel prepotente figlio di puttana cominciava a stargli simpatico. – Veniamo al dunque, Borsch. Cos’ha sua figlia? È una stupida? Una lesbica? Si droga? È ninfomane? Ganimede stritolò i braccioli della poltrona e contò fino a cinque, sudando ghiacciato. Sapeva di doversi controllare: era una prova. Tutto era una prova: l’orario dell’appuntamento, l’ambiente, i modi provocatori di Morgan. Un esame per valutare le sue qualità di uomo d’affari, la sua elasticità. Respirò a fondo, e quando ebbe riacquistato il pieno controllo di se stesso, si sporse verso il suo ospite, lo afferrò per la felpa e lo tirò a sé, tenendolo sospeso sulla scrivania, gli occhi a cinque centimetri dai suoi. – Senti, nano! Vestiti pure come cazzo ti pare, arreda questo cesso di stanza come vuoi, ma se ci tieni a rimanere intero, dentro quel ridicolo sacco di ciccia che chiami tuta, ti consiglio di usare una maggiore delicatezza quando parli di mia figlia. Con una mano sola lo riappoggiò sulla poltrona. Sedendosi anche lui, Ganimede accavallò la gamba e riprese a parlare come se nulla fosse successo. – A ogni modo, e se ancora le interessa, credo che Dorotea, mia figlia, pur non potendosi definire del tutto… sciocca, abbia un ventaglio di interessi limitato. Ritengo dunque che sarebbe fruttuoso inserirla in un ambiente ricco di stimoli e prospettive come la Città Perfetta. Morgan rimase per qualche secondo a pensare, con il mento poggiato sulle dita intrecciate. – Immagino che lei sappia benissimo che avere requisiti intellettivi di prim’ordine è fondamentale per ottenere asilo nella Città Perfetta. I test Q.I. e psicoattitudinali sono severissimi… Be’, di certo lo sa, o non avrebbe motivo di essere qui. Anche per Morgan, la zuffa di pochi secondi prima sembrava non essere mai avvenuta. – Comunque si può fare. Tutto si può fare, se le persone giuste vogliono che sia fatto… e qui ci sono ottime probabilità. – Però è strano che sua figlia sia una… ehm… non sia molto sveglia, considerate la sua intelligenza e precisione. – Mi apprezzava già prima, o devo pensare che ha dedotto il mio Q.I. da come l’ho presa per il bavero poco fa? – Era arrivato il momento di giocarsela. – Andiamo, Borsch, non faccia finta di sottovalutarmi. In primo luogo lei è venuto da me chiedendo il mio aiuto. Questo mi rivela che è abbastanza scaltro da sapere a chi rivolgersi per ottenere qualcosa, e abbastanza onesto da farlo in modo diretto. In secondo luogo, lei non ha messo sul piatto della bilancia un buon affare per me, che sono pieno di ottimi affari, ma un buon affare per mio nipote Celso, e questo dimostra che lei è sottile. Viene a chiedere un vantaggio per la sua erede e offre un vantaggio per il mio probabile erede, sperando così di innescare in me un meccanismo di empatia. È una mossa acuta, anche se potrebbe rivelarsi inutile, nel caso io non fossi interessato alla sorte del mio nipotino adottivo. – Ma qui entra in gioco la sua accuratezza. Lei è accurato, perché si è preso la briga di conoscere bene i suoi interlocutori. Dunque ha capito subito che mio nipote Celso Grande è un coglione. Non dovrei parlare così dell’uomo che forse erediterà ciò che ho costruito, ma non vedo perché negarlo. Lei si sarà di certo chiesto perché un uomo ricco e intelligente che non ha figli, potendo dunque scegliere, si va a scegliere proprio un erede coglione. E si sarà risposto in due modi: o Celso Grande è un suo figlio naturale (così come qualche maligno va dicendo in giro), oppure Lorenzo Morgan è capace di affezionarsi a una persona debole, foss’anche perché non la considera una minaccia. In entrambi i casi potrebbe essere emotivamente disposto a prendere a cuore la faccenda della piccola Dorotea. Molto accurato. – Inoltre lei si sta adoperando per assicurare alla sua bambina un futuro felice. Non si limita a viziarla, ma vuole evitare che Dorotea possa un domani guardare a se stessa come a una fallita. Ciò è indice di intelligenza e lungimiranza. Infine, quando poco fa l’ho provocata, lei non ha avuto timore di mettermi a posto… in maniera rude direi, ma ha saputo quando fermarsi, tornando in un baleno a darmi del lei e a parlare d’affari. Ha definito subito i ruoli, evitando che io approfittassi della mia posizione di forza per umiliarla. Carattere, reattività, intuito, controllo. – Ganimede, lei mi piace. Veda di non deludermi. 15. Giuro che non ho la più pallida idea di come sia successo. C’era stata quella sciocca discussione al lavoro, d’accordo, ma non credo che abbia influito più di tanto. Siamo stati tutti coinvolti da una e-mail collettiva di Max. Subject: Stiamo diventando scemi, o cosa? Ce l’abbiamo davanti agli occhi e nessuno di noi ha ancora fatto lo sforzo di vederlo. Il nostro destino è identico a quello dei travestatistici. Stiamo facendo la cazzata colossale di vendere la nostra autonomia a un gigante vorace che nemmeno si accorgerà di cosa sta masticando, salvo imporci poi le restrittive regole dei suoi succhi gastrici. Quando con tutte le nostre forze vorremo tornare indietro, quando ci saremo accorti dell’errore madornale, sarà troppo tardi, e il prezzo da pagare carissimo. Lo dico adesso e continuerò a ripeterlo. Io non voglio. Io mi oppongo. Io protesto. Max Subject: Re: Stiamo diventando scemi, o cosa? E io me ne fotto. Conte La mail di risposta del Conte era arrivata a tutti quanti in tempo reale. Chiara, asciutta, dissacrante. Non so se l’intento di Max fosse quello di dare la stura a un dibattito on-line a più voci via rete interna, ma questo fu comunque il risultato. Lo vedevo pestare come un pianista forsennato sulla tastiera, mentre le sue parole crescevano mute sul mio schermo. Orizzontali, ordinate, stupide. Max Max Max. Come fa a essere così patetico e pomposo allo stesso tempo? Un gigante che impone le restrittive regole dei suoi succhi gastrici. Ma come cazzo parla? Perché cerca sempre di strafare? Posso comprendere il suo punto di vista, anche se non lo condivido, ma se solo non fosse sempre così… totalmente Max, preso e compreso da se stesso, tanto da perdere la misura delle cose e il senso del ridicolo. Subject: Re: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Un momento! Max forse non ha tutti i torti. Credo che dovremmo riflettere a lungo su questa faccenda di venire assorbiti da una multinazionale, soprattutto alla luce di quanto è successo in questi giorni con la protesta degli statistici. Marianna Subject: Re: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Dico, vi siete svegliati solo adesso? Dove eravate quando si è trattato di prendere la decisione definitiva su quest’affare? Vi ricordo che è successo più di due mesi fa, eravamo tutti insieme e con lo stesso diritto di voto. Conte Subject: Re: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Questo lo sappiamo. Ma adesso le cose sono diverse. Il fantasma dei Natali futuri ci ha concesso l’opportunità di vedere come diventeremo quando tutto si sarà concluso. E a me non è piaciuto affatto. Max Subject: Re: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Senti un po’ SuperDickens, non puoi mica fare paragoni a vanvera così! Cosa c’entrano i sondaggisti in sottoveste? Innanzitutto la Compagnia interessata alla nostra attività non è la stessa che ha assorbito loro. Peraltro io sono sempre stato molto critico con la Morgan Holding per stronzate come la Città Perfetta – a differenza di qualcuno che pare si sia svegliato solo adesso – ma qui la questione è diversa. Noi offriamo un prodotto e non un servizio di indagine statistica: se la M.H. lo vuole, come sembra, e vuole anche quelli successivi, non avrà interesse a imporci un diverso modello organizzativo di lavoro, salvo forse per un’accelerazione dei tempi di consegna. Non dico che non siano dei vampiri bastardi, ma la nostra unicità ci terrà a galla. Conte Subject: Re: R: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Andiamo, Conte! Che non si tratti della stessa Compagnia non vuol dir niente: quelli ragionano tutti allo stesso modo. Magari hai anche ragione, ma il punto è che se ci vendiamo, diventiamo niente più che un giocattolo nelle loro mani, e i giocattoli finisce che si rompono. Max Subject: Re: R: R: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? C’è anche un altro aspetto della questione, che sembra voi non abbiate preso in considerazione. Anche se lo volessimo, dubito che ormai riusciremmo a opporci alla volontà degli Assorbenti: siamo troppo avanti nelle trattative, e loro sono troppo grossi. Se decidono di assorbirci, lo faranno. Che noi lo vogliamo o no. La cosa migliore che possiamo fare adesso è prendere più soldi possibile e cercare di ottenere il maggior numero di garanzie sulle nostre future condizioni di lavoro. Vi ricordo inoltre che – a parte qualche riccastro che si può permettere di non badare al lato economico – per tutti gli altri questa acquisizione è importantissima, ci farà venir fuori da un periodo di sempre più scarsi profitti e ci darà notevoli prospettive finanziarie. Vendiamoci l’anima che fingiamo di avere e facciamogliela pagare parecchio. Non sarà così male. Augh, ho detto. Giona Mi rendo conto solo dopo aver scritto che, a parte la nota acida sull’unico bambino ricco del nostro gruppo, ho usato gli stessi argomenti che Bella ha usato con me al barbecue di Ken. E infatti… Subject: Re: R: R: R: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Sono d’accordo con Giona. Bella Subject: Re: R: R: R: R: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? In ogni caso è inutile parlarne adesso, così. Mi fa sentire in colpa nei confronti di Ken. È lui che si sta dannando l’anima per far filare liscio quest’affare. Non possiamo parlare di niente, né decidere niente alle sue spalle. Chiara Subject: Re: R: R: R: R: R: R: R: R: R: Stiamo diventando scemi, o cosa? Ehi voi, stronzi, non cercate di farmi sentire un traditore. Chiaro che non si decide niente senza di lui. Si faceva solo per parlare. Max Dopodiché, siccome è venerdì pomeriggio, cominciano come d’obbligo a circolare assurde e incontrollate voci su cosa fare nel fine settimana. Diversi suggerimenti si rincorrono e si annullano a vicenda nelle maglie della rete. Che si fa nel we? Re: Che si fa nel we? Re: R: Che si fa nel we? Re: R: R: Che si fa nel we? eccetera. Sono tentato di chiamarmi fuori dall’organizzazione, ma poi comincerebbero con la filastrocca che sono misantropo e avaro di me stesso e pauroso di mettermi in gioco e via così, davvero un po’ troppo per un cazzo di venerdì pomeriggio, per cui decido di andare a traino e prendere quel che viene. L’idea parte dalle ragazze. Chiaro. Frutto di quell’entusiasmo malconsigliato e peggio indirizzato che le coglie di quando in quando. Domani sera andiamo in discoteca. Cosa? In discoteca. Andate pure. E no, venite anche voi. E perché? Mica possiamo fare la figura delle passatelle spaiate che si dànno alla caccia grossa nei club! Ah, no? Inutile dire che la riluttanza mia e del Conte è stata spazzata via come carta velina da un tornado (Max era quasi più entusiasta delle ragazze). L’argomento che ha concluso la discussione in favore delle discotecare: Ma Cristo, non abbiamo neanche trent’anni! Di questo passo l’anno prossimo al sabato mangeremo pastina davanti alla Ruota della Fortuna. Non è possibile che siamo diventati così vecchi! Cattive notizie per voi, ragazze: è possibile eccome. Non saremo proprio vecchi nel senso più assoluto e reumatico del termine, ma di sicuro siamo troppo vecchi per certe cose. La ginnastica acrobatica e il contorsionismo, per esempio, non fanno più per noi, e temo che abbiamo anche perso l’ultimo treno disponibile per il free climbing estremo e i centri sociali occupati. Perché disperarsi, perché fingere? Ci rimangono tante altre belle cose: il centro-sinistra, per esempio, la pay-Tv, le olimpiadi e i mondiali ogni quattro anni, il calcetto con gli amici (almeno fino al prossimo scempio di legamenti), la settimana bianca, il circolo del tennis e della vela, diventare ricchi, ingrassare con grazia… E va bene, andiamo in discoteca. Non riesco a immaginare una sola altra situazione in cui io mi senta più antico e inadeguato, eccetto forse quando mia madre dice che mi devo sbrigare a sposarmi e a fare un figlio perché non vuole che suo nipote cresca accanto a una figura paterna troppo statica (io non rispondo, visto che non le rivolgo la parola da sette anni, ma questa è un’altra storia). Sabato sera. Non è stato tanto guidare fino a lì, dato che non ho guidato io, anche se stare chiuso in una scatola puzzolente e rumorosa per svariati chilometri, nell’ora in cui di solito vado a dormire, non è proprio quello che io definisco un buon inizio. Non è stata nemmeno la fila. Ero troppo pigiato e stordito dall’odore di mandria misto a dopobarba; troppo attento a non farmi sfuggire di mano l’ambitissimo pass gratuito (che Max, neanche a dirlo, ci aveva procurato con una telefonata); troppo preoccupato di perdere il nostro prezioso assetto di tre coppie sessualmente miste, senza il quale i buttafuori, per primordiali motivi di sicurezza, non ci avrebbero lasciato entrare. L’accozzaglia di sensazioni spiacevoli mi ha investito appena abbiamo messo piede dentro. Tanto per cominciare, la musica era troppo alta. Non me la ricordavo così l’ultima volta (quando è stato, due anni fa?), e questo è un brutto, bruttissimo segno. Quando la musica diventa troppo alta per i tuoi gusti, il sintomo parla da solo. In secondo luogo, l’età media era di circa dieci anni più bassa della mia. La cosa in realtà non mi avrebbe dato nessun fastidio – cosa sono dieci anni, in fondo? – se non fosse stato per quell’entusiasmo che mostravano tutti, tranne me. Non riuscivo a credere che in un periodo non troppo lontano della mia vita, io assomigliavo a quelli lì. Con i loro colli sottili e freschi da pollastri, gli accenni muschiosi di barba, gli addominali definiti sotto magliette elastiche, e una luce negli occhi che significa speranza di combinare qualcosa prima di perdere i sensi. So che non dovrei lamentarmi, a ventotto anni non ne ho ancora il diritto; è solo che queste sono le prime occasioni in cui mi rendo conto di non essere più in prima fila. Ciò che è all’ultima moda è progettato su misura per gente che portava ancora i pannolini quando io ho scoperto il sesso. Se questi non sono pessimi indizi… Ed ecco che comincia. Dopo qualche sorrisino imbarazzato e un paio di battutacce per fingere di aver ristabilito distanze e gerarchie a noi favorevoli – noi siamo i navigati uomini di mondo, loro i pivellini – qualcuno dei tuoi amici se ne esce dicendo che Forse avremmo dovuto scegliere un club frequentato da gente della nostra età. E tu ti rendi conto di avere un’età in cui puoi già trovare club per quelli della tua età. Ti immagini chiuso dietro le sbarre o dentro una teca di plexiglas in uno «Zoo per Trentenni», con un mucchio vociante di adolescenti divertiti che passeggiano fra le gabbie e osservano questi patetici relitti di un’altra epoca facendogli le boccacce. Poco rassicurante. Dieci anni non sono un abisso, ma sono già sufficienti per cogliere lievi e agghiaccianti sfumature. La prima parte della serata, in verità, non è poi così male. La pista è vuota e il grosso della massa deve ancora affluire. Il d.j. mette su musica interlocutoria per non bruciare subito le hit del momento, e mischia la peggiore robaccia commerciale anni Ottanta e Novanta nell’intento di apparire sofisticato. Mentre la voce paffuta e compiaciuta di Simon Le Bon chiede che qualcuno perfavore spieghi le ragioni di questo strano comportamento in una versione dance di Skin Trade, noto con sorpresa di provare piacere a canticchiare canzoni che fino a pochi anni fa consideravo spazzatura. Decadimento dei tempi o decadimento personale? Come richiamato da un invito subliminale, il Popolo della Notte si riversa in pista. Anche la musica ha una virata: i pezzi datati che avevano aperto la serata lasciano il posto ai riempipista del mese. Ci buttiamo. Dopo esserci aperti la strada a furia di spintoni e aver preso possesso di un paio di metri quadrati di pista, balliamo. Non avevo mai visto nessuno dei miei amici ballare prima d’ora. Perdita trascurabile, tranne che per il Conte. È da urlo. Non si può davvero dire che balli, dato che è un raro esempio di perfetta scoordinazione. I movimenti delle sue gambe sembrano non avere alcun rapporto con quelli del bacino e del tronco che, d’altronde, non vanno per niente d’accordo con l’ondeggiare di braccia e mani. Sembra che ogni centimetro del suo corpo sia indipendente dal resto, con una volontà e un tempo propri. Il mignolo della mano destra nulla sa dell’anulare che gli vive accanto, e anche le falangi di uno stesso dito parlano lingue diverse. È scontato che nessuno dei suoi ritmi interni segua quello della musica. Mai visto niente del genere: ridicolo, ma con un suo fascino perverso. Trenta o quaranta minuti dopo ci ritroviamo ai margini della pista, mentre la musica si fa sempre più estranea. Riguadagniamo, non senza fatica, qualche sedia libera, mentre mi coglie la fastidiosa sensazione che i nostri movimenti siano pilotati da una regia invisibile. Qui comincia la parte deprimente. Sono le due e mezza (solo le due e mezza!) e siamo già a pezzi. Ci faremmo seviziare piuttosto che ammetterlo, ma tanto ce l’abbiamo scritto in faccia. Siamo sfatti. Tutti, a parte Max, che invece nuota nel suo, abborda facile e scompare in un privé. Perché se sto al computer a lavorare posso andare avanti tutta la notte come se niente fosse, e invece in discoteca dopo le due divento uno zombie? Preoccupante. Nessuno di noi parla: la musica si è fatta ancora più forte e le palpebre diventano pesanti. Mentre sono lì che guardo con interesse nel vuoto, mi viene in mente un lato negativo dei pass gratuiti: non hai la consumazione pagata al bar. Non che sia un grosso problema, è più una questione di metodo. A diciott’anni la consumazione gratuita era un confine: la metà virtuale della serata. Un traguardo filosofico. Questa prima parte era dedicata all’osservazione dell’ambiente, alla selezione degli obiettivi sessuali delle ore successive, alla qualità della musica e al ballo per il gusto di ballare. La prima consumazione gratuita segnava la fine di quello che potevi e dovevi fare da lucido. Sapevi sempre, come per grazia divina, quando avventarti sul filo di lana della prima bevuta a sbafo. Da quel momento in poi si andava in discesa a spirale, in un crescendo via via più confuso di stimoli sensoriali. Adesso, senza la prima consumazione gratuita, ho paura di perdere l’attimo giusto. È dunque con mosse incerte che mi avvio al bar in stile cyber-tropicale. Dopo aver incassato cinque o sei gomitate all’addome, mi impossesso di un bicchiere di sfrigolante bibita analcolica con ghiaccio (ah già, io non bevo più alcolici: addio impunito delirio etilico) e mi ricamo un angolino tutto per me. Mi accorgo che in pista balla solo la metà dei ballanti. La gente si agita ovunque ci sia uno spazio non occupato da qualcun altro. Le teen-ager (termine antiquato, temo) amano soprattutto coreografarsi in file di tre o quattro, scalmanandosi con aggressività e precisione quasi brutali in movimenti che assomigliano più a esercizi da palestra che a una vera danza. Ce n’è un trio proprio dietro la postazione dove Marianna, Bella e Chiara stanno rifiatando in silenzio. Una in particolare sembra invasata: ventre piatto, schiena nuda e sinuosa che si armonizza a perfezione con un sedere di perfetta rotondità e consistenza, sorretto da gambe atletiche che si muovono con velocità, esattezza e ripetitività. Sembrano i pistoni di un robot da catena di montaggio. Senza volere (giuro) faccio poco amabili paragoni fra le mie amiche e le tre teen. Sarei ingiusto a dire che sfigurano, perché non è affatto vero. Sono ancora carine ed eleganti, e di certo molto più simpatiche ed esperte in C++, ma sarei altrettanto ingiusto se fingessi di non notare alcuna differenza con le tre virago, perché la differenza c’è. È piccola, ma la comparazione ravvicinata non permette illusionismi. Si tratta di un lieve ispessimento, una minore elasticità appena visibile, che denuncia i dieci anni di servizio in più che le mie compagne possono vantare (il numero dieci comincia a starmi sulle palle). Per un riflesso di correttezza sessuale rivolgo l’attenzione alla mia pancia, gonfia e rotonda, che rimanda alle spalle, più magre e strette del solito, se paragonate a quelle dei torelli palestrati che circolano nei paraggi. La musica è diventata un frastuono rimbombante ed estraneo nel quale non riesco più a distinguere alcuna tensione ritmica. Il solito amico dell’amico (più giovane di me di qualche primavera e che funge da trait d’union col mondo dei pischelli) mi informa che si tratta della musica industriale da discoteca che fa tendenza e che conoscono tutti (grazie). A me sembra rumore d’ambiente registrato con un microfono piazzato sotto il tombino di una strada ad alta densità di traffico pesante. Più per evitare una figuraccia che per altro, decidiamo di non mollare lì e di ributtarci in pista. Bella, Marianna e Chiara, credo per un istinto emulativo, si mettono a pompare di brutto, improvvisando passettini decisi ma un po’ meccanici: la differenza si nota più che mai. Il Conte mi guarda inarcando le sopracciglia, e fa: – È ora di dare una sterzata a questa serata del cazzo! – Si toglie la maglietta roteandola per aria ed esibendosi in un fuoco di fila di scatti muscolari assurdi. Però sembra riscuotere un qualche insperato successo presso un gruppo di ragazzine che gli si avvicinano urlanti (temo lo stiano prendendo in giro). Resistiamo nove minuti e mezzo, dopodiché, raccolto uno sguardo d’intesa generale, ci allontaniamo vinti, sudati e afflitti. Uscendo dal locale non riesco più a sentirmi le gambe né la dignità. E qui arriviamo infine al grosso casino che ho combinato. Bella guida la sua slanciata berlinetta inglese con sciolta sicurezza, una mano sul volante e l’altra a stuzzicarsi il piercing al sopracciglio. Sul sedile di dietro, con me ci sono Chiara e Marianna, davanti il Conte, che è già un bel po’ andato. Max, presentatosi nel suo assetto da tempo libero (moto e giacca di pelle, che Dio lo fulmini), si è allontanato rombando assieme a un corpo da favola e a una massa di capelli fulvi e selvaggi a far bella mostra dal sellino posteriore. All’incrocio fra Harissa e Betelgeuse boulevard, la bimba tira dritto invece di girare. E io mi dico: boh, sarà per la prossima. All’incrocio successivo niente, al terzo niente, e io penso: vorrà prendere la circonvallazione. Invece col cavolo, perché infila il sottopassaggio per l’oltrefiume, e dunque è chiaro come il cielo a settembre che sta accompagnando prima loro. Il che è stupido, visto che io sono l’unico che abita sull’altra riva. Dunque un giro inutile. Oppure. L’oppure non mi viene in mente subito, anzi non mi viene in mente proprio, finché non molliamo gli altri e passo davanti con lei. L’abitacolo dell’auto si carica della tipica tensione che due persone sole e sessualmente compatibili sviluppano alle tre del mattino quando si trovano da sole in uno spazio ristretto. Lampi di immagini e desideri, respiro corto, i ma no! lottano con i però forse… Il mio intuito maschile, in precedenza stordito dalla stanchezza, mi suona l’assolo di batteria di Waterfront versione remix dritto nel cervello, ma sono troppo nervoso per apprezzare. Comincio a parlare molto (cosa per me insolita), e mi scopro a spiarla affannato mentre si tormenta il piercing, quello all’ombelico stavolta. Mi sembra che non siano passati più di quaranta secondi e siamo già sotto casa mia, al che io, senza sapere bene perché, faccio la battuta più scontata della storia del cinema. – Ti va di salire a bere qualcosa, non so, un caffè? – Un caffè, a Bella che lo odia, ma che cazzo dici? E lei: – No, mi va di salire e infilarmi nel tuo letto. Ma non ti spaventare, senza impegno, eh? Ed ecco, signore e signori, nella sua forma più radiosa, il grosso, l’immenso casino che ho combinato. 16. Ripensandoci dopo, a mente fredda, la cosa gli si rivelò in tutta la sua assurdità. Ma in quel momento, suggestionato dalla bizzarra personalità di Morgan e dal baraccone che lo circondava, Ganimede si era fatto coinvolgere senza rifletterci troppo. – Lei è molto alto, Borsch. Posso sperare, anche se le due cose non vanno per forza insieme, che lei a pallacanestro non sia una mezza sega? – Il finanziere si chinava intanto sotto la scrivania, riemergendone con un opaco pallone da basket, smisurato nelle sue mani da peso piuma. – Da ragazzo me la cavavo, – aveva risposto lui. Le braccia di Morgan scattarono in avanti e la sfera arancione consumò in un centesimo di secondo lo spazio che la separava dalla faccia di Ganimede, che a stento riuscì a parare il proiettile con uno scatto. Uno scatto che colse di sorpresa anche il suo legittimo esercente, un riflesso giunto inaspettato da sbiadite lezioni di educazione fisica impartite in polverose e lontanissime palestre, ormai perse nell’antro del tempo. – Eccellente, mi segua –. Il comportamento di quell’ometto piccolo e buffo, non aveva alcuna soluzione di continuità, nessuna pausa, nessun punto a capo. Si alzò, mostrandosi in tutto il suo slanciato metro e mezzo; stentorei e veloci passi di marcia fino alla parete opposta dove, toccato un imprecisato comando, fece scorrere i pannelli di quercia su cardini invisibili, e rivelò l’esistenza di una camera segreta. Nessuna finestra: prese d’aria e ambiente climatizzato, due canestri regolamentari sui lati corti del rettangolo e due più bassi sui lati lunghi, luce artificiale bianca e fredda come solo la luce artificiale sa essere, parquet a terra. Insomma, una palestra. Morgan si avvicinò con scioltezza a uno dei canestri più bassi. Quando fu abbastanza vicino, accelerò entrando in terzo tempo e concludendo l’azione con un volteggio e una schiacciata. – So che schiacciare in un canestro basso suona un po’ come la rivincita dei poveri, ma insomma… Se le servono scarpe o abiti adatti, nello spogliatoio troverà tutto l’occorrente. Si cambi e facciamo una partita. Ganimede avrebbe preferito camminare a piedi nudi sulle braci ardenti piuttosto che calzare scarpe che non fossero state fatte da lui, perciò si limitò a togliere la giacca e a sfilare la cravatta dal colletto slacciato. – Si gioca a un canestro, di quelli alti, a ripetizione. Chi prende il rimbalzo difensivo torna a centrocampo prima di ricominciare… E comincio io –. Ganimede non aveva nemmeno finito di digerire le regole snocciolate a raffica da Morgan, che questo lo aveva già bruciato sul primo passo, dirigendosi vittorioso a canestro. – Due a zero! – Borsch lo guardava allibito. Era una prova anche questa? Un ulteriore tentativo di metterlo in ridicolo? Ganimede decise di pensarci più tardi, e intanto assunse per istinto la posizione fondamentale: ben giù sulle gambe a difendere in scivolamento contro il suo avversario. Morgan lo squadrò sorridendo, senza smettere di palleggiare. – Finalmente si è deciso a farmi vedere qualcosa che assomigli a un po’ di sano basket! – Soddisfatta ironia nella sua voce. Ganimede poteva contare su un vantaggio di circa quaranta centimetri in più e quindici anni in meno, ma la cosa non sembrava impressionare affatto il suo avversario. Morgan continuava a palleggiare con assoluta sicurezza, guadagnando terreno con finte e cambi di mano ogni volta che voleva, e alternando tiri da fuori con precisione da cecchino a entrate perentorie. Come se non bastasse, per quanto concitate e impegnative fossero le azioni, non aveva smesso un attimo di parlare. E parlava d’affari. – Per quanto riguarda i termini del contratto, non c’è da preoccuparsi: ho legioni di avvocati e tributaristi che saranno felici di individuare la soluzione migliore. Sarà sufficiente metterli in contatto con il suo ufficio legale e lasciare che si sbranino da soli –. Finta di accelerazione a sinistra, palleggio, arresto, tiro in sospensione. Otto a zero. – Riguardo invece sua figlia, dovrà essere preparata con cura per superare le prove di ammissione. I test si svolgono e vengono corretti in una situazione di massima chiarezza e trasparenza, quindi sarà bene far avvicinare la sua amata Dorotea al miglior risultato possibile. Quello che poi non riuscirà a metterci lei, ce lo metteremo noi: anche chiarezza e trasparenza hanno dei limiti. Le va bene? – Mezzo giro sul piede perno e gancio. Dieci a zero. – Perfetto. E adesso un paio di piccole avvertenze a suo esclusivo uso e consumo. Ha mai sentito quello che si dice di me? Che sbatto le palpebre una alla volta per non perdere mai di vista la situazione. Be’… per quanto pittoresca, la definizione è esatta –. Scatto sulla fascia e tiro da tre dall’angolo. Tredici a zero. – Devo sempre avere tutto sotto controllo, è una piccola e utilissima mania. Si è chiesto perché c’è quel mostruoso casino sul piano della mia scrivania? Si sarà chiesto anche cosa nascondono i cassetti. Le rispondo subito: sono vuoti. Non li uso perché tengo tutto sulla scrivania, e tengo tutto sulla scrivania perché devo sempre avere tutto sott’occhio –. Finta a destra, cambio di mano dietro la schiena, arresto e tiro in appoggio al tabellone. Quindici a zero. – Adesso lei è in affari con me, e verrà setacciato, perlustrato, scannerizzato ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni la settimana, dodici mesi l’anno. Sono sicuro di non essermi sbagliato sulla sua affidabilità, ma se così non fosse, lo verrò a sapere e le spacco il culo –. Rimbalzo lungo a scavalcare Ganimede, elevazione e schiacciata a due mani. Diciassette a zero. Bruciava ancora. E sì, gli bruciava ancora, al buon Ganimede, la batosta cestistica incassata con Morgan, mentre aspettava che sua figlia Dorotea rientrasse a casa. Per quanto ci tornasse su col pensiero, non riusciva proprio a capire com’è che un attimo prima stava parlando d’affari in modo quasi ortodosso, e quello dopo bestemmiava sudato e ansante nel vano tentativo di marcare un nano fulmineo e logorroico, cercando allo stesso tempo di salvaguardare un briciolo di dignità. Aspirazioni entrambe frustrate dalla perizia cestistica e dialettica di Morgan, comunque. Ne era venuto fuori con un venticinque a zero e molti dubbi sul futuro della figlia. Dorotea. Dorotea la piccola, la ottusa e amatissima figlia, che sembrava aver organizzato un proprio sistema di vita a base di superficialità e disinteresse. Fin da bambina non aveva mai provato curiosità per nulla che il padre le proponesse. Mai i suoi occhi si accesero per circhi, clown, feste private, animali domestici, giocattoli, parchi (naturali, a tema, Disney e non), e, quando fu più grande, per concerti, attività scolastiche, libri, sport, cinema e teatro. «Cazzo», pensava suo padre, «nemmeno sesso e droga la svegliano un po’!» A nessun padre sano di mente può arridere l’idea di esporre la propria figlia sedicenne alle ambigue seduzioni di sesso e droga, ma d’altronde tutto era migliore di quel coma ambulante. Ma i ripetuti inviti che Ganimede estendeva ai suoi giovani dipendenti bellocci non sortirono gli effetti sperati. Le languide serate in piscina scorrevano spesso del tutto disertate da Dorotea. La corte serrata e ridicola, condotta dall’intrepido segretario particolare di Borsch, Thomas Cardoni, incassava al massimo sguardi di annoiata sopportazione. Anche i pacchetti di ottima marijuana (sempre in modica quantità) che Ganimede seminava in giro rimanevano desolati e intonsi. Si fosse almeno potuto dire che quell’atteggiamento rinunciatario era dovuto alla dolorosa perdita della madre, avvenuta in tenera età, sarebbe stata una mezza consolazione. Ma non c’era stata grande differenza nel comportamento di Dorotea prima e dopo il lutto. In una gara di partecipazione emotiva fra lei e uno scaldabagno, nella migliore delle ipotesi i bookmaker li avrebbero dati alla pari. Le uniche volte che Borsch riconosceva in sua figlia una sana e genuina attenzione, questa veniva rivolta allo strano tizio pallido che si inseriva da pirata nelle frequenze televisive recitando monologhi senza capo né coda. A Ganimede non pareva granché, ma di certo riusciva a stregare Dorotea. Una vera passione condivisa con molti suoi coetanei, almeno. Ganimede coltivò una piccola speranza, ma, col tempo, dovette arrendersi all’evidenza dei fatti: l’ammirazione che la figlia nutriva per Daryl Domino non era servita a forzare la sua chiusura totale verso tutto quanto non fosse Daryl Domino. A parte la frequentazione di un fan club e l’apparizione nella sua stanza di poster e gadget del menestrello dark, Dorotea non aveva modificato di una virgola il suo atteggiamento. Queste le opinioni di Ganimede su sua figlia. I pensieri di un genitore, con i limiti dei pensieri di un genitore, che, in quanto tale, certe cose non le può capire. La chiave girò nella toppa e, pochi secondi dopo, passi lunghi e pesanti rimbombarono nel corridoio. – Dorotea, sei tu? Una figura di matronale ingombranza emerse dal buio. Dorotea gettò le chiavi sulla consolle del salotto, bofonchiando un: – Ciao pa’, – mentre già si avviava alla propria stanza. – Aspetta un momento –. La ragazza girò appena la testa, guardando il padre da sopra la spallina imbottita del giubbotto di neoprene scuro. – Senti amore… volevo dirti che… ho pensato… in questi ultimi tempi ho pensato molto a te, al tuo futuro e credo… – Il silenzio inerte della bambina di certo non lo aiutava, e allora prese la rincorsa. – Credo che sarebbe meglio (molto meglio per te, intendo) se ci dessimo da fare per trovare qualcosa che ti impegni un po’. Dorotea si mise di tre quarti, le mani in tasca, e fece spallucce. – C’è qualcosa in particolare che ti incuriosisce, qualcosa che pensi di voler fare? – Boh! – La risposta non lo colse impreparato. Al contrario, aveva posto la domanda proprio per sollecitare quella sillaba insulsa (Dorotea rispondeva boh! al novanta per cento delle domande che lui le rivolgeva). – Vedi… ho sentito qualche amico, e abbiamo pensato che forse la cosa migliore per te è quella di frequentare un corso. Uno di quei corsi di preparazione… per allenarti, diciamo così, ad affrontare test attitudinali e prove selettive… che senza di quelli, oggi, non vai da nessuna parte. Così poi ci potremo guardare intorno con più serenità e… decidere. Ganimede trovò più facile dirle solo una parte del suo progetto. Era convinto che per lei non avrebbe fatto molta differenza. Rimase a guardarla per qualche attimo, sperando di indovinare in lei una sia pur minima apertura. Anche un moto di ribellione accompagnato da un secco vaffanculo sarebbe andato benissimo. Ottenne di rimando solo un acquoso sguardo di attesa. – Non credi anche tu che questa sia la soluzione migliore? – …Boh! Penso di sì, cioè, se lo dici tu… 17. Di dormire, neanche a parlarne stanotte. Tutto il tempo con gli occhi sbarrati a scrutare il soffitto, che sembrava ondeggiare come un cupo mare notturno capovolto nell’oscurità della stanza. Con le immagini dei momenti appena trascorsi proiettate e riproiettate nella testa. Noi due che entriamo in casa (chiave nella toppa solo al terzo tentativo), che ci baciamo con voracità, che ci sfiliamo i vestiti con gesti goffi e convulsi. La mia risata sciocca e lo sbuffo di sollievo appena le tolgo gli slip. – Cosa c’è da ridere? – mi fa lei. E io non riesco neanche a mentire. – Temevo solo che venisse fuori un altro po’ di quella ferramenta che porti sparsa per il corpo. – Imbecille! Poi ancora nebbia di sensazioni sovrapposte. Tatto olfatto gusto gusto olfatto tatto. Visualizzo incorrotti paesaggi naturali. Sentieri meravigliosi che, fra le pareti levigate dell’Himalaya, conducono al Mustang. Magiche ruote di preghiera, vecchie di millenni, che nell’aria integra fischiano piano il mio destino. Canyon sottomarini, rilucenti di minerali sconosciuti, dalle miracolose e irraggiungibili virtù taumaturgiche. Un porno che ho visto il mese scorso… ommerda no! Ricaccio indietro le immagini di carni vibranti e perverse con l’aiuto di un’equazione, mio vecchio trucco per prolungare l’atto sessuale: impegno e purifico la mente con operazioni matematiche. Calcolo a casaccio un integrale indefinito, ma non riesco a ricordarmi il teorema di Torricelli Barrow. Nessuna lucidità, niente analisi, si può solo subire. Il che non è poi male. La radio sveglia con i fiochi barlumi dei suoi cristalli liquidi dice alla stanza che sono le 5:48, mentre Bella scivola piano fuori dal letto e comincia a vestirsi. – Vai già via? – Il già lo metto per un riflesso verbale condizionato di cortesia; in realtà non so dire se mi dispiaccia. – Devo alzarmi presto se voglio che il mio trasloco qui da te arrivi a buon punto prima di stasera. – …Oh! – Scherzo, coglione! Già ti vedevi prigioniero di una psicolabile in casa tua, eh? Ho solo bisogno di dormire, e fuori dal mio letto non ci riesco. Quindi i progetti di convivenza li rimandiamo. Ti senti meglio? – Molto meglio, grazie. Passo il resto della domenica a letto. Sveglio ma inerte. Verso le sette di sera mi sfiora l’assurdo pensiero di telefonare, che scaccio subito come una mosca. E no, dài. No no. Lunedì. Pedalo forte, stamattina, tracciando in mezzo alle lamiere già surriscaldate delle auto un sentiero magico che scompare subito dopo il mio passaggio. Il traffico che tutto inghiotte e tutto risputa non riesce a mettermi il sale sulla coda. Un cavaliere fantasma in felpa, pantaloncini ed elmo di polivinile, a cavallo di un lucido destriero a pedali, trafigge l’orrido mostro da parte a parte. Per gli ignavi intrappolati nel limbo delle loro auto sono come una breve apparizione; giusto un tremito colorato che sfiora sportelli e specchietti retrovisori. Posso vedere, o forse solo intuire, le loro facce incorniciate dai finestrini, cristallizzate in pallidi profili da cammeo. Una fila infinita di cammei che suonano il clacson, aspettando il semaforo verde. Il manager in fumo di Londra sta annegando nella noia spaziosa e climatizzata della sua mercedes, circondato dalle note di Gershwin, una musica che non capisce ma che gli hanno detto essere molto sofisticata. La madre stringe il volante duro dell’utilitaria fin quasi a spezzarlo; vi si aggrappa per non essere trascinata via dal fiume in piena del vociare dei figli. – Mami! Arriveremo tardi a scuola! – E mami invece se ne fotte, o meglio, vorrebbe potersene fottere ma non può. Se potesse, mami, pur amandovi alla follia, in questo momento vi ucciderebbe. Vi sigillerebbe dentro l’auto, non prima di aver canalizzato i gas di scarico nell’abitacolo, e se ne andrebbe a fare shopping, mami. Che ogni tanto se lo merita anche lei un po’ di svago. Dodici suore intrappolate in un pulmino cantano, simulando ispirati alleluia, ma almeno una buona metà di loro sta chiedendosi come diavolo è arrivata lì e che cosa può più fare per fuggire. C’è una coppia in silenzio. In genere, nelle grandi rappresentazioni di gruppo le coppie litigano, perché fa più coreografia. Ma questi no: stanno muti, con gli sguardi fissi davanti a loro. Torvi. Fermi e consapevoli di invecchiare. Settanta volte sette macchine per settanta volte sette su settanta volte sette strade, incolonnate davanti a settanta volte sette semafori. L’apocalisse di ogni mattina. E io passo: solitario Caronte in canoa singola. Attraverso l’Acheronte ignorando le richieste di passaggio, schivando energumeni esasperati che brandiscono cric, sorridendo tra fanculi, bastardofigliodiput e tispaccoilcul, e innalzo vittorioso il dito medio al cielo. Mentre spingo forte sui pedali penso. E ripenso a lei, ovvio, a Bella di Giorno, ché non sono mica uno di quelli che il sesso lo dànno per scontato e la mattina dopo manco si ricordano più con chi, perché e in quale posizione. Ci ripenso sì. Ho davanti agli occhi Bella come la vidi la prima volta (oh, romantico!) Stravaccata sul divanetto color canapa, piazzato nell’ingresso dei nostri uffici. Sospetto che Ken le avesse detto di attendere lì per poter valutare le nostre immediate reazioni quando l’avessimo vista (e non potevamo fare a meno di vederla, dato che stava piantata proprio in mezzo al nostro spazio vitale). Non so bene come reagirono gli altri ma, per quel che riguarda me, posso dire che… be’, un paio di cose le posso dire. Mi ricordo la posizione approssimativa del suo corpo su quel sofà. Come se qualcuno avesse buttato lì un manichino, una figura senza vita né volontà. Appena arrivai a una distanza sufficiente per valutare sesso e caratteristiche fisiche del fantoccio, dovetti ammettere di trovarmi davanti a una delle poche eccezioni ai grandi perché della mia vita. Il perché è questo: «Perché incontro delle bellissime ragazze sempre e solo per strada o, comunque, mai in un contesto sociale che mi permetta di rivolgere loro la parola senza sembrare per forza un maniaco sessuale?» Invece adesso lei era lì, a portata di approccio. Bellissima. Vestita come un incrocio fra Morticia Addams e Johnny Rotten, ma bellissima. E io potevo parlarle senza passare per un satiro. – Che cazzo guardi? Cos’è, sei un maniaco? – esordì lei. – Dovresti assumere un atteggiamento più positivo nei confronti del prossimo, – borbottai mortificato, mentre mi dirigevo al distributore automatico di bevande calde. – Caffè, tè…? – Attento, l’ultimo che mi ha fatto la battuta caffè tè me, si è preso un calcio nelle palle. – …tisana alle erbe e ginseng? Un valium, magari? – Senti, scusa… non vorrei sembrarti nevrotica… è che sono un po’ sulla difensiva per via del mio nuovo lavoro qui e… Il suo umore aveva cambiato rotta; adesso era una ragazzina confusa e malleabile ma… NUOVO LAVORO QUI? Che cacchio significava «nuovo lavoro qui»? Perché non mi dicono mai le cose importanti? Già mi vedevo a dividere la mia bella stanzetta con una psicopatica umorale, ridotto al silenzio dai suoi eccessi collerici, brutalizzato da continue violenze psicologiche, eccitato, coinvolto in false e strumentali accuse di molestie, citato per miliardi, licenziato con disonore, quando Ken emerse dal suo ufficio in fondo al corridoio. – Vedo che hai già fatto amicizia con la nostra nuova collaboratrice. Benissimo! A partire da oggi Bella sarà inserita nel nostro gruppo di lavoro. Sto già facendo predisporre una postazione aggiuntiva nella stanza del Conte. Il mio sospiro di sollievo a quella notizia fu così evidente che per almeno dieci minuti mi sentii in dovere di mostrarmi amichevole e disponibile come un saggio fratello maggiore (sempre ammesso che ai fratelli scivoli così spesso lo sguardo sul fondoschiena delle sorelle). La portai in giro per i locali, spiegandole come funziona la nostra routine lavorativa e introducendola ai caratteri e alle manie dei suoi nuovi colleghi. Un paio di volte fui addirittura spiritoso in maniera elegante e leggera, come si conviene a un buon collega – cosa per me alquanto rara. Arrivato al fondo del mio repertorio da Cary Grant in edizione economica (otto minuti di autonomia), la riconsegnai nelle mani di Ken, lasciandogli l’improvvido compito di presentarla al Conte, con annessi e connessi. Quanto a me, non volevo essere presente. In effetti, con Ken si era già parlato della necessità di arruolare un altro paio di persone. Eravamo tutti concordi, ma immagino che ciascuno di noi vecchi desse per scontato che avrebbe partecipato alla selezione degli aspiranti. Ken, invece, non aveva nemmeno preso in considerazione la possibilità. Per la scelta dei collaboratori obbediva a personalissimi, rigidi criteri, cui non avrebbe ammesso deroghe: l’unica sua manifestazione di autorità non discutibile. Scoprimmo in seguito – non perché ce lo disse lui, ma solo confrontando i nostri rispettivi e impresentabili passati – che il nostro buon Papà Lavorativo ha una vistosa preferenza per i caratteri disturbati e le personalità instabili. Probabile che ritenga impossibile separare il genio dalla sua robusta dose di sregolatezza. Butta l’amo in manicomi, sanatori, collegi e galere varie, il nostro caro Papà. Tutti noi, chi più chi meno, rispondiamo a due fondamentali requisiti: siamo stati dei disadattati e abbiamo fatto qualcosa di molto cattivo col computer negli ultimi dieci anni. Niente roba da hacker, però. Nessuna stronzata compiaciuta come piratare il sistema informatico del Pentagono o cose così. Ken vuole gente che abbia combinato qualcosa di autolesionistico, che si sia fatta male con le sue stesse qualità, e noi lo accontentiamo in pieno. Tutti tranne Max. Il perfetto. Il bambino d’oro. Un paio di settimane dopo il suo arrivo (tempo ragionevole per rompere il ghiaccio), Bella ci raccontò di essersi fatta espellere da quattordici diverse scuole e istituzioni varie che l’avevano via via accolta nel giro di meno di cinque anni – una media di un’espulsione ogni 128,5 giorni, ci disse fiera – e sempre grazie a scherzacci micidiali di stampo informatico. Tipo fare apparire su un tabellone pubblicitario luminoso scritte come: «La preside X del collegio tal dei tali ciuccia il vigoroso membro del prof di educazione fisica Y!» (Il tabellone luminoso era uno di quelli di Piccadilly Circus, a Londra, per la precisione). Fino a qui niente di originale, a parte le colossali dimensioni dello sputtanamento a cui sottoponeva le sue vittime. Il vero tocco d’artista, che la distingueva da legioni di ragazzini turbolenti e dispettosi, stava nel fatto che lei firmava sempre le sue malefatte. Non con una sigla anonima o un masturbatorio nickname; niente segni di Zorro per lei, ma una bella e autentica sottoscrizione: nome, cognome e perfino indirizzo, a scanso di omonimie. – Che gusto c’è a perseguitare una persona, se lei non sa chi è il suo carnefice? – Questa era la sua argomentazione principale. A chi le chiedeva se non avesse paura delle conseguenze, rispondeva: «Deve pur rimanere qualcuno che paghi per le proprie responsabilità in questo cazzo di mondo, o no?» Tre mesi dopo il suo arrivo (tempo ragionevole per entrare davvero in confidenza) ci parlò del suo ultimo tragico capolavoro. Conosce un bastardo e, seguendo il luogo comune, se ne innamora. Il bastardo la mette incinta. Il bastardo si dilegua senza una parola. Lei decide di non tenere il bambino. – Credo che lo avrei fatto comunque, ma almeno non sarei tornata a casa da sola in metrò, – è il suo unico atto di accusa al bastardo. Due mesi dopo il fatto, comincia a diffondersi per e-mail un piccolo videogioco che si chiama Castra il Vigliacco. Una virago con denti lunghi e aguzzi bracca attraverso una stazione di metropolitana-labirinto un fustacchione piagnucolante in pantaloncini. Se la virago lo intercetta prima che lui salti sul treno, gli strappa via le braghette e gli stacca i gioielli pendenti con un colpo secco delle sue zanne. Un po’ trucido, ma con un’animazione simpatica. Alla fine del gioco, al posto dei classici titoli di coda col nome del creatore e la dicitura sui diritti registrati, appare una scritta semplice e asciutta: Questo gioco è dedicato a te, (nome e cognome del bastardo), per aver lasciato abortire da sola la tua ragazza (nome e cognome di Bella), che è dovuta tornare a casa in treno, sanguinando sui sedili senza un cane a farle compagnia. Grazie di tutto, buon divertimento e occhio alle palle, campione! Capito il tipetto? Ormai Bella è con noi da quasi tre anni, ed è cambiata come mai ho visto una persona cambiare. Si è addomesticata. Le è rimasta la fissazione del piercing, ma la vive come se fosse una colpa. Ormai ci sono due Bella: una vorrebbe marito, figli e casa con giardino, l’altra vorrebbe essere Janis Joplin. E si sputano addosso a vicenda. È contenta della sua vita attuale, ma dà anche l’impressione di volersi sempre trovare in un posto diverso da quello in cui è. A volte è inquietante lavorare con qualcuno che ha scritto in fronte il desiderio di scappare via per infilarsi in un bar malfamato a scolare rum liscio con un ferro da calza infilato nel naso. Per non dire quanto debba essere sconcertante per i suoi amichetti punk alzare gli occhi su di lei e leggerle nello sguardo la voglia di trovarsi davanti al computer di un ufficio, avvolta in una soffice camicia di flanella. Il Conte una volta ha detto che Bella deve ancora imparare a convivere con la paura di perdere le cose a cui tiene, e con lo stupore di avere scoperto che queste cose non sono delirio e autodistruzione. In questo quadro clinico si inserisce il suo frustrato interesse per la Città Perfetta: il paradiso artificiale della classe media rampante, l’LSD della convenzione sociale. Bella e la sua nuova nevrosi del borghese. Bah! Sguscio fra due berline che fanno a sportellate e devo inchiodare di brutto davanti a una station-wagon che mi taglia la strada. Stronzooooo! Pedala, Giona, pedala. 18. Tebaldo è la persona più magra e allampanata che abbia mai visto in vita mia, pensò Dorotea, sistemando meglio il suo rispettabile posteriore su una scricchiolante poltrona di vimini. Sembra un grissino pallido o, meglio ancora, un candeliere di quel cristallo sottile che se urli in una certa frequenza ti cade giù in pezzi. Valutò la possibilità di emettere un urlo acuto per vederlo vibrare e infrangersi, franando in cocci sul pavimento di linoleum consumato. No, meglio evitare, pensò ancora. Certo, non dovrebbe succedere, ma se poi succede? Sembra così fragile e innocuo. Non mi va che finisca in frantumi per terra. Tebaldo, intanto, per terra già ci stava, a gambe incrociate come un asceta. Scaldava sulla fiamma dell’accendino una pietruzza di hascish infilzata su uno stecchino, per poi sbriciolare, mescolare e rollare un bel cannolicchio con una delle sue cartine con su stampinata la faccia di Daryl Domino. Bella cazzata questa delle cartine, si disse Dorotea. Daryl non aveva mai parlato dell’uso di droghe nei suoi interventi. Nessuno poteva dire di sapere un accidente della sua posizione riguardo a quel tema. Cosa c’entravano adesso queste cartine? Era pura merda da collezionismo commerciale. E se avessero prodotto delle calibro 9 con l’effigie di Daryl incisa sul calcio, cosa avrebbe fatto Tebaldo? Se ne sarebbe comprata una per poi iscriversi a un poligono di tiro? Forse no, visto il rischio di cadere in frantumi a ogni detonazione. Però il problema restava. Ne avevano già discusso e Tebaldo aveva liquidato la cosa come un problema di interpretazione estensiva. Secondo lui si trattava di considerare che l’atteggiamento complessivo di Domino si esprimeva in una sorta di anarchia a trecentosessanta gradi. D.D. poteva certo definirsi una personalità borderline, esponente e portavoce di realtà sociali marginali, freaks, barboni, invisibili, piccole imperfezioni prodotte dalla collettività. Per cui, anche se non ne aveva mai fatto menzione diretta, non sarebbe certo stato contrario all’uso contenuto di droghe leggere. Al che Fanny aveva commentato che una cosa è non essere contrario e un’altra è la tua faccia che fa da sponsor all’intero fenomeno in generale e a una marca di cartine in particolare. Tebaldo, a quel punto, aveva ammesso che sì, forse, considerata da quel punto di vista, la questione cambiava, ma a lui non era mica venuto in mente quando aveva visto il pacchetto su quella bancarella… sì insomma forse… ma tanto ormai le aveva comprate, e allora… E allora adesso gli sembrava brutto buttarle via, ma anche tenerle in mostra non gli andava tanto giù. Quindi cercava di consumarle prima possibile (incombenza cui si dedicava stoico), con un’espressione colpevole stampata in faccia. – Ne vuoi Dot? – Tebaldo aveva appena incenerito lo stoppino, e il braciere già consumava l’espressione di Domino, resa grottesca dalla curvatura della canna. Le porgeva lo spino tenendolo fra le dita lunghissime. – Naaa, io non me lo fumo D.D., nemmeno se mi preghi in ginocchio, – rispose lei. – Già, hanno un che di iconoclasta ’ste cartine, non trovi Teba? – Fanny rincarò la dose mentre se ne stava semisdraiata accanto a Tebaldo, allargando e restringendo a piacimento l’ampiezza delle sue pupille. Dorotea non sapeva dove avesse imparato quel trucco, ma le sembrava inquietante. – Sono stufa. Arcicompletamente e genuinamente stufa. Più sfibrata della corda di un cappio all’ottantesima impiccagione –. La protesta di Fanny Globo non si alzò nemmeno di un semitono rispetto al resto della conversazione. Non era un lamento, ma una semplice constatazione. Fanny non usava punti esclamativi. Non ne aveva bisogno. – Insomma, che stiamo facendo? Ci riuniamo una volta a settimana in questa galleria di memorabilia, mangiamo beviamo fumiamo parliamo guardiamo video di Domino che conosciamo a memoria e… poi? Non mi sembra molto costruttivo, e neanche granché distruttivo. Non mi sembra proprio un bel niente, in verità. – Non ci si aspetta che lo sia –. La voce di Tebaldo impastata dal fumo. – Che sia cosa? – Qualsiasi cosa… niente. Non dev’essere proprio niente, è questo il punto. Solo noi che ci rilassiamo un po’ e ci scambiamo opinioni e notizie su Daryl Domino. Cos’altro dovrebbe essere? – Non ho un’idea precisa in proposito, ma sospetto che dovrebbe essere qualcosa di più attivo. Conosco un tale che dirige un fan club degli Stones e lavora dieci ore al giorno per coordinare tutte le iniziative. – Si vabbe’, ma è diverso. Noi non abbiamo concerti per cui organizzare le trasferte, eventi da seguire, incontri con gli artisti da richiedere e preparare. Niente di simile. Quello che abbiamo e facciamo è tutto quello che c’è, punto e basta. Daryl Domino è senza dubbio un fenomeno, un artista, ma agisce senza alcuna programmazione; di conseguenza neanche noi possiamo programmare niente. E del resto, scusa, è proprio questo il suo punto di forza: le performance di Domino non hanno obiettivi. Libertà dagli schemi. E gratuita per di più. Se non fosse così, in fondo, non ci piacerebbe, giusto? – Sì, ma allora noi cosa siamo? – Ti risponderò in modo filosofico: noi siamo una scuola di pensiero. Fanny si aprì in una risata. Prima leggera, poi sempre più forte, come una piccola scucitura che a causa di una pressione interna si sfilaccia in uno squarcio. – No, non ridere, disgraziata, è così, l’hascish rendeva Tebaldo più assertivo. – Okay, non saremo all’altezza dei classici, ma è questo che siamo. Riflettiamo sulle parole di quello che consideriamo il nostro maestro e cerchiamo di trarne degli insegnamenti da mettere in pratica. – E sentiamo un po’, quand’è che avremmo mai messo qualcosa in pratica noi? – Fanny aveva smesso di ridere e puntava i palmi per terra protendendosi verso Tebaldo. Posizione di attacco. – Ma che vuol dire quando? Sempre! Fin nelle più piccole manifestazioni. – Quando? – ripete Fanny, sempre calma e senza punti esclamativi superflui. Solo un appena percettibile tono di interrogazione nella voce. – Fammi anche un solo esempio di noi che modifichiamo la realtà sull’esempio di Daryl Domino –. Si prese il pollice sinistro con la mano destra, come per iniziare a contare. – Ecco, adesso, se me lo domandi così magari non mi viene in mente ma… – Quando? Silenzio. Il buon vecchio dubbioso Tebaldo riemerse dai fumi dell’oppio con la delicatezza della propria incompetenza. Che bravo ragazzo. – Lo vedi? – rintuzzò Fanny. – Dobbiamo cambiare registro. Stiamo diventando delle macchiette. Siamo già delle macchiette. Macchiette si nasce e si resta, stava pensando Dorotea, tenendosi come sempre fuori dalla mischia. 19. Nonostante la bici, arrivo al lavoro con dieci fatali minuti di ritardo su tutti gli altri. Persino Marianna, ritardataria cronica del lunedì, stavolta ha tenuto ad arrivare puntuale. Lo ammetto, era come credere davvero di poter vedere la slitta di Babbo Natale che scivola sul tuo tetto la notte del 24 dicembre, con le renne, i regali e tutto. Ma da bravo bambino cretino ci speravo. E, in fondo, perché mai uno non si può concedere una parentesi ludica con una collega senza per questo entrare di diritto nell’aneddotica sessuale dell’ufficio? Non so ancora perché, ma adesso so per certo che non si può. Appena mi vede, il Conte accenna un passo di danza (scoordinato) e canticchia il tema di Un uomo una donna. Faccio finta di niente e fuggo dal suo insistito tantantantarataratàtarataratà, solo per passare sotto lo sguardo inquisitore di Chiara e Marianna, che mi radiografano davanti alla macchinetta del caffè. Non sembrano stupite o arrabbiate: è ragionevole pensare che sapessero già tutto ben prima che accadesse. Quale che sia la novità, le donne la conoscono sempre prima. Anche di questo non so dare una spiegazione, ma so che è così. I loro occhi non dicono porco schifoso ma solo e ora voglio proprio vedere che fai, il che è ancora peggio. Max mi accoglie in stanza con una cameratesca pacca sulla spalla. Tento di bruciargli ogni affiorante e ammiccante commentino con un’occhiata che affetterebbe un quarto di manzo. Trattandosi però di Max, che ha una sensibilità molto inferiore a quella di un quarto di manzo, nemmeno ci fa caso, e parte. – Bella seratina, eh…? – Alza due volte le sopracciglia, che nel suo personale codice di vanteria scopereccia virile immagino significhi «Già so, complimenti». Abbasso gli occhi sulla tastiera del mio terminale. Infilato fra la barra dello spazio e la prima fila di tasti c’è un biglietto piegato in due. La calligrafia è quella slanciata di Bella. 1) Non te la prendere se ho spifferato. Meglio dire tutto in una volta sola che ammettere a rate. Se uccidi il mistero, uccidi l’interesse. Oggi sarà seccante, ma domani se ne dimenticheranno. 2) In caso te lo chiedessi, non sono arrabbiata perché non mi hai telefonato, e dunque 3) Non cercare di farti perdonare con attenzioni e gentilezze improbabili. Rilassati; sei stato a letto con me, non mi hai adottato. 4) Hai dei glutei inestimabili. B. Neanche finisco di inorgoglirmi per l’inestimabilità del mio posteriore, che il nostro buon Papà Ken ci chiama a raccolta. Io potrò anche gingillarmi con futili questioni sentimentali, ma gli affari non si fermano, e noi oggi dobbiamo decidere del nostro futuro: i dubbi di Max e la fallimentare esperienza dei travestatistici contro le promesse di stabilità e un gran pacco di soldi provenienti dalla Morgan Holding. La sala riunioni oggi, pur ospitando come al solito un campionario umano più da circo che da briefing, è pervasa da un’insolita atmosfera solenne… Ci siamo confrontati. E parlati a cuore aperto, più sopra che fra le righe. E incazzati. E sputtanati (niente che non si sapesse già in via ufficiosa, a dire il vero). Insomma, abbiamo comunicato. Messo le nostre paure sul tavolo della sala riunioni e fatto la conta. Pesato e analizzato, a volte col bilancino di precisione. Ken ci ha preso per mano, conducendoci a esplorare gli angoli più bui dei nostri timori e delle nostre laide, inconfessabili speranze (perché se si deve fare, allora va fatto per bene). – Ognuno deve prendere posizione in piena autonomia, ma con la massima lucidità e cognizione di causa, – ha detto. E noi gli abbiamo creduto (come si fa a non credere a Ken?) Tutti noi abbiamo esposto opinioni (personali), criticato opinioni (altrui), approfondito opinioni (di Ken). Tutti noi abbiamo votato. Tutti a favore. Unanimità per andare incontro agli Assorbenti e buona notte. Max, i cui dubbi avevano dato origine e urgenza al dibattito, era quasi il più convinto, felice come un bambino che ha ritrovato mamma e papà persi di vista per qualche minuto alle giostre. Ken era raggiante. Ha voluto stringere la mano e abbracciare ognuno di noi; dopodiché ha detto: – Sono contento che possiamo continuare a lavorare insieme in questa baracca. Il Conte che, come sempre, è il più sveglio di tutti ha colto la sfumatura: – Che vuoi dire? Avremmo potuto continuare a lavorare qui in ogni caso, no? E Ken: – A essere proprio sincero… no. Se aveste votato contro l’acquisizione, l’unica alternativa sarebbe stata quella del prendi i soldi e scappa. Pur con una decente liquidazione per ognuno, avremmo dovuto mollare la Simpliciter in mano ai nostri nuovi padroncini. Eravamo già arrivati troppo avanti per poter fare qualcosa di diverso. – Scusa Ken, perché non ce l’hai detto prima di votare, allora? – Perché non volevo un voto che fosse condizionato da pressioni eccessive. A costo di avere un voto inutile… Ma ho avuto ragione, no? Abbiamo verificato la nostra reale e libera volontà, che per fortuna coincide con l’unica opportunità che ci resta. Sorrideva solo con la bocca. Non dico che questa rivelazione ci rovinò tutta la festa, ma, insomma, ci rovinò alquanto la festa. 20. L’incazzatura arava in profondità il cranio quasi fumante di Ganimede Borsch, piantandovi i semi di un crescente desiderio di violenza. Questo inetto, questo vanaglorioso, questo maniaco della performance esteriore, questo fasullo ce la sta mettendo tutta per prenderselo in quel posto. Eccolo lì, pensò Ganimede, eccolo lì che in meno di cinque minuti sta fottendo senza pietà, e senza neanche rendersene conto, tutto il lavoro preparatorio fatto da me e da suo zio. Il testone di Ganimede aveva cominciato a fumare quando Celso Grande era entrato, tronfio e saputo, nella sala riunioni. Completo tre bottoni di fine taglio italiano, capello tinta rame media lunghezza con effetto bagnato, camicia a righine rosse… camicia a righine rosse perdio! Stretta di mano poderosa al generale e ai membri della sua delegazione, pacca sulla spalla a Ganimede (trattenutosi a stento dal rispondere con un ceffone), cenno di approvazione e sorriso paternalistico per Thomas Cardoni (un segretario rimane sempre un segretario, anche se particolare). Adempiuto il rito delle presentazioni, Celso aveva fatto scattare con perfetta sincronia le serrature nichelate della sua ventiquattrore di immacolata pelle color biscotto, ne aveva tirato fuori un blocco notes nuovo e già svitava il tappo di una stilografica spessa come un Montecristo. Durante il suo banale discorso introduttivo – necessario per riempire un’assemblea più che altro formale, dato che accordi ed equilibri erano già stati definiti – Ganimede avvertì lo scricchiolio del pennino sulla carta, insistente e appena molesto come un blando maldimare. Celso prendeva appunti, accidenti a lui. Calligrafia aguzza e ordinata, per quanto poteva vedere dalla sua posizione. Antipatica. Perché diavolo scriveva? E cosa, poi? Quali spunti poteva trarre da quelle inutili chiacchiere? Era solo un’altra delle sue pose. Robaccia suggerita da luminari di psicologia comportamentale nei loro manuali che i perdenti di tutto il mondo acquistano nei supermercati. Stratagemmi finalizzati a mettere gli altri interlocutori in soggezione, ma che invece non facevano che coprire Celso di ridicolo. Ganimede aveva detto sì e no duecento parole di circostanza e quello era già alla seconda pagina di note. Studiato in ogni sua mossa per risultare cretino. Andò ancor peggio quando prese la parola. Non doveva far altro che dire due sciocchezze preconfezionate: Molto fieri dell’opportunità offertaci, sapremo dimostrarci all’altezza dell’impegno…, e confermare quanto un produttore di scarpe possa essere orgoglioso di mettere la propria arte al servizio della patria in armi (col gradevole effetto collaterale di farci anche una barca di soldi). E invece che ti va a fare Celso? Cosa ti va a inventare questo relitto degli anni Ottanta, questa maleodorante carcassa edonistica in camicia a righine rosse? Gli parla di progresso. – Il nostro obiettivo principale è quello di attualizzare l’immagine delle Forze armate per renderla al passo con i tempi. L’utilizzo di nuove soluzioni di design e di materiali innovativi saranno i nostri cavalli di battaglia. Inoltre ho previsto una maggiore attenzione per l’oggettistica da campo. La preziosità dei particolari, nonché l’attenzione al nuovo lato femminile dell’Esercito… Al generale Jordi Barnabao, sottosegretario del ministero della Difesa, ex capo di Stato maggiore, probabile frequentatore di gruppi di estrema destra militante, potenziale golpista, e noto fra i suoi uomini col delicato nomignolo «cazzodipietra», tu gli vai a parlare di innovazioni? Di rivoluzionari preziosismi stilistici? Di attenzione al lato femminile? Ganimede avrebbe voluto distogliere lo sguardo da quella faccia da ranocchio idiota, ma non ci riusciva. Avrebbe voluto strappargli via dal volto quegli occhi a palla e quell’espressione di beata gratificazione, ma non gli sembrava il momento più adatto. Del resto, Celso un po’ lo affascinava. Per qualche strana attrazione da entomologo, Ganimede era incuriosito dalla sua figura. Quasi un richiamo ipnotico. Il generale Barnabao, però, non sembrava condividere l’interesse morboso di Ganimede. Aveva permesso che l’equipaggiamento del suo esercito (dei suoi ragazzi!) venisse curato da quello che aveva appena scoperto essere un pinocchietto deficiente e presuntuoso, di sicuro frocio. Non era più convinto di aver concluso un buon affare; nonostante la riduzione dei costi ottenuta (e la collezione completa di Colt Rifle per lui, oltre a quel piccolo bonifico internazionale alle Cayman), non lo era affatto. Ganimede lo notò tamburellare sempre più nervoso con le dita sul piano di mogano del tavolo, mentre un lieve tremito gli percorreva il baffo sinistro. Gli parve opportuno prendere la parola e salvare in calcio d’angolo una situazione che si stava facendo difficile. – È ovvio, generale, che mi faccio io stesso garante degli standard di produzione, che rimarranno immutati, nel solco di quella che ormai è per noi una sana e… e ferma tradizione –. Stava per dire virile, ma sarebbe stato forse troppo sfacciato (anche se, quando si tratta di militari, niente è mai di grana troppo grossa). 21. Chiara guarda fisso davanti a sé e si pulisce gli occhiali con la cura che un altro tipo di donna metterebbe nel pettinare un figlio. La fraterna riunione che ha deciso del nostro futuro si è conclusa da pochi minuti, e siamo ancora tutti qui, nel corridoio-atrio a grattarci teste, braccia e parti anatomiche meno nobili, a cazzeggiare col distributore di bibite, a scrutare avvincenti particolari della tappezzeria che mai notammo in passato. In verità nessuno ha voglia di tornare a lavorare come se nulla fosse, ma nessuno ha intenzione di riprendere l’argomento. Ne avremmo un gran bisogno, ma se n’è già parlato abbastanza e a ranghi completi. Ritornarci su, magari a gruppetti di due o tre, oltre a essere poco corretto verso Ken, il che per noi tutti equivale a peccato mortale, rischierebbe di far smarrire quell’armonia decisionale che abbiamo raggiunto. Non sia mai. Bella fuma a scatti sul divano dove per la prima volta l’ho vista. Cerco di incontrare il suo sguardo oltre le esalazioni violacee della sigaretta. Troppo lontana e troppo complicata, almeno per ora. Sedersi accanto a lei è escluso. Max giocherella con l’ancia del suo sassofono, inconsapevole del fatto che Marianna, appoggiata al muro a rubarselo con gli occhi, se lo mangerebbe con tutto lo strumento. Ritorno su Chiara, fingendo di puntare l’attenzione su una curiosissima macchia di umido sul muro. Dopo aver lustrato le sue lenti bifocali con un’insistenza ai limiti del credibile, si dedica al massaggio compulsivo di un polpaccio e alla bonifica dei propri pantaloni da invisibili pelucchi. Come al solito, aspetta che qualcuno faccia qualcosa. Mi piace Chiara: ha trovato il suo equilibrio in quello che per altri è frustrazione. Nella società dell’apparenza, lei ha scelto di sparire. Dovrebbe avere circa ventotto anni (o almeno è questa l’età che dimostra), ma trattandosi di un dato personale, nessuno può dirlo con certezza. Già prima di conoscerci (non sappiamo quanto prima), Chiara aveva cancellato, da ogni più recondita banca dati presente in rete, le tracce della sua esistenza. Tutte le informazioni connesse in modo anche remoto alla sua persona sono state spazzate via. Nome, data di nascita, origini e preferenze, scuole frequentate e titoli di studio conseguiti, tutto buttato via. Il suo curriculum è un foglio bianco. Il suo personale capolavoro informatico autolesionista. Cupio dissolvi digitale. Dopo un estenuante interrogatorio con metodi di tortura ispirati al Mossad, Ken ci ha rivelato che forse – neanche lui ha certezze assolute – è la figlia di una starlette del cinema. Una mammina modello che per tutta l’infanzia della figlia si è disinteressata del proprio ruolo di genitore per mettersi al vano inseguimento di ogni possibile, becero carrozzone di notorietà. A Chiara, durante l’adolescenza, è toccato fare i conti con le immagini della madre che in talk-show di serie B parlava della sua prima volta, di come si possa conciliare il ruolo di attrice con quello di mamma, e altre simili, deprecabili boiate. Una poveretta in continua lotta contro la fase discendente della propria carriera, che elemosinava ospitate televisive sempre meno dignitose, fino a concludere con il ruolo di esperta in un programma erotico di una rete privata locale condotto da una donna che si fingeva transessuale. L’avversione assoluta della nostra collega alle leggi della civiltà dell’immagine è comprensibile. Per noi è sempre e solo stata Chiara, e basta. L’ironia che traspare dal nome non è certo inconsapevole. Considerato che si è data tanta pena per sparire dal mondo dei censiti, non abbiamo ritenuto gentile chiederle ulteriori notizie sulla sua vera identità. Però, abbondano gli aneddoti. Abbiamo cominciato un gioco che consiste nell’inventarle dei passati alternativi. Le storie migliori sono quasi sempre del Conte. Poi le facciamo girare per e-mail come se fossero leggende metropolitane. La chiamiamo La Serie della Donna del Mistero. Ogni tanto ce ne torna indietro qualcuna delle nostre, e a volte ce ne arrivano di nuove. Segno che le scemenze in rete girano alla grande. Qualche esempio: 1) La Donna del Mistero è la figlia di due spie dormienti sovietiche richiamate in Russia alla fine della guerra fredda. Per non abbandonare il mondo occidentale è entrata in clandestinità. 2) La D.d.M. è una serial killer specializzata nello squartamento di programmatori informatici saccenti e cacasentenze, che avvicina con la sua perizia professionale e poi sevizia con orrende mutilazioni (ach!) 3) La D.d.M. è la nipotina di un nervoso signore teutonico che per molto tempo ha vissuto in Argentina sotto falso nome, e per ragioni di opportunità gradisce che sia mantenuto il più stretto riserbo sulle sue origini. Chiara gode della protezione conquistata con l’anonimato. La sua rinuncia non si limita solo al nome e alle radici. Lei sembra aborrire anche l’idea di avere-mostrare-far valere la propria personalità. Si può dire che i suoi bravi colleguzzi la conoscano meglio di chiunque altro (in questa sua nuova non-vita, almeno), eppure nessuno di noi sarebbe in grado di dire se Chiara sia permalosa o generosa o irascibile o paziente o polemica o razionale o sicura di sé o altro. Ogni volta che è chiamata a una reazione, lei rizza le antenne, capta gli stati d’animo prevalenti e agisce di conseguenza, così come ci si aspetta che debba fare una persona normale (qualsiasi cosa normale voglia dire). Ci ho messo un po’ a capirlo, ma sono sicuro che sia così. Per cui nessuno può dire come Chiara è; al massimo, si può dire come non è: non è impulsiva, ma non mi sembra un granché come definizione. Nemmeno si può dire che sia una persona debole e priva di fiducia in sé. Questa è solo l’idea che ti fai all’inizio, ma poi noti che non esiste traccia di coazione o di repressione in lei: non dubita, non ha paura di scegliere, solo che per lei non fa nessuna differenza. Se fosse un videogioco sarebbe Pong, l’antesignano: un dischetto bianco che rimbalza fra due bastoncini bianchi in uno schermo buio. Asettico, impersonale, minimalista. Come Chiara, errante in eterno da un punto all’altro senza scopo e volontà apparenti. Decidendo di scomparire agli occhi del mondo, tempo fa, ha azzerato i suoi conti col passato; decidendo di non decidere più nulla tiene in pari i suoi conti col presente. In un mondo di opinionisti, rivendica il suo diritto a non avere un’opinione o una posizione. Mi fa assolutamente simpatia. Il Conte sta per scattare: riconosco i segni premonitori. È appoggiato con mezza chiappa sul bracciolo del divano che ospita anche Bella. Braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, piede destro che pompa ritmico e il ginocchio che va su e giù come un pistone. Sempre più veloce. Dondola col busto in avanti, ogni tanto annuisce convinto e si fa scappare una parola a mezza voce, appena filtrata da un suo ragionamento interiore. Siamo al limite, adesso. Quattro… tre… due… Alza di scatto la testa. – Ohé truppa! Possibile che debba essere sempre io a farvi uscire da queste impasse del cazzo? – Scorre il suo sguardo vivo su di noi. – Comunque, siccome sono buono e sono anche il vostro Dio, ho quel che ci vuole… facciamo un po’ di Daryl Domino. 22. Mentre il concorrente suda e fruga nella memoria alla ricerca del nome del centauro sedicenne, campione iridato per la classe 250, una pietosa neve elettronica lo cancella dalla diretta televisiva, recando in cambio due pareti sporche e una sedia. Daryl Domino entra da destra nel raggio dell’inquadratura. Pallido, con l’eterna Stratocaster a tracolla. Pizzica le corde, si gratta la nuca. I capelli un po’ più corti dell’ultima apparizione. A testa bassa, con un filo di voce, parla. Tutto è già stato inventato tutto è già stato inventato tutto è già stato inventato. Il bordo della strada, l’asfalto oleoso, le macchine che non si fermano. Il pianto del cielo che ti inzuppa i vestiti. La miseria dolciastra che non va più via, nemmeno a strofinare. I magici signori del gioco delle tre carte, donna vince fante perde. La siringa proprio in quel portone che conserva ancora il ricordo umido del tuo primo pompino. La tua ragazza che non parla e suo padre che ti odia. Un odio da salotto senza odore né rumore. Chiede distratto: «… dov’è che andate, stasera?» E mentre tu gli rifili la solita solfa di pizza e cinema, lui ti immagina che gli rispondi: «Be’ paparino, penso che mangeremo un panino veloce per passare più tempo a scopare in macchina. Ce la presti la macchina, vero?» Tutto tutto tutto tutto è già stato inventato. Decine e centinaia di volte. Gli zombie delle otto di mattina e quelli delle tre di notte, il puzzo di urina e le botte, dimenticate nel fondo di un bicchiere con una cicca spenta dentro. Il giorno in cui ti disse che ti amava così tanto che avrebbe voluto partorirti, se qualcuno non lo avesse già fatto, e quell’altro giorno in cui si pentì di averlo detto, sempre che se ne ricordasse ancora. Tu che perdi e ti perdi e sconfini e nessuno capisce perché e proprio a te lo vengono a chiedere, proprio a te. Il colore dei sogni e il buio zuccherato del prozac. Inventato anche questo, tutto quanto. La paura intontita del dopo, del fuori, del cosa è rimasto. Una via che non ricordavi così larga perché vuota, un indirizzo che non c’è più. Le cose cambiano, ha deciso una volta qualcuno a tua insaputa. Non più cosa fare e come, né dove andare a farlo, ma solo e di nuovo perché. E allora entri in un cinema di terza visione, ti siedi e resti là. Giorno dopo giorno dopo giorno. Se proprio cinema di terza visione dev’essere, almeno scegliti il film. 23. Vuotiamo il sacco. C’è il nostro lavoro alla Simpliciter: ideare e realizzare demo di videogames per computer e consolle da cedere a società più grandi di noi per il lancio e la diffusione commerciale. Questo lo facciamo per vivere. A immaginarlo sembra divertente, ma in realtà lo è solo per pochi giorni all’anno. Il resto, come dice il poeta, è noia. Poi c’è quello che facciamo per divertirci, e lì è proprio un altro paio di maniche. Siamo e rimaniamo tech fino al midollo, però, mica persone normali. Per cui non possiamo limitarci ad andare al cinema, a giocare a calcio o a tennis, a cenare fuori. E no. Tutti questi passatempi vanno benissimo, ma non soddisfano le nostre brame tecnologiche. Per quelle abbiamo inventato le I.S.I., Icone Sociali Informatiche, ossia stimolazioni di comportamenti socialmente rilevanti per mezzo di agenti catalizzatori creati al computer. Qualche anno fa è apparsa una curiosa sottoscrizione su internet, una specie di referendum per impedire a una nota catena di fast-food di infilare nei suoi hamburger i cetriolini sottaceto. In apparenza una cazzata. Nei primi cento giorni ci furono dodicimila sottoscrizioni motivate. Nei mesi successivi si arrivò a centinaia di migliaia di contatti, con la formazione di opposti partiti, scuole di pensiero e dibattiti on line. I primi seicento voti motivati li preparammo nelle pause di lavoro alla Simpliciter, così come ci eravamo inventati quella petizione idiota che oggi è diventata quasi una corrente filosofica: niente cetriolino nel mio panino. All’inizio voleva solo essere una burla, nata da una frase del Conte a mensa: «Cristo come odio quei minchia di cetriolini negli hamburger. Li dovrebbero vietare per legge!» Creammo un sito con i primi voti tanto per scherzo, e rimanemmo stupefatti nel vedere lo spropositato successo riscosso dal nostro passatempo. Scoprimmo così il potenziale suggestivo delle cazzate e, di conseguenza, il nostro potere, visto che di cazzate inutili noi siamo una miniera. Interrompevamo di continuo la nostra attività lavorativa ufficiale per andare a controllare le novità del «sito cetriolino», segnalandoci a vicenda gli interventi migliori o i più assurdi. Dopo un po’ ci facemmo l’abitudine, ma ecco che inaspettato ci arriva un nuovo input. Un amico di Max (tutti sono amici di Max, Max è amico di tutti), che ha un dottorato alla facoltà di Scienze Sociali, si interessa al fenomeno scatenato dal «sito cetriolino». Senza sapere che il nostro gruppo è il vero e occulto artefice di quella informatica presa per il culo, ci viene a scroccare un parere da esperti su quel fenomeno di cui lui sta studiando gli aspetti socio-comportamentali. Lo riceviamo nella stanza di Bella e del Conte; il tipo si siede accanto a una delle postazioni di lavoro e ammira volenteroso, senza capirci un accidente, lo schermo della workstation e una pila di stampate zeppe di segni per lui esoterici. Poi comincia l’intervista. Con la penna in costante levitazione sul taccuino, pone domande come: Quale potrebbe essere, secondo voi, l’impatto che le nuove tecnologie avranno sull’attuale società dell’informazione? Oppure: Pensate che la tendenza all’interattività sarà un fattore decisivo nel passaggio da una struttura verticale a una orizzontale dei meccanismi di apprendimento e di relazione? Ora, io ho sempre pensato che il sociologo sia quel tipo che passa metà del suo tempo a scoprire l’acqua calda e l’altra metà a convincerti che nessuno c’era arrivato prima di lui. Può sembrare ingeneroso verso i sociologi; gli ammiratori a vario titolo della sociologia sono liberissimi di ritenermi sciocco e superficiale, ma io la penso così. E non sono cattivo nemmeno la metà di quanto possa diventarlo il Conte, se stuzzicato sull’argomento. È dunque stato lui – e chi altri se no? – all’ottava interpretazione cretina che il sociologo dava del fenomeno cetriolesco a dirgli: – Cazzone, guarda che il tuo fenomeno socio-comportamentale ce lo siamo inventato noi! Al che, dopo smorfie e stupori di circostanza, pause a bocca aperta e furiose grattate di testa, il tipo si è riciclato in non più di venticinque secondi a studiare questo nuovo, interessantissimo e inatteso aspetto. Il Conte ha avuto per un lungo istante la fantasia di cingergli il collo con mani avide e sbattergli il capo sul primo spigolo disponibile. Il Conte però è un polemico, non un assassino, e dunque si è limitato a fare ciò che chiunque deve fare di fronte a un’inattaccabile piattezza intellettuale, a una disarmante banalità, a un sottovuoto spinto di idee, e cioè arrendersi. Combattere contro i mulini a vento sarà pure nobile, ma è una gran perdita di tempo. Ci chiese se per caso non fossimo disponibili a creare un nuovo artificio informatico come quello del cetriolino, in modo che lui ne potesse studiare dal principio l’evoluzione e le ripercussioni sociali in un’ottica collaborativa e sinergica. Lo mandammo in coro in un posto buio e poco aerato. Quando infine si diresse a testa china dove l’avevamo indirizzato, uno strano silenzio scese fra noi. E io feci una cosa che mai in vita mia mi sarei sognato di fare. Diedi ragione a un sociologo. – In effetti non aveva tutti i torti. – Come come come? – Il Conte si portò le mani alle orecchie con espressione finto incredula. – Giona che dà ragione a un sociologo? Questa non me la voglio perdere –. Incrociò le dita sulla pancia e mi rivolse un placido sguardo di attesa. – Sì… insomma, è vero. Abbiamo creato un falso che ha prodotto reazioni sociali di vario tipo. Siamo stati in grado di mettere insieme un agente di stimolazione comportamentale; una cosa inesistente che, però, ha influenzato un bel po’ di gente. È un fenomeno interessante, non si può negare… – E vorresti riprovare –. Quella di Bella era una conclusione, non una domanda. – Perché no? Conte sorrise. – Ti senti Dio, eh? – Non esageriamo, – mi schermii. – Diciamo più una specie di Mosé… Invento storie e influenzo popoli –. Ridemmo. Il Conte inventò la definizione e l’acronimo I.S.I., Icone Sociali Informatiche. La prima I.S.I. fu una campagna per la salvaguardia di un animale inesistente, il Cazziurlo Maculato Iberico. Specie rarissima. Creammo una pagina web che si apriva su un paio di occhietti vispi e simpatici, circondati di pelo (dieci minuti di lavoro di computer grafica); seguiva una breve e generica descrizione dell’animale. Il Cazziurlo Maculato Iberico si ricollega geneticamente al più diffuso e conosciuto Cazziurlo Selvatico. Elegante nell’aspetto e nelle movenze, è un animale vivace, di carattere indipendente e fiero, affettuoso con l’uomo e insuperabile nell’avvistamento. Muso paffuto, figura asciutta e ben modellata, più imponente nel maschio. Si chiudeva con un appello: L’ente per la tutela del Cazziurlo Maculato Iberico ha pochi mezzi per il mantenimento dei suoi importanti e complessi compiti. Purtroppo l’esito di questa difficile battaglia è ogni giorno messo in pericolo dalla grande ignoranza che ancora circonda questa specie. Fin dalle più antiche fiabe, passando per i moderni film dell’orrore, il Cazziurlo è sempre stato dipinto come un animale pericoloso o, addirittura, menagramo. Chi ha avuto occasione di conoscerlo, però, ha potuto apprezzare una ben diversa realtà: il Cazziurlo è una bestia docile e simpatica che si rivela di grande compagnia e utilità per l’uomo. Per questi motivi non vi chiediamo di inviare contributi in denaro, ma solo di rendere note (per chi ne abbia avute) le vostre esperienze riguardo alle grandi doti del Cazziurlo. Contribuite con la vostra testimonianza all’abbattimento di un pregiudizio. Sulle prime ci sembrò di aver sbracato. Avevamo solo riproposto in versione digitale un vecchio sketch televisivo anni Cinquanta, chi mai poteva cascarci? Fu sufficiente comporre poche decine di messaggi e creare dei link pirata con veri siti animalisti. Si scatenò un putiferio di approvazione e aneddoti sulla tenera bestiola da parte di sedicenti detentori-allevatori-amici-conoscenti-estimatori del Cazziurlo Maculato Iberico. Ci venne perfino il sospetto che esistesse sul serio. Ho cinquantasette anni e da trenta possiedo e allevo Cazziurli Maculati. Posso assicurare che non ho mai conosciuto animali più facili da addestrare e più utili all’uomo. Ero appena un bambino quando un cazziurlo selvatico entrò nel giardino di casa. Chiesi a mio padre se potevo tenerlo e il suo permesso fu il regalo più bello che abbia mai ricevuto. Da allora ho sempre avuto un cazziurlo. E poi, ragazzi, passeggiare con un bel Cazziurlo Maculato è il modo migliore per rimorchiare… ve lo dico io! E via così. Ci furono due interrogazioni parlamentari in favore del Cazziurlo e una presa di posizione ufficiale della Protezione Animali prima che qualcuno cominciasse a porsi delle domande. Di seguito ci inventammo il Circolo Esoterico dei Trentadue; il fan club di una soap-opera inesistente (Letti Sfatti); una falsa corrente artistica degli anni Trenta (Art Chapeau) con nomi di pittori, architetti, poeti e opere varie di cui compilavamo cataloghi d’asta ai limiti del credibile (lotto n. 26: rastrelliera per fucili in palissandro laccato, con inserti in tessuto a crêpe e incisioni di scene venatorie e allegorie sessuali di Maudet; prezzo 26 000 dollari). Arrivavano persino delle offerte: 7500 dollari per una polena in frassino e giada scolpita da Alain de Vinagrette e dal suo allievo Boetius. Per quanto sfacciate e fasulle fossero le nostre iniziative, raccoglievamo sempre un seguito notevole. Quando ci stancammo di organizzare queste goliardate, interrompemmo per qualche mese. La quiete prima della tempesta. L’ispirazione visitò me per primo. – Basta con le cazzate, creiamo una star! Un maestro del pensiero debole, un punto di riferimento per le nuove generazioni… Un profeta. – Un messia! – rilanciò Max. Marianna intervenne a mitigare i termini: – Un messia taroccato, però. Significa scherzare con le cose serie. – E che gusto c’è a scherzare in un altro modo? – Il puntuale sarcasmo del Conte. – Facciamolo, dai, un bel messia di pongo. Bella oppose un problema di metodo: – Su internet c’è già il pieno di profeti misteriosi che pretendono di cambiarti la vita. Dureremo poco. – No, se cambiamo mass-media, – suggerì ancora il Conte. – Sarebbe a dire? – Passiamo da un media freddo a uno caldo, per dirla con McLuhan. Feci partire un pernacchione ridimensionatorio senza turbare affatto il Conte, che intanto continuava il ragionamento. – È scoccata l’ora della Tv, la regina delle menti semplici. – Non vorrai mica fondare una rete privata e riempirla di predicatori? Non mi sembra una cosa nuova, – oppose Max. – Ho in mente qualcosa di molto meglio, – concluse il Conte. Ci fece vedere il progetto di animazione digitale ad altissima definizione a cui stava lavorando per il video introduttivo di Wiz at Trivia. Limitando al massimo i movimenti della figura ricreata al computer, il risultato era identico a un’immagine vera. Potevamo creare un simulacro di essere umano indistinguibile dalla realtà. Grazie, poi, a un capolavoro di algoritmo di compressione immodestamente elaborato dal sottoscritto, e a un sistema di interpolazione dei segnali digitali televisivi di cui il Conte, scoprimmo, si dilettava da anni, avevamo a disposizione tutto il necessario. Fu così che ci inventammo Daryl Domino. 24. Non era per niente sicura di come aspettarselo, ma così Dorotea non se l’era aspettato di certo. Il suo apprensivo e ingombrante genitore – ingombrante di indole e di mole – aveva parlato di un «corso», ma non è che avesse specificato. Dunque, una pallida mattina d’un incolore giorno della sua sbiadita vita – e più precisamente uno scialbo lunedì, ché sempre di lunedì le cose tristi s’iniziano – Dot si era presentata per la prima lezione. Nessuna particolare aspettativa, è vero, ma di un «corso» doveva trattarsi, e lei aveva immaginato un’ambientazione universitaria fatta di bacheche, di ragazzi in transumanza o in capannelli, di tea-break al quarto piano, di voci, di quell’odore tipico, misto di carta e caffè, e insomma di tutte quelle cose che chi ha fatto l’università conosce bene e chi non l’ha fatta conosce bene lo stesso perché le ha viste in Tv innumerevoli volte nelle serie sui college. Invece niente. Edificio anonimo nel quartiere degli affari, silenzio, nessuno nei corridoi. Appena arrivata, si era presentata nella stanza recante il numero che le avevano segnalato: 15 C il numero, oscura e piccola la stanza. Nella stanza un uomo, anch’esso di contenute dimensioni. Senza una parola, ma con un gesto che non ammetteva interpretazioni, l’aveva invitata a sedersi. Il calvo – perché pure calvo era, e brutto, e meschino nel vestire, e con un labbro penzoloni che sembrava un cane d’una di quelle razze che quando le vedi, pur trattandosi di cane, ti fanno mormorare un «poveretto» – il calvo, si diceva, stava scrivendo segni e numeri su una specie di tabella. Intento era intento, ma un’occhiataccia preventiva con inarcamento di sopracciglio aveva consigliato la ragazza di non sottovalutarlo, e di non sbirciare troppo. – Mi chiamo… – principiò Dorotea con istintiva e tremolante insicurezza. La mano dell’uomo si levò aperta, come a dire ALT!, e Dot, obbediente, si arrestò. Altri sei o sette minuti passarono con il calvo che vergava con furia sulla tabella, guatandola da sopra il foglio, appena appena. Infine distese la schiena, prima curva, sulla spalliera, giunse le mani e parlò. – Lo so benissimo come ti chiami, e chi sei e chi non sei e perché sei qui. Mica ti avrei fatta entrare, se no. Quindi, per cominciare, e come prima lezione, imparerai a sfrondarti la testa dalle cose superflue. Da me devi imparare – e sta’ pur certa che te l’insegnerò – ad affrontare nel modo giusto i test di valutazione Q.I. Le armi da usare sono quattro: logica, concentrazione, sintesi e velocità. Tutto ciò che è superfluo rispetto a questi quattro elementi dovrai metterlo fuori dalla porta… a partire dalle domande inutili. Il calvo parlava chiaro e senza prendersi mai una pausa, scandendo le parole che gli uscivano lucide e veloci dalla bocca, come fossero proiettili. – Rispondi alle mie domande senza giri di parole, che tempo da perdere non ce n’è. – … – Cruciverba ne hai fatti mai? – Non ci ho pazienza. – Rebus? – Non li capisco. – Sciarade, crittografie mnemoniche? – Che roba è? – Il marito della nonna della figlia di tua madre è…? – Più o meno un mio parente, credo. – Male male male. Dovremo cominciare dalla prima riga della prima pagina con te –. Aprì un cassetto, tirando fuori una fotografia, che sottopose alla vergine ottusa. – Dimmi cosa vedi. – Un toro! – rispose Dorotea, decisa a fronteggiare con un po’ di falso entusiasmo quell’ometto che già da metà della pagina precedente aveva preso a stargli sulle balle. – Tscchth! – fece l’ometto, accompagnando il sibilo di stizza con un gesto della mano, indispettito anch’esso. – Non ti ho chiesto qual è l’animale della fotografia, ti ho chiesto cosa vedi, il che è diverso. Ascolta e analizza con attenzione quel che ti dico e che ti mostro. E mi raccomando: prendi le informazioni che ti vengono fornite sempre alla lettera. Mai interpretare, l’interpretazione è peccato. Allo stadio in cui sei non puoi permetterti certi lussi… Cosa vedi, Dorotea? Colori, volumi, dimensioni, luci, materiali, dettagli, par-ti-co-la-ri, questo mi devi dire e solo questo. – Quindi che quello è un toro non basta? – No, anche perché è un bue. Occhio ai particolari, ragazza, e ricominciamo. 25. È successo. Curioso forse per i tempi e le singole circostanze, ma che prima o poi dovesse succedere non era cosa da dubitare: l’ovvio è sempre inesorabile. È passata una sola settimana da quando sono apparse le prime tracce del controllo esercitato su di noi dai nostri buoni padroni, e la reazione non ha tardato. Alla Morgan Holding li chiamano Responsabili Operativi Macrospecifiche e Problem Solving-Interazione. Definizione da noi condensata per brevità nella sigla R.O.M.P.I. Già il nome fasullo ti parla di questurini meticolosi e leccaculo; che è più o meno quel che sono. Ispettori di produzione con una qualifica tirata a lucido, ma con le stesse vecchie mansioni e la stessa mancanza di senso dell’opportunità. Un uomo e una donna che si alternano nell’accompagnare il nostro ciclo produttivo, il che significa all’incirca controllare che non battiamo la fiacca e non perdiamo troppo tempo nelle gare di tiri da tre punti col cestino della carta straccia. Hanno sistemato il loro, diciamo, «centro operativo» nella nostra ormai ex sala riunioni: una piccola scrivania e un computer tristi quanto scenografici, visto che le loro vere mansioni dovrebbero svolgerle passeggiando piano fra le nostre postazioni, come severi professori durante un compito in classe. Ma questo sanno di non poterlo fare, almeno non in modo così esplicito. La nostra è un’impresa troppo piccola e a conduzione quasi familiare; la presenza di un corpo estraneo, di un organismo di controllo, non passa inosservata e risulta alquanto ridicola. E allora ecco che s’inventano il filo diretto con i vertici dirigenziali della struttura, ossia una presenza costante per non rischiare di lasciare inascoltate le nostre istanze e per evitare che la nostra organizzazione, rimanendo un corpo estraneo, possa perdere il polso della strategia aziendale o sentirsi abbandonata, o, peggio, risentire di assestamenti di rotta a carattere macroeconomico, perché il nostro sarà un continuo e fruttuoso scambio che ci permetterà di crescere insieme. E senza tanti giri di parole ci appioppano due spioni per evitare che rubiamo lo stipendio o ci dedichiamo ad attività contrarie all’impulso produttivo della società madre. Questi nostri bravi carabinieri – che da carabinieri agiscono in numero regolamentare di due – sono appunto un uomo e una donna. Lui, una versione umida e con sfumatura alta di Oscar Wilde, generoso corpaccione asfissiato in abito scuro, di espansività goffa e di ambiguo senso dell’umorismo. Fronte sempre lucida di sudore, patetico annuncio della pozzanghera che gli si allarga sulla schiena col trascorrere della giornata. Arriva in ufficio sempre con gli occhiali da sole: l’effetto vorrebbe essere FBI, ma risulta Blues Brothers. La tipa è di tutt’altro genere. Donna bella perché rigida e rigida perché bella, di quelle che possono anche vestirsi in perizoma e gonnellino di banane e ti ricorderanno sempre e comunque un lunedì mattina. Elegante, corporatura nervosa più che magra, unico punto debole il culo: basso come la sua capacità di astrazione. Costruita per diventare all’occorrenza un’arma, distribuisce attorno a sé un vago sentore d’ascella rinchiusa, che mette a disagio gli interlocutori. Quali spaventosi traumi ha subito questa gente durante l’infanzia per diventare così? Me li immagino in età prescolare alle 6:30 del mattino, sull’attenti nella stanza livida di un gelido castello delle Ardenne, ad aspettare il papino simpatizzante nazista, che ama impartire loro lezioni di tedesco e filosofia, senza peraltro disdegnare ferrea disciplina e punizioni corporali somministrate con lo staffile. Mi gioco qualsiasi cifra che ci sono andato vicino. La bambola di ferro non ci ha messo molto ad attirare l’attenzione del mio compagno di stanza. – Ma lo sai che non è niente male? – Max inarca la schiena e piega il collo, guardando oltre la soglia della nostra stanza. Alzo appena gli occhi dal monitor. – Cosa? – Non cosa, Giona, chi. La nostra cara R.O.M.P.I., come si chiama, Antonietta? Non è nient’affatto affattissimo male. – Cristo, Max, sembra un’aringa sotto sale per quanto è rigida. – Che ti devo dire? Mi attrae. Sotto quegli occhiali e quell’espressione dura… c’è un fuoco. Me lo sento. Sorrido. – È il fascino della donna di potere. La blanda attrazione omosessuale che il maschio medio prova per la femmina che, anche se femmina, glielo può mettere in quel posto. Max si appoggia al pavimento con una mano. – Guarda che non mi offendo mica. Non ho difficoltà ad ammettere che l’appeal della donna con la pistola solletica il mio lato femminile. Devi imparare a conviverci, se vuoi ottenere risultati apprezzabili con l’altro sesso. Alzo le mani. – L’esperto sei tu –. Il suo collo è talmente piegato nel tentativo di cogliere ulteriori porzioni di intimità dell’ispettrice, che si trova ormai del tutto a testa in giù. Qualsiasi cosa stia guardando (e ho la presunzione di sapere cosa), la sta scandagliando nei suoi più nascosti anfratti. – Sì sì sì. Credo proprio che le chiederò di uscire, uno di questi giorni. – Max, mi stupisco di te! – fingo plateale indignazione. - Lei è il nemico, il cane da guardia del padrone. – Ehi bello, distensione è la parola d’ordine, ricordi? Distensione e collaborazione, e questo è proprio ciò che intendo fare: distenderla e convincerla a collaborare. Mi allungo fino alla sua poltroncina. Basta una lieve spinta al bracciolo e il mio sbilanciato compagno finisce a gambe all’aria. È proprio la donna poliziotto che ha dato origine al nostro primo microdramma da lavoro dipendente. Curioso e ancor più significativo che a esplodere per prima sia stata proprio Marianna, l’affamata di armonia ed equilibrio, fautrice protettrice e benedicente di tutte le possibili e insulse sorellanze. E nemmeno che abbia detto cose come la logica deviata del sistema è riuscita a metterci contro… no, solo un categorico Stronza! con una voce tonante che ha echeggiato nei corridoi. L’episodio è nato da una sciocchezza, che però era parente di una bazzecola del giorno prima, nonché amica intima di una minuzia ancora anteriore. Lunedì. La R.O.M.P.I. – che di nome fa appunto un impettito e consapevole Antonietta – ha lanciato una battuta sulla canonica mezz’ora di ritardo che Marianna si concede a inizio settimana. Una cosa scema e priva di umorismo, tipo: «Fatto bagordi, ieri sera, eh?», giusto per far notare che lei aveva notato. Marianna concede un sorrisetto senza voglia. Martedì. Al terzo caffè della mattina, la vigile Antonietta motteggia: – Si consumerà prima il tuo fegato o il distributore automatico a furia di fare il pieno di caffè? – Marianna zitta. Mercoledì. – Ma quei pantalonacci con le tascone sono davvero comodi? – Marianna niente, ma con un fremito all’angolo del labbro. Giovedì, il gran giorno. Antonietta: – Scusa Marianna, volevo accennarti una cosa. Marianna: – Mmm. Antonietta: – Ho dato un’occhiata alla tua pagina web di presentazione… Marianna: – Eh? Antonietta: – Molto graziosa, inventiva… solo, a un certo punto dici che questo lavoro ti ha salvato dal suicidio… Ecco, il tono è scherzoso, te lo concedo, ma non sono sicura che soffermarsi su certe tematiche giovi molto alla tua immagine e a quella dell’azienda per cui lavori. Di certo sarai d’accordo, non vogliamo mica che la Simpliciter e la Morgan Holding siano presentate come una specie di ultima spiaggia per scoppiati con tendenze autodistruttive, no? Marianna punta l’indice tremando di rabbia: – Tu… tu… – si volta e fa per andar via. Dopo tre metri ritorna sui suoi passi: – Tu sei proprio una di quelle cazzodipersone che si svegliano la mattina col pensiero fisso di fare la paternale a qualcuno, vero? Be’, galoppina da due soldi, con me caschi molto male. D’ora in poi fingi pure di fare il tuo insulso lavoro, ma a me è meglio che non mi guardi neanche, o te ne farò pentire di brutto. Capito, stronza? Confesso che mi aspettavo fosse il Conte a mollare gli ormeggi per primo. Non era difficile immaginarsi una sua stridula fanculata al gendarme grassoccio o un estemporaneo vatteloaprendere conferito alla sussiegosa Antonietta. Nulla del genere, invece. Il Conte si comporta come se non li vedesse neanche (a parte qualche sporadica smorfia e controscena dietro le spalle). Al limite pensavo di cascarci io, di puntarlo io il dito. Ma Marianna! Con la sua disperata fiducia nel dialogo, il suo credo d’apertura, l’ottimismo protervo brandito a mo’ di spada. Dopo il fatto, c’è tutto un fiorire di casuali passeggiate in corridoio e fischiettanti soste al distributore di caffè e scusaContetivolevofarvedere… e Gionadammiuntuopareresu…, e via così a biascicare commenti sottovoce, a scambiare furtive strizzate d’occhio. Con Bella incrociamo appena lo sguardo e lei scoppia a ridere; il Conte la riprende, ostentando un contegno ipocrita: – Bella, ti prego, non mi sembra proprio il caso! – Finiscila, Conte, che Marianna ti ha solo battuto sul tempo –. Bella è del mio stesso avviso, ma il Conte sorride malandrino. – Guarda che io non butto via il mio buonumore per quattro uscite da caporale di una cagnolina da guardia isterica. Farò danno solo quando ce ne sarà bisogno. 26. Devo essere pazza. Devo essere malata. Devo essere pazza e malata a stare qui. Devo essere pazza malata e stupida a stare qui davanti a questo stupido ristorante, con in mano questo stupido giornale bene in vista. Ad aspettare l’inesistente proiezione delle mie fantasie. Un concentrato vivente di aspirazioni che mi deluderà dopo dieci secondi. In chat-line ci vai per essere quello che non sei nella realtà, o quello che sei ma non riesci a dimostrare nella realtà. Quindi il tradimento delle aspettative è inevitabile. Però ho tremato. La gentilezza malinconica dei suoi messaggi mi ha toccato. La disperazione mascherata da cialtroneria di quello stile… Cosa puoi dirmi che ancora non so? Cosa vuoi farmi che mi possa spaventare? Io sto cercando qualcosa che valga il prezzo di una genuina curiosità. Cosa puoi offrirmi tu? Fanny Globo camminava avanti e indietro, con in mano un giornale che in condizioni normali non avrebbe mai comprato, lungo la vetrina di un ristorante dove non avrebbe mai mangiato. Gli occhi verdi della donna gatto erano spalancati e attenti a scrutare ogni particolare dei passanti. I quali passanti, essendo per l’appunto tali, passavano senza fermarsi. Fanny cercava di indovinare in ciascuna di quelle facce un elemento noto, una vibrazione familiare. L’orologio fissato alla sommità di una pensilina all’angolo della strada scattò in avanti di un altro minuto. Era una bella giornata di novembre. 27. Più tardi, ci ritroviamo insieme a sfogare frustrazioni e a sgranocchiare porcherie bevendo birra da pochi soldi. A casa di Ken, è naturale. A ranghi completi, eccezion fatta per Max (alé!), che ha declinato per un impegno assunto in precedenza, sul quale ha un po’ glissato. Mi gioco la reputazione che ha concupito l’esperta di problem solving Antonietta, ma si vergogna a dirlo. L’ora non è tarda e il marmocchiume di casa scorrazza indisturbato. Con gesti rudi vengo fatto sloggiare dal tappeto sul quale sono disteso in quanto il suddetto, mi informano, deve fungere da zattera alla deriva per Tip e Tap, i due piccoli naufraghi nell’oceano del tinello. Le acque dell’oceano color parquet separano le mollezze caraibiche del porto di Divanassau (meta agognata) dalle arcigne scogliere dello stretto di Tvilterra, dove terribili onde radio alte più di sei metri, provocate da una tempesta magnetica, hanno schiantato il povero caicco dei due lupetti di mare sotto un freddo tripudio di effetto neve. I due piccoli, finora, sembrano refrattari al fascino dei videogames. Preferiscono inventare da soli le storie che popolano i loro giochi. Forse per lo stesso principio per cui, in genere, il figlio del pasticcere è indifferente ai dolciumi: grazie al loro papà hanno a disposizione una collezione impressionante di balocchi elettronici, ma la snobbano con regolarità. Ken non lo dice, però è orgoglioso del tradizionalismo ludico dei suoi due furetti. Nonostante il suo ruolo professionale e le sue passioni giovanili, anch’egli è partecipe, in quanto genitore responsabile, della diffidenza che aleggia attorno ai prodotti delle nostre fatiche. Dagli oscuri interstizi della credenza di Gargantua sono emerse quattro fiabesche confezioni di patatine (mai senza patatine a casa di Ken!) da cui attingiamo solerti e meccanici. Marianna, davanti alla Tv, esercita il dito in uno zapping che più selvaggio non si può e parla come parlerebbe un fiume. – Capito la stronza, no, dico, capito? Mi ha preso di punta, lei! Fin dal primo giorno. E come parlo e come mi vesto e quanti caffè e perché non sei il contrario di quello che sei e perché non fai il contrario di quello che fai. Non che le freghi un beneamato della qualità del mio lavoro, no, dico, di quello neanche parlarne. Come se ne fosse capace poi, di valutare anche un decimo del nostro lavoro. No no, solo il comeparlicomevestiquanteorestaidavantialmonitor ma per favore, va’! – Spegne la tele con uno scatto imperioso del bastone di comando e poi si abbraccia le ginocchia, dondolando un po’. – Mi farà fuori, lo so. Mi manda a spasso, quella! – E tutti a ripetere no ma che dici ci pensa Ken. E Ken, infatti, dopo lo «spiacevole incidente» ci ha pensato, ed è planato sugli animi esasperati profondendo tutta la propria arte mediatrice. Con gentile fermezza ha strappato ai nostri controllori la promessa che d’ora in avanti faranno solo a lui qualsiasi osservazione passi loro in mente, e che mai più si permetteranno di sindacare aspetti estetico-formali della nostra condotta. Dio, come non invidio questi schifosi lati del lavoro di Ken. Povero grande Ken. Vengo assalito da Tip e Tap, che nel frattempo sono diventati corsari e hanno deciso di abbordare con ardita manovra la goletta del governatore (che sarei io). Durante l’arrembaggio Tip, il più grande, viene colto da un barlume di inopportuna curiosità scientifica, e chiede: – Zio Giona, cos’è il Fisting? Mi domando nell’ordine: a) dove mai Tip abbia potuto sentire una cosa del genere; b) come posso rendere comprensibile a un individuo di quattro anni una pratica erotica sadomaso che consiste nell’inserimento da parte di un soggetto della propria mano chiusa a pugno all’interno dell’ano di un altro soggetto, senza avvalermi di troppi sottintesi; c) in quanto adulto ed educatore, sarà poi il caso che io risponda? Da simili interrogativi traggo inquietanti riflessioni sull’universo infantile nella moderna società dell’informazione ad accesso facilitato e, intanto, assisto all’impossibile. Conte esce dal coma in cui era piombato appena giunto da Ken, sbozzola le gambe dal plaid che le avvolgeva e percorre dinoccolato i tre metri che lo separano dal sofà su cui Marianna sta finendo di avvelenarsi la giornata. Lei gli tira uno sguardo eloquente; per l’esattezza quello sguardo dice: Conte, so benissimo che non sei stupido e quindi capisci da solo che se ti azzardi a dire una battuta delle tue, una qualsiasi anche vaga affermazione sarcastica, un giudizio morale, un motto di spirito o anche solo una parola del cazzo, sei morto. Sì, la ragazza ha occhi molto espressivi, ma il Conte non si scompone. In piedi davanti a Marianna rovista in una tasca dei pantaloni. Ci affonda quasi fino al gomito, per quanto è profonda, poi ne tira fuori un lecca-lecca, gusto cappuccino senza conservanti-coloranti-eccipienti, e lo offre a lei. Marianna ama i lecca-lecca al cappuccino senza conservanti-coloranti-eccipienti, sua unica concessione alla gola (anche un’integralista del cibo integrale ha le sue debolezze). Scuote la testa, come a dire: «Dài, non è questo il momento…» ma con gli occhi sta già scartando il dolcetto. È sufficiente che il Conte glielo agiti ancora davanti perché faccia finta di volerlo prendere giusto per farlo contento. Mentre lo zio Giona-Governatore resiste all’assalto dei due minibucanieri (già dimenticate, per fortuna, le domande scomode), comprendo dalla mimica facciale e fisica del Conte che sta cercando di buttarla sul ridere. Parlano piano, per cui non posso sentire ciò che dicono, ma è evidente che il suo approccio sta per maturare buoni frutti. Marianna recita ancora un po’ la sua depressione, ma non durerà molto. Per quanto ne sappia è la prima volta che il Conte le si avvicina senza sentirsi in dovere di prenderla in giro o improvvisare scenette comiche usandola come inconsapevole spalla. E figurati se lei, ghiotta com’è di amicizia e di rapporti empatici, si lascerà sfuggire l’occasione. Lui lo sa, e ha scelto proprio questo momento per sciogliersi. La prende per la gola, fa leva sui suoi istinti più naturali e, senza che lei se ne accorga, la tira fuori da un momentaccio. Credo che Conte sia il migliore di noi. Da un punto di vista professionale lo è di certo. Appartiene alla categoria dei geni precoci. È stato uno di quei ragazzetti che a undici anni penetrano nei sistemi informatici del Pentagono, rischiano di far scoppiare la guerra nucleare, e poi Hollywood ci tira fuori un successo da milioni di dollari. Si è laureato appena superata la pubertà, ma già da almeno due anni non c’era più nessuno all’università che potesse insegnargli granché. Se fosse un videogioco? Sarebbe Deep Blue con il senso dell’umorismo. Dopo aver battuto Kasparov a scacchi, lo prenderebbe anche per il culo. Tecnicamente Daryl Domino è una sua creazione. È lui che ha elaborato le basi del software d’animazione che gli dà vita, e ancora lui ha messo a punto il sistema di interferenza digitale che, insieme (tengo a dire) al MIO algoritmo di compressione, ci permette di piratare le frequenze di qualunque emittente. Poi c’è la sua storia personale, il suo meraviglioso numero di masochismo che, sospetto, ha convinto più d’ogni altra cosa Ken ad assumerlo. Il Conte appartiene a una famiglia della buona borghesia cattolica, «benestante ma non praticante», come dice lui. Le precoci manifestazioni d’intelligenza non pare abbiano turbato i suoi anni d’infanzia: era troppo intelligente perfino per cadere nella sindrome del bambino prodigio. E le sue doti non si sono eclissate o normalizzate con lo scorrere degli anni. Dopo la pubertà è passato attraverso un rapidissimo periodo di assestamento, si è letto tutto Foucault (cosa difficile per un tredicenne), lo ha capito (cosa impossibile per chiunque) e si è ritenuto soddisfatto sia sotto il profilo intellettuale che sotto quello morale. A ogni modo un dazio doveva pur pagarlo. E fu l’adolescenza, col suo carico di bollori, a presentargli il conto. La ragazza, stando a quanto racconta lui, era di bellezza svergognata. Aveva quindici anni malportati, nel senso che ne dimostrava almeno venti. Quello che invece portava benissimo era il seno. Con sfrontatezza bellicosa puntava a destra e a manca le sue morbide ma affusolate armi improprie. Come il robot donna Afrodite A, l’amichetta di Mazinga, che l’immaginazione misogina di disegnatori giapponesi ha creato trasformando il punto più sicuro e accogliente del corpo femminile in arma da fuoco. Il Conte, com’è giusto e sano all’età di quattordici anni, c’era caduto con la grazia di uno stoccafisso. L’aveva conosciuta nel corso di una serie di lezioni – che teneva lui – per uno stage di orientamento organizzato per le scuole dal dipartimento di informatica dove a quel tempo lavorava (il professorino). Lei era una del gruppo, in un’epoca in cui le stagiste non rappresentavano ancora una minaccia sociale. Augusta, era il suo inarrivabile nome. Dopo la terza lezione si incontrarono casualmente al bar dell’università, dove casualmente lui l’aveva seguita. Per un professionista dell’aggancio, il bar è un sito favorevole, un vero classico del rimorchio. Il Conte però era lontano anche dal potersi definire un apprendista e, circostanza aggravante, il suo sviluppo fisico era in ritardo quasi quanto la sua età intellettuale in anticipo. Generazioni di gracili secchioni possono confermare che, in tali frangenti, l’età intellettuale te la puoi appendere a far da batacchio in zone plebee. Augusta beveva già un succo di frutta all’angolo del bancone, il che gli impediva di offrirle da bere. In più il Conte non fumava, il che gli impediva di offrirle una sigaretta o di far scattare la molla di uno zippo appena l’avesse vista attingere al suo pacchetto. Con ciò si esaurivano le uniche due scuse che la cinematografia di genere abbia mai offerto ai novizi dell’abbordaggio. Le uniche due scuse che il Conte conoscesse. Prima che Augusta potesse risvegliare le attenzioni dei numerosi e aitanti tabagisti presenti, le si affiancò ordinando latte caldo (orrore). Zuccherò il latte in abbondanza (doppio orrore). Si voltò verso di lei accennando un sorrisetto che, nelle sue intenzioni, doveva significare Riconoscimento & Disponibilità. Venne ignorato. Risolse di bere il latte in fretta e scappare via con onore. – A me il latte fa schifo –. La voce di lei si affacciò un po’ pigra, ma non piatta. Bellissima voce fu il primo pensiero del Conte. Poi realizzò che lei, LEI, gli aveva rivolto la parola e a lui restavano solo due secondi per organizzare una risposta secca ma brillante, decisa e pur gentile, maschia ma con un tocco di disinvoltura blasé che… tempo scaduto. Il panico rispose per lui. – S… se vuoi posso offrirti qualcos’altro. – Guarda che il latte lo hai ordinato per te; io sto già bevendo qualcos’altro –. Perfetto, una figura da cetriolo marcio dopo solo sei parole. E in più quell’incredibile capezzolo sinistro che, sotto la maglina attillata, sembrava tenerlo sotto tiro. Cercò di abbassare gli occhi, ma la tetta non lo mollava, causandogli uno strabismo passeggero. – Scusa, cioè, non intendevo… – rattoppò il Conte, sbarrando lo sguardo per recuperare l’allineamento delle pupille. Lei rise. E tutto l’universo del Conte rise con lei. Rise l’algebra booleana, sghignazzò la macchina di Turing, mostrarono i denti Lady Lovelace e Charles Babbage danzando una quadriglia che disegnava nell’aria segni d’infinito. Nell’arco di quella risata Artide e Antardide si scambiarono di posto e poi tornarono in posizione, il corso dei fiumi s’invertì e le teorie economiche predissero con esattezza l’andamento dei titoli azionari. Il Conte sentì in quella allegria, per la prima di tante volte, il calore delle sagre di paese, il sapore del vino rosso sulla carne alla brace. Un buonumore che si poteva toccare, assaggiare. Fu la sua prima, vera, grande e forse unica storia d’amore. Durò otto anni. Una storia di otto anni, per uno che la inizia a quattordici, significa molto; anzi troppo. Quando finisce, sarà durata più di un terzo della tua vita, e avrà assorbito per intero la tua sfera emotiva e sentimentale; ti lascerà senza obiettivi, né termini di paragone. Ripiegato su te stesso a ventidue anni. Augusta ne aveva ventitré quando decise di lasciare il Conte per seguire a Melbourne un bassista basso di uno scarso gruppo rock australiano. Lei non meditò la decisione per più di dieci minuti, e lui cominciò a nutrire seri dubbi sulla propria capacità di suscitare impressioni profonde nelle donne. Dopodiché prese a martellate tutti i suoi dischi dei Supertramp. Non fu l’unico effetto collaterale di quell’esperienza. Rimase per tre mesi di fila chiuso in casa: il servizio a domicilio del supermercato gli salvò la vita. Più o meno alla fine del terzo mese, andò a fargli visita un vecchio collega di università. Con un problema. Il Conte era stato a fissarlo per mezz’ora, senza dire una parola, mentre l’altro si scioglieva in convenevoli. Lo guardava con la passività rassegnata con cui si guarda la Tv. Non che gli stesse antipatico, anzi, lui aveva persino avuto la delicatezza di ignorare l’odore di carogna esalato dalle confezioni take-away dimenticate da settimane sotto il divano. Il Conte lo aveva molto apprezzato. Ma non riusciva a fare di più. Alla fine, stremato dall’impassibilità del suo ospite, o forse dai miasmi della stanza, il collega arrivò al dunque. La polizia era a tanto così dal beccarlo per frode informatica ai danni di varie compagnie assicurative: poteva lui, piccolo grande dio del codice binario, aiutarlo in qualche modo? Poteva, sicuro che poteva. Il Conte rimase collegato, gli occhi fissi al monitor, le mani da pianista sulla tastiera, per trenta ore consecutive, alimentandosi con una lunga cannuccia immersa in una tinozza di frullato e pisciando in un catino. Riuscì a cancellare ogni traccia compromettente che il suo amico aveva lasciato in rete. Ma non si limitò a questo. Creò anche una bella pista succulenta che i tutori dell’ordine informatico non avrebbero faticato a seguire dritti fino al suo computer. Dopo l’impresa, dormì per due giorni di fila, svegliandosi solo quando la polizia gli sfondò la porta a calci. Venne processato per direttissima e rinunciò a ogni beneficio. Si fece due anni di galera col sorriso sulle labbra, e parla ancora di quel periodo con un affetto inquietante. Dice che se hai nausea della vita pubblica e terrore del sesso femminile, il carcere è un’eccellente alternativa. – Ambientarsi non è poi quel gran problema. Devi solo individuare subito chi è il più cattivo. Poi vai là e gli spezzi le gambe, o vai là e gli offri il tuo corpo, o vai là e cerchi di fargli pena, a seconda del tuo carattere. Il resto è tutta discesa. È o non è il Michelangelo del masochismo? 28. Dorotea ruminava nervosa un doppio chewing-gum all’amarena, per togliersi dalla bocca il sapore della barretta di caramella mu glassata ripiena di croccantino al rum che aveva appena finito di sbranare. Quell’inestimabile spaccamarroni d’un professore le metteva ansia. Il distretto degli affari, sorpreso fuori orario, era incolore e spettrale, come solo questi quartieri diventano una volta svuotati del flusso umano che li vivifica nelle ore dedite al guadagno. Un luna-park post-moderno abbandonato, causa guerra atomica. Camminando, si era già fatta fuori due gelati, una scatola di puff al formaggio, tre supercioccolatini al riso soffiato e la barretta di mu. Più il chewing-gum. A merito del prof però andavano ascritti i notevoli progressi della fanciullona. Alla quarta lezione Dot, con un po’ di impegno, era in grado di risolvere rebus e giochi logici di vario tipo. Si teneva ancora lontana da crittogrammi mnemonici e sciarade alterne e litigava con le sequenze numeriche, ma s’era scoperta un inatteso talento per le figure geometriche. Il suo quoziente di creatività potenziale, perdipiù, era stato valutato come «sopra la media» nella scala Toscani-Koons. Il prof rimaneva comunque un insostenibile scrotoclasta (parola assimilata di recente alle sue lezioni). La stanza 15 C aveva cominciato a sognarsela di notte, un angusto ricettacolo di macchinari galvanici da Frankenstein dove la nuova donna, che era lei, veniva assemblata. Apuleio, come aveva scoperto chiamarsi il suo prof, enigmista di chiara fama (aveva scoperto anche questo), la bombardava senza alcuna pietà. Logica, concentrazione, sintesi, velocità. Logica, concentrazione, sintesi, velocità. – Coleridge, Keats, Wilde, Eliot. Quale di questi nomi devi escludere dalla sequenza? Hai quindici secondi… – Facile, Eliot: è l’unico di questi scrittori che non appartiene al Romanticismo! – Già, peccato che a me, come ai creatori e ai selezionatori di test Q.I., le tue risibili nozioni di letteratura inglese non facciano né caldo né freddo. Anche volendo prescindere dal fatto che Wilde non va ricondotto al Romanticismo ma all’Età Vittoriana, ancora una volta hai commesso un errore di metodo e di attenzione. Se ti fossi concentrata per bene sulla domanda, una volta tanto, ti saresti accorta che il quesito richiedeva l’analisi di nomi e non di scrittori. Coleridge, acclamato esponente di un movimento letterario di cui oggi non frega più niente a nessuno, ha un nome formato da nove lettere, a differenza degli altri, che ne hanno solo cinque, il che lo rende il nome da escludere. Te l’ho già detto, Dorotea, non badare a ciò che sai, perché tanto non sai niente. Limitati ad analizzare i dati che ti vengono offerti. Punto e basta. A causa di questo errore la nostra lezione si prolungherà di un minuto e mezzo. Ricominciamo. A ogni errore novanta secondi di sofferenza in più, questa l’arcaica sanzione-tortura che Apuleio aveva escogitato. Almeno un centinaio di volte Dorotea aveva cullato la dolce fantasia di afferrare il pesante fermacarte marmoreo posto al centro della scrivania e usarlo per aprire un’entrata di servizio in quella calva testa di cazzo. Ma l’atmosfera surreale in cui si svolgeva il suo addestramento l’aveva convinta che se si fosse avventata su Apuleio e l’avesse messo fuori uso con una cinquantina di colpi ben assestati, dalla porta sarebbe entrata una copia esatta del suo maestro che, senza battere ciglio, avrebbe preso il posto dell’Apuleio precedente, ormai ridotto a informe poltiglia sanguinolenta, e la lezione sarebbe continuata. Appena terminato il supplizio era schizzata per strada, avvertendo un’ansia strana in mezzo al petto. Aveva bisogno di Domino, di farsi una bella overdose di Daryl Domino in cassetta e di stendersi e dire sciocchezze in libertà con Fanny e Tebaldo al club. Non era molto probabile che a quell’ora ci fosse qualcuno nella stanzetta che ospitava la loro passione, ma tanto valeva provare. Il televisore acceso ma muto diffondeva nella stanza un riverbero acido e bluastro. Nella penombra, Dorotea scorse una figura abbandonata su una poltrona. Sobbalzò, ma si accorse subito dopo che si trattava di Fanny. Il club faceva uno strano effetto al buio. Centinaia di oggetti che, illuminati, passavano dall’innocuo al futile all’imbecille, senza luce acquisivano una nuova dignità. Le loro ombre allungate intimorivano e l’immobilità, di solito scontata, diveniva adesso un segno di potenza e di magia. Un’inquietudine da museo delle cere montava nell’ombra. Raccoglitori impilati si trasformavano in ziggurath, grezze librerie diventavano totem, ogni lampada era un idolo e la scrivania un catafalco. – Non accendere, per favore, ho malditesta, – la voce di Fanny era un soffio leggero ma molto preciso. – Giornataccia anche tu, vero? Allora siamo in due. Dot si afflosciò su una sedia e fece roteare la testa per stirare i muscoli del collo. – Giornataccia? No, non direi, – riprese Fanny. – Non direi affatto. Ho molto pensato, vissuto e concluso, in un certo senso, oggi. Seguì un lungo silenzio. Un silenzio che, in seguito, Dorotea si rimproverò assai. Si desta di soprassalto con un diffuso senso di malessere; due secondi per orientarsi nelle nuove coordinate del risveglio. Fanny è ancora abbandonata sulla poltrona, dorme, le braccia distese verso il pavimento che… Qualcosa non va. I suoi occhi si abituano sempre di più al buio, ma non riescono a percepire neanche un minimo movimento su quella poltrona. Il petto non va né su né giù. Avvicinandosi, incespica e cade per terra, vicino al braccio sinistro di Fanny. L’odore dolce le investe il viso, viene su dal catino in cui l’amica tiene immersa la mano fino all’avambraccio. Dall’altro lato, un catino identico. L’acqua nei recipienti è tiepida, più spessa e oleosa del normale. Poi tutto diventa convulso movimento. D’un tratto è consapevole dell’atmosfera ottundente della stanza, che comincia a girarle attorno. Colpisce il pavimento con un pugno, perché il dolore la mantenga aggrappata al mondo reale. Si trascina al telefono e chiama il pronto intervento. Va subito ad aprire la porta per paura di non riuscire a farlo dopo. L’aria pura che entra nel locale la rianima. Aspetta per secoli, senza trovare il coraggio di avvicinarsi all’amica. Più tardi, in ambulanza, la testa fra le mani e i gomiti appoggiati alle ginocchia, quella mancanza di coraggio le peserà. Bianco di muri e verde di camici. Solitudine. Rumore metallico di fondo, odore vago di cibo sterile, luci alogene che offendono gli occhi. Dovrebbero esserci illuminazioni più gentili in posti del genere. Sente dire da qualcuno nei suoi riguardi la frase: «È sotto shock». Non sai quanto, bello, nemmeno te lo immagini. Nell’ampia stanza azzurrina delle medicazioni, dove la depositano per qualche minuto, si rende conto per la prima volta di stringere in mano una busta macchiata di sangue. Legge nello spazio per il destinatario. «A Dot, Tebaldo o a chi possa interessare». Non capisce subito. 29. Giovedì. Trovo il biglietto di Bella stamattina, poco prima di uscire. Per essere sicura che lo vedessi proprio in quel momento, lo ha nascosto nel caschetto di polivinile che uso in bici. Sette secondi prima di chiudermi alle spalle la porta di casa, dunque, mi imbatto in un messaggio scritto dalla mia… da quella con cui… esc… mi ved… ho rapport…, mi imbatto in un messaggio scritto dalla ragazza con cui ultimamente ho saltuari incontri intimi ma disimpegnati. Il testo recita con testuale diligenza, così: Sono stata molto bene. Direi pure da Dio, ma non vorrei dare la sensazione di metterti sotto pressione con un mio apprezzamento eccessivo. Sono consapevole del fatto che tu, per ragioni personali che non sarai mai tenuto a spiegare, potresti non voler avere più niente a che fare con me. Lo capirei benissimo e non vorrei mai che sentissi di dovermi qualcosa, tantomeno un chiarimento. A ogni modo, per me la cosa può continuare così. Se sei d’accordo anche tu, oggi metti le bretelle rosse. Se non te le vedo addosso, amici come prima e niente dialoghi imbarazzanti, per piacere. B. Mentre credevo ancora di stare fermo a pensarci su, mi ritrovo forsennato a frugare nel cassetto in cerca di quelle cazzo di bretelle. Saranno due mesi che non le vedo, Cristo. Quando sono sul punto di passare in rassegna sulle pagine gialle i negozi di moda maschile che ci sono sul tragitto casa mia – ufficio, alzo gli occhi e le vedo che mi aspettano arrotolate alla maniglia della porta d’ingresso, con su un altro biglietto: «Nel caso non le trovassi…» Fa pure la spiritosa, fa! Nella fretta di mettermele senza perder tempo a sfilare i pantaloni, mi infliggo tre involontarie e dolorosissime frustate. Stringo i denti mugolando come un cane mentre corro fuori, già in mostruoso ritardo, con la canna della bicicletta in una mano e cercando con l’altra di sistemarmi il caschetto in testa. Respiro profondamente una bella boccata di ossido di carbonio, mi rilasso, guardo il fiume di auto cercando il ritmo giusto, inforco gli occhiali da sole e mi butto. Venti minuti dopo sono nella mia stanza. Con un ritardo voluto e calcolato da Bella. Dice di non volermi influenzare ma le piace sapere che mi faccio influenzare lo stesso. Sembra non fare caso alle bretelle che, invece, non sfuggono al Conte. – Carino che sei con le braghe corte e gli elasticoni. Se ti infili anche un cappello da idiota, balliamo la danza degli schiaffi in mensa, ti va? Grazie Bella. Se la gioviale Antonietta si azzarda a fare un commento sul mio ritardo, avrò il piacere di farle provare un’esperienza di distacco dal corpo. Per sua fortuna, oggi è il turno del maschietto corpulento, che si limita a sorridermi facendo un plateale gesto di saluto. Arrivo alla mia stanza trafelato e vagamente incazzato, ma non darò mai a Max il piacere di vedermi nell’uno o nell’altro stato già di prima mattina. Per cui fingo rilassatezza e amabilità. – Ciao Grande Max, come tira il nuovo giorno? – trillo, accomodandomi plastico su tutta l’ergonomicità della mia poltroncina. Risponde senza manco alzare lo sguardo: – Di sicuro meglio che a te. Cos’è quel fiatone e quell’aria incazzata? – Bastardo. – No, è che ho fatto tardi con… che è ’sta roba? – Lo sguardo mi è andato alla busta opalina di spessa carta sontuosa con il mio nome sopra. – Mai visto un invito prima d’ora? Ce n’è uno per ciascuno. Li ha portati Ken stamattina. Tu ancora non c’eri. Il cartoncino è pesante e le lettere sono stampate a rilievo in stile lezioso con inchiostro grigio argento. La S.V. è attesa al Gran Ballo annuale della Morgan Holding Salone delle Feste, Morgan Building E più sotto in piccolo r.s.v.p. – R… S… V… – Répondez S’il Vous Plait. Vuol dire che se ci vai, devi avvertire… È francese. – Grazie Max. Sai, non avevo mai visto un invito così da vicino… – Max annuisce, come se stessi parlando sul serio. – Ehi, è per domani sera! – Già. Ken se lo è tenuto segreto fino a oggi per essere sicuro che non avessimo il tempo di architettare un boicottaggio in grande stile. – Vuoi dire che siamo invitati coatti? – La ragion di stato, Giona, innanzitutto la ragion di stato. – Gesù! – Ken si sta facendo un po’ prendere la mano, mi sa. – E poi, pure Ken… non è modo, dirlo così all’ultimo momento. Se avessi avuto davvero un altro impegno personale? Insomma, anche noi abbiamo una vita privata, no? Mi guarda come se avessi detto una cosa molto stupida. No, certo che no, sciocco che sono. – Giona? – Sì? – Perché cavolo ti sei messo quelle patetiche bretelle rosse? Prima che io possa organizzare una decorosa risposta, vengo interrotto dal segnale acustico della posta elettronica di Max. Bubu, c’è una buona colazione! Io non ho predisposto alcun segnale, ma anche la mia mail-box contiene un messaggio. È una mail collettiva del Conte. Subject: questo qui è proprio andato Oppresso, depresso, frustrato, castrato in ogni mia iniziativa originale, inviso ai nemici, deriso dagli amici, costretto a nascondere la mia vera natura per non subire rappresaglie, discriminato che in confronto gli omosessuali sono cazzo e culo con la Chiesa. La spada di Damocle sempre in bilico sulla mia testa, mi muovo circospetto fidando in pochissimi e rifuggendo i più, sempre aspettandomi la mazzata definitiva. Devo trovare il coraggio e la volontà per venir fuori da questa situazione, per urlare in faccia al mondo intero, senza vergognarmi né temere conseguenze, ciò che sono. Lo griderò forte quando meno se lo aspettano. Vestirò il mio più elegante completo blu notte, con gilet e tutto, mi confonderò tra di loro, spacciandomi per un neo-dandy da periferia dell’impero (ciò che loro credono io sia). Fumerò sigarette pretenziose e mi perderò in chiacchiere amabili e sciocche con padrone di casa vuote e fiere di esserlo, scambierò pareri professionali, fingendomi esperto in materie che conosco appena, con professionisti cialtroni che a loro volta spacciano la loro faccia tosta per competenza e campano vendendola. Mi infiltrerò nelle maglie del potere (o di quello che in questa infame e meschina città viene confuso con il potere) e colpirò. Alla festa del regimino, alla soirée di beneficienza, nel salotto della contessa mignotta io ci sarò, e quando meno se lo aspetteranno, quando penderanno dalle mie labbra, quando i cucchiaini leviteranno immoti sui piattini di torta, quando le ciabattone pittate e i loro potenti accompagnatori dalla pelle avvizzita si aspetteranno da me una battuta sagace e pregna di quell’umorismo cattivo ma positivo che tanto bene fa al loro sistema da due lire… IO, sì IO maiuscolo, metterò le mani a coppa ai lati della bocca e griderò il vero, l’onesto e solo stato della mia anima e della mia mente. A tutti dirò, sì sì sì io dirò… che sono… Un deficienteeeeeeee! e ne vado fiero. Rivendico il diritto di essere un deficiente e di non doverlo nascondere. Rivendico il diritto di non avere un’opinione su tutto in un Paese pieno di gente che caca opinioni su chiunque e qualsiasi cosa. Rivendico il diritto di fare scherzi imbecilli e di dire stupidaggini ogni volta che mi venga voglia. Rivendico la libertà di ridere a crepapelle da solo senza per questo essere preso per pazzo. Rivendico la libertà e necessità di essere pazzo e assurdo e fuori luogo. Li spiazzerò con la mia assoluta noncuranza che loro scambieranno per volgarità. Perderò posizioni decisive nella classifica degli scapoli d’oro e le loro figliette zitelle ciccione ma speranzose di un buon matrimonio non mi degneranno mai più di uno sguardo. Verrò messo da parte e abbandonato come un appestato, ma almeno non sopprimerò mai più l’irresistibile bisogno di tirare una pernacchia assordante in faccia a chicchessia, se solo mi andrà di farlo. Altro che Città Perfetta! Fonderò io uno stile di vita, una religione, una nazione astratta (Deficient Land) e chi avrà voglia e fegato potrà seguirmi o precedermi… Dopodiché mi sveglierò venerdì mattina e con la mia solita faccia da culo andrò alla gran festa della Morgan Holding alla quale siamo stati tutti invitati (porc!) e che è la vera ragione, se non si fosse capito, di questo piccolo sfogo. Una domanda sorge spontanea: avrò il coraggio di mettere in pratica quanto fin qui detto già da domani? Non credo, ma staremo a vedere. Un po’ di pazienza cazzo! Piovono solidali mail di risposta da tutti noi, grati al Conte che, come spesso accade, si assume l’arduo compito di scuoterci e prendere a calci nel sedere la nostra coscienza civica. Le richieste di iscrizione a Deficient Land fioccano come neve in dicembre, e forse Ken (che immagino sorridere nella sua stanza davanti allo schermo del computer) comincia ad avvertire una sottile affettuosa inquietudine. 30. Quella che a Dorotea è stato permesso di leggere è solo una fotocopia. L’originale lo ha trattenuto la polizia, per i rilievi, così almeno le è parso di capire. Le macchie di sangue sulla carta sono dunque diventate dei semplici ispessimenti di grigio. Il che non significa che non le mettano i brividi lo stesso. Sta seduta su una panca in un angolo della centrale di polizia, un po’ rigida. All’ospedale è riuscita a convincerli a non avvertire l’Anziano Genitore Cardiopatico Che Potrebbe Risentirne. Dunque ha almeno eliminato un problema: visto che non guida, non va a votare, non guarda film pornografici, è forse la prima volta che usufruisce dei vantaggi di essere maggiorenne. Continua a guardarsi intorno, prendendo tempo. Intorno a lei la Centrale. Niente Hill Street Giorno e Notte. Niente prostitute fermate in abiti volgari e tristi che fanno battute salaci all’indirizzo dei poliziotti; niente piccoli trafficanti tarchiati e logorroici che insistono per parlare col proprio avvocato; niente teppistelli recalcitranti e rumorosi; niente violenza cupa negli occhi di un uomo ammanettato dall’aria calma e pericolosa. Solo pochi agenti in divisa, affaccendati in questioni burocratiche; altri, in borghese, hanno facce che mai si vorrebbero incontrare in vicoli bui. Appena Dorotea ha rifiutato di rimanere in osservazione all’ospedale, l’hanno portata qui per le formalità. Concluse le formalità, le hanno consegnato quel foglio. Adesso per leggere ci vuole coraggio. Tre ore fa lo avrebbe fatto senza pensarci, ma così, a freddo, ci vuole coraggio. La calligrafia è chiara e ferma. Non mi drogo, non ho perso il lavoro, non ho subito tragedie personali. Questo voglio che sia chiaro. Spiegazioni non cercatene perché non ce n’è. Non sono cose che si fanno per motivi precisi, queste. Non io, comunque. La stanchezza, forse. La stanchezza è il mio dio quotidiano. Ha sbiadito la rabbia, ha risucchiato la tristezza, ha cancellato la voglia. Non riesco nemmeno più ad avercela con nessuno. È l’insensibilità l’ultima evoluzione? Daryl Domino lo ha detto proprio l’altro giorno. A un certo punto esci e ti rendi conto che le cose sono cambiate a tua insaputa, che il copione è già stato scritto e non lo hai scritto tu. Capisci di non avere più curiosità per questo mondo, né voglia di fare altre domande. Non c’è molto da dire, mi sa. A un certo punto si scaricano le batterie. Rileggo queste righe e mi accorgo che sono piene di «non» (ne conto dodici). Uno psicologo ci tirerà fuori chissà quali riflessioni, e allora aggiungiamone un altro, in tutta la sua maestosa banalità, visto il momento: non ce la faccio più. Solo questo. Non (quattordici) fatevi troppi problemi. Buon proseguimento. fanny II. Festa Scuole esclusive per una istruzione esclusiva in un ambiente esclusivo con garanzia di esclusive frequentazioni. Abitua i tuoi figli fin da piccoli a camminare dal lato giusto della strada. Fa’ che imparino presto i valori veri: l’amicizia altolocata, la lealtà verso il potente, la solidarietà fra simili. Falli forti tra i forti e spiana il loro futuro. Oggi piccoli lobbisti in divisa da college, domani potenti generali massoni. Promozioni garantite. Da un messaggio pubblicitario della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 31. Ganimede deve prepararsi per la festa mirabilissima che si terrà stasera, come ogni anno, per festeggiare l’approvazione del bilancio della Morgan Holding (escludendo le finali NBA, la ricorrenza che più si avvicina al Natale per Lorenzo Morgan). Saranno invitati tutti quelli che hanno rapporti di alto livello, commerciali e non, con la Morgan. Dunque, per suo gaudio, nella lista figura anche Ganimede. Al momento è impegnato nell’arduo compito di circumnavigare la pancia con le braccia per allacciarsi le morbide calzature di vacchetta nero lucido (sotto lo smoking le scarpine di vernice lasciamole ai parvenu, vero Ganimede?) Ha promesso a se stesso di non arrendersi a mettere la gamba a cavallo per completare tale operazione. Ciò lo fa sentire più magro e più giovane, almeno fino a quando ce la farà a sentirsi più giovane e più magro. Ancora per poco, teme. E intanto sudacchia nella camicia di seta, e bestemmia sommesso, reggendo i lacci delle scarpe in punta di dita e in forzata apnea. Tutto per quella festa del cazzo, pensa, sempre più rosso in faccia per lo sforzo. Così impegnato, non può accorgersi che qualcuno si sta introducendo nel suo ufficio. Per essere esatti, non potrebbe accorgersene comunque, visto che lui si trova a casa, a svariati chilometri di distanza dal suo ufficio, ma ciò non sposta affatto il problema. Un individuo non autorizzato ha appena messo piede (un piede non autorizzato) nel personale giardinetto affaristico di Ganimede Borsch. Ormai l’ora è tarda; nell’edificio poche rade luci resistono accese sulle scrivanie e la voglia di tornare a casa vince ogni attenzione o curiosità. Perché mai, del resto, dovrebbe suscitare attenzione quella vecchia bianca signora col faccino grinzoso ma fermo da professoressa di lettere? Perché mai, visto che si tratta di una delle segretarie di Borsch? Segretaria di terzo livello, certo, ma pur sempre segretaria. E in quanto segretaria di terzo livello, Heidi Charisse sa bene in che cassetto la segretaria di primo livello tiene le chiavi dell’ufficio di Ganimede, e sa anche dove la segretaria di primo livello nasconde le chiavi di quel cassetto. Nessun problema, quindi, per entrare. Ciò che Heidi Charisse non sa, e che mai saprà, è il perché abbiano scelto proprio lei, né chi l’abbia scelta. Non può immaginare, Heidi, nella sua mummificata incoscienza, che l’oscuro suo committente ha incaricato i propri consulenti di spionaggio industriale di scovare il più infimo, sottopagato, frustrato e rancoroso collaboratore di Borsch. Non può certo sapere che è proprio lei a corrispondere a quel mortificante identikit, e che solo per questo è stata avvicinata da un uomo dai modi gentili che le ha offerto una cifra commovente per trafugare dei documenti. L’oscuro committente avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato con altri mezzi, più sicuri e professionali, ma non sarebbe stato altrettanto divertente e didascalico. Ogni favola ha bisogno di una buona morale. Intuisce, Heidi, che quanto si appresta a fare non è coperto dai crismi della legalità, e pure è certa che il suo compito contribuirà a fare di Borsch una persona meno felice di quanto già non sia. Ma, come sempre diceva ai suoi alunni prima di un tema in classe impegnativo, à la guerre comme à la guerre. Qualsiasi cosa questo possa significare. Ganimede le è sempre stato antipatico, fin da ragazzino, e poi le passa uno stipendio da fame. Sarà pur ora di reagire. Il signore gentile che l’ha reclutata, le ha fornito un grazioso aggeggio elettronico con base magnetica. Le ha pure insegnato ad applicarlo sullo sportello della cassaforte (di cui lei ha fornito all’uomo gentile sia la marca che il modello). La cassaforte, Dio perdoni Ganimede, è occultata dietro un quadro. Il congegno aderisce bene allo sportello, il pulsante viene premuto e le combinazioni di numeri girano veloci… 32. Il momento in cui ne verrò fuori sarà il più bello di tutta la serata, questo è chiaro. Partire demotivati non è bene, certo, ma insomma… c’è un limite. C’è un limite alla stupidità, all’antipatia, ai modi saccenti, al disperato credersi ciò che non si è; c’è un limite alla falsa raffinatezza che diventa offensiva, all’architettura pretenziosa, alla megalomania e alle belle donne accompagnate da ricchi coglioni. C’è un limite che io credo di poter sopportare e che stasera verrà superato, ma si sa: i record sono fatti per essere battuti. Intrappolati nell’ampio ascensore nero lucido, mortuario, ci siamo noi. In mezzo agli altri, mimetizzati male, ci siamo noi. Stretti in falange per darci forza e coraggio, appena storditi dalle fragranze di costosi profumi e dalla lucentezza degli ottoni, aspettiamo che le porte dell’ascensore ci schiudano il mondo delle meraviglie. Ken sta in prima fila; sa che gli tocca reggere l’impatto. Fasciato in un completo grigio che rivela più del solito la sua lieve e affabile pinguedine da trentanovenne, stringe la mano della deliziosa bambola pensante che si è scelto per moglie. Sorride contento e allo stesso tempo imbarazzato. Ken: l’uomo che prende il «farsi carico» come una missione. I piani vengono bruciati uno dopo l’altro mentre lo sguardo viaggia sui miei amici. Il Conte risiede tranquillo in un dignitoso doppiopetto blu notte, il sottile collo di tacchino che nuota libero nel colletto troppo ampio della camicia. Chiara fissa con intensità ipnotizzata la targhetta delle indicazioni di carico dell’ascensore e continua a riaggiustarsi lo scialle di raso color crema, largo per le sue spalle da dodicenne. Marianna è presa e compresa, fiduciosa e spaventata, occhi ladri sotto la fronte alta. Corpetto nero e gonna lunga verde acceso, che la rendono più imponente di quanto non sia. Bella di Giorno è appetitosa e profumata come cioccolato svizzero. Capelli raccolti sulla preziosa nuca. Vestito nero: due fasce che incrociano sul seno lasciando nudi schiena e ombelico. Ha un piercing (uno solo, data l’occasione), e devo dire che provo un certo orgoglio virile. Stupido, infantile, maschilista, certo, non dico di no, ma, a guardarla, mi viene da sorridere. Max non è con noi; arriverà dopo, lui, tanto a questi ambienti è quello più abituato. Lui. E infine ci sono io. Ammetto di aver escluso io stesso di presentarmi in pantaloncini corti. Ammetto meno volentieri che nel vestirmi ho seguito per filo e per segno i suggerimenti di Bella. Il suo nuovo bigliettino l’ho trovato (me lo ha fatto trovare) nel cassetto delle mutande, tanto per essere sicuri. Se vuoi un consiglio, l’abito grigio che tieni in fondo all’armadio (l’ho notato, cosa credevi?) non è affatto male. Mettici sotto una camicia bianca. Non ritengo di essere abbastanza intima per suggerirti anche la cravatta. Ma non credo che tu ne possieda più di una. In ogni caso, fa’ pure come ti pare. B. P.S. Per rispondere a una tua vecchia domanda: sì, ci sono rimasta male per il risultato del mio test d’ammissione alla Città Perfetta. Un rifiuto è sempre un rifiuto, anche quando proviene da un cretino. Era parte del mio progetto «Barbie – Segreti di Bellezza» e me l’hanno fottuto. Il progetto «Barbie – Segreti di Bellezza» è il modo in cui lei chiama, con autoironia preventiva, il suo processo di normalizzazione borghese. Ormai è consapevole del gorgo-ceto medio che l’attira in volute sempre più strette, e anche del fatto che l’idea le piace. Sospetto che questa sua inattesa apertura sia la moneta con cui cerca di ripagarmi l’intrusione costituita dal suo precedente consiglio sartoriale. Non c’è niente da fare, ci cascano tutte, prima o poi. È più forte di loro. Possono anche passar sopra al tuo aspetto quotidiano, fingere di non notare la tua passione per una sana trasandatezza, ma tutte, tutte le ragazze che credono di vantare anche un blando diritto di possesso su di te, ti suggeriranno che vestito mettere a una festa. Non resistono. Ho messo l’abito grigio, cos’altro potevo fare? E ho una sola cravatta. L’ascensore si apre in un’austera boiserie. Dopo aver consegnato i soprabiti a una solerte guardarobiera che indossa guanti chirurgici in lattice (un particolare sinistro, a pensarci), ci affacciamo alla sala. Sontuosa art déco. Avanziamo: pessima squadra di infiltrati. Sarà pure un’impressione, ma mi sembra che tutti i presenti, dopo una prima occhiata, ci abbiano già classificati come «fuoriposto». Il marmo rosso chiaro delle pareti spinge con decisione verso il soffitto altissimo. Sul lato stretto (si fa per dire) ed esterno, compare per metà il retro del quadrante dell’enorme orologio che puoi consultare quando ti trovi per strada, seimila piani più sotto. All’apparenza è fatto di vetro bianco satinato; i fari che lo illuminano dall’esterno proiettano all’interno le ombre delle acuminate lancette e dei numeri romani che contrassegnano le ore. Ogni minuto, l’ombra prodotta dalla lancetta lunga si sposta di scatto, fendendo l’aria come una mannaia fatta di buio. Sul lato lungo, un imponente altorilievo in bronzo anni Trenta: uomini al lavoro, forse impegnati nella costruzione dell’orologio, pose plastiche e lineamenti massicci, occhi infossati e inespressivi che ricordano la statuetta degli Oscar; il populismo fordista che si fa strada anche nell’arte. Appena entrato nel salone, mi pento di aver smesso di fumare. Mi consolo pensando il peggio del peggio di tutti i presenti. Un mediocre onanismo di rivalsa, se vogliamo, ma stasera non andrei tanto per il sottile con l’autoindulgenza. L’unica persona che conosco è il chitarrista del complesso che si alternerà all’orchestra per divertire gli invitati: un coatto capellone nostalgico, che saluto calorosamente e col quale mi intrattengo più di quanto sarebbe opportuno. Si capisce benissimo che entrambi siamo molto imbarazzati per esserci fatti beccare in questo spregevole contesto. Quando mi sembra di aver fraternizzato abbastanza, arraffo dal buffet una manciata di salatini, sentendomi in colpa, e un flûte di champagne (anche se io non bevo, ma c’è un limite pure a ciò che posso sopportare da lucido). Cerco di inquadrare quanto mi circonda con una visione d’insieme. Le due chiacchiere col chitarrista mi hanno allontanato dal mio gruppetto; i bastardi sono spariti, sicché mi trovo a tu per tu col mio viziatissimo e iperteso senso critico. 33. Scarpe. Di cuoio, di pelle, di raso, di seta, di vernice. Blu, nere e marroni; qualche colore in più per le donne. Scarpe scollate e castigate, alte e basse. Mocassini, con i lacci, polacchette, a barca, a ciabatta, a punta quadra, aguzza o arrotondata. E i tacchi, di ogni misura e forma, a spillo, a zeppa, triangolari. Scarpe fatte su misura ce n’erano meno di quanto fosse prevedibile. Scarpe nuove molte, vecchie alcune, consumate poche, ma qualcuna sì. Un enorme salone art déco, pieno zeppo di scarpe. Ganimede la vedeva così, la festa. Le sue ben allacciate calzature di vacchetta nero lucido, morbidissime e ben proporzionate, si fecero strada tra freddi marmi, soffici tappeti e tomaie varie. Ganimede notò che c’erano pochi smoking e questo, avendo lui lo smoking, lo mise a disagio. Pensava fosse quasi obbligatorio in simili occasioni; si era sbagliato. Non era invece affatto pentito di non aver chiesto a sua figlia Dorotea di accompagnarlo. La sua presenza sarebbe stata solo motivo di noia per lei e tensione per lui. Il momento giusto sarebbe arrivato in futuro: c’era ancora tempo per queste cose, pensava. Celso Grande svolazzava fra capannelli e gruppetti con tutta la leggerezza della sua imbecillità. Belle scarpe inglesi, però. Lo aveva salutato con un cerimonioso e plateale inchino, apostrofandolo come il suo «mentore». Ganimede aveva sorriso e annuito in silenzio, sognando di assestargli un calcio nelle palle. C’erano anche alcuni suoi conoscenti, che facevano stuolo attorno alla duchessa Severa Maria delle Erinni. La maledetta. – Carissimo, venga! – Arpionato senza scampo. – Anche lei qui, che piacere. Guardi, lo stavo proprio dicendo anche a loro che come mi diverto io qui ogni anno (perché sa, per i rapporti di mio marito con Morgan ormai questa serata per noi è una tradizione) come mi diverto io qui non c’è paragone, – concluse la Severa con sommo sprezzo dell’understatement e della sintassi. – C’è questa cosa simpaticissima della festa danzante, sa, ogni anno così. Mica quelle serate da barbogi ad abbuffarsi, parlar di sciocchezze e magari ascoltare poesie incomprensibili recitate da attori sfigati, ah ah ah! – Rise, forse ritenendo che l’uso della parola sfigati rappresentasse di per sé una battuta salace. – No, no, qui è diverso. Diciamolo pure, noi l’età per andare in discoteca non ce l’abbiamo più, ossignoremio, e da un bel pezzo anche ah ah ah! Però non significa che ogni tanto occasioni come questa, così appropriate, non facciano piacere anche a noi altri un po’ passées. Lasciarsi andare ogni tanto… Ganimede aveva assunto il suo sistema di difesa standard: sorriso tassidermizzato, periodiche oscillazioni verticali della testa e pensieri in semilibertà. Virò dall’ascolto all’osservazione. Severa Maria delle Erinni, duchessa. Il suo aspetto rivelava quella patetica sensualità, aggressiva ma scaduta, che le donne presuntuose di una certa età sfoggiano quando si accorgono (in ritardo) di aver perso terreno. Un vestito rosso pompeiano, retto da un’unica spallina, la conteneva a stento. Non che fosse grassa, in realtà, ma addosso a lei quell’abito era un crimine. I seni ansimavano, talmente compressi che, a metterci in mezzo un chicco di riso, sarebbero esplosi. L’unico omero nudo, nella sua pallida e massiccia rotondità, ricordava più un Tarzan anni Trenta che una donna appetibile. Scarpe con tacchi altissimi, così sottili che rischiavano di rompersi sotto il peso di tanta nobiltà. Ganimede offrì in silenzio a Dio tre anni della sua vita, pur di godersi la scena del tonfo, ma Dio rifiutò. Con lo sguardo fece una breve panoramica di un’ottantina di gradi, per intercettare Morgan. Lo trovò di spalle, che dominava, dall’immensa autorità del suo metro e cinquanta, un consesso di alte mezze seghe. Proprio in quel momento il magnate si voltò a guardarlo, strizzandogli un occhio. 34. Mi hanno lasciato solo, i bastardi. Ken e consorte sono stati fagocitati da quegli stessi viscidi, efficienti figuri della Morgan che hanno curato la nostra acquisizione. Tutti gli altri si sono sparpagliati. Scomparsa anche Bella. E va bene. Me la cavo lo stesso, io. Posso rimorchiare chiunque in qualunque posto, io. No, queste nuove fanciulle no. Queste sono un modello nuovo, che non capisco bene. Una moderna evoluzione della giovane femmina di buona società metropolitana, dalle cui caratteristiche dovrei trarre lombrosiane deduzioni filosofico-antropologiche; ma non ne sono all’altezza. Sono quasi tutte dotate di una magrezza soprannaturale. Girovita anoressici, che starebbero comodi nelle mani di un fantino nano; e fondoschiena sodi, modellati da secoli di spinning, su cui si tendono gonne leggere a rivelare perizomi da infarto. Il maquillage è lunare: molto agli occhi e poco alle guance, per bucarti quando ti guardano. Sono bellissime. Ma non è solo un fatto fisico. A parlarci è anche peggio. Si sono emancipate, cazzo. E io ho perso il mio primato intellettuale: non le impressiono più. Di informatica non capiscono una fava come prima, ma a internet ci arrivano pure loro, e pensano che non ci sia altro che valga la pena di sapere sull’argomento. Hanno aperto la scatola magica, preso quel poco che capivano e buttato via il resto, me compreso. Adesso anche loro si annoiano alle feste, dicono. Appena rientrate da Londra soffrono questo ambiente angusto, dicono. Si sentono, come dire, detouched, capisci? dicono. Parlano le lingue. Usano termini come «correttezza intellettuale», «masturbazione mentale», «universo paranoico», «easy listening» e «user friendly». Hanno copiato, inflazionato, imparato quanto bastava. Mi hanno fottuto. Incorniciato dall’arcata d’ingresso della sala, compare l’immortale Max. Vestito da becchino. Il completo tre bottoni, in tessuto appena elasticizzato con pantaloni aderenti alla carrettiera, è nero lucido. La camicia in contrappunto risulta di un bianco abbagliante, i polsini e il colletto sono slacciati: la noncuranza è il parente nobile dell’eleganza. Il principe dei becchini. Chiunque di noi mortali sarebbe ridicolo, così acconciato. Lui splende, e invece di incassare risate suscita golosi sguardi femminili. Individua senza sforzo i nostri comuni amici-colleghi, che io avevo perso di vista, e li raggiunge. Saluta e conversa per qualche secondo con loro, ma poi veleggia verso altre conoscenze da intrattenere con la sua parlantina brillante. – Cosa fai tutto solo con quella faccia, ciccio? – Il Conte mi ha abbracciato da dietro, affacciandosi alla mia spalla destra. Per poco non gli mollavo una gomitata. – Devi divertirti, integrarti! Non ti piace qui? – Non mi dà il tempo di rispondere, si sta gasando: – Io sono colpito, ti dirò, assai colpito dall’alto grado di democraticità che si respira in questo pur raffinato ambiente. Ho infatti notato alcune cameriere che servono da bere a molte altre cameriere, il che mi sembra indice di uguaglianza, anche se le prime sono in uniforme e le seconde in abito da sera! Quest’ultima frase la pronuncia un’ottava più alta, ma nessuno sembra farci caso. Conosco fin troppo bene l’espressione che vedo sul volto del Conte. Ha bisogno di fare qualcosa, di rompere. Il contesto ha cominciato a dargli il soffocamento e lui fra poco reagirà. – Dio, ci sono troppi coglioni qui in giro. Se non ne prendo qualcuno un po’ per il culo, avrò una crisi. Vediamo vediamo, sì, ecco laggiù un bel gruppetto di giovani manager che aspettano solo me. Vado –. Appunto. Mi smonta dalle spalle e si dirige dinoccolato verso un quartetto di giovanotti tronfi extradeluxe, che sgranocchiano noccioline bevendo martini. Tremo al solo pensiero delle assurdità che gli usciranno dalla bocca. Le luci si smorzano, la gente comincia a ballare. 35. – Si sta divertendo, Borsch? – Con un lanciafiamme mi divertirei di più. Lorenzo Morgan sussultò, scosso da una risata trattenuta. – Oh, stasera si dice la verità, vedo. Niente male, ma stia attento, è gente che ho invitato io. Non ha timore di offenderli di fronte a me? – Il fatto che facciamo affari insieme non comporta la frequentazione della stessa parrocchia. – Può darsi, e può anche darsi di no –. La musica diventò più forte, e molti dei presenti aprirono le danze. – Sa perché ogni anno organizzo una serata da ballo? Ganimede scrutò i mocassini del magnate: molto leggeri e senza alcun rialzo. – Perché la politica e gli affari non possono che essere sostenuti da visibilità e mondanità, immagino. – Anche questo è vero. Ci vogliono le squadre di calcio, i gran galà, le scuderie automobilistiche… ma perché, secondo lei, proprio una festa da ballo? – Fa un po’ terza media, in effetti. Forse le piace ballare? – Mi piace vedere i miei soci d’affari, e tutti quelli che di solito mi stanno attorno, agire in un contesto inconsueto. Mi piace osservarli mentre mostrano i loro limiti: goffaggine, vanagloria, timidezza, satirismo, esibizionismo, paura di essere giudicati… Mi piace guardarli coprirsi di ridicolo cercando di fare cose che non hanno mai saputo o non sanno più fare. O mentre rimangono bloccati dalla loro dignità di cartone. Si agitano imbranati, o stitici e frenati, fanno i brillanti o i misteriosi, ma tutti, dopo la prima mezz’ora, si credono seduttivi. Ci vuol poco, in fondo, per allentare i loro freni inibitori, e il ballo va benissimo per questo scopo. Io mi limito a offrire una piccola scusa, poi è la loro vanità che fa il resto del lavoro. Quello che rimane sul campo alla fine è la debolezza di ognuno. – E si diverte? La duchessa Severa Maria delle Erinni, intanto, si era lanciata in una scatenata via di mezzo fra un cha cha cha e una lap dance con un perplesso giovanotto che stava cercando un’educata via di fuga. – Anche. Ma più che divertirmi, apprendo. *** – E tu invece di cosa ti occupi? – Il Conte aspettava quella domanda scontata come una manna dal cielo. Il suo meraviglioso, rabdomantico istinto di combinaguai lo aveva portato ad attaccar bottone con un poker di volitivi dirigenti di vari fornitori della Città Perfetta. Quattro giovani cazzoni che curavano i servizi del nuovo paradiso terrestre: alimenti biologici, telecomunicazione, servizi bancari, progettazione edilizia. Tutti affiliati alla banda di Morgan. Il Conte si fregò le mani e parlò: – È una bella combinazione, ragazzi, perché sono anch’io della squadra –. Provò quella stimolante sensazione di quando, davanti a un uditorio, si comincia un discorso senza avere la più pallida idea di dove si andrà a parare. – La mia compagnia offre qualcosa che forse non viene in mente subito quando si crea dal nulla una nuova struttura sociale… – pausa (e adesso che cazzo gli dico?) – Noi offriamo… uno Stile di Vita –. (Sì! Sì!) – E quali sono i veicoli attraverso i quali uno stile di vita si afferma? – (E che cazzo ne so?) – Divertimento e moda, miei cari. Quello che facciamo noi è progettare unità ricreative: locali, pub, discoteche, ristoranti ecc. Tutto nei minimi particolari, dagli arredi, alla cucina, al personale. Ma non finisce qui. Il clou sta nell’organizzare quello che chiamiamo Sviluppo di Tendenza –. Il Conte ricevette quattro sguardi appannati dallo sforzo di intuire che mai potesse essere lo Sviluppo di Tendenza. Cosa, questa, che si stava in effetti chiedendo anche lui. – Vi chiederete, immagino, cosa sia lo Sviluppo di Tendenza, – disse. – In realtà è quello che assicura il successo di un locale, il suo carattere. Un bar può andare alla grande perché è strapieno di paccottiglia scozzese e offre duecentocinquanta varietà di scotch, un altro perché le cameriere servono in topless e un altro ancora perché il giovedì sera Woody Allen ci va a suonare il clarinetto. Chi decide tutto questo? E chi decide quando cambiarlo? Negli altri posti è tutto lasciato al caso o a qualche P.R. da quattro soldi, ma per la Città Perfetta sono io… con i miei collaboratori, è ovvio. – Per cominciare abbiamo voluto dare un’impronta tradizionale: pub in stile anglosassone, sofisticati ristoranti minimalisti eccetera. Giusto per non spaventare l’utente. Però abbiamo già pronto un piano di sviluppo di almeno due anni per ogni unità ricreativa. Tanto per darvi qualche anticipazione, a otto mesi dall’inizio del progetto, i must del momento saranno happy-hour con quartetti che suonano musica barocca e Tapas bar con coppie di baristi travestiti da orsi ballerini che si esibiscono in dance-cocktail. Provate a immaginare la scena di due plantigradi che shekerano cinzani sbattendosi a vicenda le enormi pance di peluche… – Il Conte alzò un sopracciglio e attese le reazioni. Lo stupore nei lineamenti dei manager si addolcì in sorpresa per poi spianarsi in ammirazione. – Un’idea vincente! – Complimenti! – Dovremmo fare qualcosa insieme, noi, una volta o l’altra… E come no, pensò il Conte sorridendo. *** – Lei mi guarda strano. Pensa che io sia un sadico? Badi che non giudico affatto, mi limito a non trascurare i particolari. Qualsiasi imbecille sa bene che i particolari sono importanti, solo che poi non se ne cura. Io sì –. Morgan posò una mano dietro il braccio di Ganimede e strinse appena. – Sul fatto che lei sia spietato, non ho alcun dubbio. Ma non è per questo che la guardavo strano, come dice lei. Solo pensavo che dovrebbe provare a rilassarsi, ogni tanto –. Borsch abbassò gli occhi sul pavimento, cercando di non guardar strano anche quello. – Non mi dica cose che tutti e due sappiamo a memoria. Facciamo più o meno lo stesso lavoro, e dunque lei conosce il segreto: noi non ci rilassiamo mai. Al massimo ci scarichiamo e ricominciamo. Giochiamo a fare i velisti e defiscalizziamo i costi dei nostri lussuosi passatempi con lambiccate procedure, partecipiamo a feste di beneficenza e ne sfruttiamo il ritorno d’immagine, spendiamo pazzie per le nostre squadre di calcio e ne facciamo lievitare il titolo in Borsa. C’è sempre un tornaconto –. La mano di Morgan gli tirò il braccio, facendogli compiere un mezzo giro. – Per esempio, guardi quei ragazzi laggiù. Quelli che si vede lontano un miglio che non sono mai stati a una festa del genere e la odiano. Sono programmatori informatici di una società che ho appena acquisito. Visto che lei ha inaugurato questa serata all’insegna della verità, le dirò un segreto su di loro… *** – Guardate lì, c’è Morgan, il nostro piccolo grande uomo con quell’assurdo enorme scarparo che sta tampinando da un po’ di tempo in qua –. Uno dei quattro manager (telecomunicazioni) fece un cenno con la testa in direzione di Ganimede Borsch e Lorenzo Morgan. – Schscht! Parla piano, quello ha orecchie dappertutto. – È solo che non riesco a spiegarmi perché il vecchio si è messo dietro proprio a uno come Borsch. Che ci trova? Si dice che farà pure in modo di ammettere sua figlia alla Città Perfetta. E a quanto mi risulta, la figlia di Borsch è una semideficiente. – Capirai! Non sarà né la prima né l’ultima. Ormai i dirigenti della Morgan Holding usano la Città Perfetta come una specie di benefit. Una volta impiegavano le accompagnatrici, ora se devono convincerti a fare una cosa che gli sta a cuore ti prospettano di entrare a far parte del gruppo, o di farci entrare un tuo familiare. – Alla faccia della selezione meritocratica! – Risate. Ma senti senti, ghignò fra sé il Conte. I potenti saranno indulgenti con se stessi. 36. – Rivelerò ai maschietti qui presenti la regola n. 1 per non lasciarsi sorprendere da un attacco di depressione da invecchiamento: non fare mai – dico mai – vedere a una donna la foto sulla patente. Quella bella piccola foto scattata quando avevi diciotto anni, speranze di gloria e tanta voglia di guidare. Perché dopo averla scrutata con sorpresa, paragonandola con brevi occhiate interrogative al tuo nuovo-vecchio volto macerato dall’esperienza, lei dirà una cosa come questa: Allora eri carino con tutti quei capelli… non che adesso non… ma allora eri… più… cioè meno… e tu ti sentirai un uomo che comincia a finire. Ken è riuscito a liberarsi dalla morsa degli emissari della Morgan e adesso si è un po’ sciolto, complice qualche bicchierino. Strano vedere Ken darci dentro con l’alcol: la festa lo innervosiva più di quanto non fosse disposto ad ammettere. La discussione va incanalandosi sui binari «ironica ansia da invecchiamento» e «inconciliabili piccole differenze uomo-donna». Abbastanza tipico per i nostri standard, il che significa che ci stiamo ambientando. Nuove amicizie neanche a parlarne, ma almeno l’imbarazzo cala. Siamo di nuovo riuniti insieme, ai margini dell’ampio salone, tranne il Conte che sta ancora millantando coi quattro babbei che ha abbordato. Tutti e cinque guardano in direzione del vecchio Morgan, che è in compagnia di una specie di energumeno in smoking e che, a sua volta, butta un occhio dalla nostra parte. Intorno il ballo infuria. C’è una tizia lampadata che sembra la via di mezzo tra Cochis e una mummia egiziana, ha la pelle del colore di una scarpa vecchia, più rughe di una scarpa vecchia ed è sormontata da uno scalpo di capelli lisci sottili, lunghi fino al culo, probabilmente finti. Tiene gli occhi chiusi e muove testa e spalle a ritmo di musica, testa a destra spalle a sinistra e viceversa. C’è un’agghiacciante fatalona che ammicca disperata a ogni essere di sesso maschile presente in sala. Poco fa aveva agganciato anche Max, che se n’è liberato a stento. La tipa è arginata da un vestito monospallina rosso, che di sicuro fra poco cederà, e io ho la spiacevole visione premonitrice di un seno carnoso e informe che sguscia fuori dalle cuciture del vestito e cade per terra con un rumore depresso. Un bel ragazzone, con una regimental che sembra un pallone da basket con la coda, dice al suo interlocutore: – Sì lo so, quello dei procuratori sportivi è proprio un mondo di merda, ma mi piacerebbe un casino entrarci! Ritorno con l’attenzione ai miei, e noto che il tono è ancora quello di prima. Bella sonda rapida la sala con brevi occhiate fameliche. È attratta e schifata insieme. Ipnotizzata come una gazza dallo sfavillio di cose e persone, e proprio per questo vergognosa di se stessa. La sua rettitudine luterana impegnatissima a indicare con la mano destra tutto ciò che la sinistra arrafferebbe a più non posso. Rilassati, ma petite, non sei colpevole di niente, a parte l’onestà. Marianna indaga scherzosa: – Cosa ti ricordi del tuo matrimonio, Ken? Il nostro buon Papà alza gli occhi al cielo: – Perché le donne fanno sempre domande di questo genere? Vuoi farmi litigare con mia moglie? – Poi si rassegna a raccontare: – Quando ho sentito la marcia di Mendelssohn e ho visto quella cosa bianca caracollare verso di me dal fondo della chiesa, ho provato il fortissimo desiderio di correrle incontro, fare una finta a sinistra, darle una spallata per buttarla di lato e scappare via senza lasciare tracce. Ma poi ho resistito, e alla fine ero così confuso che mi è sembrato di essere contento… – Viene fulminato da quattro sguardi femminili, compreso quello muliebre. – …be’, lo sono ancora, contento, se è per questo! – Si salva in angolo. Decidiamo di ballare un po’, anche perché la musica non è male, ma siamo annichiliti dalla insostenibile vitalità di tutti quelli che hanno superato i quarantacinque. Cristo, fino a che mi surclassa un diciottenne è un conto, ma qui si esagera! Cosa fanno, si drogano? Hanno qualcosa da dimostrare? Forse si drogano per dimostrare che non sono ancora da buttar via, ma così fanno sentire vecchio me, che non riesco a reggere il loro ritmo, e per questo li odio. Se fanno il trenino col samba avrò una crisi isterica. La fatalona monospallina si struscia assatanata contro la superficie tirata a specchio di un pianoforte a coda, piazzato in un angolo della sala. La mossa sembra sortire effetti positivi su un sessantenne con capello candido semilungo e occhiale fotocromatico, che si distacca da un gruppuscolo di bevitori di sangria e si avvicina alla panterona. Ancheggia e si passa le dita davanti agli occhi come chi fa la parodia degli anni Sessanta, ma è evidente che non saprebbe ballare in altro modo: se non lo sai fare, fingi di farlo per scherzo. Manco mi avesse letto nel pensiero, il complesso attacca un samba medley e si intuiscono subito le prime avvisaglie ferroviarie nella massa danzante. È antipatico dirlo, ma le uniche persone che, a nord di Bahia, non colgono la tristezza assoluta del trenino al ritmo di samba sono i sessualmente repressi e i professionalmente frustrati. I primi hanno così l’occasione di palpare a volontà; i secondi si posizionano in testa e, per una volta, impongono la direzione a una moltitudine, sicuri di venire seguiti. La fatalona monospallina si butta in mischia a mani basse, e questa è l’ultima sconcia immagine che conservo della serata. 37. Stamattina, la lezione non si è allungata nemmeno di un secondo. Dorotea ha segnato a gran velocità le caselle del quiz a risposta multipla. Tutto giusto. Apuleio l’ha guardata come fosse una medium alle prese con la scrittura automatica, ma poi ha sorriso. Ha sorriso come può sorridere lui, una specie di smorfietta nervosa. E l’ha lasciata libera per l’appuntamento con Tebaldo e i suoi dubbi. I dubbi di Tebaldo: – Dot, credi che sia davvero una buona idea quella di scavare nella vita di Fanny… non so… è morboso. – Dici che è morboso? Certo che lo è. La mia migliore amica si è tagliata le vene davanti a me mentre facevo un pisolino, e io non so neanche il motivo. – Ma lo ha scritto pure nella lettera! Non c’è un vero motivo per cose del genere. Stai solo cercando di scaricare un immotivato senso di colpa, tutto qui. – Tutto qui un bel paio di palle, Teba! Quella era la nostra migliore amica e… – E infatti dobbiamo andare al supermercato dove lavorava per farci dare il suo indirizzo, tanto eravamo amici suoi… Te lo ripeto, è il senso di colpa. In fondo è comprensibile. – Senti, io adesso vado. Se tu vuoi venire vieni, se no ciao. L’oscurità polverosa si allunga in strisce ondeggianti orizzontali fuori dai finestrini della metropolitana che li sta portando verso casa di Fanny. Dorotea ripensa all’Hard Discount che hanno visitato. Il triste museo postmoderno del consumo ragionato dove Fanny ha vissuto gli ultimi scampoli della sua routine quotidiana. Magari guardando fuori dalla vetrata, aldilà della strada, quell’orripilante insegna luminosa di un negozio di video. Fumando sigarette fuori dalle porte automatiche durante la pausa. Il capo del personale non era il freddo burocrate senza faccia che si aspettavano. Era invece un giovane carino e imbranato, rigido sulle lunghe gambe piantate in mezzo a un canyon di espositori. Era diventato cupo e rosso in volto al nome di Fanny. – In realtà non dovrei… ma se eravate amici suoi, e poi visto che lei… sì insomma. – E non le sembra strano che due amici di Fanny non conoscano il suo indirizzo? – Dorotea lo aveva stuzzicato. – Mmm sì a pensarci… ma forse no, conoscendo Fanny… la signorina Globo, cioè, sembrava molto riservata… Almeno lo era con me –. Il rosso alle guance era divampato. Cristo, Fanny, perché non sei uscita un po’ di più con questo tipo, che magari la voglia di alzarti la mattina ti veniva. Così pensa Dorotea, sobbalzando con la testa agli scossoni delle rotaie. Palazzina a due piani color mattone, mezza periferia, quartiere non pessimo ma un po’ deprimente. Non conoscevano l’indirizzo, ma ricordano bene che Fanny aveva parlato di una padrona di casa che viveva al piano di sotto. Al citofono solo due pulsanti, a quello superiore nessuna targhetta. Premono l’altro. La casa della signora sa di carne arrosto e piante marcite. L’intero salotto è zeppo di ninnoli e soprammobili vari; sotto a ognuno è sistemato un centrino ricamato. Devono esserci centrini anche sotto i centrini, ma a Dorotea non sembra educato controllare. La vecchia signora, affabile e rigida come il suo salotto, si mostra quasi sinceramente colpita dal triste destino della povera ragazza. – Povera povera pooovera ragazza. A quell’età, io non so… Magari lo sconforto, ecco, uno di quei momenti di sconforto che ogni tanto vi capitano a voialtri, io lo so, lo so… Ma basta via pensieri tristi, che tanto nessuno li vuole e nessuno li paga. Gradite un confettino, un vermut? – Nossignoragrazienò, – risponde il coro perplesso di Dorotea e Tebaldo. La signora batte le mani con intento risolutivo e sospira: – Me l’aveva detto l’ispettore che la signorina Fanny non aveva parenti stretti (che poi io lo sapevo già) e per la sua roba, tempo di rintracciar qualcuno e mandavano a portar via. Non che dia fastidio, per carità, l’ho già messa via io e sono in tutto tre scatoloni, ma sapete, qui non ho cantina, il ripostiglio, pieno com’è, manco a pensarci, e così ho dovuto lasciar tutto di sopra. Nessun problema, certo, fino a che la casa è sfitta… ma poi? Dorotea blocca al volo con uno sguardo l’onesta obiezione di Tebaldo. – Certo, signora, la capiamo. Ci faccia vedere dove sono gli scatoloni e pensiamo noi a liberarla. 38. La strada, sotto le ruote della bici, di sabato la sento più piena. Riesco ad avere maggiore consapevolezza di ogni irregolarità e spaccatura dell’asfalto, e quando percorro un tratto liscio, appena bitumato, avverto il crepitio distinto delle gomme. Dipende dal fatto che il traffico è più che dimezzato e non ho bisogno di dedicarci troppa attenzione per uscirne vivo, così noto i particolari. E li apprezzo. Almeno una volta alla settimana posso sacrificare il necessario a beneficio del futile. Ciò non mi impedisce però di mandare affanculo quel gran bastardo che mi ha tagliato la strada divorandosi la mia precedenza. E siccome sono un virtuoso delle due ruote, non disdegno di abbandonare il manubrio con entrambe le mani per concedergli pure un plateale gesto dell’ombrello, tié! In fondo sarà pure sabato, ma io sto comunque pedalando verso l’ufficio. Qual è la forza misteriosa che mi spinge ad andare a lavorare il sabato mattina? Potrei evitarlo, potrei restare a dormire o a rotolarmi nel letto con Bella. Potrei sfruttare le ore libere per dare alla mia casa un aspetto umano, invece di lasciarla quel cesso infame che è. Potrei andare al centro commerciale e abbandonarmi a un gioioso sfrenato consumismo reimmettendo valuta fresca nel circuito capitalista. Potrei scrivere le mie memorie, o addirittura dedicarmi (rabbrividisco solo all’idea) a un paio d’ore di sport. Niente. Vado a lavorare. Pensavo almeno che, per una volta, mi sarei svegliato insieme a lei, vista l’ora in cui abbiamo preso sonno. Invece niente. Neanche oggi mi è stata risparmiata la cerimonia del biglietto mattutino. Sveglia solitaria con metà del materasso ormai freddo, e reperimento del foglietto sotto il manubrio della bici (ormai non perdo neanche più tempo a guardarmi in giro, tanto so che lei li piazza in modo da farmeli trovare solo quando non li cerco). Non sei male in giacca e cravatta. Sembri un avvocato onesto (ma ce ne sono?) Più sexy in pantaloncini, però. Causa fame ho curiosato in cucina (scusa). Reperiti n. 1 cadavere putrefatto di gallinaceo, n. 1 e 1/2 fette di pane in cassetta. Tralasciata salma per motivi metabolici, ideologici, igienici. Mangiata mezza fetta (lasciata una) con svolazzi di margarina dell’86 (ottima annata). Spero non ti dispiaccia. B. No che non mi dispiace, Bella, non mi dispiace affatto. A parte il facile umorismo sulle mie tecniche di approvvigionamento e conservazione alimentare. Sabato mattina al lavoro, dunque. Come sempre. E come sempre siamo tutti qui. Irritati perché di sabato mattina non siamo a fare ciò a cui si dedica il resto dell’umanità, ma anche imbarazzati perché in fondo non vorremmo essere da nessun’altra parte. E sappiamo benissimo che questo non è affatto sano. Il R.O.M.P.I. della Morgan mi fa un cenno di saluto con la testa prima di sparire nella nostra ex sala riunioni, sua attuale postazione di lavoro. Si chiama Sebastian – da noi ribattezzato il «Seboso Sebastian» per l’incredibile quantità di secrezioni cutanee che il suo corpaccione emette. È sempre cortese e cerimonioso, stretta di mano scivolosa, capelli schiacciati sulla fronte lucida di sudore e spalle innevate di forfora. A vederlo in effetti fa un po’ senso, ma bisogna ammettere che, avvicinandoglisi abbastanza, si viene sorpresi da un gentile odore di borotalco, e il suo sguardo azzurro, dietro quei ridicoli occhiali da sole, ha una certa veloce monelleria che mi piace. Rischia di farmi simpatia, ma se lo dico a Marianna, dopo il suo piccolo diverbio con la donna poliziotto, mi massacra. Proprio Antonietta passa davanti alla stanza mia e di Max mentre sono ancora in corridoio, e butta dentro un saluto un po’ troppo squillante: Max deve averci già collaborato. Assurdo odioso grandissimo Max. Appena si accorge della mia presenza, la iron maiden riacquista quella sua consueta espressione contrita e mi smozzica un affrettato buongiorno. Quando entro in stanza, Max mi saluta appena, cosa che non è da lui. Mi affaccio da Conte e Bella, che parlano a voce bassa, interrompendosi appena entro. In quello stesso momento, Marianna viene fuori dall’ufficio di Ken, e sento che lui dice: – Dobbiamo parlarne tutti e subito… – Poi vedo Chiara che prende sotto braccio Marianna dicendo: – La mia opinione è… – e questo è davvero troppo. Torno a razzo da Bella e dal Conte: – Scusate se vi interrompo, ma ho come l’impressione che mi sia sfuggito qualcosa di molto importante. Che avete tutti quanti, oggi? Il Conte inclina lo schienale della sua poltroncina e incrocia le braccia: – Tu, leggere i giornali la mattina niente, eh? – Di solito lo faccio on line quando arrivo qui. Sono più aggiornati. Perché dovrei leggere sul giornale di oggi le notizie di ieri? – Perché oltre alle notizie, caro il mio supertecnologico, ci sono pure i commenti e gli approfondimenti –. Mi tira un quotidiano piegato in quattro con un articoletto cerchiato in rosso, con a lato la foto di una ragazza carina. – Ieri [l’altroieri per il lettore, n.d.r.] si è tolta la vita una donna di ventitre anni, Fanny Globo. Il corpo della giovane è stato rinvenuto da un’amica nella stanza deserta di un fan club che entrambe frequentavano. La Globo si è tagliata le vene, per poi lasciarsi morire dissanguata, circondata da memorabilia e gadget del suo eroe preferito, Daryl Domino, cui è dedicato il club. La circostanza riveste ulteriore rilievo in ragione del contenuto della lettera di addio che la Globo ha scritto prima di compiere il disperato gesto. In essa, infatti, a quanto sostenuto dagli inquirenti, la ragazza avrebbe confessato di condividere la disperazione e le disillusioni che il suo eroe ha così poeticamente espresso in uno dei suoi recenti interventi pirata. In questa sede non ha senso mettere sotto accusa il fenomeno, prevalentemente giovanile, di Daryl Domino: una sorta di criptico cantastorie che si inserisce nelle frequenze di varie trasmissioni televisive per lanciare messaggi metaforici e raccontare aneddoti di contenuto malinconico. Come dicevamo, non ha molto senso, ma non possiamo fare a meno di chiederci se il pessimismo e la cupa disperazione di questo personaggio neoromantico non abbiano in qualche modo influito sull’insana risoluzione della ragazza. E tale riflessione è resa ancor più urgente dal fatto che, a causa della clandestinità del sopra citato «poète maudit», non c’è nessuno che possa rispondere alle nostre domande. Ken bussa allo stipite della porta senza entrare: – Bambini, mi sembra evidente che dobbiamo parlare. Ci vediamo fra tre minuti da me. Sì Papà, certo Papà, subito Papà. È Marianna che apre la danza del rimorso, concitata ed empatica come al solito. – È inutile nascondersi dietro un dito, ragazzi. Quello che per noi era un gioco ha preso una piega inaspettata. Non possiamo esserne sicuri al cento per cento, ma credo sia il caso di ammettere la possibilità che Daryl Domino abbia contribuito a convincere una persona a togliersi la vita. Dobbiamo confrontarci con le nostre responsabilità, adesso. Se ci fosse un bookmaker disposto ad accettare scommesse su chi sarà il prossimo a prendere la parola, punterei tutto quello che ho. Vincerei. Il Conte è seduto su uno sgabellino a rotelle senza schienale, nell’angolo più lontano. Parla senza avvicinarsi, ma si fa sentire: – Fammi capire un po’, secondo te noi dovremmo assumerci la responsabilità per il fatto che una persona adulta e capace d’intendere e di volere ha deciso di ammazzarsi dopo aver visto un pezzo di D.D.? Non vorrei esser preso per il solito cinico, perché la cosa ha molto colpito anche me, ma il rapporto causa effetto mi pare deboluccio. Che il Conte sia rimasto impressionato lo si capisce dall’assenza di sarcasmo nelle sue parole. Marianna rilancia: – Qui l’unico fatto sicuro è che una ragazza depressa ha deciso di farla finita dopo aver visto Daryl Domino straparlare sull’inutilità della vita – un pezzo che, ti ricordo, hai ispirato tu per scaricare il cattivo umore causatoci dalla nostra acquisizione da parte della Morgan Holding. Non dico che le abbiamo sparato, ma se avessimo riflettuto di più sulle conseguenze, se avessimo avuto più chiaro l’impatto che abbiamo sul pubblico, forse… – Forse cosa, Marianna? Forse – e bada che stiamo formulando ipotesi sul nulla – forse quella ragazza non lo avrebbe fatto ieri, ma oggi o al massimo domani. Magari non ricordi più cos’è la depressione – buon per te – ma io sì, e ti assicuro che non è una cosa che ti viene guardando la Tv. E poi cosa suggeriresti di fare? Confessiamo e ci costituiamo? Guarda che dire cose tristi non è reato, se no Prévert e Sartre sarebbero morti in galera. – Su questo non ti do torto, – Bella interviene per placare gli animi. – Però qui il punto è che Prévert e Sartre le cose le dicevano in prima persona. Noi invece le facciamo dire a un burattino virtuale, dietro cui ci nascondiamo. Per noi è un gioco, o al massimo un esperimento sociologico. Non crediamo affatto alle cose che facciamo dire a D.D. Abbiamo solo creato una suggestione. Un eroe romantico dal fascino studiato a tavolino che racconta storielle metaforiche che non significano nulla. Un prodotto. Un po’ pretenzioso, forse, ma sempre un prodotto. Ci siamo divertiti a vedere chi e come lo prendeva sul serio. Adesso lo abbiamo visto e non ci è piaciuto… Non so, forse dovremmo uscire dall’ombra e vuotare il sacco. Un piccolo silenzio colpevole, un piccolo silenzio mortificato, un piccolo silenzio calcolatore scende tiepido e colloso come sangue sull’assemblea. Tutti quanti cercano lo sguardo di qualcuno che sta guardando da un’altra parte. Tranne Max che da quando si è seduto fissa un punto imprecisato a metà della gamba anteriore destra della scrivania di Ken. Ognuno sta immaginando noi che ci presentiamo come autori di Daryl Domino. La sorpresa generale, le reazioni dei fans, il massacro mediatico a cui verremmo sottoposti, la triturazione in pezzettini da parte dell’opinione pubblica teleguidata, i procedimenti penali per furto di segnale, la rovina professionale, dopo qualche anno il recupero da parte di un giornalista a corto di novità, il ritorno con malinconico prepensionamento nelle pieghe di uno scalcinato talk show mattutino a cui partecipiamo come opinionisti fissi chiamati a discettare su smalti per le unghie cancerogeni e potenzialità dannose delle microonde. – Non possiamo dire la verità. Sarebbe ancor più da irresponsabili –. Dal silenzio germoglia la voce di Chiara. Decisa e inaspettata. – Noi avremo pure scherzato, avremo giocato, ma abbiamo creato delle aspettative. C’è molta gente che crede in Daryl Domino. E per quanto ci possa sembrare ridicolo o sciocco, in realtà è una cosa seria. Abbiamo finito col mettere in Daryl molto più di quel che pensavamo. Io non credo affatto che quella ragazza si sia suicidata per qualcosa che D.D. ha detto. Ma riflettete un attimo… Cosa succederebbe se dicessimo a tutta questa gente: «Ehi, guardate che era una burla. Il vostro idolo, il tizio dalle cui labbra pendete non esiste, è solo uno scherzo, un esperimento per vedere quanto siete imbecilli!» Quali sarebbero le conseguenze, secondo voi? Imprevedibili e certo non piacevoli. – Già, e se a quel punto, per la delusione di aver creduto a un grosso scherzo, qualcuno si tira un colpo di pistola, come la mettiamo? – Il Conte tira le somme in modo rude e senza condizioni. Aggiungo la mia dose di brutti sogni e cattivi presagi: – Anche una confessione non risolverebbe niente. Facile che una percentuale di estremisti-dietrologi gridi al complotto. Direbbero che in realtà D.D. esisteva, ma che è stato fatto sparire dai servizi segreti per chissà quale motivo, che siamo stati mandati avanti noi con una storiella che non sta in piedi, mentre lui è stato liquidato o gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Ci potete scommettere, ancora c’è gente che crede di avere Elvis come vicino di casa. Questo scherzo del cazzo rischia di sfuggirci di mano. Marianna: – Insomma, che facciamo? Io: – Per come la vedo, Daryl Domino è meglio che sparisca. Di colpo o diradandone gli interventi, purché alla fine scompaia. Credo che sia il modo migliore e più indolore per risolvere la situazione. E poi, a questo punto, non è più divertente. Il Conte: – Io sono con Giona. Max continua a fissare il punto imprecisato. Bella, Chiara e Marianna cercano con lo sguardo il parere di Ken. Papà illuminaci, Papà suggeriscici, Papà benedicici. Il Papà nostro ci guarda, con infinito amore, profondissima saggezza e lontana malinconia. E ci tira una bastonata sulla crapa. – Temo che la situazione sia diventata più difficile di come la vedete voi. Devo dirvi qualcosa che ancora non sapete, ragazzi. 39. Heidi Charisse entrò nella stanza a testa bassa, ingobbita in un angolo ancor più pronunciato del solito, sotto il peso di un vassoio grande come il ponte di una portaerei e ricolmo di tazze di caffè. I presenti non l’avevano degnata di uno sguardo. Celso Grande era troppo preso dall’unica cosa per lui degna d’attenzione (se stesso); Ganimede troppo impegnato a immaginare raffinate torture, grandiosi pestaggi ed elaborati parossismi di violenza all’indirizzo di Celso Grande; i numerosi componenti degli staff dei due uomini troppo concentrati nei loro eterni e scomodi ruoli di comprimari. Scopo ufficiale della riunione: garantire, tramite la sinergia dei due gruppi di lavoro, un passaggio di consegne non traumatico e produttivo nell’affare delle forniture alle Forze armate, attraverso la trasmissione di know-how e strategie a lunga scadenza. Scopo effettivo (noto solo a Ganimede e a Lorenzo Morgan): evitare che il sapido Celso mandasse a puttane in due mesi un lavoro di anni. Celso Grande stava tracciando incomprensibili diagrammi e frecce con una penna digitale su una lavagna elettronica, sbirciando ogni tanto il suo computer palmare aperto sulla scrivania. A quanto aveva capito Ganimede, il palmare era a sua volta collegato in rete, con un sistema wireless (qualsiasi cosa volesse dire) e per imperscrutabili motivi, ai portatili dei suoi collaboratori, mentre le immagini della lavagna erano proiettate su una delle pareti della sala. Avevano messo su quell’assurdo, inutile armamentario nella sua sala riunioni e sembrava che ci provassero gusto a utilizzarlo. Per motivi che Ganimede non avrebbe saputo né voluto indovinare, la nullità intellettuale del suo interlocutore sembrava trarre linfa vitale da quell’idiota messinscena tecnologica e – cosa ancor più stupefacente – gli conferiva una specie di legittimazione agli occhi di altri invece dotati di un decente raziocinio. Era affascinante in fondo starlo a guardare, pensava Ganimede. Il costoso e ben disegnato completo di uno stilista italiano avvolgeva una camicia azzurra con colletto bianco – comprata in Oxford Street come le scarpe – delimitata da tecnologici gemelli di platino e grafite e dal perfetto nodo di una cravatta di seta. E all’interno di questo sontuoso involucro, la stupidità al lavoro, in tutta la sua efficienza e leggerezza di movimento. Incondizionatamente pieno di sé, doveva essere stato educato all’egocentrismo fin da piccolo: in primina la maestra, invece di fargli scrivere «ape» e «uva», doveva avergli fatto riempire intere paginette di «io». – Allora, Borsch, cosa ne pensa? Ganimede concesse un sorriso benevolo e sovrano, e abbandonandosi sullo schienale della propria sedia, le mani sempre appoggiate al tavolo ovale come pietre miliari, profferì due piccole pesantissime parole. – Pura merda. 40. Le massicce ginocchia di Dorotea, annodate nella posa del loto, le diffondono un dolore sordo su per le cosce. È accovacciata per terra, davanti agli scatoloni pieni di roba, da un tempo che ormai non le permette più di stare comoda in nessuna posizione. Per cui soffre con pazienza e continua il lavoro. Tebaldo è in piedi. Dopo aver fatto spazio, mettendo via un po’ di ninnoli daryldomineschi, si è dedicato anche lui allo studio delle ultime tracce e rimembranze terrene della defunta amica. Ognuno con il suo stile, però. Mentre Dot afferra, osserva, legge, sfoglia con bulimica e casuale voracità, Tebaldo riordina, cataloga, analizza e interpreta con calma e metodo. I libri di qua, le foto di là, gli oggetti personali in una bella busta grande, i vestiti per ora li si mette da parte. E il computer portatile? – Di questo occupatene tu, Dot. Io ’sti cosi manco li so accendere. Dorotea è assorta nella lettura dello scontrino fiscale di un ristorante cinese, Wan ton fritti e spaghetti di soia al maiale, con la data del 6 novembre, ore 14:22. Proprio il giorno del… sì, insomma. Poi lo sguardo si posa su una foto di Fanny. Bianco e nero, un volto sorridente con un velo di stanchezza. Vestita con una vecchia tuta e scaldamuscoli spessi. Ricorda bene quella foto: l’ha scattata lei. – Allora Dot? – La voce appena petulante di Tebaldo la riporta tra i vivi. – Cosa? – Il computer portatile. Perché non ci dài un’occhiata? – 41. Per me sono le sette di sera appannate di una giornata lavorativa più stressante delle altre. Sette di sera invernali, cupe e coi riflessi lenti. Ma è sufficiente guardarsi attorno e ci si accorge che non è così per tutti. Perché sono le sette di sabato sera in questo bar del centro che sembra tirato fuori da un quadro di Hopper e poi riempito di gente. E per molti questo dato temporale sembra fare la differenza. Il lungo bancone a L è prospiciente da un lato alla vetrata esterna, il che per un verso mi fa sentire come una merce esposta in vetrina, e per un verso mi ispira l’irrazionale terrore che qualcuno possa tirarmi una fucilata alla schiena, come a un traditore. In effetti qui, visto l’umore generale, sono un infiltrato e galleggio a fatica sull’onda mista di aspettativa sessuale e adrenalina che pervade l’ambiente. Volevo concedermi una birra dopo anni, anche se riconosco che un periodo fetente non è certo il periodo migliore per ricominciare a bere. Forse è per questo che, pur volendo, non ho avuto il coraggio di invitare nessuno a venire con me. Dunque bevo da solo, di sabato sera, il che mi fa scalare parecchie posizioni nella classifica della tristezza. Giocherellando con il sottobicchiere della mia stout, i gomiti appoggiati al banco e la testa incassata fra le spalle, spio i miei simili così dissimili. C’è un numero esagerato di piacioni da bar che si accalcano al bancone, non tanto per ordinare quanto per strappare un’occhiata alla barista. La quale barista è un perfetto esempio di estetica anestetica: è talmente bella da risultare noiosa. Opinione molto personale e nient’affatto condivisa dagli ordinanti piacioni. – Sanno di Daryl Domino –. Le secche parole di Ken alla riunione mi echeggiano ancora in testa. Come sanno? Chi? Pacato e con un certo imbarazzo spiega. – Alla festa della Morgan, un paio di dirigenti del vecchio mi hanno avvicinato –. Ce n’eravamo accorti anche noi. – Non so perché l’abbiano fatto lì. Forse per cogliermi impreparato, o per avviare il discorso senza di voi. Comunque sanno del nostro piccolo gioco-esperimento sociologico. Le vie della conoscenza sono infinite e imperscrutabili, soprattutto quelle di una multinazionale. – E adesso la Morgan Holding gradirebbe, come dire, avere un certo controllo sui testi di Daryl. Insomma, per farla breve lo vogliono sfruttare a fini di marketing e branding. Diffusione del marchio. Non una cosa sfacciata, solo qualche messaggio subliminale che indirizzi i fan di Daryl in una direzione a loro conveniente. Stupore attonito. Reazione corale: – Ma tu non hai…? – Ho… certo che ho… e cosa credete che mi abbiano risposto? – Che noi non siamo obbligati per contratto, così come niente impedisce loro di farci a pezzi e svenderci quando vogliono, – dice il Conte. – Esatto. Marianna incensa la Morgan con un propositivo: – Bastardi! – e prosegue cercando di razionalizzare: – Ma cosa gliene frega a una multinazionale di Daryl Domino? È un fenomeno notevole, ma non così importante. Ancora il Conte: – Le grandi strategie sono fatte di operazioni piccole. Magari, che so, la Morgan ha bisogno di un ritorno d’immagine proprio nella fascia d’età che Daryl attrae di più… Metti che un giorno lo fanno comparire con indosso una maglietta di una sottomarca affiliata a loro, domani con quelle tali scarpe, dopodomani con un certo adesivo sulla chitarra, il mese prossimo gli scrivono un discorso che parla di una meravigliosa immaginaria città utopistica. Poi gli mettono in mezzo un paio di invisibili fotogrammi della Città Perfetta… e il gioco è fatto. – E noi che credevamo gli interessasse l’unicità del nostro lavoro… che stronzi! – Si incupisce, battendosi una manata sulla coscia. – Dovevamo capirlo! Max scatta, ed emerge dall’insolito mutismo in cui si era chiuso: – Facciamogliela pagare a quei cani. Costi quel che costi, per quanto mi riguarda adesso è guerra. E se vogliono Daryl Domino mi devono ammazzare. Si alza e va via. Teatrale come al solito, ma più coraggioso del solito. Dio sa quanto vorrei dargli torto, ma stavolta non mi riesce. Si diffonde un forte odore di borotalco e sullo sgabello accanto al mio si materializza il Seboso Sebastian, il nostro caro R.O.M.P.I. L’estate di San Martino, quest’anno, è molto calda, ma Sebastian esagera. Sgocciola sudore come una grondaia, e gli avventori gli creano attorno uno spazio vuoto. Fa un cenno alla barista, ma viene ignorato e ha un piccolo moto di stizza. Mastica a bassa voce una cosa tipo: «Guarda ’sta stronza!» Non si è accorto di me e mi sembra giunto il momento di salutarlo. Potrei optare per una pacca sulle spalle e un amichevole «Salve», ma vista l’infingardaggine dimostrata dalla Morgan Holding, di cui lui è un laido spione, e viste le condizioni della sua camicia, mi limito al «Salve». Mi sorride freddo e cortese e torna a chiamare la barista, che infine lo serve. Sto quasi per tornare allo studio della fauna locale, quando lo spione mi parla. – Continua a guardare davanti a te e ascolta bene, perché non ho intenzione di ripetere –. È appena un borbottio. Mi giro verso di lui: – Prego? – Cos’è, sei scemo? Ti ho appena detto di non voltarti e di non farmi ripetere! – Scusa –. Abbasso gli occhi sul mio bicchiere e decido che oggi non è una giornata adatta a stupirsi. – Due cose. Numero uno: evitate di tenere riunioni come quella di oggi in ufficio. Limitatevi a quelle operative, ma se c’è da decidere qualcosa di riservato organizzatevi diversamente. – Ma di quale riunione stai parlando? Alza le spalle in modo insofferente: – Senti Giona, mi hanno scelto proprio perché sembro un coglione, ma non lo sono affatto… E poi guarda che la vostra sede è zeppa di microfoni –. Non riesco a fare a meno di guardarlo per un attimo e, prima di rigirarmi, ho una fuggevole visione del suo mezzo sorriso furbo. – E tu come lo sai? – Ce li ho messi io. – Checcazz…! – Stai buono. È solo che al vecchio Morgan piace avere tutto sotto controllo. – Vuoi dire che siamo pieni di microspie, anche nei vestiti, a casa e… – Penso con sgomento a una eventuale registrazione delle mie performance atletiche con Bella. – Frena. Non siete così importanti… non voi. I microfoni sono solo alla Simpliciter –. Segue un bel silenzio carico del vocio da bar, mentre cerco di digerire una cosa che necessiterà di una lunghissima digestione. – E dunque? – Cosa? – Dico, e allora che dovremmo fare? – Io che ne so? Tenetelo a mente e poi fate quel che vi pare! – E qual è la seconda cosa che volevi dire? – Un consiglio: a Morgan piacciono gli ossi duri. Li rispetta. Un motivo in più per cercare di fargli il culo, ma questa decisione spetta a voi –. Altro silenzio. Continuo a guardare avanti, confuso. – Ma tu perché mi dici queste cose? – Silenzio. – Sebastian? L’odore di borotalco è scomparso. 42. – Immagino che lei sappia benissimo com’è fatta una scarpa, vero Celso? – Seduto al tavolo della sua sala riunioni, la testa appena rivolta in giù e gli occhi a spazzare l’aria come proiettori di luce mobili, Ganimede sembrava una montagna parlante con un faro sulla sommità. Il promontorio della paura di Celso Grande che, infatti, cominciò di colpo a sudare. – Se non lo avesse capito, la mia era una domanda. Vorrei assicurarmi che lei sappia come si fa una scarpa. Nel dettaglio, intendo –. Silenzio. Be’, doveva pure uscirne in qualche modo: – Naturalmente si tratta di un procedimento complesso. Come sempre, del resto, quando si ha a che fare con materie prime delicate da trasformare in prodotto finito. Per questo motivo deve riversarsi una particolare attenzione nella scelta delle maestranze, che devono essere dotate della perizia del migliore artigiano…. Un tonfo. L’eloquio di Celso Grande venne interrotto dal suono del mocassino che Ganimede si era sfilato e aveva schiantato sul tavolo. Lo fece scorrere sulla superficie del legno fino a Celso con la precisione di un giocatore di hockey. – A parte le cazzate, mi indichi la tomaia e il fiosso. Celso era una statua di gesso lesionata. Cercò di recuperare terreno: – Borsch, il suo tono e il suo linguaggio non le fanno onore. Lei è un uomo d’affari come me, e credevo ci fosse del rispetto tra noi. Non vedo come l’intrattenerci su particolari tecnici possa essere d’aiuto alla definizione di strategie che… – Senti stronzetto, non cercare di farmi dire che noi due apparteniamo alla stessa razza, perché, da quello che vedo, tu non conosci manco la merce che stai vendendo. E hai il coraggio di venire qui a parlare di strategie di mercato per un prodotto che non sai nemmeno che cazzo sia? *** – Ma si rende conto che produce e vende scarpe senza nemmeno essersi informato di come sono fatte? Quel ragazzo è… è il nulla. Sembra così indaffarato, ma se gli chiedi in cosa consiste il suo lavoro, non te lo sa spiegare. Ganimede attaccava a testa bassa. Rischiando grosso. Lo sapeva bene, ma ormai c’era poco da fare. Mostrare un cedimento sarebbe stato disastroso. Ciò non gli impediva di prendersi mentalmente a schiaffi (un paio di ceffoni veri se li era anche dati, davanti allo specchio chiuso in bagno subito dopo la riunione). Cosa diavolo gli stava succedendo? Dov’era finito lo spirito di sopportazione che lo aveva condotto fin lì? Perché gli veniva meno proprio adesso, quando serviva ad assicurare il futuro alla figlia? Respinse una melodrammatica immagine di Dorotea coperta di stracci che elemosinava spiccioli in mezzo alla strada. Les Miserables versione Borsch. Lorenzo Morgan lo osservava tenendo in mano un pallone da basket, inespressivo e silenzioso. Il silenzio, che aveva fatto la sua comparsa dopo la sfuriata di Ganimede, era ormai diventato solido. A tirargli contro il pallone, sarebbe rimbalzato. – Almeno adesso sappiamo che la diplomazia non è il suo forte, dico bene? – Un’apertura. – Questo non posso negarlo. Divento vecchio, e con la vecchiaia arriva l’intolleranza, mentre la pazienza restringe i suoi confini. La voce di permafrost di Morgan lo incalzò: – Insomma, lei si presenta qui senza appuntamento – indelicatezza per la quale ho interrotto più di un rapporto d’affari – dopo aver insultato mio nipote – che entrambi sappiamo non essere un genio, ma è pur sempre persona a cui tengo – e ora, fatta la sua scena madre, sta zitto? Non so… finora ha fatto tutto lei; pretende adesso che io trovi una soluzione? Continui, piuttosto, concluda. Era arrivato il momento di rilanciare. – Suo nipote ha bisogno di gavetta. Che impari come si fanno le scarpe, come si cuciono, come si incollano e quali materiali vanno usati. Più giri in produzione e meno briefing operativi, almeno per un po’. Morgan prese un respiro profondo e si passò da una mano all’altra il pallone, toccandolo solo con i polpastrelli: – Gavetta, eh? La buona vecchia saggia maestra. Immaginavo che avrebbe avanzato una richiesta del genere… Parliamoci chiaro, lei sa bene quanto me che al giorno d’oggi non c’è bisogno di saper fare le scarpe per venderle. Il prodotto è l’ultima cosa che ci preoccupa; la gente non compra quello, ma l’immagine che noi gliene diamo. Non comprano scarpe da basket, ma il sogno di tirare in sospensione come il campione che le indossa nella pubblicità. E pazienza se poi son scarpe di cartone. Per questo paghiamo di più i manager di marketing che quelli di processo. Sarà pure diseducativo e immorale, ma quando mai il commercio ha avuto pretese di moralità? – Alza gli occhi al soffitto, sorridendo per la prima volta da quando Ganimede è entrato nella stanza. – Però riconosco che il ragazzo potrebbe trarre giovamento da una simile esperienza. La sua idea non mi dispiace, ma le manca qualcosa… Perché l’apprendistato di Celso sia fruttuoso, c’è bisogno di qualcuno che segua da vicino il suo percorso, una guida d’esperienza –. L’espressione di Ganimede – che aveva già capito l’antifona – si fece terrea. Aveva depositato i suoi testicoli nell’incavo di uno schiaccianoci di cui Lorenzo Morgan manovrava le leve. E Lorenzo Morgan schiacciò: – Non riesco a pensare a nessuno più indicato e preparato di lei. Lei gli insegnerà il mestiere, Borsch. Un sorriso spontaneo come una ferita slabbrò la bocca di Ganimede. – Può bestemmiare, se vuole. È inutile che ci prendiamo in giro. So che avrebbe preferito farsi strappare le unghie, piuttosto che avere mio nipote come apprendista. È per questo che non le ho fatto strappare le unghie. Merda merda merda fu il triplice schematico pensiero del calzaturiere. 43. Lo schermo a matrice attiva si rianima rapido, come una primavera artificiale fatta scorrere su un videoregistratore con l’avanti veloce. L’immagine di sfondo è una specie di felce frattale con venature blu elettrico da cui spuntano in ordine sparso le icone delle varie applicazioni. Dorotea spinge il cursore verso la cartella documenti, e la apre. Dentro, solo alcuni fogli elettronici di un programma di calcolo: Settembre Ottobre Novembre. Al supermercato, Fanny dava anche una mano con la contabilità. Aveva fatto ragioneria. Dot sorride appena, massaggiandosi il ginocchio indolenzito, mentre apre una directory chiamata Immagini. Ci trova una foto passata allo scanner: padre, madre e figlia piccola. Non è difficile riconoscere Fanny nella bambina: gli stessi occhi grandi e interrogativi. I genitori hanno facce allegre. A quanto sa Dorotea, sono morti in un incidente quando Fanny era ancora piccola, magari poco dopo quella foto. Dorotea conosce poche altre notizie, per averle distillate a fatica dalla riservatissima amica. Immagini confuse di un vagare senza appartenere, tipico degli orfani. Ci sono anche un paio di giochini di animazione: lo «Sparamerda» e il «Frusta il Lavativo». Poi apre un’altra foto: uno scatto di Fanny ripresa insieme a Tebaldo e Dorotea. Dot è pronta a farsi un giro sulla giostra mentale dei ricordi malinconici, ma la mano di Tebaldo che le stringe la spalla la richiama alla realtà. Prosegue l’indagine nell’hard disk e trova un’intera pagina di dialogo, presa da una chat-line. I due interlocutori sono Fanny e un tale MisterVega. Dorotea ha un’intuizione e decide di controllare l’e-mail. Il programma di posta elettronica si apre con una e tridimensionale che gira su se stessa. Dot controlla le varie cartelle e trova ciò che cerca con una verifica incrociata in Posta Inviata e Posta Eliminata. La maggior parte sono messaggi mandati a e ricevuti da MisterVega. Un’intera corrispondenza di mesi – la prima mail risale all’inizio dell’estate, stessa data del dialogo in chat, e l’ultima è del giorno prima del suicidio. MisterVega… Non è proprio un documento d’identità ma è già qualcosa. Inizia a leggere il dialogo in chat. Imbarazzo e senso di colpa. Dot sente che non dovrebbe stare dove sta, fare quel che fa. È un’intrusione, una violazione del domicilio di sentimenti altrui. Ma non può farne a meno. Dopo le prime righe, il disagio diventa curiosità e i messaggi scorrono sotto i suoi occhi. Incrocia quelli di Fanny e quelli di MisterVega, costruendo pezzo dopo pezzo un romanzo epistolare. Va a rileggersi la pagina di chat. Fanny: – Cominciavo ad averne abbastanza di quella chat. Pensavo che non me lo avresti chiesto più di dialogare da soli. MisterVega: – Be’… te l’ho chiesto. Fanny: – Non avevo mai chattato prima. Non me la sto tirando, e non voglio fare la parte di quella che ci si è trovata per caso. Sono una fanatica di Daryl Domino e, visto che Daryl era proprio l’argomento del forum di discussione, non ho resistito. Certo che però… è ipnotico. Comincio a capire perché la gente chatta. MisterVega: – So quello che vuoi dire. È un’evoluzione dei rapporti umani, in fondo. Compagnia senza invadenza. Ti senti accettato senza il rischio di venire assillato. E poi si incontra un sacco di gente interessante. Fanny: – Quello che si faceva chiamare Silver Surfer era da ricovero. MisterVega: – Se è per questo neanche Big Bad Guy e Il Kid scherzavano. Fanny: – Già, cosa volevano dire con tutta quella storia sulla transustanziazione? Non ho capito una sola parola. MisterVega: – Allora siamo in due. Fanny: – Parliamo di te, invece, anzi ti parlo IO di te. Sei curioso e sei tranquillo, un buon abbinamento. Tutti quanti facevano a pugni per dire cosa pensavano di Daryl – compresa me, temo – mentre tu, in mezzo a tante affermazioni, eri l’unico che domandava, l’unico interessato più alle opinioni altrui che alla propria. Mi è piaciuto. Sembravi timido. Sei timido? MisterVega: – Credo di essere un timido mimetizzato. Ma visto che mi hai sgamato subito perché fingere? Sono timido. Anch’io sono capitato in chat per caso (cominciamo a contare le cose che abbiamo in comune?) Non è che fossi preparatissimo in tema di D.D. e forse per questo ti sono sembrato più curioso e tranquillo di quel che sono in realtà. In compenso, di te ho subito notato il fuoco. Magari hai ottant’anni e un enfisema cronico, ma quando parli di Daryl Domino ti accendi come una torcia, ed è… bello. Fanny: – Staremo mica flirtando, eh? Sono contraria al virtuale in certi campi. MisterVega: – Scusa, non volevo dare questa impressione. Parliamo di me, piuttosto, come mi avevi chiesto. Sarò obiettivo e impersonale; niente flirt, giuro. Non sono molto interessante, temo. Ho meno di trent’anni, svolgo un lavoro intellettuale, detesto gli alternativi per forza e i conformisti per convenienza, nonché le parole veicolare, monitorare e autostrada dell’informazione (aaaahhhhhh!) Mi piace mangiare e bere bene, ma solo in compagnia. Ah, mi fa schifo la cucina cinese, non la posso neanche vedere… 44. Il corpo è integro. Quantomeno in apparenza. Nonostante un volo di quasi trenta metri, l’unico segno esteriore dell’impatto è la spessa macchia di sangue rosso brillante che gli si è allargata sotto la nuca. Per il resto lo si potrebbe credere un normale ragazzo addormentato, ammesso di non trovare strano che qualcuno decida di addormentarsi nel bel mezzo della carreggiata, nudo, fatta eccezione per una mantellina di seta nera, con una zeta bianca cucita a rilievo proprio al centro. Il furgone dell’ambulanza attende ai margini dello spazio transennato. Le luci lampeggiano silenziose, bagnando di blu il marciapiede e i muri. L’aria fresca della sera sta per arrivare. Il poliziotto in uniforme parla a scatti brevi e precisi. Sta facendo un rapporto a voce al suo superiore, un mastino annoiato con l’aspetto di uno che abbia dovuto vestirsi al buio mentre veniva preso a calci. Nelle organizzazioni i cui membri indossano una divisa, diviene espressione di elevata posizione gerarchica vestire in borghese. – Il ragazzo è saltato giù dalla terrazza dell’edificio, dove pare stesse prendendo il sole. Su abbiamo trovato una sdraio, un asciugamano e dell’olio abbronzante. Ce ne sono anche evidenti tracce sul corpo… si sente dall’odore: è al cocco –. Senza sapere bene perché, l’agente prova imbarazzo per quest’ultima affermazione. – Notizie della vittima? – La voce del commissario è affannata ma non concitata, come se portasse in giro un peso da tanto tempo. Il che fra l’altro è vero, visto che è di molto sopra il quintale. – Ventisette anni, programmatore di computer (qualsiasi cosa voglia dire) –. L’agente non si risparmia una sghignazzata muta. – Abitava al terzo piano, ma andava spesso in terrazzo ad abbronzarsi nei giorni di sole, per cui nessuno si è stupito a vedergli salire le scale in costume da bagno con una sedia pieghevole sotto il braccio. – In novembre. – È l’estate di San Martino, sa, più di venti gradi… – Già, l’estate di San Martino, – ripete il commissario, ricordando le due notti insonni appena trascorse rivoltandosi fra lenzuola zuppe di sudore. – A sentire i vicini non era un tipo da suicidio, anzi. Niente crisi depressive, ottimista, positivo. – A sentire i vicini, eh? Avessi un centone per tutti i suicidi ottimisti e gli assassini pacifici che ho visto in vita mia, non lo farei più da un pezzo questo lavoro di merda –. Il commissario guardò ancora, da debita distanza, il corpo del ragazzo. La pelle rosea a far da contrasto col bitume della strada. Come altro poteva definirsi un lavoro che ti toglie il divano da sotto al sedere di domenica, per sbatterti in faccia un ragazzino con la testa fracassata? Di merda, senz’altro un lavoro di merda. – È solo che… – Il poliziotto esitò perplesso. – Cosa? – Non so, è che non mi quadra il mantello con la Z. – Bah, avessi un centone per tutte le stranezze… – Non è tanto la stranezza, è che manca di logica. – Cioè? – Avesse avuto un mantello rosso con la S, avrei capito. Mettersi un mantello da Superman e buttarsi dalla finestra ha un suo senso… per quanto cretino. Ma il mantello da Zorro… mica vola Zorro, no? – Non che io sappia, – sussurra sconsolato il corpulento inquirente. – E magari, il fatto che tu ti chiami Garcìa e hai il grado di sergente potrebbe non essere casuale, vero? – A questo non avevo pensato, – il sergente Garcìa alza gli occhi in cerca di ritardatarie epifanie. Il commissario lo osserva con paziente disprezzo. Nomen omen disse a proprio esclusivo beneficio, e poi tradusse per il sergente, che difettava di studi classici: – Un nome una garanzia, tu. Senti me, sergente, vedi di raschiar via al più presto l’ottimista laggiù dall’asfalto. E vacci piano con le deduzioni, d’accordo? 45. Degna, degnissima conclusione di una settimana di merda. La telefonata arriva verso sera, a casa di Ken, com’è giusto e ovvio. Ho appena finito di seminare paranoia raccontando le rivelazioni che mi ha fatto Sebastian sulle microspie. Ci guardiamo attorno con aria sospettosa, come se servisse, quando sentiamo lo squillo. Per fortuna – anche se al momento il mio concetto di fortuna è alterato – sono presenti solo i maschi del gruppo, tranne uno. Noi, i super razionali, gli uomini… Ken mette giù la cornetta: sembra un automa, la sua faccia ha il colore dell’intonaco vecchio in una bisca clandestina. Prima, mentre parlava, avevo sentito la sua risatina nervosa, secca come un colpo di tosse, e l’eterna inutile domanda che fa da preludio a un’incredibile brutta notizia: – Sta scherzando, non è così? – Non succede mai che scherzino davvero. – Sembra… che ci sia stato un incidente. Non riesce a dire altro per un tempo che mi appare infinito e orribile. In realtà sono solo pochi secondi, sufficienti a farci passare dalla paranoia al panico assoluto. Penso subito a moglie e figli di Ken, che adesso dovrebbero essere in piscina – luogo perfetto per un incidente – ma escludo l’ipotesi. Se gli avessero dato una notizia del genere, adesso Ken sarebbe rannicchiato in posizione fetale sotto il tavolo della cucina, con un filo di bava a scendergli dalla bocca, catatonico. No, non può essere nessuno della famiglia. Lo prendo per le spalle, lo scuoto e lo guardo negli occhi: – Chi? A chi è successo? – Non a Bella ti prego Dio non a Bella… – Max –. La voce è un capello sottile. Provo un sollievo istintivo e velocissimo. E subito dopo un senso di colpa pesante, più un discreto schifo per me stesso. Il Conte prosegue a domandare: – Cos’è successo? – Giù dalla finestra, credo. È finito giù. Morto –. Distoglie lo sguardo. – Non è possibile, non è… – Seguono un paio di minuti di caos assoluto. Tutti gridiamo cose senza senso, rifiutiamo di credere senza vedere, ci agitiamo e camminiamo avanti e indietro solo per scaricare l’energia negativa che ci si è accumulata in un attimo alla base del collo, come un artiglio d’acciaio che qualcuno ci ha conficcato a tradimento in mezzo alle spalle. Non è possibile, certo che no, bisogna telefonare, denunciare, fare qualcosa, uscire di qui. L’iperattività parossistica si attenua di colpo, così come era nata, lasciandoci sfiniti. Ken mi dà l’idea di un bambino che abbia appena subito un trauma. Confuso e indifeso. È la prima volta che lo vedo in queste condizioni. Deve rendersene conto anche lui, perché adesso comincia a riscuotersi e a cercare di reagire. Razionalizzando, parlando a scatti. – Era l’Istituto di medicina legale. Hanno detto caduto dalla finestra, ma nessuno cade dalla finestra come potrebbe cadere dalle scale… cioè o ti spingono giù o… ti ci butti, insomma. Magari ancora non lo sanno. Comunque il punto è che c’è lì sua madre. È sola… dovremmo andare a darle una mano. Hanno chiamato per questo –. Mentre parla, prende dal frigo un cartone di latte e se ne versa un po’. Ken odia il latte. Quando porta il bicchiere alle labbra ha un sussulto. Rimane immobile, scoperto nella sua fragile recita di normalità e controllo. Il Conte volta le spalle e batte una volta i palmi delle mani, con violenza. Suonano alla porta. Sono Bella, Chiara e Marianna, il cui ritardo ha impedito loro di ricevere la notizia nel modo brutale che non è stato risparmiato a noi. Purtroppo quello stesso ritardo ci investe ora del ruolo di ambasciatori della morte. Il che necessita un tatto di cui non saremo capaci. Il Conte trattiene per un braccio Ken, che si era già avviato ad aprire: – Come glielo diciamo? – Non credo che girarci attorno possa essere d’aiuto. Diciamoglielo e basta, – faccio io. – Per quanto riguarda Marianna è escluso, – continua il Conte. – Lo amava. Non glielo ha mai confessato… La situazione peggiore, considerando i suoi picchi emotivi. – Hai ragione, – concorda Ken. Ci guardiamo tutti e tre, pensando agli eccessi emozionali di Marianna, morbosamente attaccata a ognuno di noi e in special modo a Max. Conte forza l’impasse, dribblando i nostri sguardi interrogativi: – A Marianna penso io, le faccio fare un giro. Se riesco a sistemare la cosa in tempi brevi, ci vediamo all’Istituto di Medicina Legale. Se no… si improvvisa. Appena le ragazze entrano nella stanza, il Conte parte sparato, prima che possano decodificare le nostre espressioni livide. – Marianna, mi fai un favore, mi accompagni in un posto? Con loro ci vediamo più tardi. Marianna ha di buono che non rifiuterebbe mai un favore a un amico che glielo chieda. Il Conte ha usato di proposito quell’espressione, tanto per andare sul sicuro. – Okay, dove dobbiamo… – Te lo dico per strada, vieni. Il resto sono tutti cazzi nostri. Limone. Il posto ha un vago ma inconfondibile odore di limone. Non spiacevole. Il che, in un certo senso, mi spiazza. L’Istituto di medicina legale consiste in una grossa scatola di cemento color mattone a un piano, sulla sommità della collinetta che ospita il policlinico universitario. Ultimo padiglione, come è giusto che sia. Anche se non sono sicuro che i primi ospitino ginecologia e ostetricia. L’interno è tale e quale a quello di un qualsiasi ospedale, e sa di limone. Mi aspettavo una specie di agenzia di pompe funebri con lunghe e spesse cortine ondulate color porpora, lugubri musichette elettroniche che accompagnano i feretri alla cremazione e un nauseante odore misto di fiori marci e formalina (come se sapessi che odore ha la formalina). Invece, solo infermieri indifferenti al dolore del mondo e ambiente ospedaliero – magari un po’ più silenzioso. E odore di limone. La madre di Max non è, come sarebbe nell’ordine delle cose, un’argentea signora alto-borghese, imbolsita dal bene essere e bene pensare, che fuma col bocchino, gioca a bridge e giudica il mondo guardandolo attraverso le lenti del suo pince-nez trattenuto da una catenella d’oro. È piccola piccola, invece, e simpatica, e di solito gesticola molto. Non oggi, però. Oggi sta quasi immobile, ripiegata su se stessa, e non riesce a spostare lo sguardo, che tiene fisso su un punto del muro. O forse non vuole, per paura che, a perdere la presa di quel minuscolo frammento di sopportabile realtà, il mondo sfugga al suo controllo e le rovini addosso. Rimango in disparte mentre Ken – che ha riacquistato a fatica il suo ruolo di Papà – e le ragazze cercano di starle vicino senza troppo invadere il suo giusto spazio di dolore. Le ragazze. Saputa la notizia, sembrava stessero andando in pezzi, ma adesso che c’è qualcosa da fare, qualcuno a cui dedicare la loro attenzione, si stanno riprendendo in fretta. Adesso quello che sta andando in pezzi sono io. È il mio turno. L’ho sempre detestato, che lo nego a fare? Sempre pronto a fargli il verso, la controscena dietro le spalle. Il mio sport preferito? Criticare Max in ogni sua espressione: il modo di parlare, di muoversi, di porgersi, di piacere. Sì, di piacere, questo è il punto. Lui piaceva e io non potevo capacitarmene. Invidia? Si chiama anche così, ma la mia era ancora più obliqua e cerebrale. Una cosa come fare dello sciocco sarcasmo su un personaggio famoso e in tal modo brillare della luce riflessa da lui. Cannibalizzare l’altrui debolezza per non doversi concentrare sulla propria. Molto stupido. Così come è stupido e autolesionistico e patetico fare questo atto di contrizione proprio adesso, senza che in fondo sia cambiato nulla della mia considerazione per Max, eccezion fatta per il dato anagrafico della sua morte e per un umano senso di perdita. Mettendomi ancora una volta io al centro dell’attenzione a lui dedicata. Era un cazzone, certo, lo penso ancora. Ma non mi aveva fatto niente. Bella si allontana per un momento dal gruppetto di sostegno alla madre di Max, e si dirige verso di me. Seduto su una panca di acciaio e formica grigia, fredda e dura come un’attesa in Pronto Soccorso, la guardo avvicinarsi. Il movimento delle sue ginocchia – di cui posso intuire l’austero e perfetto disegno sotto i jeans lisi – ha qualcosa di artificiale. Come se dovesse pensare e volere ogni singola contrazione muscolare per potersi muovere; come se lo shock avesse cancellato la memoria ROM del suo corpo e lei fosse costretta a ordinarsi perfino di respirare. Non perde un grammo di fascino, in ogni caso. – Sei pallido. – Data la situazione e il mio slavato colore naturale, non mi sembra una gran novità. Sa benissimo perché sto in disparte, indovina a occhi chiusi il mio disagio. E grazie a Dio non ne fa parola. – Il Conte ha fatto bene a risparmiare a Marianna la botta improvvisa. È stato un gesto molto sensibile da parte sua. – Già –. Non mi sembra il caso di far polemica sul fatto che tutti erano informati dei sentimenti di Marianna tranne me. – Onore a lui ma non lo invidio. Sarebbe già difficile per una donna, figurarsi per un uomo… Vorrei chiedere che differenza c’è, quando arrivano Marianna e il Conte. Lei è un po’ pallida, ha gli occhi un po’ arrossati e l’aria un po’ confusa, ma nelle presenti circostanze questi un po’ sono un risultato sorprendente. Va incontro alla madre di Max e l’abbraccia. È tranquilla. Quando l’angelo della morte, travestito da bianco e comprensivo dottorino, chiede alla madre se adesso si sente in grado di procedere al riconoscimento, e la signora si guarda attorno spaurita, è Marianna a bruciare i nostri tentennamenti, offrendosi di accompagnarla. Al ritorno dalla camera mortuaria, ancora non dà cenni di cedimento. Sembra solo avere un’aria vaga e incerta, come di chi agisca sovrappensiero. Di Marianna e del perché temiamo le sue reazioni emotive. È stata la prima di noi che Ken ha preso con sé e su cui ha puntato per il suo progetto. Il primo dei brillanti casi di autolesionismo che ognuno di noi rappresenta. L’unica eccezione alla regola era Max, che è ormai passato in testa alla classifica con un certo distacco. Marianna, la piccola campionessa del suo papà. Un papà che ha gratificato di un’adorazione viscerale, come forse solo lei sa visceralmente fare, per i primi ventuno anni della sua vita. Lo ha mitizzato, pompato, assolutizzato. Ne ha fatto il protagonista di una sua personale epopea. Più o meno quel che fanno tutti i bambini fino a dieci anni, se appena hanno un padre decente, solo moltiplicato per mille e un pezzetto di più. Quando il buonissimo e perfettissimo papà mollò la consorte per una ragazza che aveva due mesi meno di Marianna, i gloria pater si arrestarono: Marianna non la prese bene. Cominciò tutta la trafila classica della persecuzione privata, nota a generazioni di mogli-mariti-figli-amanti incazzati, che prevede un’escalation di telefonate mute a qualsiasi ora del giorno e della notte, prenotazioni misteriosamente annullate di ristoranti, alberghi e voli aerei, sportelli d’auto decorati col punteruolo, scritte poco gentili con vernice spray a caratteri cubitali sui muri sotto casa, ordinazioni colossali per corrispondenza di incredibili suppellettili erotiche e sadomaso, abbonamenti forzati a riviste pedo-pornografiche ai limiti del sequestro eccetera. Non contenta, pensò di punire il genitore in un altro modo standard condiviso da legioni di figli insoddisfatti: il senso di colpa. Il ventaglio di possibilità che le si apriva davanti era ampio. Avrebbe potuto frequentare cattive compagnie, fidanzarsi con uno spacciatore, drogarsi o almeno darci dentro con gli psicofarmaci, dedicarsi al crimine, al teppismo, alla prostituzione, diventare seguace di una setta, farsi mettere incinta da un boss mafioso legando per sempre la propria famiglia alla criminalità organizzata. Avrebbe potuto autodistruggersi facendo così rosolare il padre nel fuoco lento della propria inettitudine parentale. Ma tutto questo non le sembrò abbastanza. Organizzò dunque la propria vendetta con tale diabolica spietatezza che stento a collegarla a Marianna, come oggi noi la conosciamo. Il padre di Marianna era un allegro architetto di successo, un cinquantenne con la bellezza spaccona di chi sa di essere arrivato nella forma migliore all’età in cui è più facile avere le cose migliori. Una fortuna non comune alla maggior parte dei cinquantenni, che in genere sono troppo logori nel fisico e amareggiati nello spirito per godersi quel che hanno ottenuto rovinandosi corpo e anima. Aveva soldi, salute, prestanza atletica, una nuova compagna poco più che adolescente, e una grande passione: le vacanze estreme. Quelle tonificanti esperienze tipo corsi di sopravvivenza nella giungla, o scalare il K2 a mani nude in mutande e canottiera, o attraversare il deserto di corsa a piedi nudi bevendo solo la propria urina. Ne andava pazzo. E lì fu colpito. Marianna studiò per settimane i depliants delle agenzie specializzate in surviving journeys e infine scelse quello che andava a pennello per il suo progetto. Un mese su un’isola deserta delle piccole Antille, unici collegamenti col mondo civilizzato un radiofaro satellitare da usare in caso di emergenza e una barca che avrebbe portato solo una volta alla settimana i rifornimenti e il giornale della domenica (giusto per tener d’occhio i titoli azionari). La brava bambina si inserì nel sistema informatico del tour operator e, usandone l’indirizzo elettronico, inviò all’e-mail di suo padre una finta offerta speciale, prenotabile via computer. Dovette aspettare solo un paio di giorni perché il pesce abboccasse: il biglietto venne confermato per il mese successivo. Il padre partì di maggio, da solo. Barba e capelli appena lunghi, come un Apollo di mezza età, con freschi pantaloni di lino alla pescatora, camicia slacciata sul petto e zaino. Sorrideva piano, come i veri uomini fanno durante i piccoli addii, abbracciando la sua compagna all’aeroporto. Marianna lo sa perché li stava spiando, nascosta dietro una delle false colonne della piattaforma d’imbarco. La prima settimana gliela concesse. Fu un po’ duro per lei immaginarselo che si divertiva da matti a costruirsi il rifugio, a pescare prendendo il sole e ad arrostire pesci sul falò, ma il pensiero di quello che gli avrebbe fatto cadere fra capo e collo la aiutò a pazientare. La seconda domenica, alle cinque di mattina (ora di Miami), Marianna entrò in azione. Intercettò la trasmissione per via telematica del giornale che suo padre aveva scelto di farsi recapitare, prima che potesse arrivare a Trinidad e lì essere stampato su carta di scadente qualità. Il piccolo dirottamento le servì per inserire nelle pagine di cronaca un trafiletto con fotografia. L’articolo parlava del tragico epilogo della vita di una giovane donna perita la notte precedente nel corso di un terrificante incidente automobilistico. Il nome della donna era il suo nome, la fotografia era una sua fotografia, che proprio il padre le aveva scattato un paio d’anni prima. L’imbarcazione che recapitò il giornale, insieme alla settimanale razione d’acqua, arrivò all’isola verso mezzogiorno. Almeno già da un quarto d’ora Marianna aveva clonato, e continuava a ritrasmettere al satellite, il segnale del radiofaro, in modo da impedire al padre di metterlo fuori uso per attirare l’attenzione. Avrebbe dovuto bruciare nell’inferno tropicale che si era scelto per un’altra settimana, prima di avere notizie della figlia. Scherzetto. Provò un indescrivibile misto di senso di colpa e di eccitazione nell’immaginarsi suo padre alle prese con la frustrazione e l’impotenza che quella situazione avrebbe prodotto. Fu una goduria. Il grande uomo che si aggira confuso e distrutto dal dolore su quello scoglio del cazzo, privato della sua boria e della sicurezza di sé. Solo. Sì, niente male come rivincita. Per un attimo venne colta dal pensiero che suo padre potesse reagire con filosofia e continuare la vacanza, ma scacciò subito l’idea. L’imbarcazione di soccorso che lo raggiunse una settimana dopo, trovò un uomo immobile sulla spiaggia, in posizione rattrappita, con le funzioni vitali appena percepibili. Fu portato d’urgenza all’ospedale di Trinidad, dove gli venne diagnosticata una trombosi. Nonostante la trombosi e nonostante l’ospedale di Trinidad, sopravvisse, ma perse quasi del tutto la sensibilità di metà del corpo. Perse anche la fidanzata pin-up e molte altre belle cose. Per colpire duro, Marianna aveva colpito duro, ma nemmeno lei avrebbe voluto infliggere danni permanenti. Non avrebbe voluto doversi abituare alla nuova smorfia grottesca del volto del padre, al filo di bava che gli scendeva dall’angolo destro della bocca offesa, al pensiero che la colpa fosse sua. Cadde così in un profondissimo pozzo di depressione, arrivata al fondo del quale cominciò a scavare. Suo padre era quasi morto dal dolore a causa della sua finta scomparsa; dunque l’idea di procedere davvero alla propria cancellazione non le sembrò incoerente. Giusto per pareggiare i conti. Smise di uscire, di vedere gente, di lavarsi, di mangiare. Per fortuna Ken entrò nella sua vita prima che smettesse di respirare e di muoversi. Ken è un cugino di primo grado di Marianna, e la società che oggi dà lavoro a tutti noi è nata come terapia di recupero per lei. Per darle stimoli. Dopo un po’, Ken si accorse che la cosa funzionava talmente bene, sia a livello clinico che sotto l’aspetto del bilancio, che decise di estendere l’esperienza ad altri soci. Autolesionismo e informatica andavano d’accordo e tutti ci avrebbero guadagnato in salute mentale e conto in banca. Così nacque la Simpliciter. Nel frattempo Marianna ha recuperato del tutto, ma è rimasta ipersensibile rispetto a ogni tipo di shock e di perdita. Quando le è morto il cane (che aveva diciannove anni) ha pianto per sei giorni. Figurarsi cosa poteva succedere per Max. 46. L’odore pungente della colla, esalante dalle dita ricoperte di una sottile patina appiccicosa, si mischiava ai sentori di cuoio e gomma che impregnavano la stanza. Celso Grande stava per vomitare, e lo avrebbe anche fatto se non avesse intuito che dare di stomaco rappresenta il livello infimo di perdita di controllo cui un manager possa andare incontro. Escludendo il farsela addosso davanti a subalterni. Quell’orco bastardo di Ganimede gli stava addosso come una mignatta, alitandogli sul collo ordini travestiti da suggerimenti. Aveva cercato di opporsi a questa buffonata, ma suo zio, il suo venerabile e onnipotente zio, era stato irremovibile. Dunque doveva adeguarsi. Era ormai tutta la mattina che stava chiuso lì, nella camera degli scarti. Un piccolo magazzino di stoccaggio dove venivano accumulate le calzature difettose venute fuori dalle catene di produzione delle Fabbriche Borsch. Migliaia di scarpacce riuscite male, mai usate eppure, per qualche arcano motivo, puzzolenti. Ganimede aveva accolto il suo nuovo e indesiderato allievo all’apertura dei cancelli alle 6:30 di mattina. La faccia gonfia di sonno di Celso gli aveva dato un fugace brivido di soddisfazione. – Cominceremo dai rudimenti, visto che non hai nemmeno quelli, – aveva detto, mentre gli allacciava stretto uno spesso grembiule di cuoio grezzo sopra il giubbotto di renna e i chiari pantaloni da barca (quella che Celso Grande riteneva essere una sportiva tenuta da lavoro). Lo aveva poi condotto nella stanza degli scarti e lì erano cominciate le lezioni. Teoria e pratica insieme. Celso aveva dovuto sezionare almeno una decina di scarpe diverse con un arnese triangolare affilatissimo, mentre Ganimede gli riempiva il cervello di astrusi nomi tecnici che lui non sarebbe mai riuscito a ricordare. Questo lo sapeva anche Ganimede che però era deciso a non concedere amnistie. Alla pausa pranzo – immondo brodazzo consumato alla mensa operai – Celso provava già un sincero e densissimo livore per quel rozzo scimmione che gli mangiava silenzioso davanti. Lui e i suoi metodi antiquati! Avrebbe voluto scalare la sua patetica azienda da due lire con una spregiudicata operazione di Borsa, e poi piombargli in sala riunioni durante un concitato consiglio di amministrazione, mettergli una pesante mano sulla spalla e dirgli: – Sei storia, amico. Vatti a fare un giro. Intanto però gli toccava subire, e mandar giù quell’orrido intruglio da manovali. Sei stanco, coglione? Ti fanno male le mani, vero? Pensava Ganimede. In questo momento mi vorresti ammazzare, anzi no, starai mettendo su uno di quei deliri di potere in cui riduci la gente sul lastrico. Quelli che usi anche quando ti masturbi. Bravo, va bene così, rovinami pure in sogno, che tanto adesso stai qui, mangi questa zuppa che ho personalmente raccomandato al cuoco di rendere disgustosa, e ti rompi la schiena lavorando per la prima volta in vita tua. In fondo non è malvagia l’idea di tuo zio. Era un pezzo che non mi divertivo così. 47. – Voglio che tu mi trovi una persona. Dorotea cerca di mantenere fredda e affilata la propria voce, parlando dentro il microfono del casco Realtà Virtuale che sta indossando. Cerca di non mostrarsi impressionata o intimorita dal tizio che si trova davanti. Come se concludere affari col simulacro digitale di un sornione samoano di un quintale e mezzo in un ambiente ricostruito elettronicamente fosse il suo pane quotidiano. Un amico di Tebaldo, il quale a sua volta aveva interpellato l’amico di un amico, li ha messi in contatto con Doktor Ghetto. Che poi sarebbe il samoano ipertiroideo virtuale qui presente. Presente, è ovvio, si fa per dire, visto che Dorotea e Tebaldo, pur essendo in piedi su due piattaforme R.V. pubbliche, con un casco in testa e dei data-guanti sulle mani, si trovano con quattro dei cinque sensi dentro uno spazio cibernetico condiviso, in cui alcuni soggetti interagiscono per mezzo dei loro avatar, ossia di rappresentazioni grafiche (più o meno fantasiose) dei loro corpi che fungono da alter ego in ambienti di rete tridimensionali. Dunque, concetti come presenza e spazio significano davvero poco. Doktor Ghetto è il caposcuola di una comunità invisibile di geniali disadattati che campano fornendo servizi informatici speciali un po’ aldilà dei confini stabiliti dalle leggi sulla privacy, sulla concorrenza sleale, sullo spionaggio industriale eccetera. Tutta roba che le grandi Compagnie delegano a settori segretissimi e superefficienti delle loro strutture. I clienti di Doktor Ghetto, infatti, non sono le Compagnie, ma i privati. Quelli che non hanno alle spalle un’organizzazione che provveda alle loro esigenze informative, che non hanno le capacità per fare da soli. Un bel po’ di gente. Un ottimo squilibrio in positivo fra domanda e offerta, cosa che aiuta la comunità a rimanere invisibile, e che fa felice e forse ricco Doktor Ghetto. Gli piace pensare di svolgere una funzione sociale, ma non si illude fino in fondo. Ha aiutato molti dipendenti licenziati a mettere il naso nella contabilità truccata dei loro ex datori di lavoro, ma ha anche permesso a mariti maneschi di conoscere le nuove identità e i nuovi indirizzi delle loro mogli in fuga. Perché se offri un servizio, offri un servizio, e non trinci giudizi morali da supermercato. L’ambiente virtuale che Doktor Ghetto ha scelto per il primo contatto con questi suoi nuovi clienti (lui non si mostra mai, se non in forma digitale) ricostruisce un Coffee Shop olandese, perfetto in ogni particolare, solo un po’ troppo ordinato. Si avverte persino l’odore di spezie e incenso. Il samoano elettronico si accarezza piano con la mano destra i quattro anelli che porta alle dita della mano sinistra. Ogni dito è grosso come un sigaro cubano. A Dorotea riesce difficile immaginarselo seduto mentre manovra una tastiera; la superficie di ogni suo polpastrello potrebbe ricoprire almeno quattro pulsanti. Ma questo non vuol dir nulla, visto che nella vita reale, e per quanto ne sa, Doktor Ghetto potrebbe essere un nano o una donna o qualsiasi altra forma di vita senziente collegata a un computer in qualsiasi parte del mondo. – Vuoi che io ti trovi? Frena, piccola, frena. Tante cose devono essere chiarite prima che tu possa usare con me la parola voglio –. La voce di Dok è liscia come quella di un eunuco. – Ho già preso le mie solite precauzioni, ma la squadra anticrimine informatico non è più la compagnia di mollaccioni dei primi tempi, dunque… Nella mano del samoano appare una sfera di mercurio vibrante, che comincia a levitare all’altezza degli occhi di Dorotea e Tebaldo, per poi scomporsi e offrire un ventaglio di opzioni. – È una cosa poco elegante, ma capirete che con gli amici nuovi e sconosciuti non posso farne a meno. Nel menù tridimensionale che avete davanti, alcune delle voci presenti sono illegali. In particolare, le ultime due riguardano siti grazie ai quali è possibile ordinare e reperire materiale pornografico sui bambini o sostanze stupefacenti. È mia intenzione denunciarli alla polizia. Voi cosa mi consigliate di fare? Dorotea è già stata istruita in proposito, dunque non esita. Allunga il dito verso il menù e sfiora il pulsante relativo alla vendita di sostanze stupefacenti. In uno sfarfallio le appaiono dinnanzi una decina di fatine alate, recanti sulle ali il nome delle diverse droghe commercializzate. Con pochi gesti della mano guantata, Dot ordina una bella quantità di sostanza organica marroncina molto popolare fra le giovani generazioni, ma alquanto invisa alle forze dell’ordine, dopodiché chiede a Tebaldo se è disposto ad acquistare da lei una parte della roba che ha appena comprato. Tebaldo risponde di sì. – Contento così…? Va bene? L’avatar di Doktor Ghetto alza un sopracciglio, e poi sorride: – Sì, va meglio –. La scenetta recitata da Dorotea lo ha assicurato sulla bontà delle intenzioni della ragazza. Nessun agente provocatore infiltrato, infatti, per quanto sotto copertura, si può permettere di compiere o tentare di compiere o istigare altri a compiere un reato non connesso a quello per cui sta indagando. Dot ha appena acquistato, promesso in vendita e progettato di spacciare una sostanza illegale. Non può essere un poliziotto, e se anche lo fosse, a questo punto sono cazzi suoi. – Cosa posso fare per te, allora? – Per cominciare, annullami l’ordine di quella robaccia. – Sarà fatto a tempo debito, e poi? – Trovami nome e indirizzo del proprietario di questa casella e-mail –. L’avatar di Dorotea traccia nel vuoto con l’indice della mano un rettangolo, che subito si materializza in una finestra di dialogo. Seleziona la voce forward da un menù a discesa e poi la voce invia. Il rettangolo si ripiega assumendo la forma di una busta da lettera, e decolla verso il samoano, per poi galleggiare a pochi centimetri dai suoi occhi. Fino a che il ciccione si decide a toccarla con un dito, e la lettera si allarga di nuovo nella forma precedente. – Ti ho segnato anche l’indirizzo di una chat che ha frequentato all’inizio dell’estate scorsa. – MisterVega… carino. È un account anonimo, di quelli che può fare chiunque dando dati falsi a un portale qualsiasi. – Se ci fosse stato il nome vero e la sigla della società per cui lavora questo tipo, non sarei certo venuta da te, non credi? – Fra un paio di giorni, mattina presto, stesso indirizzo. Predisponi un bonifico circolare di mille pezzi, da far girare in loop su tre diversi conti bancari di tua fiducia. Penserò io a dirottarlo quando sarà il momento. 48. Siamo qui. Siamo di nuovo, insensatamente qui. Tutti quanti al lavoro. Anche oggi, giorno in cui nessuno di noi dispone della quantità di concentrazione e tranquillità necessaria per offrire una prestazione appena decente. Vaghiamo senza costrutto fra stanze e corridoi, a testa bassa, scambiando poche parole a bassa voce. Come gli zombi che nei film horror tornano a girare fra gli espositori dei supermercati per un riflesso dell’istinto di conservazione, ma senza capire perché. Lontani da ogni possibile scelta consapevole. Simulacri in rovina di un’umanità che li ha abbandonati. Siamo venuti a lavorare anche oggi (soprattutto oggi), perché non sapremmo dove altro andare. Questa è la verità nuda e cruda. Mi ero preparato a un microshock supplementare, stamattina. Come tutti, avrei dovuto fare i conti con l’assenza di Max; ma io avrei anche diviso la stanza con il suo fantasma, almeno per un po’. Invece al mio arrivo ho trovato il Conte che stava montando due nuove postazioni. – Bella e io ci trasferiamo qui con te. – Guarda che non è il caso… – Risparmiati pure le stronzate, è già deciso. – Rinuncio a discutere, ma, scusa, non era più logico che mi spostassi io da voi? – Bella pensata, così col tempo avremmo avuto paura anche solo a entrarci qui dentro. No, no, esorcizziamo. E subito. La nostra ex stanza diventerà la nuova sala riunioni, visto che la vecchia ce l’hanno espropriata i R.O.M.P.I. della Morgan –. Grande Conte. Le ore scorrono pastose e poco definite nello stato confusionale in cui ognuno di noi galleggia. Le mastichiamo svogliati, rimestandole con la lingua intorpidita, senza avvertire alcun sapore. Il che è già una fortuna. Marianna prosegue, come ieri, a muoversi nella vaghezza. Un atteggiamento di dolore composto e appena un po’ distratto, ma sereno. Questo ci ha tranquillizzati, ci ha stupiti, e ha accresciuto di migliaia di punti la nostra già elevata considerazione del Conte. Cosa le avrà mai detto per contenere la sua reazione in questo modo? Quando l’ho vista arrivare, mi è perfino sembrato di indovinarle appena un filo di trucco – cosa mai vista su di lei in pieno giorno. Poco fa è addirittura passata di qui dicendo che stava andando a fare uno spuntino e chiedendo se volevamo che ci portasse qualcosa. Marianna, il boia degli snack fuori pasto, la teorica della tolleranza zero per l’alimentazione disordinata, va a fare uno spuntino? Quella che mentre noi sgranocchiamo in mensa le patatine fritte alla cipolla (best option nella nostra classifica alimentare), ci guarda come se assistesse a un rito di coprofagia, attingendo al suo pacchetto di crackers integrali? Quella che ha digiunato per ventisette giorni consecutivi attanagliata dai sensi di colpa per suo padre? E adesso, all’indomani del suicidio di Max, ha una botta di fame alle undici di mattina? Inquietante. Al nostro pacato rifiuto, l’ex rigida fondamentalista del cibo biologico ha risposto: – Okay, magari porto su un sacchetto di patatine fritte alla cipolla, giusto in caso –. Bella stava per cadere dalla sedia. Ci siamo guardati fra il contento e il terrorizzato. Alla fine, la mia nuova compagna di stanza non ce la fa più e sbotta: – Senti Conte, qui le cose sono due. O un alieno si è impossessato del corpo di Marianna, o tu ieri le hai fatto qualcosa di fantastico. Visto che la prima, per quanto pittoresca, mi pare improbabile, prima dimmi cosa le hai fatto e poi fallo anche a me. Il Conte sorride a mezza bocca, senza alzare lo sguardo dal monitor del computer: – Diciamo che ho sacrificato la regina per evitare lo scacco matto. Bella lo incalza: – Sì, ma lasciando perdere le raffinate metafore scacchistiche, che cazzo le hai fatto? – Ho fatto in modo che la sua attenzione non fosse tutta concentrata sul lutto, ma venisse almeno in parte assorbita da un pensiero piacevole che la impegnasse sul lato emotivo. – Sarebbe a dire…? – Prima di dirle di Max, le ho detto che mi sono innamorato di lei. – … – Ehm, dovrei essermi bruciato ogni minima possibilità di successo, visto che d’ora in poi associerà la mia dichiarazione a un evento terribile, ricavandone impulsi contraddittori. Però sono riuscito a evitare che andasse fuori di testa. Un po’ rischioso ma ha funzionato, no? Ehi, perché mi guardate così? – Scusa Conte, – intervengo, – non sono sicuro di aver capito… tu hai finto di dichiararle il tuo amore per… – No no no, io non ho finto un bel niente. Per chi mi prendi? Non le avrei mai mentito su una cosa del genere! Mi infuoco: – E hai sputtanato il momento più romantico nell’avvio di una relazione, il momento decisivo per il destino di quella relazione per… – Per ammortizzarle l’impatto con la notizia del suicidio di Max, per fare in modo che, volente o nolente, la sua sfera emotiva non fosse libera di dedicarsi a un’elaborazione autodistruttiva del lutto, per depotenziare quelle sue reazioni che tutti conosciamo così bene. – Scusa, ma allora tutte le volte che ci litigavi, che la pungolavi per ogni sciocchezza… – È un tipo che ha bisogno di scaricarsi in continuazione, e la polemica spicciola è un ottimo sistema a basso rischio. E poi non sai che chi disprezza compera, Giona? Bella è impietrita. Poi si riscuote e scrolla la testa, soffoca una risatina con la mano e comincia a piangere. In silenzio. Sorridendo, mentre ritorna a battere qualcosa alla tastiera, fissando lo schermo del computer. *** Chiudo la porta-finestra della cucina in faccia alla prima neve dell’anno, che dà un taglio all’estate di San Martino. Un brivido profondo e piacevole mi sale per le gambe nude, infilandosi sotto i miei ormai incongrui pantaloncini. Non li abbandonerò di certo perché fa quattro gocce: i miei sono pantaloncini dell’anima. Lo stereo di Ken ha il volume a palla. A quanto ha detto Sebastian, fuori dagli uffici della Simpliciter non ci sono microspie, ma ci sentiamo tutti un po’ più confortati sotto la copertura della musica al massimo. Anche se un rimedio raffazzonato come questo non basterebbe nemmeno per i servizi segreti bulgari. – Non che ci goda a fare sempre il rompiscatole, ma non si potrebbe almeno mettere su, che so, un disco pop… anche una roba commerciale, mica chiedo chissà cosa, ma questo… – Il Conte manifesta il suo garbato ma fermo disinteresse per le Avventure dei Tre Porcellini. E in effetti, data la situazione, il ritornello Siam tre piccoli porcellin, siamo tre fratellin che rimbomba in tutta la casa dà un tocco di grottesco che sfocia nell’inquietante. – Scusate ragazzi –. Ken armeggia col lettore CD. – È il disco preferito dei miei figli e io ormai non ci faccio nemmeno più caso. I più musicofili tra noi rabbrividiscono al pensiero delle metamorfosi che può subire un genitore: Ken una volta ascoltava solo rythm’ n’ blues e rock anni Settanta, ma a quanto pare le priorità sono cambiate. Adesso comunque fa partire un assolo di chitarra vietato ai minori di anni otto e ci sentiamo molto meglio. – Allora boys, chi ci crede? – Il Conte incrocia le braccia e fa una lenta panoramica con la testa. Bella risponde per prima, con un’altra domanda: – E tu ci credi, Conte? – Io non credo a niente, mia cara. Sono agnostico, è il mio problema. Credo in un Dio egocentrico che ha una sospetta avversione per il sesso? No. Credo in un altro Dio che non nasconde la propria passioncella per lo sterminio di massa? Men che meno. Credo nel sistema capitalistico occidentale? Per carità. Credo nell’applicazione pratica dell’ideologia marxista? Puh. Come vuoi dunque che sia certo del suicidio di Max? Alla luce di quello che ci ha fatto sapere il Seboso Sebastian, poi… Insomma, abbiamo il nostro amico che in un momento di rabbia urla che combatterà la Morgan Holding fino alla morte, abbiamo una fioritura di microspie della Morgan proprio nel luogo dove è avvenuta questa imprudente e profetica affermazione, e abbiamo infine Max stecchito ai piedi del suo palazzo –. Si alza e cammina, seguendo a piedi il filo del suo ragionamento. Prosegue: – D’altro canto non mi va nemmeno di elaborare teorie del complotto da due soldi. Tantomeno sulla base di fonti incerte e di intuizioni traballanti. Parte tutto dalla storiella di Sebastian, ma chi cazzo è Sebastian, chi lo conosce, come ci si può fidare? In che ruolo gioca? Lavora per Morgan e lo vuole fottere; contribuisce a spiarci, ma poi ce lo viene a dire. E quell’assurdo modo di fare… sembra un personaggio creato da un disegnatore di fumetti malato di mente. Qualcosa non quadra… Ha lasciato un però a sfarfalleggiare in aria, che io acchiappo subito col retino. – Però… Il Conte riprende: – Già, però… Se mai ho conosciuto una persona più lontana dall’idea di suicidio, quella era Max. Chiara ha fiutato la tendenza e ci si infila: – Bisogna ammetterlo: il ragazzo si voleva molto bene. – Si piaceva, – rincara il Conte. – Anche troppo –. Bella piazza la ciliegina. Marianna ci guarda stupita, come se ci vedesse per la prima volta. – Oh, ragazzi, piano. Era Max, un amico no?… Max. – Appunto, – riconferma il Conte. – Era Max, indiscutibilmente, completamente, ineludibilmente Max, in ogni sua fibra. E tu ce lo vedi un cento per cento di puro Max fare quello che pare abbia fatto? Ken distoglie lo sguardo e allunga il collo verso la cucina, fingendo di controllare qualcosa che starebbe accadendo da quelle parti. Tutti gli altri fissano Marianna, ma cercano di non farla sentire troppo osservata, il che produce ridicole contorsioni. La sua risposta arriva in un sussurro: – No, non ce lo vedo affatto. Ecco. E adesso che facciamo? 49. Entrò nella stanza rosa di soppiatto, come un ladro. Pur trattandosi di casa sua, quello non era il suo territorio. Erano molti giorni, ormai, che non vedeva la figlia nemmeno di sfuggita. Le notizie fornitegli da Apuleio, in un certo senso lo tranquillizzavano: la ragazza non mancava un appuntamento e aveva fatto passi da gigante. Ma erano troppi giorni lo stesso che non riusciva nemmeno a vederla chiudersi una porta alle spalle – l’immagine più frequente che aveva di lei. Non era in casa nemmeno stavolta. Accese la luce e affrontò a occhi socchiusi la sottile lama di dolore e imbarazzo che ogni volta gli provocava il cattivo gusto di quell’arredamento. Dopodiché, trovandosi solo e non visto nella stanza della sua giovane enigmatica figlia, senza niente di più urgente cui dedicarsi, fece ciò che qualunque altro genitore moderno e liberale avrebbe fatto al posto suo: cominciò a frugare. La roba di Dorotea era sedimentata in un ordine personale imperscrutabile, la cui stratificazione geologica, però, rivelava le diverse ere della sua vita. L’età degli orsacchiotti di peluche era stata seguita da quella dei libri di favole, che aveva lasciato il posto ai dinosauri di gomma, poi spazzati via dall’adolescenza. Questa nuova era aveva imperversato a lungo col suo carico di maquillage scadente omaggio di riviste femminili e zainetti di varie fogge e misure (compreso un revival malinconico dell’era del peluche col ritorno di Winny-the-Pooh travestito da borsetta). Proprio il borsello plantigrado gli riservò una sorpresa. Ne aveva violato il pancino con lo zip più per curiosità dell’oggetto e della sua stupidità, che per indagarne il contenuto. Si ritrovò invece in mano un ritaglio di giornale. L’articolo parlava del suicidio di una giovane donna di nome Fanny Globo, il cui corpo era stato ritrovato da una sua amica nella sede di un fan club di Daryl Domino. Il nome non arrivò subito. Rimase a galleggiare per qualche secondo nella testa di Ganimede, fino a che i suoi occhi non ebbero incontrato anche quello di Domino. A quel punto, il nome si trasformò in un volto. Occhi verdi, questa fu la prima immagine, enormi. Tranquilli e acuti, quegli occhi, come quelli di un gatto. Sottili rughe di concentrazione sulla fronte e corti capelli biondi. Fanny Globo. Amica di sua figlia. Condividevano la passione per D.D., al fan club. Amica. Fan club. Cristo. Rilesse l’articolo e capì: l’aveva trovata Dorotea. In un bagno di sangue, mentre lui… dov’era lui? Dove cazzo era lui? Come cazzo era possibile che non riuscisse a ricordare niente della propria vita senza dare un’occhiata all’agenda? Proseguì nella lettura fino al punto in cui il giornalista, basandosi sul contenuto della lettera lasciata dalla suicida, ipotizzava che uno degli interventi di Daryl Domino potesse aver contribuito all’insana risoluzione. Ganimede scivolò lento e pesante a sedere per terra, la schiena appoggiata al letto di sua figlia, la mano a massaggiarsi la fronte panoramica. Come aveva detto Lorenzo Morgan alla festa? Gli aveva indicato un gruppetto di ragazzi – programmatori, o qualcosa del genere – Le dirò un segreto su di loro, aveva detto. Conosce Daryl Domino? Quel freak che appare e scompare dalle frequenze televisive dicendo cose strane? Ha un successo e un’influenza sui giovani che non si immagina neanche. Ganimede ora, guardando il poster di Domino in camera di sua figlia, se l’immaginava benissimo. Ebbene, D.D. non esiste. Se lo sono inventato quelli lì. E sa la cosa fantastica? Lo fanno solo per divertirsi, non ci guadagnano un soldo. Ma adesso la loro società è diventata una mia società, e per quei giovanotti è giunta l’ora di crescere. Un gioco. Uno scherzo. Un affare. Che possono far molto male. Impilate sulla mensola accanto al videoregistratore, le cassette contrassegnate dalla sigla D.D. e da una data sembravano invitarlo. Ganimede si alzò, vincendo un’improvvisa spossatezza febbrile, e ne prese una. A caso. 50. – Inutile nasconderlo, Dorotea, o girarci attorno: i risultati che stiamo ottenendo sono soddisfacenti. Non sei una stupida – anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario – dunque te ne sarai già accorta da sola. Il piccolo uomo calvo di nome Apuleio parlava a raffiche precise come sempre. I tendini del collo asciutto guizzavano rapidi in sequenze che gli riempivano e svuotavano il colletto della camicia. Giallino e logoro il colletto, a fare pendant con la lucida consunzione dell’abito marroncino che Apuleio deformava, più che indossare, con la magra insufficienza del suo corpo. – Dorotea, guarda che mi sono lasciato andare a un elogio per sollecitare maggiore entusiasmo da parte tua. Non certo per farti rilassare. Per cui smetti di osservare il modo in cui sono vestito e di fare sarcastici commenti fra te e te, per favore. Non ci si poteva nemmeno provare con quel piccolo bastardo; ti leggeva nel pensiero. – Come ti ho già ripetuto infinite ma non sufficienti volte, logica concentrazione sintesi e velocità sono i quattro cardini del pensiero vincente. Sei molto migliorata in tutti e quattro, è vero, ma nel tuo approccio – e dunque nei tuoi risultati – distinguo ancora un’insistente forma di personalizzazione. Come se cercassi sempre di rendere riconoscibile con un marchio ogni cosa che fai. Questo andrà bene per le rock-star, ma non qui. Qui devi essere asettica, non c’è spazio per l’interpretazione. Nei test Q.I. la risposta buona è sempre e solo una. Uguale per tutti. Sforzati di essere uguale anche tu. Non prenderlo come un insulto alla tua unicità. Concetti come Unicità e Originalità sono la consolazione insipida dei mediocri e degli incapaci. Perdenti che nascondono la loro inadeguatezza dietro la maschera della diversità. Lasciale ad altri queste scuse da quattro soldi. Il predicozzo aveva chiuso la lezione, e Dot era potuta andare a vomitare in pace per i fatti suoi. MisterVega. MisterVega. MisterVega. Questo nome idiota comincia a ossessionarla. Continua a vibrare e a lampeggiare imperterrito sullo sfondo delle palpebre chiuse mentre lei si stropiccia gli occhi arrossati dalla lunga esposizione allo schermo a cristalli del portatile. MisterVega. Ne è disgustata in modo sottile. È seduta nella penombra del fan club, che ormai frequenta con più assiduità di casa sua, nonostante le macchie sul pavimento che non vanno via, o forse proprio per quello. Legge e rilegge i dialoghi elettronici della sua amica con lo sconosciuto. Il fatto di averli sott’occhio tutti insieme, di poterli leggere e interpretare in modo unitario e in tempi brevi, permette a Dot un’analisi più fredda e precisa. O almeno così crede. E quello che le si snoda davanti non è altro che un gioco di seduzione. Volgare e lampante nella sua banalità. Scoperto per chiunque, tranne che per il suo obiettivo finale. Per la sua preda. Per Fanny. Il tipo ci sa fare, questo è certo. È entrato piano, bussando con educazione. Ha fatto capire di non essere una minaccia, di non essere pericoloso. Il tipo dice di essere timido, finge di vergognarsene e poi finge di aprirsi e di ammetterlo. Il tipo recita la parte del coniglietto bagnato, il che con le donne, almeno all’inizio, è una garanzia assoluta di successo. Poi si allarga. Fa lo spiritoso, si schermisce ma diventa più audace. Il tipo non dice mai molto di sé, non è questo il suo modo di guadagnare fiducia. Il tipo dà consigli. Usa battute scopiazzate da film di serie B. Il coniglietto ha lasciato pian piano il posto all’amico saggio e posato. Il tipo, che prima chiedeva empatia e protezione, adesso infonde sicurezza. È una marcia a tappe forzate talmente chiara che, se Fanny ci fosse ancora, Dot avrebbe voglia di prenderla a schiaffi. Non essendoci più Fanny, però, è il tipo che deve pagarla. Fanny si è scoperta, ha esposto le sue parti vulnerabili con una semplicità che fa rabbia a Dorotea. Fragilità, insicurezza, inquietudini, insofferenze, tutto l’armamentario emotivo al completo, sfoggiato dopo solo una decina di messaggi con uno sconosciuto. Tutto quello che lei, amica del cuore, aveva dovuto intuire, percepire dalle sfumature, dai silenzi, dagli sguardi. Tutto spiattellato via internet al primo stronzo. La calma degli occhi di Fanny, la fermezza della voce di Fanny non trovano riscontro in quelle parole scritte in Arial a corpo 10. Con la massima naturalezza, invece, il tipo dispensa pillole di umorismo e buon senso cinetelevisivo, in un crescendo di confidenza che approda, c’era da aspettarselo, a un appuntamento. Il tipo è abile anche in questo: dopo aver scoperto che vivono nella stessa città (segno del destino), induce Fanny a chiederlo lei, il rendez-vous. E ha la faccia tosta di aggiungere un non sono sicuro che sia una buona idea, ma anch’io non riesco a frenare la curiosità. Faccia di culo. Il messaggio in cui si scambiano le coordinate per vedersi a pranzo il giorno dopo (ristorante italiano e giornale in mano) è datato 5 novembre. Ed è anche l’ultimo. Fanny morirà il 6. Il tipo ha fatto un bel capolavoro. Il tipo è in gamba. Quando Dorotea lo troverà, gli farà sputare ogni sordido, squallido particolare di quell’incontro, e lo farà pentire di qualunque peccato abbia commesso. Al tipo. Non esistono ospedali nella Città Perfetta, perché non permettiamo a nessuno di star male. Le nostre strutture sanitarie le chiamiamo Alberghi della Salute, perché da noi non ci si ricovera. Si va in vacanza. Da un messaggio pubblicitario della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 51. Sto quasi per uscire dal piccolo supermercato proprio sotto il palazzo della Simpliciter, l’oasi del consumo spicciolo in mezzo alle grigie colonne della finanza, dove distratti broker acquistano snack che non avranno il tempo di consumare in pause pranzo destinate a saltare. Ho fatto scorta di lattine di roba fresca frizzante e analcolica e tiro su le sporte, quando me lo vedo passare davanti. Il Seboso Sebastian, prima di voltare l’angolo, si guarda attorno con fare disinvolto, ma non mi vede. Lo seguo. Non so bene perché. Ha un curioso trotterellare, appena claudicante e con le spalle curve. Una specie di grosso gatto satanico maltrattato, che si aggira guardingo per il quartiere degli affari. Da quando mi ha fatto la strana rivelazione dei microfoni spia, troppe cose sono successe, e troppo brutte. D’improvviso zompa all’indietro sul marciapiede, per evitare un’auto che ha accelerato e all’indirizzo della quale borbotta un probabile vaffanculo. Mi tengo a mezzo isolato di distanza e dunque non posso esserne sicuro, ma il suo modo di gesticolare è brusco ed eloquente. Prima di arrivare all’attraversamento successivo, piega deciso in un vicolo alla sua destra. Devo affrettare il passo per non rischiare di perderlo. Il vento freddo sotto la maglietta mi fa rimpiangere l’estate di San Martino, che si è alla fine arresa. Il vicolo mi offrirà maggior riparo; mi ci butto con sollievo. – Ciao minchione! – Vengo agguantato per un orecchio e circondato da un sentore di borotalco. Sebastian ha saldamente afferrato il mio lobo destro e per giunta mi ha infilato un dito nel padiglione auricolare. Sorride bonario e si porta il dito indice dell’altra mano al naso: – Schhh! Che ora prendiamo anche l’altro. Dopo un paio di secondi che mi servono per apprezzare l’assurdità della situazione (catturato per l’orecchio da un panciuto e profumato uomo del mistero), la scena si ripete. Qualcuno si fionda nel vicolo e viene artigliato al volo per l’orecchio da Sebastian. – Ed ecco il minchione numero due! Che c’è, ragazzi, vi annoiate a giocare al computer? Meglio guardie e ladri? Fa due passi, tenendo ancora le sue prede per i lobi – una posizione alquanto imbarazzante– e così posso riconoscere nel minchione n. 2 le arrossate fattezze del Conte. Dopo averci stropicciato le orecchie e spazzolato il retro del collo con schiaffetti paternalistici e compiaciuti, ci conduce fuori dal vicolo, liquidando il nostro ridicolo pedinamento con un: – Andiamo, va’ –. Senza pretendere chiarimenti. Camminiamo per un centinaio di passi mentre Sebastian continua a fare facile umorismo sulle nostre doti investigative, ridacchiando e abbattendoci poderose manate sulla schiena. Poi si ferma davanti a un’agenzia di scommesse, bofonchia un brusco: – Aspettatemi qua, – e s’imbuca dentro. Ci guardiamo. – Perché mi hai seguito? – chiedo. – E che ne so? Ero sceso per dirti di prendere anche dell’acqua e ho visto che ti allontanavi. Stavo per chiamarti, ma poi mi sono accorto che stavi seguendo il Seboso, così ti sono venuto dietro. – Si vedeva così tanto che lo seguivo? – Sembravi un cartone animato della Pantera Rosa. Ma tu, piuttosto, perché gli andavi dietro? – Non ne sono sicuro. L’ho visto allontanarsi e l’ho seguito. D’istinto. Tutta quella storia dei microfoni e di Max, immagino –. Non mi sento tanto furbo, in questo momento. Sebastian ricompare in mezzo a noi, appoggiandoci le pesanti braccia sulle spalle. Volta il suo faccione sorridente a destra e a sinistra, ci guarda coi suoi occhi azzurri. – Allora, minchioni, dove si va? – Giocherella, passandosi fra le dita una grassa mazzetta di banconote. – Ho fatto una vincita discreta, oggi. Posso offrirvi da bere dove volete. Le rughe delle nostre fronti formano due punti interrogativi. – Ehi, guardate che scommettere in queste agenzie è legale, cosa credete? – Si ingrugna nel suo doppio mento e aggrotta le sopracciglia in una bambinesca espressione offesa. Le distende subito dopo. – Su, vi porto io in un posto, o qui facciamo notte. Il posto scelto da Sebastian è uno degli strip bar che stanno al confine ovest del distretto degli affari e che delimitano una zona molto vicina, ma molto diversa. Gli shops vengono corredati dal prefisso «porno», i cinema diventano equivoci, le banche si trasformano in banchi dei pegni e le austere compagnie di assicurazioni che ti intimidivano nell’isolato precedente lasciano il posto a discutibili agenzie di collocamento per modelle, a cui non affideresti mai tua figlia. Lampi di luce rossa e blu elettrico fendono l’aria di un ambiente altrimenti buio. L’atmosfera ha quella immanente e densa pesantezza dei locali che funzionano ventiquattr’ore ore su ventiquattro, aria che non viene mai cambiata e sedie che non finiscono mai a gambe all’aria sui tavoli dando respiro al pavimento. Proiettati in un poliziesco di serie B, con doveroso giro turistico nel sordido mondo del sesso a pagamento. Sebastian qui è di casa, si vede lontano un miglio. Saluta le ragazze con sanguigna familiarità, distribuendo generose palpate a destra e a sinistra. Manco a dirlo, ci conduce a un tavolo proprio sotto la passerella della lap dance. Questo tipo si fa più interessante ogni minuto che passa. Ordina senza chiederci tre cocktail che non ho mai sentito nominare, e affonda la manotta nella boccia delle arachidi. Ci guarda sorridendo. – Non c’eravate mai stati qui? Io ci vengo da quando non avevo nemmeno l’età per venirci. Forte, no? Ha molta più classe della media dei locali da strip! – … – … – Va bene, va bene, immagino che non abbiate molti termini di paragone in questo campo. Ma non fa male cambiare ogni tanto. – Senti, scusa per prima. Non so nemmeno perché… – Mi interrompe subito con un gesto della mano. – Sì sì, lo so, mi hai visto per strada e mi hai seguito d’istinto. Nessun problema. Andiamo al sodo, piuttosto –. La sua placida onniscienza comincia a disorientarmi. Inizia il numero di lap dance. È il turno di una bruna con capelli lisci lunghissimi e occhi truccati all’egiziana. Questa roba non ha niente a che vedere con la sensualità morbida di uno spogliarello. Le ragazze arrivano in scena già completamente nude, fatta eccezione per un perizoma visibile solo al microscopio elettronico. Ballano veloci e atletiche sulle note di musiche molto aggressive, la pelle brillante di polvere dorata adesiva, ti sbattono a quindici centimetri dalla faccia le loro forme perfette per un paio di minuti, e poi scappano via, per fare la stessa cosa nel locale accanto. Il Conte fa sforzi sovrumani per staccare gli occhi dai glutei marmorei della figliola, con poveri risultati. Si becca una raffica di schiaffetti sotto l’orecchio da Sebastian, che lo mazzuola a ritmo di musica. – Ehi bimbo, so che è difficile le prime volte, ma cerca di prestarmi attenzione per qualche secondo. Tanto questa fra venti minuti è di nuovo qua. – Scusa –. È la prima volta che vedo il Conte in imbarazzo. – Innanzitutto volevo dirvi che mi dispiace per quello che è successo a Max. Forse questo non è il posto più adatto per fare le condoglianze, ma… – Non preoccuparti, è gentile da parte tua… – Non ho ancora finito. So come vanno queste cose, non ci si rassegna. Impossibile accettare che un tipo che conosci così bene abbia deciso di scendere dalla giostra senza nemmeno salutarti. Calano le ombre del sospetto, non può averlo fatto, e cose così. Cazzate. Elaborate il lutto, piuttosto, e indirizzate la vostra energia verso qualcosa di più utile. Il Conte e io ci guardiamo negli occhi. Stupiti. La musica e le curve della ballerina sono lontane anni luce. Davanti a noi, una versione tarchiata e paciocca di Oscar Wilde ci fissa attraverso l’assoluta trasparenza degli occhi azzurri. Il Conte reagisce per primo: – Senti un po’, ma tu chi cazzo sei? Il bambinone finge stupore: – Ragazzi, sono sempre Sebastian, il vostro vecchio Seboso Sebastian –. Si porta le mani al petto con gesto teatrale e pone l’accento sul suo nomignolo, che conosce senza che nessuno lo abbia mai usato in sua presenza. Ci sta ricordando i microfoni. Aveva detto di averli piazzati solo in ufficio, ma ci ha mentito, visto che conosce a perfezione il contenuto della nostra conversazione di ieri da Ken. Ci sta dicendo che ci sono molte cose che non conosciamo. Ci sta sfidando. Insisto: – E poi com’è che l’altro giorno, nel bar, hai fatto tutta quella manfrina per non dare nell’occhio, mentre adesso te ne freghi? Non hai più paura che qualcuno della Morgan ti veda a spasso con noi? Sghignazza alzando le mani: – Chi ti dice che non volessi farmi vedere da quelli della Morgan? Guarda che il grande vecchio in persona si è preoccupato di dirci che dobbiamo familiarizzare con voi. – E allora cosa…? – Va bene, Giona, lascia perdere –. Prende un’ultima abbondante manciata di noccioline alzandosi, e vuota il bicchiere quando è già in piedi. – Pensateci su… davvero. Non buttate il vostro tempo appresso ai fantasmi. Focalizzate la concentrazione sul modo migliore di tirarvi fuori da questa situazione. Se avete qualche dubbio, sapete dove trovarmi. Ci vediamo, minchioni. Abbandona il locale saltellando, non prima di aver fatto mezzo giro di danza con una cameriera tastandole appena il culo. Io e il Conte rimaniamo a fissarci. Come due minchioni. 52. Quando Gesù ritornò sulla Terra per la seconda volta, a scanso di equivoci, arrivò in pompa magna, con tutta la sacra iconografia standard. Arcangeli maestosi con spade fiammeggianti a fargli da scorta e fiorire di accordi celestiali dalle arpe di graziosi cherubini che svolazzavano qua e là. Il plettro di Daryl Domino accarezzò con leggerezza le corde della Stratocaster, che miagolarono come un gatto. Dopo gli iniziali momenti di panico, scatenati da chi gridava e inneggiava al Giudizio Universale, Cristo si affrettò a dire che non era venuto per giudicare, ma per spiegare, ascoltare, comprendere e ancora spiegare. Manco a dirlo finì su tutte le prime pagine di giornali e telegiornali, invitato a ogni talk show e programma d’inchiesta. Real Tv mandò e rimandò centinaia di volte le scene del suo atterraggio all’aeroporto, riprese da un videoamatore presente sul luogo dell’Avvento. Il reality show in cui fece il suo mea culpa, ammettendo, gli occhi lucidi fissi nella telecamera, che la prima volta sulla Terra aveva commesso un errore di valutazione, registrò il picco di ascolti e share più alto dell’intera epoca della televisione. Cristo ammise che duemila anni prima era stato troppo criptico e filosofeggiante. Aveva creduto che l’uso di parabole metaforiche fosse sufficiente per rendere chiaro il suo insegnamento. Sbagliava. Si era concesso a un elitario estetismo, nelle cui pieghe si era insinuata l’incomprensione e la manipolazione della sua parola. Una parola che era divenuta un’arma pericolosa per giochi di potere e di violenza. A costo di sembrare banale, a costo di usare un linguaggio basso e commerciale, a costo di svendersi, promise che ciò non sarebbe più accaduto. Giorno dopo giorno si sottopose a ogni singola, stupida richiesta di chiarimento; accettò di inframmezzare il suo nuovo catechismo con piccoli miracoli per tener desta l’attenzione. Dopo qualche tentennamento, concesse di praticare una resurrezione (una sola, però) di un fortunato scelto a caso fra le giovani vittime degli incidenti stradali del sabato sera. L’estrazione del nome sarebbe stata collegata alla lotteria di Capodanno. La seconda settimana, come dissero i direttori di rete, ci fu un calo d’ascolti fisiologico. Qualche intellettuale, dalle pagine di riviste con culi panoramici in copertina, condannò la macchina dello spettacolo, che riesce a fagocitare ogni cosa, persino Gesù Cristo. Il primo che ebbe l’idea e il coraggio di muovergli una critica diretta fu un noto tuttologo televisivo, che aveva fatto fortuna proprio per la sua fama di fustigatore senza paura e senza padroni: – Sì, va bene l’amore per il prossimo e che siamo tutti uguali eccetera. Però è facile parlare quando sei Dio, scusa. Vaglielo a dire all’operaio che sta al minimo sindacale quando è fortunato, e vive in un casermone di periferia, si alza alle 5 per spaccarsi la schiena tutti i santi giorni e poi scopre che l’albanese sotto casa spaccia eroina a suo figlio. Vaglielo a dire a quello lì di amare il prossimo, di rispettare il diverso. Vedi cosa ti risponde! E ci ha ragione pure lui. Il passo successivo fu capire se G.C. fosse di destra o di sinistra, e appena capito che non era né l’uno né l’altro, né tantomeno democristiano, iniziò il tiro alla fune. – Diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, mi scusi, questo l’ha detto lei. Sono dispostissimo a concedere che uguaglianza, libertà (e liberismo) sono valori assoluti, ma una cosa è il mondo spirituale e un’altra il mondo reale. Non si può certo, così a cuor leggero, abolire il concetto di proprietà privata nel mondo moderno. Apprezzo la forza d’impatto dello slogan del cammello attraverso la cruna dell’ago, ma, a parte che i regimi comunisti hanno fatto la fine che hanno fatto, bisogna pure non esasperare le tensioni sociali. Tolga alla gente luce, riscaldamenti e bancomat per una settimana; li metta alla prova e vedrà. Guerre, fame, malattie, carestia, sopraffazione, questi saranno i risultati. Mi sembra giunto, invece, il momento di stemperare i toni polemici e di agire in modo responsabile. Dobbiamo fare i conti con la natura dell’uomo, con l’istinto di conservazione… E dall’altra parte: – Sono perfettamente in linea con lei sul fatto che il governo di un Paese non può in alcun caso assomigliare alla gestione di un’azienda. No allo stato azienda. Ma, proseguendo nel solco di questo ragionamento, devo anche dire No allo stato Regno dei Cieli. Non abbiamo del resto superato a fatica l’utopia marxista e la sbronza ideologica dei Settanta per ricadere nella rete di un’altra utopia ancor più pericolosa. Parliamoci con franchezza, Gesù, il libero arbitrio va salvaguardato a tutti i costi. Se non sbaglio questa è stata anche la vostra politica di sempre. E poi non dimentichiamoci le minoranze religiose: la sua apparizione ha costituito una fonte di squilibrio per i credenti di altre confessioni, e comporta il rischio di porre fine alla diversità, alla multietnicità e al multiculturalismo che rendono così ricca la nostra società. Io apprezzo e rispetto il suo pensiero, ma va inserito in uno specifico orizzonte, va contestualizzato. E poi, insomma, le sembra giusto che da voi si comminino pene come l’inferno senza sottoporre l’imputato a un processo che abbia i crismi della civiltà giuridica? Nessuna assistenza legale, nessuna parità fra accusa e difesa, nessun doppio grado di giurisdizione, nessun controllo fra poteri istituzionali, l’accentramento come regola, indicibili sevizie ai detenuti, roba che Amnesty International, qui, scatenerebbe un putiferio. Andiamo, siete a livello di dittatura sudamericana! Il papa lo incontrò due volte, la prima in colloquio privato e la seconda insieme a Bono Vox. Commozione e grandi abbracci per tutti fino a che il segretario di stato non li interruppe per il cambio di turno. In anticamera attendevano una delegazione di Are Khrisna, Mandela e il clone di Bob Hope. Nessun esponente della Chiesa cattolica accettò mai di avviare con lui un dibattito dottrinario pubblico. Si limitarono sempre a commentare e a interpretare le sue parole da lontano, sorridendogli con benevolenza e lontana malinconia come a un figlio cretino. Alla ventesima settimana, nessuna emittente a diffusione nazionale lo invitò più. Finì a ripetere il suo messaggio a una radio libera, perché altrove non lo chiamava più nessuno. Un giorno andò a trovarlo Giovanni Battista, gli diede una pacca sulla spalla e disse: Vedi com’è difficile predicare nel deserto, tu che mi prendevi tanto per il culo? Daryl Domino fissò la telecamera per pochi, intensi secondi, e poi disse: – È inutile che ridi. Sei così anche tu. L’effetto neve in cui si dissolse la sua immagine venne accompagnato dalla prima neve dell’anno, che cominciava a cadere proprio in quel momento e che Ganimede, attraverso la finestra della stanza di sua figlia, guardò senza vedere per parecchi minuti. 53. Dorotea apre la porta senza fare il minimo rumore, appena quel tanto che basta per scivolare nella sala d’ingresso. Nel suo caso «quel tanto che basta» è circa mezzo metro, visto che Dot ha preso la silhouette del papà. Attraversa due corridoi e il soggiorno senza accendere la luce; i movimenti fluidi ma controllati per evitare ostacoli imprevisti e scricchiolii delle suole degli anfibi. Arriva alla sua stanza, ma si ferma sulla soglia: un chiarore azzurro intermittente e una voce conosciuta la bloccano. Spinge piano la porta, nessun cigolio degli stipiti. Un uomo guarda la televisione, assorto. Respiro pesante ma irregolare: non sta dormendo. Dorotea si fa indietro con un gesto di stizza. Merda, papà! E papà è proprio lì, nella cameretta rosa, mezzo sdraiato per terra con la schiena appoggiata al letto di sua figlia, in una posizione che stazza ed età non gli concedono più di assumere con naturalezza. Gli occhiali da lettura, assicurati al collo con una cordicella, poggiano sul pancione e vanno su e giù al ritmo rauco del respiro. L’ultima persona che avrebbe voluto vedere; da troppo non torna a casa, e non gli parla da ancora di più. Chiaro che lui è lì per questo: un ennesimo patetico tentativo di comunicazione intergenerazionale. Dot ci ha rinunciato molto tempo fa. Ha scelto di comportarsi quasi bene, di non fare giochetti autodistruttivi e di accettare passiva «quello che papà sa essere il meglio per te, figlia mia», proprio per darci un taglio. Per non dover discutere cercando intese impossibili e inesistenti punti di contatto. La mediazione di sua madre è ormai lontana, il resto è fatica sprecata. Doveva rientrare per disfare il letto e seminare in giro un po’ di segni di vita. È la sua tattica di prevenzione paterna: lasciare le cose in modo da sembrare appena uscita, un libro aperto, lo stereo acceso, un biglietto. Così il vecchio non teme rapimenti o schianti frontali e le probabilità di incontrarsi si abbassano quasi a zero. Il che rende tutti poco felici e poco contenti, ma almeno evita di prendersi per il culo. Invece papi aspetta al varco e… Cristo, ha messo su una cassetta di Daryl Domino. Il tentativo di accostarsi agli interessi di Dorotea è talmente scoperto e maldestro da risultare quasi tenero. Il testone pelato ondeggia piano, seguendo la musica della chitarra di Domino. Sta cercando di capire, di condividere. Fa violenza a se stesso e ai suoi gusti (di suo arriverebbe massimo ai Beatles, il papi), si impegna. Questo non lo si può negare. E va nella direzione sbagliata. Non è cattivo. Mai stato, anzi. Buono e generoso, invece, anche se a modo suo. Scontroso, quello sì, brusco, senza modi. Non proprio insensibile, ma inopportuno. Impacciato e troppo ansioso di recuperare i suoi molti momenti di assenza. Terrorizzato nell’affrontare da solo la femminilità adolescenziale della figlia. Senza mai capire. Prova tu a discutere con un padre che chiama il mestruo quei tuoi affarucci. Dorotea immagina di avvicinarglisi piano per guardarlo bene in faccia senza che lui se ne accorga. Ma in realtà si sta allontanando, inghiottita dal corridoio, e si chiude ancora una volta la porta alle spalle. 54. Ricapitolando. Il nostro destino professionale è nelle mani del Conte Dracula dell’alta finanza, che minaccia di succhiare tutto il sangue della nostra – di quella che era la nostra – società, abbandonandone poi la carcassa in pasto ai cani: l’offerta al pubblico delle azioni Simpliciter inizierà fra pochi giorni. A meno che non gli mettiamo a disposizione Daryl Domino. Il particolare che Morgan tende a trascurare è che noi D.D. non lo abbiamo mai venduto a nessuno, né ci passa per la testa di farlo. Tantomeno dopo che il suicidio di quella ragazza ci ha aperto gli occhi sul suo potenziale di suggestione. Se Domino finisce nelle mani sbagliate per colpa nostra, cos’altro avremo sulla coscienza? Come se non bastasse, il vecchio vampiro potrebbe anche essere responsabile dell’eliminazione fisica di Max, quello fra noi che aveva manifestato la più aperta ostilità al progetto di Morgan (se vogliono Daryl Domino mi devono ammazzare… come minimo). Il sospetto si è ormai insinuato nonostante i consigli ambigui di Sebastian, che ha escluso l’eventualità dell’omicidio. Il Seboso può dire quel che vuole, ma il dubbio resta. E intanto che facciamo? Niente facciamo, proprio un bel cazzo di niente. Subiremo in silenzio le strategie ciniche e forse criminali della potente multinazionale. Cosa potremmo fare, del resto? Ci vorrebbe un kamikaze. A parte il mio nome, e tutto ciò che esso mi ha comportato in termini di traumi causati da un’eccessiva esposizione al sarcasmo di crudeli coetanei, ho avuto un’infanzia felice. Cresciuto e accudito da tipica famiglia borghese media. Casa media di media periferia, con giardino medio, cane medio, auto media, conto in banca medio. Cultura media, opinioni medie e medie aspirazioni. Mio padre produce e vende componenti per frigoriferi. Nemmeno frigoriferi interi, cazzo, solo componenti. Mia madre gli fa da segretaria, vedi che allegria. Tutto sommato, non credo affatto che sia stato un male. Quando non hai la maturità per cogliere la differenza, l’eccesso, qualunque direzione prenda, è molto più pericoloso della mediocrità. Difficile che questa generi prodotti notevoli, è vero, ma ciò vale tanto per le cose buone quanto per quelle cattive. Ammetto che non era proprio quello che un ragazzino può volere dalla vita. A dodici anni avevo rinunciato all’idea di diventare l’Uomo Ragno; a quattordici le mie aspirazioni al football professionistico erano state già brutalizzate; ma a sedici, Cristo, doveva pur esserci qualcosa di più della prospettiva di un livello C3 nell’amministrazione pubblica e la settimana corta. Avrei voluto la fluidità di movimento con cui John Travolta fa volteggiare la sua partner da un braccio all’altro sulle note di More Than a Woman, per esempio. Alle feste sarebbe stata molto più utile degli scatti da cicogna di cui ero capace io. Ambivo al menefreghismo e alla spregiudicatezza allegra che ti rendono il motore immobile di ogni gruppo di amici, e invece stavo al traino. Desideravo una voce calda e ironica per far vibrare gli angoli più remoti e umidi delle mie ragazze, ma non disponevo né dell’una né delle altre. Riuscivo solo a mostrare quella scontrosità taciturna che attira una donna su cento e convince le altre novantanove che sei un ritardato mentale antipatico. Volevo l’unicità a cui non ero stato educato e di cui non mi sentivo capace. Eccome se la volevo. L’abilità con i computer, sul versante fascino misterioso, mi fu d’aiuto, ma non poteva sempre bastare. Verso i diciassette anni mi diedi alla politica attiva di estrema sinistra. Tappa obbligata: se non riesci a risolvere i tuoi problemi, prova con quelli dell’umanità. Passare dal ruolo di vittima a quello di salvatore ha un suo effetto terapeutico, e se non sei proprio ributtante, fra occupazioni e picchetti, qualche scopata la rimedi. Il cinismo però è arrivato dopo; all’epoca ci credevo, o almeno credevo di crederci. Tutta roba sacrosanta, per carità, comprese le torride assemblee in scantinati gremiti con temperature sopra i trentacinque e nessuno che si toglie la kefia, i seminari autogestiti su emerite puttanate, la ragionata autocritica di un movimento che non si muoveva, il riadeguamento del pensiero marxista all’evoluzione del conflitto di classe. Proprio in quel periodo mi capitò l’occasione di buttare la mia vita nella spazzatura, e la colsi al volo. Erano appena le sette di mattina del non proprio delizioso nono mese del mio ventesimo anno, quando le agenzie giornalistiche batterono la notizia che le unità antiterrorismo dei quattro paesi più industrializzati avevano individuato l’identità di un famoso terrorista internazionale nascosto nella mia città. La sua cattura era questione di ore. Venne diffusa anche una foto un po’ sfocata, ma abbastanza chiara. Per uno strano inspiegabile caso, il volto del delinquente era identico al mio (il che certo dipendeva dal fatto che si trattava di una foto scattata a me, anche se non fra le mie migliori). Il capo della polizia locale, che conosceva sia me che mio padre, inviò una richiesta informativa urgente al comando dei servizi segreti militari e alla dirigenza nazionale dei servizi segreti civili. I rispettivi funzionari di turno, sia per l’ora mattutina e domenicale, che sconsigliava di importunare il meritato riposo dei loro comandanti, sia per l’assoluta mancanza di informazioni da dare, sia perché uno non diventa dirigente dei servizi segreti dando notizie a chiunque bussi alla porta, decisero entrambi di temporeggiare e rispondere in modo evasivo. Il suddetto capo della polizia, però, com’era lecito attendersi da uno che ama essere grintoso e reattivo persino in ore antelucane di giorni festivi, ruppe gli indugi: mirabile prevedibilità dell’attivismo fascista. L’indice di priorità del superpoliziotto locale, in quel momento, vedeva al primo posto il pattugliamento serrato di una fabbrichetta di alimenti transgenici nell’esalante estrema periferia cittadina. La fabbrichetta aveva ricevuto ripetute minacce da sedicenti gruppuscoli ambientalisti decisi a impedire con ogni mezzo la produzione di semolino trattato con geni suini (cosa che rendeva molto resistente il semolino, ma curiosamente setolosi i suoi consumatori). Lo sceriffone, dunque, si sentì legittimato ad allentare le misure di sicurezza della semola porcella per concentrare la sua attenzione su di me, evitandomi di venire brutalizzato dai cattivoni delle squadre speciali, ma soprattutto anticipando quegli stronzi dell’antiterrorismo che si permettevano di pisciare nel suo territorio senza informarlo né chiedere permesso. Gli avrebbe fatto fare una bella figura di merda, a quelli. Il mio arresto si svolse in grande stile, con ammirevole spiegamento di forze e preventivo interessamento dei media. Una complessa operazione che comportò la distrazione di molti degli uomini prima adibiti alla sicurezza dell’industria alimentare. Disgraziatamente, membri non identificati dei suddetti gruppi ambientalisti approfittarono dell’indebolimento della rete di protezione che le forze dell’ordine avevano assicurato alla fabbrica. Anonimi emissari si introdussero negli stabilimenti, sfruttando proprio le vie di fuga lasciate sguarnite dagli agenti che in quel preciso momento, in tenuta da irruzione completa di passamontagna, inquadravano nei loro mirini laser le innocue finestre medio borghesi di casa mia. L’ordigno a basso potenziale esplose proprio mentre un sergente tozzo con la pelle di taleggio cercava di cavare, con scarsa educazione, informazioni dal frastornato sottoscritto. Il bilancio fu di nessuna vittima ma serissimi danni al reparto conservazione dell’industria alimentare. La notizia dell’attentato giunse alla stazione più o meno mentre uno dei fiancheggiatori arrestati (mia madre), sull’orlo delle lacrime, stava chiedendo invano per la seconda volta di interrompere l’interrogatorio per andare in bagno. Fummo rilasciati il giorno successivo, quando i comandanti di due diversi servizi di intelligence confermarono che non esisteva alcun fascicolo su di me, e che non ero mai stato ricercato o indagato per attività di natura terroristica. Allo stesso modo le agenzie giornalistiche, che quarantott’ore prima mi avevano descritto come il nuovo Carlos, pubblicarono una smentita, confermando che la «notizia» era stata infiltrata nei loro sistemi informatici da un hacker, e diffusa per sbaglio. Considerando che non avevo ancora grande esperienza in questo genere di lavoretti, devo dire che fu un bel colpo, con un’ottima previsione delle reazioni di esseri umani e sistemi operativi attaccati. Fu anche l’inizio della mia decostruzione. Dopo il fatto, gli ambienti politici in cui avevo trovato una dimensione mi tributarono segreti attestati di stima, e poi mi chiesero di non farmi più vedere «almeno per un po’». Se qualcuno avesse collegato i due eventi con prove tangibili, sarebbero stati dolori per tutti. E poi cosa volevo? Avevo agito per iniziativa personale, senza informare il comitato politico dei miei scopi, avvertendo solo poche ore prima la cellula operativa di tenersi pronta per agire l’indomani. Non ero affidabile. Come ci si può fidare di uno che sceglie con una tale leggerezza di farsi massacrare? Che rispetto può mai avere per gli altri se non ne ha per se stesso? Un fottuto cane sciolto. Sull’altro versante, seppure fra smentite e riabilitazioni giornalistiche, il sospetto di un mio coinvolgimento in attività poco chiare rimase in molti. Se si scomodano per arrestarlo di domenica mattina con le truppe scelte, i cecchini sui tetti e gli elicotteri di copertura, un motivo ci sarà, no? Certo, poi si copre tutto (il papà è amico della polizia), ma chissà cosa c’era sotto. Chissà. Un freddo sottile si diffuse attorno a me; un recinto di sospetto dal quale non mi si permetteva di uscire. Quanta paura possa fare il modo in cui ti guarda la gente, e quanto troppo vecchi possano all’improvviso essere i vecchi amici erano cose di cui non mi ero mai accorto prima. Alla diffidenza del mondo si sommò quella della famiglia. Nutrivano il sospetto che il loro piccolo genio del computer potesse aver avuto una parte rilevante nell’infiltrazione di quella maledetta notizia fasulla, ma preferirono ignorare l’argomento, dimenticarlo, riservare a me la stessa gelida cortesia che colleghi e conoscenti usavano con loro. Andai via di casa. Iniziò un tempo di kamikaze. Un tempo di incerte dolorose mutazioni, di ripetute liturgie chimiche e alcoliche notturne, di stordimento, di losche ma remunerative violazioni di sistemi elettronici su commissione. Il mio periodo blu, l’apnea contemplativa di un disfacimento che sembrava non riguardarmi. La stagione dell’inerzia mi portò infine a Ken. Fu lui a seguirmi, a cercarmi, a offrirmi e a convincermi di accettare la cosa migliore che mi sia mai capitata. Ora è di nuovo tempo di kamikaze. O meglio, come ci hanno insegnato i travestatistici, di Seppuku. Il sacrificio rituale, simbolico e fisico. A cui non mi sottraggo. Il ruolo di esca che mi è toccato in sorte. Se fossi un videogioco, sarei Asteroids, per chi se lo ricorda. Una minuscola navicella, persa nello spazio profondo, bersagliata da tutti i lati da micidiali meteoriti, che ruota su se stessa per forza d’inerzia e spara spara spara. – Basta! – urlo, e mi spingo con la poltrona girevole all’indietro, lontano dalla mia postazione. Il Conte alza la testa dal monitor. – Non ce la faccio a far finta che non sia successo niente. Non ci riesco –. Suona pomposo, ma dovrebbe andare. Bella sgrana gli occhi. Il Conte prova a ribattere: – Giona, credo mi sia sfuggito qualcosa… – Come fate? Dopo tutto quello che è successo, dopo che Max se n’è andato… l’unico fra noi che per una volta aveva fatto la scelta giusta. Bella è ancora a bocca aperta, mentre il Conte comincia a realizzare il significato della mia finta retorica e mi fulmina con lo sguardo. – Max non c’è più, ma io vi dico una cosa: finché sono vivo – e non ho intenzione di ammazzarmi – Daryl Domino rimane nostro. Non diventerà pascolo per nessuna multinazionale del cazzo. Mi dovranno sparare se lo vogliono davvero! 55. La mattina, incorniciata nel finestrino posteriore della grossa auto scura, scivolava via con insonorizzata indifferenza. Ganimede respirava piano contro il vetro del deflettore, facendosi scappar via dagli occhi, attimo dopo attimo, forme e colori senza trattenerli nella memoria. C’è sempre un momento in cui si prendono le decisioni che anticipa il tempo della scelta consapevole. A lui doveva essere successo più o meno a metà del secondo video di Daryl Domino, o forse ancor prima. Fare affari significa non poter sempre scegliere con chi dividerai la merenda. Questa regola Ganimede l’aveva imparata molti anni fa. È una buona regola; non è piacevole e non è giusta, ma questo non conta. Poi gli venne in mente un’altra regola, buona per i genitori, stavolta: non sacrificare mai tuo figlio all’altare delle aspirazioni che tu credi dovrebbe avere. Già già già. Casa dalle linee elementari. Rassicurante nella sua semplicità. La meravigliosa donna bionda è uscita da dieci minuti, con due marmocchi al guinzaglio, quando l’uomo scende in strada. Testa bassa e mani in tasca, si dirige verso la stazione della metro. Attraversa la strada proprio davanti alla grossa berlina nera, alla quale il grande uomo vestito di nero è appoggiato. La voce cortese ma autoritaria del grande uomo vestito di nero dice: – Mi scusi, – ed è come se avesse detto: «Fermati e stammi bene a sentire, ragazzino». Ken si riscuote dal torpore problematico di una mattina che avrebbe volentieri barattato con molte altre. Fino a quel momento. Ha già visto da qualche parte il grande uomo vestito di nero, ma non saprebbe dire dove. Il biglietto da visita che gli viene allungato non aiuta a chiarire: «Ganimede Borsch – Borsch Manifactures – Presidente». La voce di cuoio del grande uomo vestito di nero dice: – Se mi permette di accompagnarla in ufficio, vorrei parlare di affari con lei, – ma suona tale e quale a Sali e sbrigati! La portiera si schiude su un accogliente mondo di pelle profumata e sofisticati particolari ergonomici. Ken è perplesso e si volta per una frazione di secondo verso l’entrata della stazione. – Se preferisce possiamo anche parlare in metropolitana, ma credo che sarà più comodo in auto, – dice Ganimede sorridendo, mentre Ken sente distintamente le parole Monta o ti prendo a calci in culo. E Ken monta. Appoggiato-rannicchiato nell’angolo del sedile posteriore, subisce ancor di più la fisicità di Ganimede, che sembra occupare l’intero abitacolo anche se sta bene attento a non sfiorare, nemmeno per sbaglio, il suo magro interlocutore. – Non ci vorrà molto ad arrivare a destinazione, quindi mi perdonerà se sarò diretto. Lei ha un problema, io glielo posso risolvere –. La voce ha cambiato registro: meno autoritaria, più volitiva. Una voce che assorbe l’attenzione, che amplifica per dieci il senso logico delle parole. – Sono a conoscenza dei problemi di, diciamo, autonomia che i recenti rapporti instaurati con la Morgan Holding vi stanno causando. – … – Oltre a non saper bene cosa dire, Ken ha il fondato timore che la sua voce assomiglierebbe troppo a quella di Topo Gigio, se messa a confronto con quella del gigante che gli siede accanto. Quindi, per non sbagliare, sta zitto. – Ken? Posso chiamarla così? So che i suoi soci in affari lo fanno. Non si preoccupi di rispondermi; capisco che nella sua posizione stare zitti è una scelta ragionevole. Solo, vorrei essere sicuro che mi stia seguendo. Mi segue, Ken? – S…sì, credo di sì –. Cazzo, Topo Gigio preciso. – Bene. Sto parlando della vostra piccola società, la Simpliciter. Ma sto parlando anche di quello strano tipo che vi siete inventati… quello con la chitarra –. Lo sguardo di Ganimede è talmente intenso da lasciar quasi le impronte sulla pelle del suo interlocutore. – Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, Ken? – Sì, – dice Topo Gigio con voce impostata. – Ottimo, ascolti bene. Lunedì prossimo avrà inizio l’offerta pubblica delle azioni della Simpliciter. A ognuno di voi ragazzi verrà riservato un due per cento di titoli, mi sono informato. Lorenzo Morgan, per garantirsi il controllo della società, ne terrà per sé il venti per cento. Da quel momento, il vostro culo sarà nelle sue mani. L’ultima parola su ogni decisione spetterà al vecchio. La vostra fortuna o la vostra rovina dipenderanno dalla sua scelta di proteggere il titolo o di lasciarlo sguarnito… Io potrei anche aiutarvi a rastrellare più azioni possibile all’apertura del listino, per acquisire il pacchetto di maggioranza, ma servirebbe a poco: la Morgan Holding è troppo forte e le basterebbero un paio d’ore per riprendere il controllo. Anche se con uno sforzo riuscissimo ad accaparrarci il cinquantuno per cento delle azioni, sarebbe solo una questione di tempo. Pur di rovinarvi, Morgan sarebbe capace di mandare il titolo sotto zero. Stia sicuro che farebbe tutto il possibile, e per lui il «possibile» è un campo molto vasto. Ken prova la stessa spiacevole sensazione che avvertirebbe se qualcuno gli mostrasse una serie di polaroid di un suo intervento chirurgico ai genitali. Gli spilli di un acido sudore da stress gli trafiggono la pelle. Un po’ troppo presto stamattina per cominciare con le crisi d’ansia. – In tutto questo, però, c’è un aspetto positivo: siete un’azienda della new economy –. Ridacchia sornione. – Ciò vuol dire che in sé e per sé la Simpliciter non vale un cazzo di niente, a parte, è ovvio, il vostro cervello… ma non mi risulta che voi siate personalmente legati da un contratto in esclusiva con la Morgan Holding. – Temo di non seguirla più, Borsch –. Ken arrischia un commento per rallentare il moto del suo interlocutore e maledice la fretta che gli ha impedito di prendere il caffè. Cristo, otto e mezza, scelte decisive e neanche un caffè. – Chiedo scusa, non sono un grande oratore. Mi limiterò a dirle quello che faremo, sarà meglio. All’apertura del mercato dei titoli, lunedì, un certo numero di società di comodo da me controllate spazzoleranno azioni Simpliciter a più non posso. Purtroppo è tardi per mettere le mani sulle privilegiate, cosa che ci avrebbe facilitato il compito, ma questi sono particolari tecnici di cui mi occuperò io. L’unica cosa importante è che comprerò un grosso numero delle vostre azioni. Il titolo Simpliciter schizzerà in alto – essendoci Morgan dietro, lo farebbe comunque, in realtà. Con queste cazzatelle della new economy succede sempre così: prezzi alle stelle all’inizio, anche se l’azienda quotata non vale un centesimo del suo nuovo valore nominale. È la moda, cosa vuol farci? – Quando si sarà spremuto il titolo al massimo, farò vendere tutto, realizzando, spero, una notevole liquidità. A quel punto entrate in scena voi… e qui comincia la parte dolorosa. – Ecco, mi sembrava. – Vi dimetterete in blocco. Subito dopo la capitalizzazione delle azioni: il titolo andrà giù a piombo. La cosa buona è che potete farlo. La cosa meno buona è che pagherete alcune conseguenze. Numero uno… – Ganimede si afferra il pollicione della mano sinistra con la mano destra. – Numero uno: perderete le vostre azioni. Non c’è modo di salvarle vendendole prima, perché sono vincolate. Numero due: Morgan vi farà terra bruciata attorno. Nessun investitore sano di mente vorrà più avere a che fare con voi. Avrete salvato Daryl Domino, ma vi ritroverete in mezzo a una strada. – Bello, mi piace, e poi? Suggerisce un suicidio collettivo o l’internamento di gruppo in manicomio? Ganimede prosegue, ignorando il commento: – E poi entro in gioco io: l’unico investitore sano di mente pronto a darvi una mano, nonché metà del ricavato della vendita azionaria. Potrete metter su una nuova società… Ken sgrana gli occhi, incerto. – Ci pensi un attimo. A parte il vostro apporto intellettuale, cos’è la Simpliciter? Niente: dieci computer, quattro soldi di roialties per idee che invecchiano di settimana in settimana e un contratto d’affitto. Fine. Nessuna infrastruttura importante, niente di capitalizzabile. Fuffa. New Economy. Se trovate i fondi, nulla vi impedisce di continuare a fare altrove quello che facevate lì. – Certo, sarete troppo sputtanati per poter sperare di farvi rivedere in Borsa, ma avrete una nuova società identica a quella di prima, solo con un nuovo nome e qualche soldo in più. Oltre alla vostra riconquistata autonomia. Ora le piace di più l’idea? Ken si assesta meglio sul sedile e scopre che, posto in condizioni di stress e a contatto con una superficie poco assorbente, suda molto più di quanto gli piacerebbe pensare. A parte questo, l’idea non sembra affatto male. – Vediamo se ho capito. Lei vuole che noi lasciamo il «guscio» della Simpliciter in mano a Morgan per formare una nuova società con capitali derivati dalla speculazione borsistica sulle azioni della stessa Simpliciter, che lei ci metterebbe a disposizione. Col risultato di riprenderci la nostra libertà e la conseguenza di non poter mai più diventare ricchi e famosi quotandoci in Borsa. – Non avrei saputo dirlo meglio. – Ho una sola domanda da farle. – La prego. – Lei cosa ci guadagna che non guadagnerebbe in un qualsiasi altro affare meno rischioso di questo? – Buona domanda. Legittima –. L’omaccione annuisce più volte, sembra contento: – Purtroppo l’unica risposta che posso darle è che non lo so. In un’altra sede e con un altro grado di confidenza (che comunque non abbiamo) potrei forse spiegarle quali motivazioni mi spingono. Non certo cosa ci guadagno, perché non credo che guadagnerò nulla in ogni caso. – Allora, immagino che non avremo alcuna garanzia della sua buona fede. Ganimede allarga le mani: – No. Se mai un uomo d’affari può sembrare sincero, a Ken quest’uomo sembra sincero. – Un’altra domanda, mi scusi. Cosa le fa pensare che siamo disposti a questi sacrifici per salvare l’autonomia di Daryl Domino? Anche noi, in fondo, non ci guadagneremo niente. Un mezzo sorriso si allunga sul volto di Borsch: – Ho visto i video di Daryl Domino… Credo che lei sia arrivato, Ken. Ci pensi su, mi farò vivo. 56. Anche se il vicolo sul retro del Coffee Shop di Doktor Ghetto è un luogo virtuale, l’odore sembra reale. I simulatori olfattivi dei caschi R.V. di Dorotea e Tebaldo restituiscono una fragranza vaga e mista. Vapori di cucina ristagnanti da secoli: non è possibile riconoscere alcuna pietanza, solo un insieme che sa di organico e di unto, una specie di sudore fritto. La stradina è immersa nella semioscurità; ci si deve accontentare di una lampadazza ai vapori di sodio appesa alla porta di servizio di un locale distante qualche metro. Una luce itterica che scopre con malagrazia due bidoni colmi di rifiuti e una piccola festa di gatti spelacchiati. Poi si sfalda man mano, e sono proprio gli ultimi suoi brandelli che disegnano a carboncino gli avatar immobili di Dorotea e Tebaldo. Lo scanner laser della piattaforma virtuale, a cui sono collegati, ha disegnato le sagome dei due con un’approssimazione discreta. Nella rappresentazione grafica che ne risulta, sono ben riconoscibili, solo un po’ più sfilati e aguzzi nelle forme, cosa che giova all’aspetto di Dorotea e conferisce a Tebaldo una magrezza mistica. Senza alcun preavviso la porta sul retro del coffee-shop si socchiude. Nessuno però invita nessuno a entrare. Prima che Tebaldo possa avanzare dubbi – cosa che avrebbe fatto senza possibilità di dubbio – l’avatar di Dot si è già infilato dentro. Una luce viola antibatterica definisce ogni particolare in modo spietato. L’avatar di Doktor Ghetto collauda a proprio rischio la solidità strutturale di una sedia tisica, dondolandosi in equilibrio su due delle sue quattro gambe e addossando, di tanto in tanto, lo schienale al muro. Se l’immagine del Dok fosse fatta di carne e non di pixel, quella sedia si sarebbe già disintegrata. Ma il culone del samoano è fatto di bit senza peso, così come la sedia sulla quale si poggia, dunque non c’è nessun pericolo di schianto. – Hai quello che cerco? Le labbra sottili di Dok spariscono in un sorriso tutto denti, da cui scivola la sua voce prepuberale: – Dare soldi, vedere cammello. Si dice così, no? Dorotea vorrebbe dare una risposta secca e arguta, ma non le viene. Disegna pochi veloci movimenti in aria col data-guanto e prepara i numeri dei conti bancari da comunicare all’hacker. Prima di farlo, però, tenta una debole ribellione: – Cosa mi assicura che avrò le informazioni che voglio, una volta pagato il compenso? – Il suo dito rimane sospeso sul tasto «invio». – Niente. Ma se non mi dài quei numeri di conto, la polizia riceverà una denuncia del piccolo crimine che hai commesso nel nostro incontro precedente, il tutto ben corredato da informazioni sulla tua identità e sulle tracce, da me registrate, del tuo passaggio su certi siti poco ortodossi. Questa è l’unica certezza che ti posso dare. – Ora, non per dire, – interviene Tebaldo, – ma io… – Me l’avevi detto, lo so, lo so –. Dorotea abbassa il dito indice e avvia il trasferimento. Per una ventina di secondi l’avatar di Doktor Ghetto rimane inanimato come un burattino. Il suo proprietario dev’essere impegnato in qualche altra sezione del ciberspazio a prelevare il danaro dal circuito sul quale era stato parcheggiato. Poi, il samoano si riscuote di colpo e batte le mani. – Buone notizie ragazzi. Trasferimento eseguito e ora… – Proprio in quel momento, le fragili gambe della sedia cedono di colpo, il volto glabro e gonfio del grassone viene attraversato da un lampo di sorpresa, mentre con le braccia annaspa nel vuoto cercando di non cadere: – Maporcaputt…! L’impatto al suolo viene seguito da un rombo e da una vibrazione profonda, come un terremoto che sventri i codici binari su cui poggia l’intero sistema. Il Coffee Shop si sgretola pezzo a pezzo. Le pareti scivolano una dopo l’altra nel nulla elettronico della rete. Un’assenza di dati che si presenta come una luce lattiginosa che squarcia gli ultimi resti della grafica precedente. – Merda, quello ci ha preso in giro! – Tebaldo si volta verso l’avatar di Dorotea che spicca silenzioso in mezzo a quel mare di bianco. Poi un fremito ondeggia sull’orizzonte vuoto e la rappresentazione stilizzata di una busta da lettera si avvicina a Dorotea, che con il data-guanto apre il messaggio. Preso paura, eh? Non ci badare troppo, mi piacciono le uscite di scena drammatiche. I tuoi soldi erano buoni e buone sono anche le mie informazioni, che troverai allegate a questa mail. Avrei dovuto farti pagare di più: il tipo è del mestiere e ha usato una serie di sottoprogrammi mimetici inaspettati e vispi… ma in fondo mi sono divertito, e il danaro non è tutto a questo mondo. Alla prossima. D.G. – Che scherzo idiota. L’umorismo hacker proprio non lo capisco, – si lamenta Tebaldo. Dorotea scarica l’allegato e si scollega. 57. – Okay, io ti guardo e cerco di convincermi che sei una persona intelligente, e che in quanto tale non puoi aver fatto davvero quell’enorme cazzata che hai fatto… Il punto, però, è che invece è proprio così, e allora mi chiedo… – … – SEI SEMPRE STATO UN COGLIONE DI MERDA E IO NON ME NE SONO MAI ACCORTO, O ATTRAVERSI PASSEGGERE CRISI DI STRONZAGGINE? Il Conte mi ha bloccato in un angolo prima di entrare in mensa e si sgola in urli soffocati a cinque centimetri dalla mia faccia. So di non aver compiuto una mossa geniale, ma sentivo di doverla fare, e glielo dico. – Almeno adesso abbiamo un’esca, una possibilità di agitare le acque. Il Conte ha un fremito, come se si trattenesse dal mollarmi uno sganassone. – E certo che ora ce l’abbiamo, l’esca. Solo che sei tu, pezzo di deficiente! Ora ti dirò le cose che sappiamo: sappiamo che Max è morto, apparentemente suicida; e sappiamo che Max non era affatto tipo da suicidio; sappiamo che ci aveva manifestato la sua irremovibile opposizione a Morgan appena prima di morire, più o meno con le stesse parole che hai usato tu; sappiamo che la Simpliciter è piena di microspie; sappiamo che tu in questo momento sei l’esca; e sappiamo, infine, che il pesce, se esiste, è talmente grosso da mangiarsi l’esca, la canna da pesca e pure il pescatore, se solo gli gira. È chiaro? Certo che vista così, a freddo… – Adesso, invece, ti dirò quello che faremo, – respira, pensa e inventa in diretta; mi sembra quasi di sentire il ticchettio del raffinato meccanismo di precisione che ha nel cervello. – Dopo pranzo, io e Marianna andremo alla polizia, ed esprimeremo i nostri dubbi sul suicidio di Max. Non prima, però, di averne parlato davanti alle microspie. Questo li dovrebbe rallentare, saranno più prudenti e non ti ammazzeranno subito. Forse. Intanto tu non stare mai da solo. Mai. A mensa ci raggiunge Ken. Rosso in faccia, confuso ed eccitato. Racconta la strana storia di un aiuto che ci piove dal cielo sotto forma di pingue e deciso uomo d’affari. Un prezzo molto alto da pagare, che a me sembra una barzelletta considerando quello che ho appena messo in gioco. Intempestivamente, aggiungerei, visto che, con gli ultimi sviluppi, il mio tentato sacrificio rischia pure di essere superfluo. Complimenti, Giona. Finita la sbobba, il Conte si alza da tavola, trascinandosi Marianna. – Noi andiamo a fare il nostro piccolo dovere civico –. Fa un cenno a Bella: – Al resto pensa tu, per favore. Sento una presa forte sotto il braccio, che mi solleva. – Muoviti, ciccio, oggi facciamo vacanza. Nell’ascensore che ci porta al pian terreno – non abbiamo seguito gli altri alla Simpliciter – Bella mi guarda fisso. Negli ultimi quattro piani in discesa siamo soli: nessuno lascia l’edificio a quest’ora. Mi tira uno schiaffo sulla nuca, seguito da una piccola tempesta di pugni sulle spalle. Con rabbia e affetto dice – Idiota! Giù in strada continua a tenermi il braccio. Camminiamo stretti e vicini, come una vera coppia. Con rapide pressioni delle dita sul bicipite mi fa capire via via la direzione da imboccare. Svoltiamo sempre di scatto, come piccoli robot giocattolo. Mi spinge su un autobus che sta ripartendo. Non si siede e non lo faccio neanch’io. Scendiamo dopo due fermate ed entriamo nella stazione della metropolitana di fronte. Piastrelle sporche e pubblicità di spettacoli teatrali corrono veloci ai lati del mio campo visivo. Sulla piattaforma, in attesa, poche persone: non è l’ora di punta. Un display luminoso vaticina il nostro futuro prossimo: Un minuto all’arrivo del treno. – Credi di seminare qualcuno con questi trucchetti? Bella alza regale un sopracciglio: – Quali trucchetti? – Trenta secondi all’arrivo del treno. – Il bus, poi la metro, fra un po’ il taxi… – Mi credi un’imbecille? Abbiamo preso l’autobus fino a qui perché dalla stazione più vicina alla Simpliciter avremmo dovuto cambiare tre volte per arrivare a destinazione –. Quindici secondi all’arrivo del treno. – Non cominciare a fare il paranoico, che ti prendo a sberle. Borbotta: – Seminare qualcuno. Cazzone. Vento caldo attraverso il tunnel e rumore di freni. Treno in stazione. Il lombrico d’acciaio si ferma il tempo necessario ad accoglierci nel suo stomaco, infine si rituffa nelle oscure profondità della terra. Bella cede alla tensione e si volta di scatto per rubare un’ultima visione panoramica della piattaforma, mentre il convoglio riparte. Due persone sono rimaste a terra. Forse per aspettare il prossimo treno che ha un diverso capolinea. O forse no. Il respiro del commissario è fatto di pietra. Frammenti di roccia e ghiaia gli rotolano su e giù per l’esofago, producendo un rumore pesante e strascicato. Probabile enfisema pensa il Conte, fissando i due pacchetti di sigarette sulla scrivania. Il peso certo non lo aiuta, pensa ancora, e immagina il povero cuore del poliziotto, perso in quell’averno di ciccia, che pedala come un forsennato bestemmiando per mandare avanti la baracca. Un motore diesel da 50 cv ci vorrebbe, altro che impulsi elettrici. Hanno fatto meno anticamera di quanto si sarebbero aspettati per parlare col responsabile dell’indagine. Appena cinque minuti e si sono trovati davanti questa quintalata abbondante di inquirenza istituzionale. Mani intrecciate e gomiti appoggiati ai braccioli della poltrona, dozzinale plastificata e componibile come il resto della stanza: l’impersonalità degli uffici pubblici che ne uccide più della spada. La voce del poliziotto è gentile, appena venata dal riverbero metallico del respiro. Scettica. – E così vi sono venuti dei dubbi… – … – Il vostro amico era un tipo pieno di vita… – … – Positivo… – … – Molto concentrato su se stesso. – … – Un narciso suonatore di sax. – … – L’ultima persona, insomma, che potrebbe decidere di togliersi la vita, giusto? – Appunto –. La risposta di Marianna viene arginata da un gesto della mano del commissario: era una domanda retorica. – Giusto, giusto, lo so. Ma vedete… il lavoro che faccio mi porta anche troppo spesso a contatto con il dolore e la perdita. Ho imparato delle cose, in questi anni. Una è che le reazioni estreme delle persone sono imprevedibili anche per chi le conosce bene. Non c’è sicurezza su come possa comportarsi chi viene condotto al limite dell’esasperazione. E non c’è modo di sapere in anticipo quando e perché quel limite arrivi. C’è poi un’altra cosa: le reazioni di parenti e amici delle vittime sono, invece, quasi sempre simili e prevedibili. Credetemi, rispetto molto il dolore – non ho mai permesso che diventasse una routine – e non voglio certo banalizzare il vostro con una semplice classificazione… – Però… – Il Conte anticipa appena la battuta del commissario. – Però, su dieci casi di suicidio, almeno sette-otto volte parenti e amici sono convinti che ci sia qualcosa sotto, non si spiegano… Non era da lui…, Era così allegro…, Amava la vita…, Avevamo fatto progetti solo la sera prima… Sa quante volte ho sentito frasi del genere? Stavolta la domanda retorica non viene disturbata dalla scortesia di una risposta. – E non mi è mai capitato neanche una volta che un’ipotesi di suicidio si sia poi rivelata un omicidio dissimulato. Vedete, in genere i falsi suicidi sono tentativi molto goffi, e non reggono ai rilievi della scientifica. – In genere? – Marianna non molla. – Non dico certo che l’investigazione sia una scienza esatta. – Il fatto, commissario, è che noi non siamo mossi solo dal nostro istinto di amici –. Il Conte cala l’asso: – La società per la quale lavoriamo, e per cui lavorava anche Max, è al centro di un’importante operazione finanziaria. Molto proficua per noi, ma soprattutto per una nota multinazionale. E Max si era opposto a questa operazione, che non sarebbe andata in porto senza il suo consenso. – Sta presentando una denuncia formale? – Non ho elementi per farlo, solo sensazioni, e non voglio rischiare di calunniare nessuno. Ma se si potesse riaccendere l’attenzione… Il commissario apre la carpetta azzurra che ha davanti. Sfoglia. Cita. – Il corpo del soggetto è stato rinvenuto senza vita sull’asfalto sotto la sua abitazione, al civico n. 22 eccetera. Il soggetto si presentava completamente nudo, ad eccezione di una mantellina di seta nera recante una Z cucita a sbalzo proprio al centro. La suddetta mantella era annodata al collo con un fiocco. Il corpo del soggetto si presentava cosparso di un olio abbronzante al cocco di marca nota. I testi individuati dai numeri 1 e 4 (elenco allegato) hanno visto cadere il soggetto dalla terrazza dell’edificio nel quale risulta residente. Sul detto terrazzo sono stati rinvenuti: n. 1 sedia a sdraio, n. 1 flacone di olio abbronzante al cocco (corrispondente a quello rilevato sul cadavere), n. 1 asciugamano di spugna, n. 1 maglietta con disegno a stampa, n. 1 (paio) calzoncini da bagno, n. 1 (paio) ciabatte di plastica, n. 1 mazzo di chiavi (corrispondenti appartamento vittima). N.B.: gli indumenti erano ripiegati. Nessun segno di colluttazione. Nessun segno di altre presenze a parte la vittima. L’analisi delle impronte ha permesso la ricostruzione delle ultime azioni del soggetto. Il soggetto ha presumibilmente sostato sulla sedia per parecchi minuti, dopodiché si è appressato al parapetto, per poi tornare indietro alla sedia. Infine si è spinto nel vuoto dopo una breve rincorsa. Nessun segno di violenza è presente sul corpo, ad esclusione di quelli causati dall’impatto col terreno. Esame cute. Graffi o spellature: negativo. Ematomi da pressione-strattonamento: negativo. Depositi residuali sotto le unghie: negativo. La patina di olio di cocco presente è rimasta uniforme su tutta la superficie cutanea. N.B. In ragione di ciò, risulta impossibile che un agente esterno rispetto a quelli già noti abbia potuto interagire con la vittima senza provocare alterazioni evidenti e riconoscibili sull’epidermide. – Come potete vedere, i rilievi sono molto chiari, per quanto esposti in una sintassi pittoresca, e senza una denuncia formale… – E senza una denuncia formale… – La voce asmatica di Marianna fa il verso al commissario. Il commissario, in quanto assente, non può apprezzare l’imitazione. Il sole del pomeriggio è appannato e stanco. Splende poco e scalda ancor meno: vita amara di un sole svogliato di fine novembre. Le ombre si allungano in fretta davanti ai passi del Conte e di Marianna, precedendoli in silenzio sul marciapiede. – Non che mi aspettassi molto di più. L’importante è esserci stati, alla polizia, e averlo fatto sapere agli spioni della Morgan. Marianna lo guarda di traverso e dall’alto in basso (gli dà dieci centimetri buoni): – Ma tu non ti aspetti mai niente da nessuno? – Non certo da un poliziotto umanista sovrappeso col cervello in prepensionamento –. Il Conte restituisce uno sguardo che, se stesse giocando a tennis, sarebbe un passante incrociato con molto top spin: – Parlando in generale, comunque, è un ottimo metodo. – Ma sentilo il signor sotuttoio, l’anestesista della speranza, il principino blasé –. Lo spinge via, e lo riabbraccia subito dopo per un attimo, avida di contatto fisico. Poi si vergogna; cercando un improbabile contegno dice: – Facciamoci un gelato, va’. Un gelato? Marianna? Però! 58. Il vetro bacia l’acciaio in una complicata geometrica maniera. Regala la freddezza della propria trasparenza alla forza statica del metallo. Incontrandolo con precisione nelle giunture, insinuandosi nelle buie intercapedini progettate su lontani tavoli da disegno. L’effetto è una luce potente, del tutto priva di identità. Innaturale. Molto comune nei quartieri degli affari a qualsiasi latitudine. L’ampia superficie di cristallo della finestra contribuisce, con l’inconsapevole innocenza delle sue linee, alla reiterazione di questo rapporto contro natura. Si tratta della finestra dell’ufficio più importante di una delle società di intermediazione mobiliare più importanti che operano in Borsa valori. Seduto dietro la scrivania dell’ufficio, c’è l’uomo più importante di quella importante società. Il gomito appoggiato al bracciolo, il mento appoggiato alla mano. Sorride e parla con calma chimica di argomenti che darebbero l’angoscia a chiunque. Dopo vent’anni di navigazioni difficili in ogni tipo di mare, se lo può permettere. Da giovane ricorreva all’assunzione di modiche quantità di beta-bloccanti per prevenire il tremore alle mani; ormai non ne ha più bisogno. La tensione massima è diventata il suo oppio, l’adrenalina un fiume che scorre tranquillo, e si è scoperto a provare nervosismo solo durante i periodi di vacanza. Il completo grigio, le scarpe inglesi, le bretelle con inserti di cuoio lavorato a mano, messe a nudo dal vezzo di non portare la giacca in ufficio, rivelano la sua appartenenza a una tribù. Di cui è capo. Parla con un velo di indolenza compiacente. Ironico. – Qualcuno s’incazzerà parecchio con lei, quando questa storia sarà finita, Borsch. Qualcuno che ben pochi sono disposti a far incazzare. – Intende dissuadermi, o mi sta dicendo che non vuole averci a che fare? – Ganimede è immobile e imperturbabile, consapevole che l’immobilità, per un uomo della sua stazza, è già di per sé aggressiva. – A me basta ricevere un ordine scritto e firmato dai rappresentanti legali delle società che prenderanno parte alla caccia. Per il resto sono a posto. Il mio è solo uno scrupolo professionale. Devo informare i clienti delle conseguenze cui andranno incontro a causa delle operazioni svolte per mio tramite. Ganimede slabbra il suo faccione in un sorriso fasullo: – Apprezzo la sua premura, ma non sarei arrivato dove sono se non fossi stato in grado di capire da solo le conseguenze delle mie azioni. – E se non avesse avuto le palle per portarle a termine. Ganimede sorride, ma non ama la volgarità tutta virile con cui spesso vengono suggellati i grandi affari. Le intese al testosterone: quello spazio che uomini abbastanza ricchi da poterselo permettere usano per giocare a fare i maschiacci. Rivincite da bambocci segaioli. Si stringono la mano. – Avrà le procure nel weekend. Spero che i suoi uffici rimangano aperti. – Sarà un lungo finesettimana. 59. Il linguaggio che parlano le dita è fatto di una precisa grammatica di pressioni, posta all’interno di una sintassi di sfregamenti e manovre circolari. Le ripetizioni non sono considerate sgradevoli, in questa lingua, ne rappresentano anzi la buona creanza. Un concetto viene ripetuto più e più volte, fino a che non è assorbito completamente da chi ascolta. Le dita di Bella parlano senza fermarsi, e le mie spalle comprendono fino all’ultima parola. Tutto, senza stancarsi. Doucement. Com’è che il francese rende così bene l’idea e il suono delle cose piacevoli? Disteso sul lettino nella minuscola sala di un indefinibile centro tatuaggi e piercing puzzolente di incenso vecchio, sono rilassato fin quasi al coma. È una parte della città che non conosco affatto. Una di quelle zone bluastre e semiperiferiche fatte di deprimenti casematte costruite negli anni Sessanta. Il territorio di caccia preferito da Bella per le sue incursioni underground. In tempo di pace proverei inquietudine anche a passarci sopra in elicottero. E invece sto da dio. I due pollici di Bella salgono pesanti lungo i lati della mia spina dorsale. – Ti piace così? – Gah! – È l’unico verso squinternato che mi vien fuori dalla bocca. Il gestore di questo posto si fa chiamare Zio. Ammetto qualche remora nel rivolgermi a lui così. Zio ha lunghi capelli rossicci e stopposi che gli partono da metà testa, causa incipiente calvizie, e bei baffoni a manubrio dello stesso colore. Zio ha un ineffabile numero di anni, di certo malvissuti, e una farneticante varietà di ammennicoli d’acciaio che gli scavano nella pelle sentieri proibiti. Ha addirittura una catenella che gli scende giù dall’orecchio, fa una sosta in un anello ancorato all’ombelico e gli si infila nei pantaloni verso luoghi che non voglio conoscere. Zio ha vari tatuaggi, fra i quali uno sull’avambraccio raffigurante un serpente-striscione su cui c’è scritto Mortdieu. Quando siamo arrivati, lui e Bella hanno parlato a bassa voce. Poi Zio ha detto che «Il Gorgo» (come i residenti chiamano questo quartiere) si sarebbe richiuso su di noi. Il che aveva senza dubbio l’intento di rassicurarmi, e ha solo peggiorato la situazione. Ma adesso no. Adesso ci sono solo mani e pelle. Senza che me ne accorgessi, Bella è scivolata fuori dai vestiti e con un gioco di prestigio ha fatto sparire quanto mi restava addosso dei miei. Striscia e s’insinua nei miei angoli; aumenta in modo esponenziale la superficie di contatto cutaneo. Calore morbido e terminazioni nervose che si risvegliano con dolcezza. Sono consapevole del mio corpo come non mai, e insieme dimentico di tutto il resto. Mi sembra che sullo sfondo rimanga qualcosa, nell’oscurità, ma è troppo lontano e confuso per distinguere. Ombre minacciose ci aspettano ai margini del nostro temporaneo benessere, ma non ho affatto voglia di pensarci. Non ho fretta, e questo per un carattere come il mio è già un bel passo avanti. Apro gli occhi e vedo il mostro. Pupille fiammeggianti cerchiate da orbite azzurrine sormontano una bocca farcita di zanne. Per fortuna la cognizione del luogo in cui mi sono svegliato arriva prima della paura. Ricordo di aver notato una maschera da dragone prima di addormentarmi, ed eccomi restituito alla tranquillizzante realtà. Il ritorno alla veglia è gommoso e graduale. Sento in lontananza le note di qualcosa che potrebbe essere Space Oddity. La rituale raspata scrotale mattutina mi regala una sensazione fastidiosa all’inguine, come avere le mutande di carta. Controllo e mi accorgo che in un certo senso è così: Bella mi ha piazzato uno dei suoi biglietti del buongiorno negli slip. Trovato subito, vero? Nessun uomo appena sveglio resiste più di dieci secondi all’istinto di controllarsi i gioielli. Tranquillo, ci sono ancora. Vado a recuperare novità dal Conte. Non ti muovere da lì o ti ammazzo. Zio è a disposizione per ogni tua richiesta. Non te ne approfittare troppo. B. Latte. Un bel bicchierone di latte, questa è la mia richiesta. Non ne bevo quasi mai, ma adesso sento il bisogno fisico di qualcosa di pulito, naturale, nutriente e simbolicamente buono. Latte. Una sostanza che il motociclista obliterato di là non deve aver mai sentito nominare in vita sua. La luce livida che vien giù da una finestrella alta cade sulle poche cose della stanza. Lettino, credenza con boccette di vetro, arnesi complessi e innominabili che promettono torture cutanee. Squallore da ambulatorio. Esco a caccia nel corridoio, intirizzito. Accedo a una stanza più ampia e riscaldata dell’altra. Segni di vita recenti: un fornello sporco e, sul tavolo, vaschette di plastica vuote che un tempo contenevano qualcosa di molto unto. – Buongiorno! – La voce di Zio mi coglie alle spalle. Viene freddo solo a guardarlo, con quel gilet di pelle nera senza niente sotto. Mi stringo ancor di più nella mia felpa. – Scusa se te lo chiedo, ma non avresti mica… no, certo che no, ma forse puoi procurarti un po’ di latte fresco? – Zio mi guarda come se avessi parlato in cantonese. – Perché non dovrei avere del latte? Certo che ce l’ho, ne ho moltissimo. Billy ne va pazzo –. Appoggia le mani sulle mie spalle e mi spinge a sedere accanto al tavolo. Un bicchiere colmo di latte si materializza alla mia destra. – Dovresti mangiarci sopra qualcosa, però. Ti prendo dei biscotti. Mai giudicare dalle apparenze, Giona. Pensavi che ti avrebbe offerto una pipata di crack per colazione solo perché ha qualche buco in più rispetto alla media nazionale. E invece Zio si è rivelato una brava massaia. Ed eccoti qui, nell’antro del vizio a sgranocchiare latte e biscotti dopo aver fatto una figura da coglione. – Billy è tuo figlio? – Mando giù un sorso che mi riconcilia con l’universo. – È il mio serpente –. Ecco. – Di’ un po’, c’è un’edicola da queste parti? – Zio, che stava trafficando con la vasca di sterilizzazione, si blocca. – Oh sì, in effetti una volta ce n’era una, ma poi la tribù dei cacciatori di teste che vive in fondo alla strada ha decapitato il proprietario e le ha dato fuoco –. Osserva la mia espressione interdetta. – Certo che c’è un’edicola da queste parti. Subito dopo il mercato che si trova all’uscita del vicolo. Seconda figura da coglione prima delle nove del mattino. – Scusa. – Fa niente, non sei il primo né l’ultimo. Dammi dieci minuti e ti ci accompagno. – No, senti, grazie ma preferisco andare da solo. Il programma protezione testimoni non fa per me. Zio fa spallucce e alza le mani guantate di latex: – Bella mi aveva raccomandato di tenerti d’occhio, ma ognuno deve scegliere da sé di che morte morire, dico io. – Tranquillo, niente killer della mafia ad aspettarmi fuori della porta –. Spero. La mattina è umida ma luminosa. Riemergendo dalla quiete ovattata del vicolo, vengo investito dai rumori del mercato. Ai due lati della strada corrono le bancarelle, al centro si muove lento il fiume di acquirenti. Il mio sguardo viene attirato dall’arancione quasi innaturale di una montagnola di agrumi. Il cartellino del prezzo è appeso a uno spiedo infilzato in un frutto tagliato a metà. Un ragazzo magrissimo con una maglietta bianca con su scritto: «Salvate… qualsiasi cosa» annusa l’arancia che tiene in mano. Vengo spinto più avanti dalla corrente umana. L’aroma aspro e piacevole della zona ortofrutticola, dal pungente limone al fresco neutro di verza e lattuga, cede il passo a qualcosa di greve e scivoloso. Pesce. Colgo con la coda dell’occhio il gesto deciso di un pescivendolo che abbatte la sua mannaia su una massa molliccia, gelatinosa e grigia. Riesco ad accelerare sfruttando la scia di una donna alta due metri che agita attorno a sé le sue dodici buste della spesa come farebbe un gladiatore con una mazza. Dopo venti metri, arrivo sulla piazzetta e mi trovo davanti un minuscolo prefabbricato in alluminio, ricoperto da uno sgraziato mosaico di quotidiani e riviste d’ogni genere. Scorro con lo sguardo gli espositori, frugando tra settimanali scandalistici, inserti voluminosi e videocassette che non mi fa onore sbirciare ma che sbircio lo stesso. Trovo infine quello che cerco: il massimo quotidiano nazionale di affari e finanza. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei tuffato con avidità nelle pagine di questo giornale, gli avrei riso in faccia. O tempora o mores. Pago l’edicolante, ricevendo il resto e uno sguardo sorpreso: non devono essere in tanti, qui, quelli interessati al mercato azionario (ecco che ci ricasco: inguaribile classista superficiale del cazzo). Scorro le pagine della Borsa e leggo i titoli, uno per uno. Vado in apnea quando incontro quello di un trafiletto a pie’ di pagina: «Azioni Simpliciter al via». Mi sforzo di controllare se ce ne sono altri, prima di iniziare la lettura. Non ce ne sono. Faccio un respiro profondo e mi butto. All’apertura dei mercati di lunedì blabla Dinamica e giovanile realtà imprenditoriale blabla New Economy blablabla. Niente. Sospirone di sollievo. Nessun accenno, nemmeno velato, a possibili operazioni speculative, nessuna indiscrezione: un semplice articoletto di routine. Il sig. Borsch sa quello che fa. Meglio per lui e meglio per noi. Alzo appena lo sguardo dal giornale e intercetto una sottile sagoma bianca. Il ragazzo di prima è fermo all’angolo opposto della strada, ancora con l’arancia in mano. I freddi occhi azzurri fissano un punto dietro le mie spalle e alla mia destra, e poi convergono con un cenno del capo su di me. Per un solo attimo. Guardo dietro e a destra: due uomini su una moto di grossa cilindrata, a cinque o sei metri. Il passeggero scende e si dirige verso l’edicola. O merda! Improvvisamente, una sensazione di pesantezza liquida allo stomaco mi fa ricordare perché non bevo mai latte a colazione. La pesantezza si trasforma in un crampo leggero, che passerà solo quando avrò tempo di fare cose che adesso non ho proprio il tempo di fare. Piego il giornale e attraverso la piazza in direzione del biondino magro, che rimane impassibile. A metà mi blocco e giro a sinistra, infilandomi nel fiume di acquirenti che sfocia a delta, non più arginato dalle due rive di bancarelle. Che il santo protettore dei fuggiaschi nelle file disordinate sia con me e mi presti i suoi gomiti taumaturgici. A furia di permessoscusate e di sapienti pressioni su costole altrui, riesco a guadagnare l’altra sponda collezionando un unico checcazzofaicoglione che si è però perso nel fluire della corrente. Mi infilo dietro i box dei venditori e sbuco nel corridoio retrostante le bancarelle. Stretto, maleodorante, cosparso di sostanze organiche in stato putrefattivo, ma libero e orientato nella direzione giusta. Lo percorro a testa bassa. Il sole filtra rossastro attraverso le tende che, allungandosi sopra la mia testa, offrono protezione alla merce esposta nel lato anteriore. Lame di luce diretta si insinuano ogni tre metri nelle fessure fra una tenda e l’altra, creando un’alternanza di chiarore e ombra che non permette di vedere in profondità. Cerca solo di non cadere, Giona. Vai avanti senza fretta e non cadere. Guardo in basso e ogni tre o quattro passi alzo gli occhi per assicurarmi che la via sia libera. Evito scatoloni vuoti e poltiglie varie, poggiando bene i piedi per non scivolare. Ancora pochi metri e ci sono. Uno due tre alzo gli occhi, uno due tre alzo gli occhi, uno due tre… Cazzo. Il tipo che era sceso dalla moto venendomi incontro, si è materializzato come per magia all’imboccatura del vicolo. A settanta centimetri dalla mia ormai sfumata salvezza. Mi giro per tornare indietro (che altro potrei fare?), ma dietro di me sento già una presenza. Qualcuno che fa due passi avanti e si ferma sotto uno degli spiragli di luce. In modo che io, per quanto sconvolto e impaurito e affannato, lo possa riconoscere. E io lo riconosco. Come potrei non riconoscere il Seboso Sebastian? Bastardofigliodi… 60. Il sabato pomeriggio, secondo il piccolo mondo di mitomania ed eccessi capitalistici di Celso Grande, era di consueto dedicato a spensierate attività di gran classe. Qualche esempio: colazione leggera al Country Club (mai usare la volgarissima parola «pranzo»), parlando di cavalli con chi ha un titolo nobiliare, e di investimenti immobiliari con chi non ne ha. Oppure, sempre al Country, giocare a tennis con avversari ricchi e potenti, producendosi in sperticate lodi del loro rovescio slice. O ancora, pic-nic con compagnia femminile, ma seguendo precise modalità. Non si tratta di prender su la famiglia in station wagon, fare qualche chilometro per stradacce di campagna, trovare un luogo ameno a sufficienza e che puzzi poco di merda di vacca per poi dividere il proprio pasto con le formiche. No. La giornata si svolge in poche ma fondamentali tappe. Dopo aver scarrozzato una modella in Ferrari lungo la costiera, si imbocca una strada collinare tutta curve che permetta di dimostrare nonchalance e abilità nel controllo del bolide fino a giungere all’agriturismo più esclusivo dell’universo, gestito nel proprio castello dai principi Vattelappesca pari di Spagna, che non appare in nessuna guida enogastronomica del cazzo perché ci si viene ammessi solo per intercessioni lobbistiche e/o massoniche e/o vescovili e/o presidenziali. Dopo mangiato ci si ritira nelle preziose camere degli ospiti, ove si tromba con stile inarrivabile sotto la protezione autorevole di un baldacchino del Cinquecento. Infine si rientra in città guidando piano, mentre l’impianto stereo diffonde sinfonie di Mahler al cui suono dilettarsi giocherellando alternativamente con il pomello del cambio e col ginocchio ormai arreso della modella. Fine. Ciò con cui si stava dilettando Celso Grande, invece, non assomigliava affatto all’essenziale pomello del cambio della sua Ferrari né tantomeno alla ben disegnata rotula di una donna di classe. Avendo ormai assorbito le tecniche di base del tagliare e cucire a mano una calzatura, Celso si stava impadronendo con gioia dei segreti della catena di montaggio degli stabilimenti Borsch. Di sabato pomeriggio? Di sabato pomeriggio, per il sadico sollazzo di qualcuno. C’erano pure leve e pulsanti. Doveva manovrarli, così come tenere sotto controllo tachimetri e indicatori vari, ma chissà perché, tutto questo maneggiare sistemi meccanici ed elettronici filosoficamente simili a quelli della sua auto non gli restituiva la stessa ebbrezza di un singolo cambio di marcia della Testarossa. Ganimede Borsch, il suo aguzzino, lo controllava da una torretta di alluminio e plexiglas posta in fondo al capannone, dandogli istruzioni tramite microfono. Un dato curioso: i masturbatori sogni di rivincita di Celso avevano mutato genere. Se prima si sarebbe accontentato di rastrellare sul mercato azionario tutti i titoli Borsch e degradarlo da presidente a usciere di terza categoria, ora preferiva immaginare qualcosa di più diretto e crudo. Tipo che lui, umile operaio, sorprende il padrone Ganimede mentre violenta laido l’ultima meravigliosa testimonial della Lancôme sopra una montagnola di scarpe nuove di zecca, e lo gonfia di botte ricorrendo alla sua perfetta padronanza di arti marziali antichissime, insegnategli da un monaco buddista in una capanna sull’Himalaya. La complessità della regia del suo sogno «proletario» e lo sforzo di mantenere il controllo della tensione narrativa della sceneggiatura impedirono a Celso Grande di accorgersi di qualcosa che gli avrebbe senz’altro fatto piacere. Lorenzo Morgan, il suo adorato e onnipotente zio, era entrato nella torretta di alluminio a far compagnia a Ganimede. E Ganimede aveva cambiato colore. – Un inserviente mi ha detto che potevo trovarvi qui, e così… – Si accomodi pure, Morgan, che sorpresa! – Il suono metallico delle sue stesse parole, rimbalzate nell’ambiente piccolo, demoralizzò Ganimede ancora di più. Non era necessario essere un genio per capire che ce lo aveva in quel posto. Morgan non si sarebbe mai mosso per una visita di cortesia; non sarebbe mai andato in trasferta per qualcosa che non fosse stata molto importante e molto urgente. E l’unica vera cosa importante e urgente del momento, Morgan non avrebbe dovuto, cazzo, saperla. – Come si comporta il giovanotto? – La testa dello zio ondeggiò a indicare il baldo nipote, che in quel momento, ignaro e distratto, stava azionando i leveraggi di una pressa. – A essere sincero non è intelligente e non si applica, ma volente o nolente sta imparando qualcosa. Morgan sghignazzò: – Bene bene bene, è questo l’importante, no? Imparare dalle proprie esperienze –. Il suo sguardo divenne più affilato e ambiguo. Quattro secondi di silenzio riempirono ogni spazio: lo spazio era poco, e quattro secondi bastarono. – Io, ad esempio, molto tempo fa pensavo che il modo migliore per ottenere il massimo dai miei collaboratori fosse sfruttarli. Tanto lavoro e pochi soldi. Poi, un bel giorno, accadde un fatto. Uno dei miei dirigenti stava seguendo un affare importante: l’acquisto di un enorme appezzamento di terreno che sapevamo sarebbe stato dichiarato edificabile da lì a poco. Il proprietario era uno stronzo di contadino che faceva obiezioni del tipo che la terra era appartenuta a suo padre e prima al padre di suo padre e al padre del padre di quel coglione di suo padre prima ancora, eccetera. Insomma una testa di cazzo, la peggiore categoria con cui fare affari. Però aveva un punto debole: la figlia. Una diciottenne senza arte né parte, ma con la presunzione di una puttana d’alto bordo. Cosa che, per inciso, non era nemmeno. Il padre avrebbe fatto di tutto per la sua stella. – Il mio uomo esce a cena con la bimba, fiori galanterie e blablabla, e scopre che la piccola vuole cantare. Il suo sogno proibito. Ha una vocetta da accapponare la pelle, ma crede di essere Madonna. E il mio uomo dice guardacaso conosco un tale che… Con la sciacquetta conquistata da un contratto discografico da due lire, il gioco era fatto. Il mio uomo, però, invece di venirmelo a dire, si ferma a pensare. Con tutti gli assi in mano che ha, perché dovrebbe giocarli in favore dell’aguzzino che lo sfrutta? – Risultato: si licenzia, offre l’affare ai miei diretti concorrenti su un piatto d’argento e conclude con loro. Mi fa ancora male il fegato al solo pensarci. Adesso è un consulente stimato e ben pagato di quella società e di tante altre, ma sa una cosa? Ganimede non la sa. – Non ce l’ho con lui, ha fatto la cosa giusta e mi ha impartito una lezione importante: prima o poi vieni ripagato con la stessa moneta che usi. Da allora ho sempre riservato un trattamento di massimo livello a tutti quelli che lavorano con me, dal primo dirigente all’ultimo fattorino. Il piccolo enorme magnate cominciò a giocherellare con un bullone trovato su un ripiano, e ammiccò al suo interlocutore. E va bene, si disse Ganimede, mai stato un attendista, rompiamo questo imene d’ipocrisia. – Mi ascolti. Il nostro accordo riguardava soltanto mia figlia e suo nipote. Nient’altro. Io sto adempiendo la mia parte di obbligazione, e intendo continuare a farlo… Non credo più che sia la cosa migliore per Dorotea, ma ho una parola sola, checché ne possa pensare. Questo non significa, però, che debba chiedere a lei il permesso per farmi gli affari miei. Dunque lunedì comprerò tutte le azioni Simpliciter che voglio, e non c’è nulla che lei possa dire o fare per impedirlo. Vuole mandare all’aria i nostri affari comuni? Mi sta bene. Mi considera un traditore? Sopravviverò. Un artista del pennello disegnò sul volto di Lorenzo Morgan una falsa espressione di stupore. Indietreggiò di un passo portando al petto le mani, come un’eroina da melodramma: – Oh, no! Ma cosa va a pensare, ragazzo mio? Non mi riferivo a lei, parlando di traditori… ma a una sua dipendente. Per questo volevo mettere la mia esperienza di vecchio lupo di mare al suo servizio. Lei mi piace, Ganimede, questo gliel’ho già detto. Quello che non le ho detto riguarda una delle sue segretarie, che si chiama se non sbaglio Heidi Charisse. A quel nome, Ganimede ebbe un moto di rabbia, subito sedato da una spiacevole sensazione di ghiaccio ai testicoli. – Questa Charisse, dicevo, per ragioni che posso intuire connesse a uno scadente trattamento economico e motivazionale, nutre un solido astio nei suoi confronti. So per certo – diciamo per esperienza diretta – che questa signora è dispostissima a tradirla e a danneggiarla per poco più dell’equivalente in danaro di una pelliccia di medio valore. Ora, la cosa non sarebbe tanto grave se la signora Charisse, data la sua bassa posizione gerarchica unita alla grande vicinanza fisica all’ufficio del suo capo, non avesse l’occasione di accedere indisturbata a segreti ripostigli e scomodi documenti. Con dolorosa luminescenza arrivò a Ganimede la certezza di esserselo preso in profondità. – Vede, Borsch, è già un errore grossolano tenere nel proprio ufficio i libri contabili originali, con le indicazioni dei fondi neri. Un errore che fa quasi passare in secondo piano l’ingenuità di un forziere incassato nella parete dietro la scrivania e protetto da un quadro mediocre. Questo però arriverei ancora a giustificarlo. Ma permettere che un qualsiasi dipendente frustrato e rancoroso abbia libero accesso a quell’ufficio… be’, lo trovo imperdonabile. Una pausa sorridente si allargò sul viso di Morgan. – Non mi permetterei mai di imporle ciò che deve fare, – proseguì, – ma è mio dovere di amico e socio in affari prospettarle le conseguenze delle sue azioni. Lunedì mattina lei potrà giostrare a suo piacimento sul mercato dei titoli… ma sappia che già lunedì pomeriggio negli uffici della procura, sezione reati fiscali, questa sarà diventata la lettura dell’anno –. Un sinistro mazzo di fotocopie si materializzò sul piano di formica. Ganimede non ebbe bisogno di controllarlo. – Giusto perché non pensi a uno sciocco bluff… Buona domenica, Borsch, e mi saluti mio nipote! Ganimede osservò Morgan che si allontanava con la sua curiosa camminata, saltellando sulle punte. Poi cominciò a passare in rassegna tutti i sinonimi della parola «fottuto» che riusciva a ricordare. Infine cadde sulla sedia, pesante come un maiale appena sgozzato. E dunque cadde, si può dire, come porco morto cade. 111. Guastafeste Prima scena: Una bella e simpatica famigliola residente nella Città Perfetta si prepara a uscire. Felici, sorridenti e puliti. Calda luce filtra dalle ampie vetrate. Stacco. Seconda scena: Padre, madre e figlio, grassocci e volgari, appena grotteschi. Un festival di sopracciglia unite e camicie fuori moda con ampi aloni sotto le ascelle. Il malumore dei tre è visibile quanto le incrostazioni di sporcizia sull’oscena carta da parati. Stacco. Terza scena: Piani alternati delle due famiglie in auto. Musica classica, sorrisi, ambiente ovattato e tecnologico per la famiglia della Città Perfetta. Cigolii, sudore, orripilanti ninnoli pendenti dal retrovisore, problemi di sintonia alla radio e scatti di isteria da traffico per l’altra famiglia, intrappolata in un’utilitaria di trent’anni fa. Stacco. Quarta scena: Entrambe le auto ferme al semaforo, allineate. Sguardi obliqui. L’invidia monta nei membri della seconda famiglia. Quelli della C.P. nemmeno se ne accorgono. Il padre orco dà gas, sfriziona. Mentre fa bilancino lancia un’occhiata di odio all’altra auto, e ghigna. Stacco. Quinta scena: Scatta il verde. Il papà orco parte sgommando, l’auto della famiglia perfetta, invece, ha un sussulto e si spegne. Papà orco e famiglia ridono, voltandosi indietro verso l’elegante macchina in panne. In quel momento arriva sparato un Tir coi freni guasti (breve primo piano del camionista disperato che schiaccia a vuoto il pedale). L’utilitaria della famiglia grottesca viene stritolata. Stacco sulla famiglia C.P. (che non si è accorta di nulla), mentre il padre davanti al cofano alzato dice: «Che sfortuna, sono gli iniettori». Stacco. Ultima scena: Inquadratura ravvicinata dei resti dell’utilitaria. Poltiglia rosso scuro sull’asfalto. Arriva in sovrimpressione il pay-off: Città Perfetta. Ognuno ha la sfortuna che si merita. Stacco sulla famiglia C.P. e anticlimax: una ruota dell’utilitaria distrutta rotola accanto al padre che traffica sotto il cofano. L’uomo si riscuote per un attimo, si gira, si gratta la fronte, macchiandosi di grasso, scrolla le spalle, e si rimette al lavoro. Dallo script di uno spot televisivo della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 61. Una delle cose che ricordo con chiarezza è di aver detto una scemenza del tipo: «Avanti, venite a prendermi se avete il coraggio». Ce lo avevano eccome. Poi ricordo di aver cercato di menare le mani e di aver ricevuto, in risposta, un’ordinata sequenza di strette e torsioni che mi hanno immobilizzato. Infine ho sentito un forte peso sul petto e un odore di nausea, non saprei come altro definirlo. Poi basta. Adesso, di nuovo la luce. Una luce imbarazzata, da ambiente piccolo e chiuso. E quella gran faccia da putto obeso di Sebastian. – Ci sei? – No, sono andato a farmi tua sorella –. La calma ironia della mia intonazione mi sorprende. – Dici così perché non hai visto mia sorella. Scusa per il piccolo narcotico, ma non volevamo dare troppo nell’occhio. Per qualche minuto ancora parlerai come un ubriaco e proverai un assoluto distacco da ogni cosa, ma sarai sempre cosciente e passerà in fretta. Ah, ecco. Bello. L’unica cosa che riesco a pensare, in effetti, è che non mi frega un granché. Roteo gli occhi e guardo in giro. Due finestrelle opache, un portellone, un vecchio plaid e lamiera tutt’intorno. Dev’essere il retro di un furgone. – Ehi Seb, per me può anche continuare così; è uno sballo –. Sebastian se la ride. Non mi sembra di aver detto una cosa molto comica, ma tant’è. – Ti do un consiglio, anzi due. Quando vuoi scappare, non ficcarti mai in posti che hanno una sola via d’uscita. È stupido. – Visti i risultati, non posso darti torto. – Secondo consiglio: se devi affrontare a mani nude due aggressori, cerca di colpire per primo. Non stare lì fermo a dire merdate da Rambo come: «Fatevi sotto!» Se quelli si fanno sotto davvero, tu sei morto. Vai dritto dal più grosso, invece. Se hai fortuna, l’altro esiterà un attimo per rispetto al suo compagno: quelli grossi dovrebbero sapersela cavare da soli e aiutarli sarebbe offensivo. Così avrai il tempo di stenderlo. Ma devi essere veloce e fargli molto male, in modo che non si rialzi, mi spiego? Che so, rompigli un ginocchio. Dopodiché col secondo avrai un enorme vantaggio psicologico. – Tutto chiaro, compare. Se vuoi, ci riprovo. – Un’altra volta, magari, – ridacchia lui. Nel giro di tre minuti, purtroppo, il mio umore cambia in modo tumultuoso e radicale. Di quel sistema filosofico che poco fa mi appariva così solido nella sua placidità, non c’è più traccia. La risoluzione del chissenefrega non sembra più molto risolutiva. Si sente in lontananza una voce stridula e congestionata. Non fa altro che urlare due volgari domande. Le domande sono: chiccazzosei? E: checcazzovuoi? Dopo un momento di perplessità e grazie a un insistente bruciore alla gola, scopro che la voce appartiene a me. – Okay, si è svegliato del tutto, – dice Sebastian rivolto a qualcuno dietro di lui che non riesco a distinguere bene. Mi stringe le guance fra i palmi: – Apri le orecchie e chiudi la bocca –. Non sembra promettente, ma che discuto a fare? – Ti parlerò della persona per cui lavoro… e per cui lavori anche tu. Il grande Morgan, l’Uomo Che Si È Fatto Da Sé, l’Orgoglio Della Nostra Economia Nazionale. Ha cominciato disegnando fumetti porno, lo sapevi? In realtà questo non ha molto a che vedere con noi, se non, forse, per verificare la versatilità dell’uomo. Appena messo da parte un capitale sufficiente, si è tuffato a pesce nel mare di cemento dell’edilizia. Prima ristrutturazioni, poi costruzioni. Abusive. Ma chissà perché i condoni gli sono sempre piovuti addosso. Zone soggette a vincolo, svincolate per magia; fasce di rispetto rese edificabili con la sua sola, infallibile forza di volontà. Perché volere è potere, caro mio, soprattutto quando tieni per le palle il novanta per cento delle commissioni per l’edilizia. Un maestro del ricatto, il nostro Morgan. Sa tutto di tutti, o quasi. È il suo modo di intendere la società dell’informazione. Poi è arrivato il grande salto. Si è accasato con una delle due figlie del maggiore azionista della più importante azienda chimica del Paese. La chimica, Giona, come sai, la scienza più redditizia che esista. Il commercio del futuro. Raffinazione di carburanti, solventi, cibo sintetico, nuove tecnologie alimentari, genetica applicata all’agricoltura per migliorare la resa delle coltivazioni e abbattere i prezzi. – Poi, l’intera dinastia del suocero muore in un misterioso incidente. E lui si ritrova solitario e vedovo al comando della baracca. A poco più di quarant’anni ha già fatto i soldi negli unici tre modi in cui se ne possano fare in quelle quantità: violando la legge, sposandoli, ereditandoli. Quest’uomo ha cominciato modificando il panorama della nostra città, in peggio. Ha creato nuovi brutti quartieri e nuove brutte città. Ha continuato modificando l’assetto dell’ecosistema, producendo, diffondendo, esalando, vaporizzando le sostanze più tossiche messegli a disposizione dalla moderna tecnologia. Ha trapanato buchi nell’ozono e disciolto ettari di ghiacciai. Ha causato mutazioni negli apparati digerenti di popoli del terzo mondo riempiendoli di alimenti geneticamente modificati. Ha alterato gli equilibri delle fragili economie di quei paesi, sfruttandone la manodopera per poi riversare sui mercati di un’altra parte del mondo prodotti imbattibili che hanno fagocitato ogni idea di concorrenza che non si basi sugli stessi suoi metodi. Ha dato con la sinistra e tolto due volte con la destra. E adesso prosegue con la Città Perfetta. Il progetto di una nuova società. Dopo averci cambiato il panorama, l’atmosfera, l’intestino, l’economia, gli equilibri geopolitici mondiali, vuole pure lasciare la sua impronta sulle forme di aggregazione sociale. La nuova società degli eletti all’interno di una società che è già formata da privilegiati. Il tutto dentro un mondo che muore anche per colpa sua. Che stronzo, eh? Mi sembra giunto il momento di far sentire la mia autorevole voce di moralista: – Sì, d’accordo, ma il discorsetto d’apertura dell’anno accademico degli ecologisti perché lo vieni a fare a me? Piuttosto ammazzami, lavori per lui, no? – Cosa pensi dei movimenti ambientalisti? – Risponde con una domanda a una domanda. – Simpatici esseri inutili. Mi sono sputtanato l’esistenza per dargli una mano, senza ricevere nemmeno un grazie in cambio. Idee buone dentro cervelli confusi. Brava gente destinata a perdere. – E tu te ne sei fatto una ragione –. Non è una domanda, dunque non rispondo. – Non ti do torto. I grandi ideali attirano soprattutto perditempo sconclusionati, falliti a trecentosessanta gradi. La gente in gamba, invece, mette a frutto le proprie qualità a beneficio personale. Ma non funziona sempre in questo modo… – Tira su col naso. – Ma sei tu che puzzi così? In effetti, le mie ghiandole sudoripare stanno producendo acidi miasmi. – … – Vabbe’, dài, è l’effetto del narcotico… – mi consola. – Tornando a noi, esistono altre organizzazioni, poco conosciute e molto efficienti. – Scommetto che stai per dirmi che tu appartieni a una di queste. Ancora una volta Sebastian si guarda intorno. Suda come al solito, vale a dire come una doccia. Lui suda, io puzzo: bella coppia. – Ti basti sapere che, pur lavorando per lui, lo voglio distruggere. Sono una specie di infiltrato –. Spero che non si aspetti una battuta, perché non saprei da dove cominciare. – Dopo un lungo lavoro di copertura, sono riuscito a farmi strada nella Compagnia di Morgan. Da molto tempo lavoro e osservo, cercando punti deboli. Per fotterlo. – Sei un terrorista? Sghignazza: – Quella è roba da terzo mondo: violenta e inefficace. Niente violenza, non quella classica, almeno. Diciamo che, come i governi, anche le migliori associazioni ambientaliste hanno i loro servizi segreti. Tutti i servizi segreti hanno dei nuclei operativi. Io appartengo a uno di questi, il cui obiettivo è l’eliminazione, non fisica, di Morgan, attraverso il fallimento pilotato dei suoi progetti di investimento. Primo fra tutti, la Città Perfetta. – Un James Bond ecologico, insomma –. Mi pare, se la memoria non mi inganna, la più grossa minchiata che ho sentito da almeno due anni a questa parte. – Sono più grasso e scopo di meno, purtroppo, ma in un certo senso rende l’idea. – Come si chiama la tua organizzazione? – Se vuoi nomi iscriviti al Rotary. Noi non siamo il Rotary, non ci deve chiamare nessuno e quindi non abbiamo un nome. – Perché mi dici tutte queste cose? – Te la faccio facile. Tutto ’sto casino che fate per il suicidio di Max è stupido e dannoso, te l’ho già detto. Morgan non lo ha ucciso. Non che non sarebbe stato capace di farlo, solo era inutile. Così come non sarebbe vantaggioso uccidere te, motivo per cui sei ancora vivo. Come ti ho appena dimostrato, io non ho avuto grossi problemi a trovarti. Morgan, se solo avesse voluto, ci sarebbe arrivato prima di me. So anche che siete d’accordo con Borsch per fargli uno scherzetto. E anche questo, come lo so io, lo sa meglio lui: ce l’avete già in quel posto e nemmeno lo sapete… Cerco di afferrarlo, ma vengo trattenuto giù da braccia che non vedo. – Figlio di puttana, ti diverte tanto fargli lo sbirro? Mette il suo delicato dito indice sul mio naso: – Schscht! Non disperdere energie in cazzate, concentrati su quello che hai. È la seconda volta che te lo dico e non ce ne sarà una terza. Quando comincerete a sentire il dolore – e ti assicuro che sarà presto – prima che a te o a un altro dei tuoi compari venga in mente di fare un nuovo numero da kamikaze come quello in cui ti sei esibito ieri, voglio che ne parliate con me. Ho un progetto per quell’uomo, e non me lo farò rovinare da quattro hacker isterici. – E se non lo facciamo? – Ti rompo il culo in modi che non osi neanche immaginare. – Niente violenza, eh? – Non quella classica, almeno. Il cazzotto in faccia mi viene elargito con la stessa naturalezza di un buongiorno o di un buonasera. La Furia in blue-jeans e maglina attillata si abbatte su di me come un temporale d’estate. Dalle scarse nozioni che in ventotto anni ho racimolato su questa Terra, ricordavo che il rischio di venire investiti da una improvvisa grandinata si corre una volta usciti all’esterno, e non appena rientrati al coperto, ma potrei anche sbagliarmi. Potrei, visto che la quantità di ossigeno che mi arriva al cervello è severamente limitata dalla Furia in blue-jeans che, avendo vinto la mia verticalità, adesso mi siede graziosa sul petto e prosegue nel bersagliarmi il volto di dritto e di rovescio. – Che cosa ti avevo detto, eh? – (pugno) – Che cosa ti avevo ripetuto? – (schiaffo) – Che cosa cazzo ti avevo raccomandato, imbecille? – (ginocchio sulla trachea e due nocche nell’occhio sinistro). – Te lo avevo pure scritto, no? Ti avevo avvertito: non ti muovere da lì o ti ammazzo. Era molto chiaro, due opzioni: non muoversi o morire. E tu che fai, bruttotestadi… – Devo ammettere che preferisco quando mi lascia i bigliettini. – Okay, Bella, basta così. È ancora tutto intero, dopotutto –. Il Conte, benedetto il suo santo nome, prende la Furia per un braccio e la allontana dal mio apparato respiratorio. – Lasciamelo per un altro minuto e rimedio subito, – risponde lei, ma per mia fortuna il Conte non coglie l’invito. Per un momento penso di tirarmi su, ma poi decido di non sfidare il destino e di rimanere disteso sul pavimento. Dopo le numerose mazzate prese oggi – e non siamo nemmeno all’ora di pranzo – comincio ad apprezzare le qualità di una posizione dalla quale nessuno ti può buttare giù. Il punto zero del rischio, come avere il cancro al fegato e firmare una polizza assicurativa sulla vita. – Dove sei stato? – La voce della Furia è tutta di gola. – Ehi, è tutto a posto! Sono solo andato a prendere il giornale, e poi mi hanno rapito. Ma non c’è motivo di preoccuparsi –. Dalle facce che fanno il Conte, Bella e Marianna, intuisco che non hanno colto fino in fondo la serietà delle mie affermazioni. Però io sono già troppo stanco per spiegare cose difficili da spiegare, dunque soprassiedo. A sentire Sebastian, in questo momento non è necessario che tutti sappiano tutto (immagino che la trasparenza non sia mai una condizione necessaria per Sebastian). – Voi, piuttosto, che notizie portate dalla polizia? E il Conte mi dice. Mi dice del grosso commissario scettico e sensibile. Mi dice dell’imprevedibilità dei gesti suicidi e della prevedibilità di parenti e amici dei suicidi. Mi dice di come senza una denuncia formale… Mi dice dei rilievi della scientifica, inequivocabili. Mi dice delle impronte e dell’olio di cocco. Mi dice del curioso particolare del mantello da Zorro, di cui non eravamo informati. Mi dice del mantello da Zorro. Cristo. E io mi ricordo di una mattina di non troppo tempo fa, quando un ragazzo che credeva gli fossi amico mi trascinò in un bar per parlarmi dei suoi problemi esistenziali. Che dall’alto della mia stronza incomprensione, io ritenni patetici e velleitari. Mi ricordo di una storia strampalata, un sogno forse, in cui lui era Zorro, l’eroe senza paura. Capisco solo adesso che Max aveva paura, eccome. Mi viene da vomitare. Chissà le risate che si sono fatti alla Morgan Holding, spiando tutto il nostro andirivieni. – Il commissario ha ragione, – dico con un filo di voce. – Sebastian ha ragione… – Cosa? – Marianna nota per prima il mio diverso atteggiamento. – Si è ammazzato. E io adesso me ne posso anche tornare a casa. Malinconico, abbandono il pavimento. 62. Ganimede sedeva immobile sul letto della sua dolce bambina. Masticava concentrato uno dei chewing-gum gusto pizza e birra di sua figlia, cercando di risolvere un dilemma etico. Con scarsi risultati. Il problema dei dilemmi etici è che ogni soluzione possibile comporta una razione di dolore o una di disonore. Questo quando le cose sono semplici. Altre volte, dolore e disonore sono presenti insieme, per ogni scelta praticabile, e variano solo le percentuali dell’uno e dell’altro. Nel caso in questione, le percentuali approssimative per le uniche due opzioni disponibili erano settanta dolore e trenta disonore. Ganimede masticava, guardando con fissità stolida da ruminante la televisione, su cui scorrevano le immagini di un tipo pallido con la chitarra. Per tutta la giornata aveva parlato a Mariella, la moglie. Infine, scrutando la propria immagine stanca nello specchio, aveva concluso che i morti rispondono solo ai pazzi o ai vedovi patetici e malati. Confidava di non appartenere né all’una né all’altra specie. Aveva infilato una nuova cassetta nel videoregistratore di Dorotea, ma era troppo assorto per prestare attenzione. Guardava senza vedere e sentiva senza ascoltare. Io lo so com’è quando si muore. Accordo lungo e lugubre. Io lo so, l’ho visto. Tutte quelle storie del tunnel buio e della calda luce avvolgente che ti porta in alto… be’, non è vero niente. Morire è come cadere all’indietro su un pavimento coperto di moquette: ti fai male, ma non troppo. La caduta dura circa un giorno e mezzo, e nel frattempo non ti passa davanti la tua vita, ma solo i film più assurdi che hai visto e che non ti ricordavi più, compreso qualcuno che non hai visto mai. In alcuni recita Mickey Rooney, non so perché. Quello in cui fa il pattinatore ce lo mettono sempre. Dopo la caduta si può mangiare; mica ti passano gli stimoli perché sei morto, e un giorno e mezzo a guardare vecchi film non riempie la pancia. Non tutti mangiano, c’è chi ha fretta di vedere cosa viene dopo, ma io mi sono detto: questa non è roba che capita tutti i giorni, quindi prenditela con calma e vediamo che c’è di menu. Da morti si mangia in cucina; niente sale da pranzo. Legno, piastrelle azzurre e poco altro. Ti dànno un grosso piatto di pasta e patate. Discreto. I piatti sono di porcellana vecchia. Quando hai finito, puoi averne ancora. A tavola qualcuno prova a fare conversazione, di solito quelli che in vita non riuscivano mai a star zitti. Non si fanno domande, però: tutti ne avrebbero un mucchio, ma nessuno le fa. Ognuno deve sparecchiare per sé, ma c’è la lavastoviglie. Poi ti fanno passare da una piccola porta, giù per le scale fino a un ambiente spazioso che puzza di umido. Docce, armadietti e poca luce che filtra da finestrelle alte. Uno spogliatoio vuoto. Per un solo attimo e per la prima volta da quando sei morto, provi una forte malinconia e la solitudine più completa che ci si possa immaginare. Sei solo, in un’altra dimensione. Non succede spesso. È un attimo, però, perché subito qualcuno da fuori chiama il tuo nome. Una cantilena ripetuta e incessante. Ritmata. Er-ne-sto Er-ne-sto Er-ne-sto Er-ne-sto. Questo, se ti chiami Ernesto. Allora vai fuori, percorrendo un sottopassaggio in pendenza, e lì sì che alla fine c’è una luce fortissima. Subito prima di arrivare all’aperto, ti accorgi che la voce che ti chiama, in realtà è fatta di molte voci insieme. Migliaia. Varcando la soglia del tunnel, ancora accecato dalla luce vieni investito dall’odore fresco di erba tagliata. Ed è lì che capisci di essere in uno stadio. Nessuno ti dice di andare a centrocampo, ma con gli spalti gremiti e centomila persone che urlano il tuo nome, chi non lo farebbe? Azzurro perfetto sulla testa, morbido verde sotto le scarpe e pubblico in delirio tutt’intorno. Sei stordito e felice. Gli enormi tabelloni luminosi ai lati opposti degli spalti si accendono, e di colpo ammutoliscono le voci. Con una risoluzione digitale altissima cominciano a scorrere le immagini e una voce stentorea, diffusa da invisibili altoparlanti, commenta con la velocità di un giornalista sportivo: «Signore e signori presenti e gentili teleascoltatori, buonasera. Il programma di oggi prevede una sintesi previssuta dell’esistenza del signor Ernesto (sempre se ti chiami Ernesto). La giornata è tiepida e serena, con una temperatura esterna di 24° C. Il pubblico assiepato sugli spalti è quello delle grandi occasioni e dà vita a spettacolari coreografie. Ma ecco a voi la cronaca: il sig. Ernesto nasce a Modena (Italia) il 28 ottobre 1962 alle 4:30 del mattino». Nel frattempo le immagini che passano sugli schermi sono proprio quelle commentate. Come se durante il corso della tua vita ogni cosa fosse stata ripresa da telecamere nascoste. Lo stile del cronista è scarno e diretto. Nessuna concessione a interpretazioni soggettive delle tue azioni, nessuna ricerca di motivi o giustificazioni. Solo i fatti, nudi e crudi. Precisi fino all’imbarazzo. E il vociare dl pubblico. Appare un ragazzetto in canottiera e mutande che si chiude in bagno con una rivista erotica e ci dà dentro. Niente censura. Vorresti morire di nuovo o scavare una buca profonda e ficcartici dentro mentre la voce con tono impersonale spiega: «Con particolare frequenza nel suo quattordicesimo anno di età, il sig. Ernesto ha svolto pratiche onanistiche quotidiane, solitarie e di gruppo, in cui ha spesso coinvolto il fratello minore, i cugini e alcuni suoi compagni di scuola. In quello stesso anno – il quattordicesimo del sig. Ernesto, precisiamo a beneficio di chi si fosse messo in ascolto solo adesso – la sua libido raggiunse lo zenith, e prova ne sia che il 14 aprile 1977 il nostro si è provocato tredici orgasmi nell’arco di ventiquattro ore, sempre con atti di autoerotismo e con l’aiuto di svariati supporti esterni quali un barattolo di yogurt (immagine), un gambaletto da donna di nylon (immagine) e un pezzo di velluto bagnato (immagine)». A una parte del pubblico la performance risulta gradita. Poi, breve intermezzo col replay del gol in rovesciata che hai segnato in 2ª categoria (apice della tua carriera agonistica) – viziato da fuorigioco, scopri con rammarico. Si prosegue con la tua vita sentimentale: quante fidanzate/mogli hai avuto, quante ne hai lasciate e perché e con quali squallide o fantasiose scuse, quante ti hanno lasciato e perché e con quali squallide o fantasiose scuse (che ti eri bevuto). Zoomate e fermi immagine delle tue espressioni in occasione di ogni stupida bugia che hai raccontato per coprirti le scappatelle. Qui senti i buuh di disapprovazione del pubblico femminile. C’è persino un piccolo dettagliato documentario di quella indecorosa figura da deficiente patetico che hai fatto in Scozia con l’aiuto di un costume tipico e di una cornamusa nel tentativo di riconquistare l’amore perduto di una tua ex decisamente troia. Una storia che ti era costata una fortuna in psicofarmaci. E ancora rapide carrellate su vessazioni gratuite e abusi di potere commessi e subiti in ambito lavorativo, l’estratto conto completo della cifra da te versata in beneficenza nel corso della tua vita comparata ai guadagni e alle spese voluttuarie (miserabile), il resoconto delle ore del tuo tempo dedicate a fini umanitari (96 minuti), le foto del bambino che hai adottato a distanza (risate dagli spalti). Un veloce collage degli insulti razzisti che hai urlato con la bava alla bocca a giocatori neri di squadre diverse dalla tua, montato in sequenza con le immagini di tutte le volte che hai gridato fascista-nazista ai tuoi avversari politici. Si prosegue con gesti d’affetto sinceri e non richiesti offerti e ricevuti, liti condominiali all’arma bianca, vacanze alternative che avevi giurato di cancellare per sempre. Vengono contate tutte le volte che hai usato gli avverbi «sinceramente» e «francamente» prima di dire una balla e sommate a quelle in cui hai usato le espressioni «sinergia», «ottica europeista», «autocoscienza del proletariato» e «alzare il livello dello scontro». Il tutto dura circa un paio d’ore, mentre su un display scorrono in progressione due cifre, una rossa e una blu, sempre in aumento. Alla fine ti viene chiesto di sottrarre la prima alla seconda, e ti viene spiegato che rappresentano la quantità di piacere che sei riuscito a dare agli altri e che hai ricevuto per te. Non puoi barare. Se il risultato è zero – strano ma capita spesso – vieni fatto accomodare sugli spalti ed entra il prossimo. Se hai dato più piacere, ti tocca il paradiso, che è diverso per ognuno. Se hai ricevuto più piacere, ti manderanno in paradiso lo stesso, ma ci andrai in campeggio con una tenda canadese a due posti, e dovrai portarti dietro tua suocera. Il pezzo di Daryl si concluse proprio mentre un corposo ragazzone suonava il campanello della casa di Ganimede. Lo scampanellante grondava sudore, ma l’effluvio delle sue ascelle stakanoviste era di borotalco. Mentre Ganimede Borsch stava per scegliere una delle due sole vie presentategli dal suo dilemma etico, il visitatore alla porta si apprestava ad aprirgli una botola sotto i piedi. 63. Il tizio entra in casa e allunga la mano verso l’interruttore della luce. L’interruttore della luce, nonostante sia pagato per questo, si rifiuta di adempiere il suo unico dovere. – Merda, pure la luce manca adesso, – mormora il tizio, senza notare l’incoerenza del fatto che la luce nel pianerottolo non manca per niente. Bisogna scusarlo, visto che è stanco, depresso e debilitato. Dopo aver pisciato alla cieca (con effetti a cui preferisce non pensare) ed essersi tolto le scarpe nel corridoio, entra in camera con l’intenzione di buttarsi sul letto e raggiungere al più presto un adeguato stato di incoscienza. Quantomeno per lo stato di incoscienza verrà subito accontentato. Non è tanto la penombra, a quella si è abituata. I suoi occhi ormai farebbero invidia a gatti e civette. L’immobilità, però, l’ammazza. La circolazione sanguigna si intasa e il corpacchione di Dorotea comincia a formicolare in vari punti. Non c’è massaggio che tenga: si deve muovere per forza. Per non perdere la posizione strategica assunta ore fa, dopo aver studiato l’ambiente, ha scelto di fare ginnastica sul posto. Flessioni, piegamenti, stretching. Ormai va avanti a intervalli sempre più brevi da non sa nemmeno quanto. Il porcobastardo è stato fuori tutta la notte, di certo a prendere in giro qualche altra poveracrista, e ancora adesso, a pomeriggio inoltrato, non si fa vedere. Ma col cazzo che lei si muove da lì: dovrà pur cambiarsi le mutande ogni tanto, il bastardoporco, e quando succederà, quando sarà nudo e goffo come solo i maschi sanno essere, una gamba dentro e una fuori dalle brache, Dorotea farà balenare le cesoie sorridendo. Non che abbia portato davvero le cesoie, ma è una bella immagine da figurarsi: lo sguardo terrorizzato di un porco nudo come un verme (rarità zoologica), che si trova impreparato a fare i conti con una castrazione incombente, regina delle paure ancestrali maschili. Dopo molte ore di attesa all’adrenalina e di esercizi fisici sempre più intensi, l’odore che le vien su dalla camicetta non la convince affatto. Se il tipo ritarda ancora un po’, si accorgerà della sua presenza a naso già dal pianerottolo. Andare in bagno a darsi una sciacquata, però, è da escludere: il bastardo arriverebbe proprio in quel momento, questo è certo, e non sarebbe un granché come effetto. In situazioni del genere bisogna subito partire da una posizione di dominio: lui in mutande e tu con le cesoie va bene; lui che ti sorprende nel suo bagno a insaponarti le ascelle, decisamente no. In teoria Tebaldo dovrebbe avvertirla in tempo col cellulare, visto che lo ha piazzato davanti al portone a fare il palo nell’auto di suo padre, ma al novanta per cento quello è già crollato. Potrebbe chiamare per svegliarlo, ma non avrebbe mai la sicurezza che non si riaddormenti all’istante. Quindi l’unica è continuare a puzzare come una bestia selvatica e portare pazienza. In quella, il cellulare vibra, provocando a Dorotea una simpatica extrasistole. La voce traballante di Tebaldo annuncia una visita. – Sta salendo qualcuno: maschio, bianco, sui venticinque. Maschio, bianco, sui venticinque. Dorotea scuote la testa e pensa: troppi film americani. Almeno non dormiva, pensa ancora. E poi risponde: – Potrebbe essere lui. Se fra venti minuti non ti richiamo, fai qualcosa. – Qualcosa cosa? – E che ne so? Inventa. Chiude la comunicazione e assume la posizione studiata in precedenza per ottenere il massimo effetto dal suo «attacco a sorpresa». Tale posizione consiste nell’appollaiarsi sul tetto dell’armadio della stanza (è un armadio robusto). Non che sia granché, come strategia, ma un appartamento di cinquanta metri quadri non offre le stesse opportunità di mimesi di una foresta vietnamita. In ogni caso, l’effetto sorpresa del corpo di Dorotea che si abbatte da un’altezza di due metri su un qualunque essere vivente è certo adeguato a far passare a quella sventurata forma di vita un brutto quarto d’ora. Questo lei lo sa benissimo, non sarà un genio ma è sempre stata obiettiva sul suo aspetto fisico. La porta si apre con uno scatto secco. 64. Ho camminato e camminato e camminato. Questo per la prima ora e mezza, poi mi sono stancato e ho preso la metro. Ci sono rimasto per le successive sei ore, credo. Mi piace la metropolitana, mi conforta la sua esemplificazione, rappresentazione, sintesi dei destini umani. Un posto che ti mette in comune per dieci minuti con centinaia di persone che non conoscerai mai e forse nemmeno incrocerai più. Li vedi tutti fermi, pure se hanno fretta (vai di fretta anche tu), che sopportano stoici quella sosta mobile in treno, leggendo o guardando il vuoto, quasi mai parlando (anche tu fai così), per poi riemergere all’aria aperta, restituiti alla loro esistenza. Sottoterra è un mondo a parte, non è vita reale, tempo reale, sogni reali: è solo sottoterra. Un mondo essenziale fatto di gallerie, treni e indicazioni per le linee. Solo colori, nomi sintetici e direzioni. Niente di più, a parte i cazzi tuoi. Puoi essere Bakerloo o Spagna, Malostranska o Goya, Zoo o High Barnett via Charing Cross, e per qualche minuto sei soltanto quello, senza altre distrazioni, perché oltre ci sono solo buio e terra e cavi elettrici. Sono salito su un treno assieme a un uomo dal volto scavato. Perso in un vestito largo e liso, che molte storie fa doveva essere elegante. Ha parlato: – Signore e signori, mi scuso in anticipo con voi per il disagio e i sensi di colpa che la mia confessione dovesse causarvi. Io sono sieropositivo. Non ho alcuna intenzione di minacciarvi con siringhe sporche o scaricare la mia rabbia su di voi. Comprendo la paura e la diffidenza che traspaiono dai vostri atteggiamenti indifferenti. Non mi offenderò se continuerete, come state facendo, a non guardarmi e a fingere che non esisto. Vi prego solo di depositare, se potete, una piccola offerta in questo bicchiere, che adesso poserò in mezzo al corridoio, in modo che non abbiate la necessità di avvicinarvi troppo a me. Vorrei tanto non doverlo fare, e di certo l’unico responsabile della situazione in cui mi trovo sono io – con un piccolo aiuto del nostro poco elastico sistema sanitario – ma adesso, proprio per la mia inettitudine, posso solo affidarmi alla carità degli sconosciuti. Se potete, grazie. Se non potete o non volete, grazie lo stesso. Condividi cose come questa con altre mille persone ogni giorno: mille persone per venti minuti in un mondo primordiale. Fai i tuoi allucinati e un po’ claustrofobici sogni metropolitani, respiri quell’odore tipico e indefinibile, e poi rinasci alla luce, all’aria, alla realtà delle cose della tua vita. Solo un’interruzione, una diversa dimensione inquietante e passeggera. L’interregno della passività e della solitudine esistenziale. Il quotidiano precariato dell’anima. Oggi però dieci minuti non mi sarebbero bastati. Ho passato i primi quaranta a pensare la frase: «Se solo avessi… se solo avessi… se solo avessi… se solo avessi…», senza trovare il coraggio di concluderla. In un impeto infantile ho cercato di interagire il più possibile con altre persone, anche se in modo minimo. Le ho sfiorate, ho sorriso. Pensavo, nella mia follia, di poter pareggiare il conto col destino. Ieri la mia distrazione, la mia presunzione hanno provocato (o almeno non hanno evitato) la morte di Max. Oggi un sorriso non richiesto, un piccolo gesto di attenzione e rispetto potrebbero sortire l’effetto opposto. Pensavo. Basta una piccola cosa, qualsiasi cosa. Anche se poi non lo saprai mai, grazie all’elemosina che hai fatto a un vecchio, magari tra vent’anni non scoppia la III guerra mondiale. O il contrario. Ho cambiato linea e direzione ogni tre quattro fermate. Ho ascoltato a lungo due artisti da strada che in uno dei tunnel di connessione cantavano Simon & Garfunkel meglio di Simon & Garfunkel. Ho spiato una giovane donna di colore, molto bella, che borbottava fra sé sconnesse frasi in francese, maledicendomi perché non capisco bene il francese. Piangeva. Le ho dato un fazzoletto. Cretino: un vaso incollato non è mai uguale a un vaso sano. Apro la porta con rabbia e cerco l’interruttore. Che non funziona. – Merda, pure la luce manca adesso. La stanchezza è arrivata tutta in una volta mentre salivo le scale, e ora l’unica cosa che chiedo è di non esistere per un bel po’. Entrando in camera, allungo per istinto la mano verso l’interruttore, che rimane imperturbabile. Mi disgusto appena del greve odore di stallatico esalato dalla mia persona, ma respingo l’idea di rimandare il sonno per far posto a una doccia. Poi il buio si ispessisce di colpo, e ho come l’impressione di avvertire uno schianto. Che purtroppo riguarda me. Mentre riprendo consapevolezza delle mie dita dei piedi (e di tutto il resto, purtroppo), posso apprezzare un concerto di Beethoven per trapano elettrico e martello pneumatico eseguito dentro la mia testa. Oggi è la terza volta che vengo sbattuto e immobilizzato per terra, anche a casa mia adesso, e mi viene un filino da piangere. Con tutta la buona volontà, mi sembra che si stia esagerando. – Ciao tizio, come te la passi? – La voce è profonda ma femminile. Le ombre si diradano scacciate dalla luce, che ora è accesa. Il commando di terroristi che mi ha atterrato è composto da una sola giovanotta robusta dall’espressione molto arrabbiata. Ha la faccia larga due volte la mia, occhi ardenti e i capelli umidi di sudore le stanno appiccicati sulle tempie. Veste una felpa nera e spessa, che contiene appena delle forme poco rassicuranti, da ex atleta della Germania Est. Il suo fisico ha il genere di consistenza ottusa comune a quelli che si ostinano a rimanere in piedi e a camminare minacciosi verso di te anche quando gli hai sparato sei volte. In ogni caso, al massimo potrei colpirla col mio senso dell’umorismo, dato che per il resto sono immobilizzato. Mi ha bloccato ammanettandomi la mano destra all’armadio e il piede sinistro al letto. Sta seduta sulla sponda del letto e mi tiene uno scarpone pesantissimo con indolenza sulla mano libera. – ’scolta tizio, non ho intenzione di perdere tutta la notte con te –. È già qualcosa. – Perciò vengo subito al dunque. Le cose che potrei fare sono queste: 1) ti salto giù dall’armadio a piedi uniti sullo sterno; 2) vado in cucina a cercare qualcosa di tagliente da usare sulla tua faccia; 3) ti ascolto mentre mi dici tutto quello che hai fatto alla mia amica Fanny (bastardo); 4) ti castro. Scegli. – Come hai detto che era la terza? – Vedo che sei un tizio sveglio. La terza era «ti ascolto mentre mi dici tutto quello che hai fatto alla mia amica Fanny». Fanny Globo, ricordi? Quella che si è suicidata per colpa tua (bastardo). – Ma io non conosco nessuna Fanny Guhuoah! – La suola del suo scarpone mi stritola le dita. – Risposta sbagliata, signor tizio, prova ancora. Cerco nella memoria l’anfratto maleodorante dal quale può essere venuto fuori questo incubo. Cerco cerco cerco, mentre i suoi occhi diventano più cattivi. Cerco. E trovo un ritaglio di giornale: Ieri si è tolta la vita una donna di ventitre anni, Fanny Globo… dissanguata, circondata da memorabilia del suo eroe preferito… Daryl Domino… condividere la disperazione e le disillusioni del suo eroe… Merda. – Oh Cristo, mi dispiace, senti uahohah! – Mi spezza una falange col tacco. – Spiace molto di più a me, se è per questo. Quanto dispiaccia a te, devo dire, mi passa per posti poco nobili. Io voglio che tu mi dica perché. La domanda più difficile, a cui devo cercare di dare una risposta plausibile, o questo rinoceronte incazzato vendicherà la sua amica facendo poltiglia delle mie ossa. E avrà pure ragione. Cerco di tenere su la testa appoggiandola contro l’armadio, la stanza gira tutt’intorno, ma devo controllarmi. Vomitare è fuori discussione. – È cominciato per gioco –. La pressione alle dita si allenta, o almeno così mi sembra. – Impossibile dire quando dal gioco si passa a fare sul serio… non c’è un momento preciso. Quello che prima consideravi uno svago saltuario, d’improvviso diventa un’abitudine radicata. Ci pensi di più, ti dedichi, lo aspetti come il momento cruciale della tua giornata… – Con l’altro piede la gigantessa batte tre volte per terra, in segno d’impazienza. – Okay okay, ci sto girando intorno. Meglio cominciare dall’inizio, così ti darò un quadro completo. In effetti è nato tutto come un gioco intellettuale che io e i miei amici abbiamo iniziato per caso. – I tuoi amici? Vuoi dire che siete un gruppo? – Certo, non sono mica cose che puoi fare da solo, a meno di non rimanere a livello dilettantesco –. Le sue profonde, nerissime pupille si dilatano disgustate. – In principio usavamo tecniche di approccio rudimentali, che abbiamo via via raffinato, fino ad arrivare ai risultati attuali. Poi, uno studioso di sociologia ci ha chiesto se poteva analizzare da vicino i nostri metodi e le reazioni che riuscivamo a scatenare, e così ci diede l’idea… – Cosa? Vuoi dire che ci studiate anche sopra? – La pressione sulla mano aumenta di nuovo, ma ormai sento solo una specie di formicolio. – Be’, c’è stato anche un certo interesse scientifico, dietro. Per altra parte volevamo vedere fino a che punto era possibile tirare la corda. Era divertente. Le fiamme dei suoi occhi divampano ancora: – Giocare con la pelle della gente la trovi una cosa divertente? – Non avevo mai pensato di poter influenzare a tal punto la vita di una persona. – Non una persona, bello, si chiama Fanny. Lasciale almeno il suo nome, signor tizio. – E tu lascia a me il mio. – Va bene, come vuoi che ti chiami? Preferisci Giona o MisterVega? – … – … – Misterchi? – Che fai, ti rimangi la confessione? MisterVega, piccolo grande seduttore. Cos’hai raccontato alla mia amica, cosa le hai fatto? Hai portato i tuoi compari all’appuntamento? Il sociologo ha studiato le sue reazioni mentre la violentavate a turno? Cosa? Ho come l’intuizione che ci siamo impigliati in un colossale equivoco. – Non so di cosa stai… – Non dire quella frase, non ti azzardare a… – …parlando. Quattro nocche si avvicinano a forte velocità mantenendo una decisa rotta di collisione col mio occhio sinistro. Ouch! Va bene, ho appena detto la frase che più fa incazzare i poliziotti durante gli interrogatori, ma in effetti… di che cazzo sta parlando? – Onde evitare altre scene patetiche, eccoti le stampate di tutte le chiacchierate che hai intrattenuto con Fanny, sia in chat che via mail, compresa l’ultima, quella dell’appuntamento. Da queste sono risalita al tuo computer, e ti ho trovato –. Mi passa un mazzo di fogli, lasciandomi libera la mano sinistra, che ormai ha la sensibilità di un paracarro. Comincio a scorrere i dialoghi di due fantasmi di carta. Uno di nome Fanny, l’altro chiamato MisterVega. Penso all’unica persona che usava il mio user id, il mio identificativo in rete, e ho già un sospetto. Penso anche al vero nome di Zorro, don Diego de la Vega, ma preferisco essere sicuro e leggo tutto quanto. All’inizio quasi non sembra lui, ma col proseguire dei messaggi si vede che acquista più sicurezza, ed ecco che compaiono le vecchie brave tecniche di abbordaggio che noi tutti, suoi amici, ricordiamo. Ti ho riconosciuto Max, patetico cialtrone. – Va bene, adesso devo dire una cosa che ti farà venire voglia di picchiarmi. – Più di quella che ho già? – Probabile. Posso sperare che tu riesca a controllarti? – Non ci contare. Non credo di avere molta scelta comunque: – Hai… hai sbagliato persona. Non sono io quello che cerchi. Mi guarda. Calma. – Sento che sto per colpirti duro, Giona. A meno che non ti inventi qualcosa di molto convincente e commovente. Consiglio di metterci storie di orfani e maltrattamenti a minori. Raccontala bene, piccolo, fammi piangere. O giuro che ti spezzo una gamba –. Fa un cenno con la mano, come a dire: «prego». – Era un mio collega, l’uomo che stai cercando: Max. La versione da centro commerciale del superuomo nietzchiano. Molto bello, molto atletico, molto brillante, molto sicuro di sé, con una sindrome ossessivo-compulsiva che lo spingeva a sedurre chiunque… – E com’è possibile che le tracce di MisterVega in rete portino a te? – Quello è il meno. Lavoro in una società di software e… fino a poco tempo fa ci lavorava anche lui. Conosceva il mio user id, il mio codice identificativo in rete. Poteva accedere a qualsiasi sito lasciando tracce che conducessero a me. Anzi, lo ha fatto più di una volta. Per uno come lui era un gioco da ragazzi. Considerato che, quando ha cominciato a chattare, non aveva certo intenzione di uscire allo scoperto, non è difficile immaginare che si sia nascosto dietro il mio identificativo. Una breve interferenza di dubbio vibra nei suoi occhi, ma non è abbastanza. – Se mi passi il portatile che c’è sulla scrivania, ci colleghiamo e ti faccio vedere la sua pagina web –. Mi avvicina il laptop senza esitare, e in pochi secondi le metto davanti quel piccolo concentrato di Max che è la sua pagina di presentazione. Fastidioso dinamismo e disgustosa autoreferenzialità. Max al cento per cento. Non abbiamo ancora avuto il coraggio di toglierla da lì. La ragazza osserva la foto (in costume da bagno su spiaggia tropicale, figurarsi) e poi osserva me, annuendo. Come se l’idea che si era fatta del tipo che sta cercando, solo ora avesse acquisito una fisionomia che io non riuscivo a garantire. Legge avida tutte quelle tronfie scemenze sulla vita di Max, tipo amo il jazz, detesto la cucina cinese, e via dicendo. Poi alza la testa: – Non c’è che dire, la prosa è quella di MisterVega, e anche l’aspetto fisico si avvicina di più a quello che mi immaginavo, ma non basta a convincermi… – Portami da lui –. Ecco. – Mi sa che non posso. Alza una mano minacciosa sulla mia faccia: – Non ricominciare. – Non posso proprio… Si è ucciso pochi giorni dopo la tua amica –. Recupero nel sito del giornale locale l’articolo sul suicidio di Max. Lo legge con espressione di pietra. E adesso il silenzio è una coperta di gomma nera. La tipa si alza, cammina in tondo, furiosa, fa un gesto con le mani, come a dire questo è troppo, ci rinuncio. Torna verso di me. – Cosa siete una setta? Chat line e suicidi di massa? Che razza di lurido affare avete messo su? Mi afferra per la camicia e mi strattona un po’, giusto per non perdere le abitudini. – Prima hai parlato di una specie di gioco, adesso voglio che me lo spieghi per filo e per segno. È giusto. Vuoto il sacco: le parlo del nostro lavoro, le spiego degli esperimenti sociologici in rete, di come abbiamo creato le Icone Sociali Informatiche. Le dico di Daryl Domino, di come ce lo siamo inventati, di come ci è sfuggito di mano. – Mi prendi per scema? Daryl Domino non è un bluff. Non può essere! – ribatte. Chiedo di nuovo il portatile. Dentro, c’è ancora qualche file di preparazione della grafica di Daryl. In alcune delle prime prove aveva anche la barba, poi però abbiamo deciso che faceva troppo Gesù Cristo, optando per la versione glabra. Le faccio vedere una ventina di secondi di un intervento inedito. Cambia atteggiamento: si svuota come un palloncino e si appoggia alla sponda del letto. Non sembra più così grossa. Balbetta qualcosa di appena percettibile. Innamorata di un gioco elettronico. – Prima avevo pensato anch’io che potesse essere colpa nostra, cioè, quello che è successo alla tua amica. Ne avevamo discusso molto. Il fatto di aver usato toni troppo pessimistici nelle apparizioni di Daryl, involontari messaggi autodistruttivi, ammiccamenti al cupio dissolvi adolescenziale. Abbiamo interrotto proprio per questo, ma ora… – Si volta verso di me, come se si accorgesse solo adesso che sono qui, dopo avermi dimenticato. – Cosa? – Dicevo, ora so che Max e Fanny si conoscevano… – mi fa ancora strano pronunciare il nome di questa ragazza, – e la cosa acquista tutto un altro senso. – Cioè? – Non dico che sia andata per forza così ma, insomma, è possibile. Max rimorchia Fanny su una chat. Gli sembra un tipo interessante e in più è una fan sfegatata di Daryl Domino. Max ha un asso nella manica, non ti pare? – … – Il rapporto a distanza continua, ed entrambi ne rimangono coinvolti. Decidono di vedersi. E lì Max fa la cazzata. Per stupidità e vanagloria (due doti che, ti posso assicurare, non gli mancavano), le parla di Daryl. Con l’immensa delicatezza che lo ha sempre contraddistinto, rivela a una sensibilissima ragazza che l’unico essere che lei ritiene puro e grande e divino, l’unico che le parla al cuore, in realtà è una patacca virtuale. Mentre il mio amico gioca a fare il genio, mostra i muscoli e il sorriso, lei cade a pezzi. Invece di sbrodolarsi in ammirazione per Max, come il coglione si sarebbe aspettato, lei fa… lei fa quello che fa. E per la prima volta in vita sua, il mio amico fa conoscenza col rimorso. – … – Tu pensavi che l’avesse violentata o maltrattata in qualche modo fisico. Questo lo posso escludere, non era da Max. Ma ferire una persona per completa mancanza di tatto, senza nemmeno accorgersene… be’, questo era decisamente da Max. Passano parecchi minuti, non saprei dire quanti, sono troppo stordito dalle botte in testa e dalle emozioni, che in quest’ultimo periodo non mi sono mancate. Poi la gigantessa sgonfia si avvicina, e mi slega. – Senti… vuoi che ti porti all’ospedale, per quella mano? – Eh? No, no, non è niente. Si avvia alla porta e la apre. Nello stesso momento piomba dentro a tutta velocità un tipo magro, dall’aspetto fragile. Si schianta sull’appendiabiti, uccidendolo. Non vedo perché, ormai, dovrei più stupirmi di qualcosa. – Tebaldo, che cacchio stai facendo? – L’avevi detto tu di far qualcosa se entro venti minuti… – Lo so, lo so. Andiamo. – Ma… – Andiamo. Prima voce (femminile con accento bleso): – Oh, guavdi, ovmai tutto va a votoli. Ne pavlavo giusto l’altvo giovno. Evavamo in villa su a Montecavlo, duvante la colazione la pvincipessa nostva ospite vifletteva pvopvio sul fatto che è impossibile tvovave sevvitù degna di questo nome al giovno d’oggi. È d’accovdo? Seconda voce (maschile, annoiata e perplessa): – Eh? Ah, be’ se lo dice lei… Prima voce: – E cevto che lo dico. Oggi sono tutti lauveati, tutti in cavvieva, hanno ambizione. Non gli va di sevvive, a lovo. E noi siamo costvetti a vipiegave sugli extvacomunitavi che, non pev dive, ma sembva abbiano un’imbvanataggine natuvale, non cvede? Seconda voce: – Non saprei dirle, non ci ho mai fatto caso. Prima voce: – E poi, questi ex sevvi vipuliti ce li tvoviamo infiltvati nella buona società, ad avvampicavsi goffi. Si è passato il limite della volgavità ovmai. Seconda voce (sarcastica): – E già si è proprio passato il limite. Prima voce (sospettosa): – Ma lei, giovanotto, dove vive? Non la si vede spesso qui. Seconda voce: – Per fortuna no. Sono residente nella Città Perfetta. Prima voce (sorpresa): – Ma che bvavo, voglio subito pvesentavle mia figlia. Anche lei ha fatto domanda pev la Città Pevfetta. Seconda voce (sbrigativa): – Madonna com’è tardi, devo scappare, facciamo un’altra volta, eh? Pay off: Città Perfetta. C’è chi fa il nobile e chi lo è. Dallo script di uno spot radiofonico della nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 65. Vetro e acciaio composti in soluzioni tecnologiche all’avanguardia e inseriti in uno spesso palazzo art déco. Strutture futuristiche come ci si immaginava sarebbe stato il futuro negli anni Trenta. Camminiamo uno accanto all’altro, adagio. Il timore di chi è fuori posto. Stamattina alle sei, la sveglia delle cattive notizie ha trillato nelle nostre camerette con lo squillo del telefono. Ken ci ha avvertiti uno per uno. Mai si sarebbe sognato di sottrarsi all’incombenza. Siamo fatti. L’aiuto non richiesto, offertoci da Ganimede Borsch, si è volatilizzato così come era stato predetto da Sebastian. In un soffio. Un ricatto, pare. Ha le mani legate, pare. Rischierebbe la galera, pare. Gli dispiace, pare. E noi siamo fottuti, questo invece è sicuro. Ancora e per sempre nelle mani del piccolo onnisciente Lorenzo. Su esplicito invito del nostro nuovo dio, siamo venuti a presenziare al «debutto della Simpliciter nella buona società degli affari che contano», come l’ha chiamato uno dei melliflui emissari di Morgan. Non ero mai entrato nel palazzo della Borsa, mai nemmeno avvicinato. Credevo fosse una roba sontuosa, scalinata e porticato con colonne, affreschi e stucchi senza fine. Mi ha un po’ deluso, devo ammettere. L’edificio è grande, con una sua eleganza bigia, ma il portone sembra un’entrata di servizio. Piccolo (insomma, piccolo rispetto al resto), squadrato, con una porta girevole di vetro spesso un palmo. Linde e immobili guardie giurate all’ingresso in stile gioventù hitleriana. Indosso sgargianti bermuda da windsurf, come estremo personale e sconclusionato atto di ribellione. Tanto per dare fastidio. Quando mi ha visto, Ken stava per rimproverarmi, ma poi ci ha riso su. Tanto, ormai. Le guardie non mi degnano di una seconda occhiata. Sanno bene chi fermare e chi no. In un qualsiasi altro giorno non mi avrebbero fatto fare nemmeno tre passi. Non oggi. Oggi, l’ala benevola di Morgan sfiora e accompagna le nostre teste. E io, nonostante i pantaloncini, sono disarmato. Statue di pesanti ma plastiche figure mitologiche scorrono ai lati del nostro campo visivo mentre camminiamo. Mascelloni prometeici, mosci e incongruenti penuncoli erculei, mortificati muscoli titanici. La nostra guida, uno dei tanti galoppini di Morgan che si sono avvicendati a ronzarci attorno in questi mesi, ci conduce fino a una specie di piccionaia a vetri che incombe sopra la piazza degli scambi. Il santuario dei privilegiati, il luogo dove i numeri che scorrono su computer e display significano, in modi per me oscuri, molte cose. Beni di consumo, materie prime, oro, zucchero, valute, fortune o imperi distrutti, divorzi e scopate supreme in letti che non potrò mai permettermi, scuole prestigiose per figlie cretine, crisi di pianto, vacanze ad Aspen, mutui assurdi per fetenti bilocali comprati da coppie ignare dei titoli azionari che, invisibili, gli mangiano la vita, guerre in secondi e terzi mondi, politiche agricole depresse o gonfiate a seconda della malleabilità dei governi, germi di future contestazioni, campioni dello sport comprati e venduti. Il mercato dei titoli informatici si aprirà fra quindici minuti, alle dieci. Intanto possiamo prendere confidenza con l’ambiente. Ma non c’è niente da vedere. Mi aspettavo di trovare i broker che gesticolavano criptici, urlando vendo e compro a 2 e 15 scambiandosi migliaia di fogliettini scarabocchiati, ma il galoppino mi spiega che non è più così da un pezzo. Tutto è informatizzato, ormai. Gli scambi, il pronti contro termine e tutte quelle cose che non capirò nemmeno fra cent’anni si svolgono ordinati e silenziosi attraverso le file di terminali incassate sotto il nostro punto di osservazione. In teoria si potrebbe fare tutto da casa (come del resto già avviene), in teoria il Palazzo della Borsa potrebbe anche non esistere più. Quello che lo tiene in vita è il suo valore simbolico. Se il denaro e il potere sono simboli, la Borsa è il simbolo di questi simboli: un simbolo al quadrato. – Vi divertite? – La calma autorevolezza della voce trasforma la domanda in un’inquisizione. La voce viene dal basso. L’autorità che viene dal basso, qui, può essere solo Lorenzo Morgan. È Lorenzo Morgan. – Interessante, forse; divertente direi di no –. Il Conte ha riflessi e parola più pronti di tutti, e imbrocca un tono schietto e impertinente. In fondo cos’abbiamo da perdere? Lui sa che noi sappiamo che lui sa e noi sappiamo che lui sa che noi sappiamo. Il gioco è assai vecchio, si chiama fotti compagno, e qui lo abbiamo giocato da entrambe le parti: com’era lecito aspettarsi, ci ha fatto a pezzi. – Ottimo, non andrei a pranzo con uno che qui si diverte. Che razza di persona potrebbe essere? Oh… ecco il vostro momento. Le dieci, l’ora degli informatici. Il dito tozzo e grassoccio di Morgan tamburella sullo schermo ultrapiatto di un terminale. Fra le altre c’è una sigla che lampeggia: SIM. SIM… Simpliciter, cazzo, siamo noi! La quotazione iniziale è 11,00. Il che non mi dice molto, visto che non so quale sia l’unità di misura. Non so molte altre cose, in realtà, ma è meglio così: se non conosci il trucco, ti godi meglio lo spettacolo. La sigla SIM smette a un tratto di lampeggiare, e i numerini scorrono: 11.1/4; 11.1/3; 11.3/5. Gli altri guardano i numeri come ipnotizzati, io tengo d’occhio Morgan, che sta un passo dietro di noi. Il suo sguardo tira rapide stoccate a destra e a sinistra. Sorride e annuisce piano, le mani dietro la schiena. Ha il nodo della cravatta allentato e un lieve alone di sudore all’altezza del capezzolo sinistro. Appare goffo in quel suo abito di taglio raffinato, che veste come se lo avesse preso a nolo, ma emana qualcosa che molti vorrebbero e pochissimi hanno: controllo. I miei compagni rimangono ancora per qualche istante rapiti dalla levitazione del titolo SIM, ma a uno a uno riprendono conoscenza, più o meno imbarazzati per la piccola concessione all’avidità che la loro attenzione ha rivelato. – Non vorrete star qui fino alla chiusura del listino, spero? – azzarda ancora Morgan. – Vi posso anticipare il risultato… – Bisbiglia, sporgendosi in avanti: – A meno che non riteniate una mancanza di tatto il fatto che vi rovini la sorpresa… Non lo riteniamo. Il linguaggio dei nostri corpi è esplicito. Sei colli si allungano all’unisono verso Morgan e sei paia di orecchi vengono offerte alle sue labbra asciutte. Marianna ardisce di rompere il silenzio: – Intende dire che lei può… – Non potrei, ma di solito me ne frego. Rimarrà il nostro piccolo segreto. Piccola pausa bastarda per farci allungare ancora di più i colli e misurare con essi la profondità della nostra cupidigia. – Arriverà a circa otto volte e mezzo il suo valore di partenza, per oggi. La fissità calcarea delle nostre espressioni deve sembrargli soddisfacente. – Andiamo a mangiare qualcosa, adesso. Faccio strada, – conclude, battendo una volta le mani con un rumore di schioppettata. Se fosse un videogame, Morgan sarebbe Black & White: il giocatore interpreta il ruolo di Dio nel Vecchio Testamento, e deve farsi adorare dal più vasto numero possibile di persone dispensando pestilenze, flagelli e miracoli. Lo seguiamo per un corridoio grigio di pareti insonorizzate. Marianna sussurra al Conte: – Ma se con le nostre azioni adesso siamo ricchi, perché…? – Non possiamo venderle per tre anni. Sono vincolate, ricordi? – taglia corto lui. Morgan non dovrebbe aver sentito, ma dalla sua espressione quando arriviamo all’ascensore sembrerebbe di sì. L’ascesa è imbarazzata e tossicchiante come ogni sosta in luoghi piccoli e affollati. Per di più, a vista non ci sono targhette di capienza o bottoni da fissare con improvvisa concentrazione. La punta delle scarpe può rappresentare un’onorevole soluzione, ma Morgan è talmente basso che la sua pelata rimarrebbe nel nostro campo visivo anche se ci rimirassimo l’ombelico. Le porte si aprono su un terrazzino di piastrelle in ceramica bianca e azzurra, tavolini di ferro battuto con tovaglie ricamate e ombrelloni. Graticci di legno infiltrati da piante rampicanti fungono da divisori fra i vari tavoli. Un sistema di pannelli scorrevoli lungo l’intero perimetro del terrazzo ripara dalle raffiche di vento. Sulla targa di rame affissa alla colonnina dell’addetto all’accoglienza c’è scritto Roof lounge. Sediamo a un tavolo d’angolo, senza aspettare di essere sistemati dal maître. – Qui servono degli ottimi aperitivi… non servono molto altro di ottimo, per la verità –. Prendiamo sette aperitivi. Prima che arrivino le ordinazioni, Morgan ci scruta uno per uno, senza dire una parola. Giusto per far crescere l’imbarazzo. – Siete in gamba. Davvero. Non parlo solo della Simpliciter. Quella non è male, ma ce ne sono tante come lei. Mi riferivo a Daryl Domino. Ci guardiamo. – Vi racconterò una storia, bambini. Potrei quasi essere vostro nonno, in fondo. Dubito che vi piaccia l’idea, ma potrei esserlo. Quindi mettetevi comodi e il nonnino vi racconterà una bella storia rassicurante che porterà sonni tranquilli alle vostre giovani notti –. Cristo, ci mancava solo questa! – Diciamo che ci sono due fratelli: Faccio e Compro. Diciamo che ereditano una grossa somma, suddivisa in parti uguali. Diciamo che entrambi la investono, però in modo diverso. Faccio impianta una fabbrica di oggetti utili e di alta qualità, paga gli operai secondo le tariffe sindacali e poi cerca di vendere il prodotto finito. Compro, invece, decide di subappaltare a piccole unità produttive di paesi poverissimi la confezione dei beni che intende commerciare, acquistandoli dai subappaltatori a prezzi stracciati per poi reimmetterli su altri mercati. Questi ultimi prodotti non saranno un granché, e a ben vedere non sono nemmeno molto utili, ma i soldi che Compro ha risparmiato eliminando il ciclo produttivo li spende in marketing per diffondere il proprio marchio. In modo da nobilitare l’immagine del bene venduto, giustificandone l’acquisto agli occhi del consumatore. Gratificandolo. Piccola domanda che funge da morale conclusiva: chi diventa ricco sfondato tra Faccio e Compro? – Un minuto fa ha lodato la nostra intelligenza, perché ora ci tratta da stupidi? – Ken risponde deciso. – Giusto giusto giusto, scusate. Tutti ormai conoscono l’importanza del marketing… anzi, è proprio questo il guaio. Il succo del nostro lavoro è convincere le persone a comprare cose che noi non produciamo e che a loro non servono. Vi posso assicurare che funziona meglio quando il consumatore non conosce il meccanismo. Purtroppo oggi tutti sanno tutto, soprattutto i giovani. Questa cazzo di Era dell’Informazione. Hanno capito che il marketing è il nuovo boss del sistema, e contestare il sistema è un passatempo sempre di moda. Qui entra in scena Daryl Domino… Eccoci qua. – Ragazzi, voi avete creato il marchio assoluto. Perché D.D. è un marchio che non sembra un marchio, e mai dovrà sembrarlo. Non un ridicolo logo da stampare sulle magliette, ma un marchio filosofico, etico. Un marchio che si può stampare sull’anima e non dura lo spazio di una campagna pubblicitaria. Se lo useremo con intelligenza e prudenza, se non lo sporcheremo di volgarità e non lo sciuperemo per troppa ingordigia… sarà il nostro cavallo di Troia, nonché una miniera d’oro. Il tassello mancante per il lancio della Città Perfetta, tanto per cominciare. Ci scambiamo veloci occhiate perplesse, ma prima di poter realizzare, Morgan ci spiazza ancora. – Voi potrete continuare a gestirlo quasi come facevate prima, altrimenti non funzionerebbe. Solo, ogni tanto, dovrete accettare qua e là piccole correzioni di tiro, allusioni velate, battute e altre minime cose che vi verranno suggerite dalla mia direzione marketing. Vi assicuro che il tocco sarà così leggero da risultare impercettibile. Daryl Domino grazie a voi è diventato un’icona del disagio, del malessere sociale, della contestazione poetica. Grazie a noi rimarrà quel che è, con una piccola aggiunta di controllo e reindirizzo commerciale. Fa una panoramica sulle nostre espressioni schifate. – Ehi, tranquilli, non pretendo mica che vi piaccia –. Ah be’, allora… – Dimenticavo un’ultima cosa: è quasi Natale e la Città Perfetta è pronta. Per celebrare questi due eventi si terrà una inaugurazione in grande stile. Siete pregati di esserci. 66. – Ora, non per dire, ma mi fai fare certe figure da cazzone, a volte… Dorotea lo osserva rimestare con i bastoncini nella sua porzione di spaghetti al maiale nel contenitore di cartone del take-away. Le viene da ridere, ma la sua espressione si confonde con la penombra della stanza. – Sì, ma anche tu però… Come ti è venuto in mente di sfondare la porta? Proprio mentre la stavo aprendo, poi –. Stavolta non riesce a trattenere una sghignazzata. Tebaldo accoglie e rilancia, e ciò va a suo onore. – Non ci riusciremmo di nuovo neanche riprovando cento volte! – Già. – Roba che nemmeno le comiche. – Proprio. – Dunque il tizio di Fanny si è suicidato, e non sapremo mai il perché. – … – … – No, mai –. A Dorotea non sembra il caso di fare a Tebaldo ciò che Max ha fatto a Fanny. Tebaldo continua a zappare negli spaghetti come se ci avesse perso dentro un anello. – Cristo, e a me la cucina cinese neanche piace! Questa piccola, insignificante lamentela riporta alla memoria di Dorotea due frasi e uno scontrino. Dot si alza e va a prendere il computer portatile di Fanny. Apre il file in cui sono memorizzati i dialoghi in chat con MisterVega, e comincia a scorrerli. MisterVega: Mi fa schifo la cucina cinese, non la posso neanche vedere. Uno. Poi si collega a internet e trova la pagina web di Max, che Giona le aveva mostrato. Detesto la cucina cinese. Due. Chiude il computer e rovista nello scatolone in cui sono rimaste le poche cose di Fanny. Fino a che non trova lo scontrino datato 6 novembre, il giorno in cui Fanny e MisterVega avrebbero dovuto vedersi a pranzo. Wan Ton fritti e spaghetti di soia al maiale. Pranzo cinese per una persona, ore 14:22. Tre. Non si sono mai incontrati. – No, Tebaldo, non lo sapremo mai. Un sogno che diventa realtà? Puoi fare di più: un sogno che diventa Città Perfetta. Città Perfetta: perché porre limiti all’immaginazione? Cartelloni pubblicitari 10 x 10, caratteri bianchi su sfondo nero. Nuova campagna promozionale autoironica della Città Perfetta. 67. Abbiamo lavorato come schiavi nubiani, nelle ultime settimane. Nel più assoluto silenzio. Mentre il titolo Simpliciter continuava a salire inarrestabile, arricchendoci di soldi che non possiamo spendere. Sebastian si è fatto vedere meno del solito in giro, ma quando c’era si è mostrato di ottimo umore, a far da contrappunto all’immancabile faccia da cattive notizie dell’altro nostro amato R.O.M.P.I., Maria Antonietta. Se le supposte di glicerina avessero un’espressione, sarebbe certo identica alla sua. Abbiamo lavorato come schiavi in silenzio, con attenzione. Ognuno ha fatto la sua parte, e siamo pronti. Anche se non troppo sicuri. La lunga macchina nera è passata a prenderci dall’ufficio verso le 11:00 di questa grigia antivigilia di Natale. Tutti e sette (c’è anche la moglie di Ken), belli comodi in un abitacolo che potrebbe contenere un furgoncino. Vetri fumé e interni in pelle con due ampi divani posti uno di fronte all’altro. Se qualcuno di noi bevesse di mattina potrebbe farlo, visto che c’è anche un fornitissimo mobile bar completo di bicchieri in cristallo baccarat (non c’è limite alla coglionaggine del lusso sfrenato). Siamo partiti con un freddo maligno e una pioggia sottile che ticchettava sul parabrezza, e adesso, all’arrivo nella valle, ci accoglie un solicello tiepido da primavera debuttante: il clima computerizzato della Città Perfetta. La limo ci scarica su una specie di main street simile a quella di Disneyland, e con le stesse pretese di autenticità. L’eleganza chiara dei completi da mattina e dei cappelli di paglia ci circonda man mano che ci avviciniamo all’enorme gazebo centrale, una struttura in ferro battuto bianco finto liberty. Una piccola orchestra sotto una tenda a striscioni verticali bianchi e rossi suona musica allegra, e molti intorno a noi bevono vino bianco da bicchieri lunghi. Apprezzo molto l’assenza di figuranti travestiti da Babbo Natale, la cui presenza avevo preventivato (che stupido, questo è un ambiente di classe!) C’è la televisione, e per la prima volta dopo decenni prego con sincerità per non essere ripreso. – Credo proprio che mi abbufferò con quelle tartine che tutti sbafano facendo finta di essere ancora alla prima. Scusate –. Il Conte si tuffa di testa, scavando un tunnel nella massa umana che si accalca, con stile, davanti al buffet. È vestito come un dandy tardo Ottocento: finanziera color melanzana, camicia con pizzi ai polsini, bastone di malacca, invidiabile decadente noncuranza. Marianna lo controlla da lontano. I suoi occhi dicono molto più delle parole, ma sa bene che col Conte stare zitti e lasciar fare è sempre la migliore soluzione. Molte facce sono le stesse della festa danzante al Morgan Building, molte altre si vedono in Tv e sui rotocalchi da almeno tre decenni: primo decennio pettegolezzi sui VIP, secondo decennio cronache giudiziarie, terzo decennio party di beneficenza. Morgan ci intercetta al volo, annunciando che fra venti minuti partirà il tour guidato alle ergonomiche bellezze della Città Perfetta. Veste un completo coloniale con camicia bianca aperta sul petto e scarpe di tela e ha appena ricevuto sulla pelata una razione di lampada che gli ha regalato una sfumatura color biscotto. Quindici minuti alle 12:00. 68. Apuleio si ispezionò con meticolosa attenzione le unghie della mano sinistra, con particolare riguardo quella dell’indice, che aveva poc’anzi usato per raschiare con delicatezza una materia cedevole e appiccicosa dalla parete interna dell’orecchio. Giovani uomini e donne sciamavano timorosi nell’aula, occupando il posto loro assegnato davanti ai terminali. Non avrebbero avuto una seconda possibilità, la selezione era unica e non ripetibile: o dentro o fuori. Dentro significava la Città Perfetta. Dopo aver stanato da sotto l’unghia del dito indice, con l’aiuto di un tagliacarte, la materia appiccicosa, Apuleio alzò lo sguardo verso l’unica postazione che gli interessava davvero. Vuota come un confessionale il martedì grasso. Non avendo mai provato un sentimento in vita sua e non essendo un tipo ansioso, Apuleio non si preoccupò. In fondo Dorotea arrivava sempre puntuale alle sue lezioni, puntuale ma all’ultimo momento. La selezione era fissata per le 12:00 e mancavano ancora nove minuti. 69. Ganimede aveva pensato di non andare. Era arrivato a essere sicuro che non sarebbe andato. Sapeva che sarebbe sopravvissuto a stento a un’ulteriore razione di alta società en fête. Sapeva che se la cara comtesse Severa Maria delle Erinni l’avesse ancora arpionato in una conversazione, l’avrebbe colpita duro alla bocca dello stomaco, abbandonandola svenuta sotto il tavolo degli aperitivi. Ma la curiosità, l’urgenza, che avvertiva in qualche punto della parte bassa della pancia, di vedere conclusa una cosa lasciata a metà… Aveva indossato un vestito di lino marrone che non gli era mai piaciuto, ma che si sposava a meraviglia con un bel paio di allacciate avana da golf, con tacchetti di gomma, molto belle e molto indicate per un fondo in erba e terra battuta. Il berretto, anch’esso da golf, a scacchetti in lana d’alpaca, era rimasto in auto per sua mancanza di audacia. Il che gli bruciava un po’. Mentre sorseggiava un prosecco insipido guardandosi attorno, ben felice che nessuno gli si avvicinasse per rivolgergli la parola, gli venne in mente con una fitta di senso di colpa che quello era il giorno della prova d’accesso di Dorotea alla Città Perfetta. Non ricordava nemmeno più l’ultima volta che l’aveva vista (che nemmeno coincideva con l’ultima in cui si erano parlati). Morgan gli rivolse da lontano un sorriso ondivago, alzando appena il bicchiere e voltandosi prima che lui avesse il tempo di rispondere. Nessuno, dico nessuno, che abbia scarpe adatte a un brunch in giardino, pensò Ganimede, mentre scattavano le 11:53. 70. Sono teso come una corda di violino. Non potrei mandar giù neanche una tartina, neanche una briciola di tartina, neanche un… – Manda giù questa –. Bella mi passa una pilloletta lucida e mi strizza l’occhio: – Per la tensione. – Guarda che non riuscirei a… – Puoi anche tenerla a sciogliersi in bocca, è lo stesso. Questa ragazza mi legge nel pensiero con la stessa noncuranza con cui io leggo le istruzioni per cucinare i surgelati. A volte penso che dovrei chiederle come fa, ma ho paura della risposta. Comincio a succhiare la pastiglia e subito mi prende la paura che possa essere un oppiaceo o altro simile impasto psichedelico fornitogli da uno dei suoi amici pittoreschi. – Tranquillo, è valeriana –. Cristo, di nuovo. Cinque o sei signori di mezza età, vestiti con uniformi da cocchiere della regina d’Inghilterra, invitano con grazia tutti gli ingozzanti festaioli a prendere posto sulle vetture per il giro turistico della Città Perfetta. Vedo il Conte ridere forte a una propria battuta di fronte a due belle ragazze un poco sconcertate e attratte dai suoi modi. Si avviano tutti e tre verso una vettura, non prima che il Conte abbia acchiappato un altro piattino di hors-d’œuvre e un ennesimo flûte. Ancora una volta Marianna lo tiene d’occhio a distanza, masticando con eccessiva energia. Conte passa vicino a Ganimede Borsch, e ho la sensazione che gli scappi un cenno. Ganimede rimane impassibile. Se fosse un gioco elettronico, sarebbe un videopoker con l’aspetto di Donkey Kong. Prendiamo posto su una carrozza diversa. Sono enormi tiri a quindici posti, trainati da sei cavalli ciascuno. Da un lieve ronzio che avverto sotto il sedere, intuisco che si muoverebbero anche senza l’aiuto degli animali. La voce da imbonitore di Lorenzo Morgan si leva limpida da invisibili altoparlanti incassati nelle tappezzerie dei cocchi. – Amici carissimi, ho il piacere quest’oggi di fare da Cicerone per introdurvi alle bellezze e alle comodità della Città Perfetta. Un nuovo modo di concepire la vita… Le carrozze scivolano lungo la main street, fra banche deserte e locali fantasma, quando silenziose scoccano le 12:00. 71. I titoli di testa del telegiornale delle 12:00 della rete più seguita del Paese stanno scorrendo, quando un tremolante effetto mosaico scompone la programmazione canonica lasciando emergere, nella nuova configurazione dei pixel, la figura di Daryl Domino. Il sottile menestrello sta seduto, curvo sulla propria chitarra come la madre sul figlio malato che si lamenta con voce acuta e dolcissima. L’accordo si stempera nel feed-back. – La presunzione degli uomini malvagi distrugge l’opera del giusto, e dopo averla eliminata ne offusca il buon ricordo. Si interrompe e fissa la telecamera, girando la chiavetta di una corda della chitarra. La corda salta via. – Sei anni fa sono entrato qui per la prima volta. Non distinguevo il davanti dal di dietro, né mi importava farlo. Il primo che mi ha rivolto la parola è stato il signor K, lo ricordo come se fosse oggi. La prima voce che dopo mesi pronunciava il mio nome senza ridere o gridare. Per la prima volta l’inquadratura si allarga, rivelando una stanza molto ampia. Seduto a un tavolo c’è un uomo di mezza età, rosso in volto, lo sguardo alcolico e un lieve tremore alle mani poggiate in grembo. La voce di Morgan prosegue: – Come potete vedere, nella Città Perfetta abbiamo voluto ricreare quelle condizioni di vita a misura d’uomo che progresso e commercio selvaggio ci avevano fatto dimenticare. La quantità di spazio pubblico dedicato al recupero dei valori estetici non ha eguali in nessun agglomerato urbano moderno… Domino continua a raccontare: Il signor K era felice. Sedia a dondolo e giornale sul patio la domenica mattina, figli da accompagnare in piscina, moglie devota al visone regalato l’anno scorso. Una bella famigliola che gli eventi sfortunati e la sua inettitudine gli hanno portato via. Nei suoi giorni buoni crede ancora di averne una. Ci chiama coi nomi dei figli, sorride e noi lo lasciamo fare. Domino gira la seconda chiavetta della chitarra e la seconda corda salta via. La telecamera si sposta su un uomo robusto, corpo maturo e faccia da bambino, con la testa rasata e la camicia stampata a batik tesa sui muscoli. M, invece, è il nostro don Giovanni. Ama le donne sopra ogni cosa, ma allo stesso tempo non c’è niente che gli faccia più paura. Vive in un continuo stato di agitazione adolescenziale, sbatacchiato fra onde ormonali e mareggiate di adrenalina dovute al terrore. Un solo sguardo femminile può dargli l’orgasmo o l’infarto. M annuisce con violenza e si tocca la testa. La notte risolve i suoi ardori arrangiandosi con quello che ha, e poi sogna mirabolanti imprese romantiche che ci racconta la mattina dopo. Un movimento secco e anche la terza corda frusta l’aria. La dolceamara B.d.G. molti anni fa, in un’afosa notte di piena estate, con il K 626 di Mozart a tutto volume nelle orecchie e più droga di quanta una gentile fanciulla dovrebbe poter sopportare nelle vene, si risvegliò in una stanza buia. La telecamera zooma su un’esile figuretta dai capelli viola. Braccia nervose e bianchissime appese a una canottiera grigia. Denti neri. – Col favore delle tenebre, il perfido genio chimico della lampada di Mescal convinse la povera B.d.G. di trovarsi su una nave che affondava. Prendi il tuo bambino, le disse, e gettati in mare. E così lei fece. Ma la nave era un palazzo diroccato, di cui lei occupava una stanza al secondo piano. – Parchi e centri civici in abbondanza. Verde e piccole piazze. Ritorno alla vita semplice, spazio per la mente. Avrete notato che qui non esistono cartelloni pubblicitari o altre sgradevoli ingerenze che le leggi del mercato impongono all’arredo urbano di ogni altra città moderna… Della silenziosa signorina C non ho molto da dire, visto che nessuno l’ha mai sentita parlare, se non quando dorme. L’inquadratura focalizza una donna ripresa di spalle, con un leggero vestito a fiori. Si dice che sia stata o che sarebbe potuta essere una persona molto importante. Ci divertiamo a inventarle passati burrascosi e melodrammatici. Ma la signorina C non ama stare al centro dell’attenzione, e noi la rispettiamo. Il nobile e decaduto C, al contrario, se non dorme, parla senza fermarsi fino a quando non crolla di nuovo esausto. Viene ripreso un tipo lungo e sottile, in canottiera e mutande con ampio décolleté inguinale, addormentato su una brandina. È stato ospite per lunghi anni di varie case circondariali. La metà del tempo in isolamento. Così ha sviluppato la tendenza ai monologhi. Ed eccoci agli alloggi. Si tratta di ville unifamiliari in vari stili, dal medievale al coloniale all’hollywoodiano, per accontentare tutti i gusti… La rigida signorina M sconta il fio di un’educazione borghese, e il rimorso di aver attentato alla vita del padre ancor prima di terminare la scuola dell’obbligo. La signorina M usa il cibo come penitenza, mangiando solo roba sana e insipida. Unica sua concessione al vizio: i lecca lecca al cappuccino. La signorina M adora i randagi e gli zingari; prova un’istintiva attrazione radical-chic per gli artisti di strada. Qualsiasi cencioso imbrattatele che disegna cazzi con la vernice spray su lenzuola sporche con la tecnica di un bambino di tre anni per lei è incantevole. La donna chiamata signorina M appare sulla soglia di una porta aperta, rivelandosi come l’incarnazione suprema della zitellaggine solitaria. La signorina M ha smesso solo pochi mesi fa di infliggere al suo corpo profonde ferite rituali con l’aiuto di rasoi o di altri oggetti affilati. Un’abitudine che qualcuno le aveva fatto assumere in tenera età. La quarta e la quinta corda vibrano come molle impazzite mentre Daryl Domino prosegue nel suo giro di presentazioni. E infine il mio preferito – non si dovrebbe dire, ma così è: il piccolo grande G. boy, l’artefice tecnico delle mie incursioni in Tv. La telecamera, prima orientata a mano, viene fissata su un supporto stabile, mentre l’operatore, un ragazzino di non più di quattordici anni, le gira intorno entrando nell’inquadratura. Veste una tuta rossa più vecchia di lui con strisce bianche laterali su cui giganteggiano incredibili orecchie a sventola. Si siede su un lettino e si dondola avanti e indietro con frenesia coatta, le spalle e la testa scosse da tic violentissimi. G. boy dice sempre quello che pensa e fa sempre quello che dice. Il che, finora, gli ha causato grossi problemi. La sincerità oltre la buona educazione e oltre la convenienza è chiamata Sindrome di Tourette. G. boy ha un fremito e si sfoga con voce stridula: Vaffanculotossicodelcazzo. Appunto. Domino sorride, mentre G. boy ribadisce gabbiagabbiagabbia. A me piace, ma alcuni tendono a sentirsi in imbarazzo. Come i suoi genitori, immagino, che lo hanno dimenticato in un istituto solo un paio d’anni dopo che G. boy aveva imparato a… parlare. Comicotrambustodattilo, precisa G. boy. A parte il suo piccolo inconveniente comunicativo e i danni caratteriali dovuti all’abbandono subito in giovane età, G. boy è un genio. Ha inventato lui il sistema per infiltrarci nelle frequenze televisive. G. boy interviene ancora Smettilasmettosamerda! Va bene G. boy, ci do un taglio. Domino impugna la chitarra per il collo e con un mezzo giro la spacca per terra. Fissa l’occhio della telecamera, intenso. Questa è la mia famiglia: una casa-famiglia, che ospita e salva ognuno di noi, ogni giorno. Su disposizione di qualcuno che non è abituato a sentirsi rispondere di no, domani questa casa-famiglia verrà cancellata, i suoi ospiti sfrattati, le sue mura abbattute… per far posto alle scuderie del maneggio della Città Perfetta. L’inquadratura si sposta su due taniche di benzina. Sappiamo bene che non è possibile vincere questa partita, dunque abbiamo deciso di perderla a modo nostro. Daryl Domino afferra la prima tanica e ne svita il tappo. Vi ringrazio per l’attenzione e l’affetto. Non sprecate tempo a chiamare i pompieri, questo è un messaggio registrato e viene trasmesso grazie a un meccanismo a orologeria. Ciò che doveva bruciare è bruciato da tempo. Addio. Poi ha un momento di esitazione, come se sentisse una voce fuori campo, e sorride. Chi sono io? Già, chi sono? Io sono l’ombra che intravedi con la coda dell’occhio senza riuscire a metterla a fuoco, sono il riflesso fuggevole che schizza via dallo specchietto retrovisore, ciò che rimane sempre ai limiti del campo visivo e della coscienza. L’effetto mosaico si rimangia Daryl Domino per l’ultima volta. 72. Apuleio aveva cominciato a preoccuparsi davvero a tre minuti dalle dodici. La troietta cicciosa stava esagerando. L’intera selezione di quel giorno era stata messa su per lei, e la grassa baldraccona si permetteva pure di ritardare. Il sudore gli veniva giù da tutte le parti, inarrestabile, e quando furono passati sette minuti dopo mezzogiorno, Apuleio stava ormai smoccolando e disfacendosi come una candela accesa. Dopo quindici minuti di attesa disattesa e un severo ripasso di tutti i sinonimi delle parole «prostituta» e «obesa» abbinate in ogni possibile combinazione, Apuleio diede inizio all’esame senza Dorotea. 73. Riconosciamo subito il momento preciso. Le vetture sono ferme a semicerchio sulla sommità di un poggio che ci regala l’agghiacciante visione dall’alto della Città Perfetta: linda e inanimata come un presepe playmobil, e con lo stesso fascino di plastica. Morgan blatera di Fratellanza Ritrovata e di altre enormità che umiliano intelletti brillanti e critici come i nostri. Uno degli uomini di scorta riceve una chiamata sul walkie-talkie e dopo una breve discussione, che indovino concitata, tocca il braccio del magnate e gli passa la trasmittente. Morgan interrompe l’arringa, si scusa e ascolta per qualche minuto al radiotelefono. È come mangiare un cioccolatino. Ti si scioglie fra lingua e palato, mentre i recettori del gusto vengono svegliati a uno a uno dalla squisita sensazione che si propaga come un’onda. La faccia di Morgan diventa per lunghi secondi la mappa del nostro piacere sadico. Un angolo della bocca si contrae, le vene della fronte si ispessiscono e le guance gli si accendono di rosso. È un attimo (che ci godiamo parecchio), e poi subentra l’autocontrollo. Il rossore al volto si spegne, per lasciare posto a un colore che poi il Conte descriverà, con immaginifica definizione, come «grigio inculata». Si riavvicina al microfono e prosegue il discorso di prima, ma noi che sappiamo, avvertiamo un lieve tremito nel timbro di voce e un’urgenza nuova, una specie di fretta di concludere. Mi sarei aspettato un’occhiata di fuoco al nostro indirizzo, ma non ci degna nemmeno per un istante. Non pretendiamo certo di insegnare a un baro come si gioca a carte. Uno sguardo, invece, io e il Conte, pokeristi dilettanti, ce lo scambiamo da una carrozza all’altra: lui attorniato da giovanotte poco sveglie ma di gran futuro, io che senza accorgermi ho afferrato e stretto la mano di Bella fino a farle diventar bianche le dita. Conte osserva Morgan, che è girato dall’altra parte, poi si rivolge di nuovo a me e scandisce con le labbra mute una parola che credo sia – Goal! – Infine si riaccomoda sul velluto del sedile, fingendo di ascoltare il nostro anfitrione. Il Conte. Al ritorno dal palazzo della Borsa, il giorno del nostro lancio sul mercato dei titoli, era inquieto come un animale braccato. Tamburellava sul finestrino posteriore dell’auto di Bella che ci stava riportando a casa. Più che tamburellare, in realtà stava eseguendo l’intera sessione di percussioni di un concerto dei Rolling Stones che possiede in bootleg e conosce a memoria, battuta dopo battuta. – Non potresti darci un taglio? Mi innervosisci –. Marianna aveva provato ad arginarlo. – Schchtt! Sto creando, – era stata la sua reazione secca. All’arrivo, Bella, Marianna e Chiara avevano deciso, per distrarci, di giocare alle massaie. Nella cucina di Marianna tutte e tre avrebbero preparato un «delizioso pranzetto» a noi maschioni. Una gara a chi si sente più fuori posto. Conte mi trattenne per un braccio alla base delle scale: – Giona, gli eventi di questi giorni richiedono che uomini coraggiosi, folli, di superiore intelligenza e statura morale compiano atti eroici e sorprendenti. Noi siamo quegli uomini. – E quali sarebbero gli atti eroici e sorprendenti che gli eventi ci richiedono? – domandai. – Mi venga un accidente se lo so –. Mosse le sopracciglia: – Ma mi sembra arrivato il momento di combinarne qualcuna. Il pranzo che seguì fu un patetico incedere di fallimenti culinari. Decidemmo di chiamarlo il menu delle buone intenzioni. La cucina di Marianna era calda e accogliente come una camera mortuaria, ma con piastrelle più scadenti. Avendo scelto di «arrangiarsi con quello che c’è», le ragazze si resero presto conto di aver drammaticamente sopravvalutato la dispensa di Marianna e sottovalutato le sue monomanie alimentari. La carte. Antipasto – Il Tripudio di Cereali: tartine di pane integrale, tofu e sedano (insipido); Prima Portata – Il Gran Pasticcio all’Italiana: imitazione di fettuccine al ragù, ove nella parte delle fettuccine si esibisce una pasta di soia dietetica che sa di sabbia condita con aceto, e nella parte del ragù recitano due hamburger vegetali e tre pomodori idroponici bolliti senza aggiunte di olio e cipolla (mortificante); Seconda Portata – Gli Sfizi dell’Orto: patate al vapore con ripieno di segale tritata (si commenta da sé). A metà pasto, il Conte tornò alla carica: – E se facessimo qualcosa di brutale? Voi cosa suggerireste? – Buttare tutto nella spazzatura e ordinare una pizza? – Bella prese la palla al balzo. Una telefonata ci salvò dal budino di carota. Ken, che era tornato a mangiare in famiglia, ci invitò a casa sua per un dessert. Cogliemmo al volo l’opportunità, fiondandoci tutti dal nostro Papi, speranzosi di addolcire la bocca e riempire la pancia con qualcosa che si potesse davvero desiderare di inghiottire. 74. Mentre Morgan parlottava al walkie-talkie, Ganimede li osservava di sottecchi. Bellocci e simpatici, intelligenti e presuntuosi. Inconsapevoli e sconsiderati nella loro gioventù. Chiuse gli occhi e li vide ancora davanti a sé, nella cucina del loro capo. Sorpresi. Imbarazzati, com’era imbarazzato lui. Si aspettavano di vedersi servire un pezzo di torta, e si trovavano invece davanti un genio della lampada travestito da imprenditore sovrappeso. Per la seconda volta, dopo una prima cilecca. – Allora signori, cercherò di venire al sodo saltando i preliminari. – Sarà contenta sua moglie, – bisbigliò il ragazzo detto Conte a quello di nome Giona. Lui fece finta di non aver sentito. – Il nostro precedente progetto di collaborazione si è purtroppo rivelato fallimentare, e me ne assumo ogni responsabilità. Non sono qui oggi per proporvi un nuovo rapporto d’affari, ma un’idea, maturata attraverso la visione degli interventi di Daryl Domino e… perfezionata in seguito –. Lo sguardo di Borsch si perse oltre le teste dei suoi interlocutori, verso il fondo poco illuminato della stanza. Sorrise. – So che Morgan vuole sfruttare Domino come fosse una specie di marchio subliminale, e immagino che voi non siate molto d’accordo –. Attese un istante per vederli annuire. – Se è così… Daryl Domino deve morire. Cinque sopracciglia (una media di un sopracciglio a testa) scattarono in su. – E colpevole della sua morte dovrà apparire la Città Perfetta. Solo così salverete l’etica della vostra creatura provocando allo stesso tempo un forte dolore al condotto rettale di Morgan. I particolari della sceneggiatura li saprete organizzare molto meglio di me, e non starò certo a suggerirveli. Solo, dev’essere qualcosa di drammatico e lacrimevole. Siete esperti in questa robaccia, no? Un refolo di smarrimento serpeggiò fra le gambe inquiete dei tech, prima ancora che i loro cervelli si mettessero in moto per valutare pro e contro. – Però c’è un problema… – Bella ruppe il silenzio. – Se gli tiriamo uno scherzo del genere, Morgan ci fa a pezzi talmente piccoli da utilizzarci come francobolli e ammortizzare le perdite risparmiando sulle spese di spedizione delle sue società. La nostra capacità di fargli del male è sproporzionata rispetto a quella che ha lui di fare male a noi. Marianna rincarò la dose: – Domino è in assoluto la cosa migliore che abbiamo mai fatto, ma la Simpliciter è l’unica cosa che abbiamo. È la nostra casa, la nostra salvezza, la nostra dimensione. Va bene il bel gesto, però… Ganimede alzò le mani per arginare ulteriori obiezioni. Ken, strano a dirsi, non partecipava al dibattito. – Momento momento, il Piano non è mica finito qui –. Pronunciò la parola «Piano» con compiacimento cospiratorio, e con la lettera maiuscola. – Finora vi ho parlato solo di una mia intuizione, ma qui c’è qualcun altro che deve esporvi la strategia all’interno della quale la mia intuizione si colloca. L’insieme dei due elementi fa un Piano –. Tutti gli occhi della stanza, tranne quelli di Ken, vennero puntati su Ken. Ken fece di no con il capo e indicò un punto dietro le spalle dei presenti. Due scapaccioni ben assestati colpirono Giona e il Conte. Un sentore di borotalco si propagò nella stanza, e così Sebastian ebbe la sua entrata a effetto. Il misterioso, manesco ambientalista, nonché giocatore d’azzardo e probabile puttaniere, li abbracciò avvolgendoli nella sua umida, infantile, animalesca simpatia. Un abbraccio di ferro a cingere le spalle di Giona e del Conte, mentre la sua facciona da poetastro si intrometteva fra loro. Gli occhi azzurri scintillarono rivolti a Giona. – Ti avevo pur detto di concentrarti sulle cose serie e di venire da me quando vi fosse andato a schifo il trucchetto organizzato con Borsch, o ricordo male? – Gli calò una piattonata a mano aperta sulla schiena. – Non ci si può mai fidare di voi genietti: siete astratti fino all’autolesionismo. Per vostra fortuna io non mi sono mai fidato neanche di mia madre, e ho già messo a punto ogni cosa. Funzionerà. Il sorrisone bagnato di Sebastian non lasciò alcun dubbio sul fatto che avrebbe funzionato. 75. Quando alle 9:00 della mattina dell’esame la sveglia aveva suonato nella sua camera, il pugno di Dorotea vi si era abbattuto come una pressa. Fanculo ad Apuleio e fanculo alla Città Perfetta, aveva pensato ancora nel dormiveglia. Sapeva che la sua decisione era giusta, ma non sapeva ancora quanto. Lo scoprì alle 12:01, quando la voce di Tebaldo al telefono la avvertì dell’incursione di Daryl Domino in mezzo al Tg. Per un momento ebbe l’impeto di mandare anche Tebaldo e Domino a far compagnia ad Apuleio e alla Città Perfetta, ma abitudine e affetto prevalsero, facendole accendere la televisione. Adesso erano in auto, incolonnati sul nuovissimo e chirurgico svincolo che portava alla Città Perfetta. Silenziosi. Intorno a loro, altre auto con dentro altre persone dirette alla C.P. Ognuno sapeva di dover fare qualcosa. Nessuno sapeva cosa. 76. La visita alle meraviglie del Paese dei Balocchi sta per terminare. Forse è una mia impressione, ma al ritorno le carrozze stanno andando molto più veloci. Veniamo scaricati al gazebo in stile pseudoliberty del buffet, trenta metri dal parcheggio, ma non proviamo nemmeno ad avvicinarci all’auto. Un paio di rassicuranti signori del servizio di sicurezza appoggiano le loro mani mortifere e callose sulle nostre spalle. Il Presidente ha qualcosa da dirci. Se non ci dispiace, dovremmo seguirli. I due guardiani vestono calibrati completi grigi con camicia bianca, ray-ban a goccia e auricolari all’orecchio sinistro. Sembrano finti: Big Jim FBI, pupazzi che vengono usati come modello nelle scuole di polizia privata. Il Conte, tornato all’ovile, prende la mano di Marianna, la quale dimentica all’istante la sua ultima escursione con donzelle d’alta società. Sappiamo bene, del resto, che l’interesse nutrito dal Conte verso certi esemplari è più antropologico che sessuale. Veniamo condotti in una delle palestre del centro sportivo polifunzionale della Città Perfetta, a pochi passi dalla main street. Ci viene detto di aspettare, e noi, da bravi bambini obbedienti, aspettiamo. Il parquet risuona sotto i nostri tacchi nervosi. Marianna e Bella confabulano, Ken e sua moglie mettono un braccio sulle spalle di Chiara e se la portano a spasso lungo il perimetro del campo da basket, io rimango fermo a guardare il Conte che prova più volte a toccare l’anello del canestro saltando con la rincorsa, incurante del suo abbigliamento inadatto. Quell’uomo non ha proprio sistema nervoso: ci stiamo giocando vita e carriera, e lui si comporta con la stessa leggerezza che potrei sfoggiare io a un torneo estivo di beach volley. Lo adoro e lo invidio. Nulla lo può turbare, niente lo stupisce, perché lui accoglie tutto con serena curiosità. Come alcuni giorni fa con Sebastian. – Quali buone nuove ci porta il nostro caro R.O.M.P.I.? – Non sono qui in veste ufficiale, Conte, ma per il resto hai ragione: vi porto buone nuove –. Ci girò attorno e appoggiò un pizzico di sedere sul marmo del lavello, stabilizzandosi con qualche assestamento. Cominciò a spiegare: – Confesso che ero stato molto colpito dall’affare che Ganimede Borsch aveva avviato con voi. Mancandovi le coperture adeguate, le probabilità di riuscita erano nulle, ma si intravedeva un certo carattere. Ganimede si becca il complimento grattandosi un orecchio. – Per questo ho pensato di offrirgli un ruolo nel nostro piccolo complotto. Potrà venire a conoscenza di dettagli riservati riguardanti Morgan, cosicché i suoi miseri peccatucci di contabilità non permetteranno più al vecchio di ricattarlo ancora. E non mi sono affatto pentito della scelta: quella sua idea della morte in diretta di Domino per mano della Città Perfetta è degna di me, ed è proprio il finale in crescendo che mi mancava. Ne avevo abbastanza: – Scusa Sebastian, potresti perfavore spiegarci DI CHE CAZZO STAI PARLANDO? Qual è il complotto di cui facciamo parte? E quali sarebbero i dettagli riservati? Sebastian levò i suoi azzurrissimi occhi al cielo, temporaneamente interpretato dal lampadario in plastica arancione della cucina di Ken. Staccò la chiappa dal suo appoggio marmoreo e con le mani intrecciate dietro la schiena fece qualche passo avanti e indietro. – Siamo oggi qui riuniti, fratelli cari, per congiungere nel sacro vincolo del matrimonio di interessi i desideri di ognuno dei presenti. Voi volete liberarvi di Morgan, salvare la dignità di Daryl Domino e non essere costretti per questo a mendicare sul sagrato delle chiese per il resto della vostra vita. – L’ottimo signor Borsch ci ha dato un’idea elegante per liberare Domino, e sarebbe anche disposto a finanziare la vostra futura attività in cambio dell’assicurazione che Morgan non possa più mandarlo in villeggiatura forzata in una camera di sicurezza con vista sul cortile. – Per quanto mi riguarda poi, tutto quello che fa male al vecchio fa gioco a me, soprattutto se c’è di mezzo la Città Perfetta. – Bene signor attivista, sappiamo quello che vuoi, ma cosa dài in cambio per aiutare questo piccolo collettivo? – lo stuzzicai. Sebastian allargò il sorriso, massaggiandosi la barba di tre giorni con la mano sinistra: – Due cose molto importanti al giorno d’oggi: organizzazione e informazione. Settori in cui, per quanto bravini e bellini, voi siete parecchio deficitari. – Impressionaci allora, dicci qualcosa che non sappiamo, un bel segreto sconcio di Morgan, per esempio. Si scopa le galline? – Il Conte giocava al rialzo. Il Seboso Sebastian non si scompose granché: – Non mi deludere, ragazzo, qui siamo persone serie, mica ci candidiamo alle presidenziali americane. Ci vuole qualcosa di meglio di un paio di galline deflorate… 77. L’uomo piccolo stava appeso alla spalla dell’uomo grande e gli parlava con la fermezza bonaria con cui il padre parla al figlio, un’autorità che non può certo essere intaccata dalla differenza di stazza. Entrambi camminavano in direzione della palestra. – Mi hanno appena riferito che sua figlia non si è presentata alle selezioni per la Città Perfetta. Ganimede avrebbe voluto ridere e battere le mani, ma preferì un sornione basso profilo. – La cosa mi stupisce molto, – disse ostentando un’espressione di finta sorpresa (che invece era tutta vera). – Non è la sola cosa sorprendente che sia accaduta oggi, a quanto mi risulta, – ribatté Lorenzo Morgan facendo ingresso nella palestra. – L’ho toccato! Ce l’ho fatta. – Cosa? – chiede Ken dalla metà campo, ancora sotto braccio a Chiara. – Il Conte ha toccato il canestro in elevazione. Grande impresa, – preciso io. – Poco spirito, Giona, tre metri e cinque centimetri non è un traguardo per tutti soprattutto se, com’è accaduto al sottoscritto, si è stati procreati badando al risparmio. I miei garretti non sono ancora da buttar via, a differenza di quelli di certe altre persone… – Guarda che io ho ancora il fisico di quando avevo diciotto anni. – Vero! Com’è vero che a diciotto anni avevi un fisico di merda. – Schscht! – ci zittisce Ken, mentre due ombre si allungano verso il campo da gioco. Il piccolo vecchio bastardo entra in scena sotto braccio a Ganimede Borsch. Per un momento penso che il gigante buono abbia fatto il doppio gioco e si sia schierato con Morgan, ma è solo un attimo. La mia mente logica, abituata alla linearità dei codici binari, non è allenata a paranoie e complotti. Ragionare in trasversale richiede un’elasticità che forse io non ho. Calma calma e ancora calma: anche se non pare, il gioco lo conduciamo noi. Morgan abbandona Borsch alla nostra sinistra e si allontana al trotto, descrivendo un semicerchio. Raccatta per terra un pallone da basket rimpallandoselo fra i polpastrelli. Si ferma quando si trova più o meno al centro dell’arco formato da noi, il suo pubblico. O forse la sua squadra, una squadra che sta giocando male e che ha bisogno di una strigliata e di un ripasso degli schemi. Per questo lui, Morgan, il nostro coach, il nostro padre padrone, ha chiamato time-out. E dunque comincia. – Per prima cosa darò per scontato che tutti voi siate ancora in combutta per farmi venire un rialzo di pressione. Abbiate almeno il buon gusto di non negarlo. Da buongustai non neghiamo. Scuote la testa e comincia a palleggiare forte, con la mano destra. Pensa. Mentre parla sta decidendo di noi e per noi. – Il vostro comportamento denota testardaggine e coraggio; due doti che, messe insieme, noi, vecchi squali dediti al culto del capitalismo e della fallocrazia, definiamo comunemente palle. Un attributo che in generale mi piace, ma che in questa particolare situazione non posso permettermi di apprezzare. Anche i più esuberanti devono sapere quando andarci di bromuro. È una questione di intelligenza: riconoscere fin dove si può arrivare senza farsi male. Nessuno di voi, oggi, sembra illuminato da questa qualità. Pochi minuti fa un intervento di Daryl Domino, molto ben calibrato, ha posto fine ai miei progetti su di lui e ha diffamato la Città Perfetta. Un danno di immagine difficile da contenere… che dovrà essere pagato. Morgan comincia una serie di velocissimi cambi di mano, davanti e sotto le gambe, ottenendo un effetto ipnotico. – Nello stesso momento, Dorotea Borsch, che proprio oggi avrebbe dovuto beneficiare di un accordo concluso fra me e il suo qui presente genitore, non si è presentata a riscuotere il credito. – Io non credo alle coincidenze, signori, ed è per questo che siete qui insieme adesso. Non perderò tempo giocando a fare il duro e vi risparmierò la tortura, leggendo subito la sentenza. Tira quasi da metà campo. E segna. – La Simpliciter verrà smembrata e venduta. I ricavati della vendita saranno incamerati dalla Morgan Holding, fatta eccezione per le vostre azioni vincolate che, però, fra una settimana vi assicuro varranno molto poco. Se chiunque di voi ragazzi, insieme o singolarmente, dovesse cercare di metter su una nuova società, avrà sempre un nemico grosso e cattivo a sbarrargli la strada. Siccome però non amo mettere la gente sul lastrico – a differenza di quanto si dice in giro – vi offro di lavorare per me con incarichi da definire e contratti trentennali in esclusiva –. Tutto come previsto. – Quanto al signor Borsch, avrà il privilegio di vendermi a prezzo calmierato la sua azienduzza da scarpari o, a scelta, di andare a chiarire alla polizia tributaria gli enigmatici passaggi delle sue scritture contabili e la provvida amicizia che lo lega al sottosegretario alla Difesa, responsabile dell’equipaggiamento dell’esercito –. Va a riprendere il pallone sotto canestro. – E con questo… – Vacci piano, nanetto! – A parlare, con un tono sgradevole e presuntuoso che di solito non gli si addice, è Ken. 78. L’aggregazione spontanea che si è formata nel piazzale antistante il viale d’accesso principale alla Città Perfetta diventa sempre più rumorosa. Alcuni tizi, con lo sguardo allucinato dell’eterno barricadero, percorrono la falange più volte, frenetici. Invitano alla compattezza, ingiungono di non ondeggiare, scalpitano. Gli eleganti automi del servizio d’ordine si confessano febbrili nelle ricetrasmittenti. Vanno avanti e indietro dal parcheggio al cancello. Guardano in faccia i manifestanti serrando le mascelle, sperando di incutere la paura che provano. Tebaldo e Dorotea sono al centro della testuggine. Si abbracciano senza parlare. Qualcuno grida Assassini! La temperatura della folla cresce, mentre diminuisce lo spazio vitale concesso a ognuno. Il contatto fisico forzato innervosisce, rende impazienti e reattivi. La folla freme, la folla spinge, la folla è un animale grasso e vivo, che respira e scalcia. Un ragazzo si stacca dalle retrovie verso il lato destro e tira qualcosa dentro il recinto. Un megafono, dall’altra parte, ordina al corteo di disperdersi e avverte che sta arrivando la polizia. Un tizio magro con i baffi sottili color carbone sorride appena: sembra che non sudi e che non si sforzi come gli altri. Dicono si chiami Cortes. Parla senza urlare, ma con una voce chiara che tutti intorno distinguono: – Hanno ucciso i nostri sogni e ora chiamano gli assassini di stato per uccidere noi. Non ci riusciranno! Come se si fosse innestato un meccanismo irreversibile, la massa si gonfia e ondeggia; grida minacciose echeggiano da ogni lato mentre si inizia a spingere e spingere e spingere. Fino a che i cancelli resisteranno. 79. Morgan rimane interdetto per una frazione di secondo, poi mette a fuoco la persona che ha parlato, dando una forma alla nuova voce sprezzante di Ken. – Se non ti piace essere chiamato nanetto, magari preferirai che ti parli della Kaizen Ltd. e dei servizi che offre alla società del tuo amatissimo nipote… – Ken sorride a mezza bocca. Il piccolo Morgan sembra di colpo ancora più piccolo. Ci guardò a uno a uno, senza smettere di massaggiarsi quell’ispida barbetta di peli di cinghiale. Poi abbassò lo sguardo sulla borsa portadocumenti che stringeva al petto, cullandola come fosse un fantolino. Alla luce arancio del lampadario della cucina di Ken, Sebastian tirò fuori un fascio di documenti. – Non starò a tediarvi con dettagli tecnici che non capireste nemmeno, quindi mettiamo subito a fuoco l’obiettivo. Morgan e le sue società sono troppo grossi e accurati per sperare di trovare magagne da sfruttare. Ci sono di certo, ma sono troppo ben nascoste per tirarle fuori. In passato ci ho provato più volte, speravo di inchiodarlo davanti alla polizia tributaria, ma ho dovuto desistere: i suoi fiscalisti sono diavoli belli e buoni. L’uditorio a quel punto si aspettava un ma. Aleggiava a mezz’aria come un calabrone in stallo. Un calabrone che Sebastian, con mirabile tempo scenico, spiaccicò sulla testa dei presenti con una frustata della sua paletta schiacciamosche. – Ma non sempre i nipoti sono all’altezza di cotanti zii… Ken avanza a grandi passi verso Morgan; si ferma a pochi centimetri da lui e, abbassandosi, avvicina il proprio volto al suo. – È il caso che ti ricordi cosa fa la Kaizen per il tuo nipotino? Una società off-shore di inesistenti servizi che incassa ogni anno da Celso cifre che io non ho mai guadagnato in tutta la mia vita, cifre che per magia vengono detratte dall’imponibile della sua società per finire in un fondo segreto ma non troppo. Un fondo a volte usato per piccole o grandi corruzioni e altri loschi traccheggi che tanto interesserebbero la polizia… Abbiamo i libri contabili che lo provano, se per caso te lo stessi chiedendo. Sai, a quanto pare Ganimede non è l’unico a indulgere in certi piccoli peccati. Morgan segue piano con le dita i solchi del pallone che tiene ancora fra le mani, senza provare il compiacimento di prima. Parla con un filo di voce. – Vi ascolto. Ken riprende la parola: – Queste sono le condizioni per il nostro silenzio: 1) cessione di tutte le azioni Simpliciter in possesso della Morgan Holding a noi; 2) nessun intralcio né in Borsa né sul mercato; 3) raddoppio del capitale sociale della Simpliciter. Continua Ganimede: – Numero quattro: abbandono da parte di quel fesso di suo nipote Celso del mio affare delle forniture all’esercito. E restituzione al sottoscritto dei suoi documenti personali. Morgan sussulta, soffocando una via di mezzo tra una risata e una madonna: – Altro? Ganimede lo incalza, come fulminato da un’improvvisa intuizione: – Un’ultima cosa: cedere la completa gestione e direzione della Città Perfetta a Celso Grande. Nient’altro. Il silenzio cala sul parquet della palestra, per alcuni tesissimi secondi. Poi Morgan sbotta: – Sembra proprio che siamo a un’impasse… perché anch’io voglio porre una condizione. – Stavolta lei non può dettare condizioni, – ribatte il Conte. – Errore. Io posso, è mio nipote che non può. È lui che rischia la galera, non io. E non è detto che accetti di farmi ricattare pur di salvarlo. Anzi, piuttosto preferisco che andiate subito in procura a vuotare il sacco. Mi sa che ci incontreremo là perché anch’io ho qualcosa da dire a proposito del nostro buon Ganimede. Immobili e grondanti come maschere di fontane seicentesche, colte in un urlo di dolore pietrificato, ci rendiamo conto che il vecchio ha individuato in venti secondi l’unico anello debole del nostro piano. È venuto a vedere il bluff. E con questo ci ha battuto nel primo dei tre giochi amati dagli uomini d’affari: il poker. Gli altri due sono braccio di ferro e scacchi. Non abbiamo abbastanza muscoli per sfidarlo a braccio di ferro, mentre per giocare a scacchi con lui dobbiamo essere disposti a sacrificare qualche pezzo. Noi lo siamo? Ci voltiamo verso Ganimede, che alza le spalle, come a dire fate un po’ voi. No che non lo siamo. Lo sghignazzo di Morgan rompe gli equilibri. – Andiamo, signori, non crediate di fare il lupo con il lupo. Siete così certi che il mio affetto per Celso superi l’interesse verso la Città Perfetta? Credo invece che la sciocca lealtà che vi lega al qui presente Ganimede rischi di farvi perdere la partita. Non siete disposti a sacrificarlo per salvarvi la carriera. Ken non regge e si scopre prima del tempo: – Quale sarebbe questa condizione? – Il piatto di Morgan, nella bilancia degli equilibri di potere, si fa via via più pesante. – Avrete la massima autonomia, il cento per cento delle rendite e tutto il resto. A Borsch saranno restituiti i suoi libri proibiti. Ma voi e la vostra società rimarrete comunque legati in esclusiva alla Morgan Holding. Se io prospero, voi prospererete; se io andrò a fondo, voi mi seguirete. Consideratelo un mio capriccio personale. O una lezione di vita, se vogliamo. Parliamoci chiaro, senza Daryl Domino voi non mi servite più a niente, ma se volete allontanarvi dal vostro cattivo papà capitalista dovrete pur pagare un prezzo. Le cose sono due: o vi ritirate in campagna e fondate una comune o vi decidete a vendermi il culo di Ganimede e con quello il vostro prezioso senso etico. Non c’è una terza scelta, a meno che non ve la dia io, ed è proprio quello che sto facendo. Continuate a giocare quanto volete, ma non dimenticate mai di chi è il giardino. Si avvicina alla zona d’ombra e raccatta il pallone: – Una partita? 80. I cancelli hanno resistito appena quel tanto che un cancello aristocratico deve fare per essere ritenuto tale, ma non un secondo di più. Quei cancelli erano solo sentinelle di un confine ideale, che nessuno avrebbe dovuto sognarsi di attraversare. Adesso, però, qualcuno lo ha sognato, e lo ha pure fatto. Il servizio d’ordine si è vaporizzato mentre i manifestanti imperversano veloci; i lunghi tavoli del buffet sono stati rovesciati e le (poche) vettovaglie scampate all’appetito dell’alta società formano per terra una poltiglia fetente. Un’approssimativa imbracatura di corde è stata fissata al gazebo in ferro battuto, per tirarlo giù. Vetrine nude di locali arredati ma ancora vuoti vanno in pezzi sul sentiero che porta verso i quartieri di invisibili privilegiati. Un agente della sicurezza irrompe trafelato in palestra, dove due strane squadre si fronteggiano a basket: Bella, Giona, Chiara, Marianna e Lorenzo Morgan contro il Conte, Ken, sua moglie Barbie e Ganimede. L’agente si rivolge a Morgan con la voce rotta dall’affanno: – Signore, credo sia meglio che venga a vedere. All’arrivo dell’antisommossa, Dorotea ha un quindici secondi di incertezza. È lì, a danneggiare proprietà privata in violazione di svariate leggi dello stato, per difendere la memoria e i diritti civili di qualcuno che non esiste. Il fatto che in mezzo a centinaia di persone lo sappia solo lei, non sposta i termini della questione. D.D. è un fantoccio, una presa per il sedere. Che ci faccio qui? I giganti nerogommati delle forze dell’ordine sono pronti alla carica, e Dot sente nello stomaco l’eco dei manganelli che battono ritmici sugli scudi. Vola il primo fumogeno, e anche la gola ha la sua parte in questa storia, e gli occhi, con le lacrime che offuscano le immagini della prima carica. Quelli non sono più veri di Daryl, e forse non lo sono neanch’io. Ecco perché sono qui, perché tutti siamo qui. 81. – Nella giornata di ieri, un incredibile fenomeno di rabbia e isteria collettiva si è verificato ai danni di uno dei progetti imprenditoriali più ambiziosi del Paese. Durante il corso della mattina, Daryl Domino, il misterioso cantastorie che si inserisce nelle frequenze televisive dando vita a brevi performance popolarissime tra i giovani, ha fatto quello che rimarrà nella storia come il suo ultimo intervento. Rivelando di essere in realtà membro di una non identificata casa di accoglienza per malati mentali, ha accusato la dirigenza della Città Perfetta di aver sfrattato la comunità per fini di espansione della nuova struttura di lusso. Nella conclusione a effetto (e di dubbio gusto) del suo monologo, Domino ha fatto capire che avrebbe dato fuoco alla sua dimora ormai condannata, in un atto dimostrativo e forse suicida. La reazione dei suoi numerosi seguaci non si è fatta attendere. Già dalle prime ore del pomeriggio è cominciato l’assedio alla Città Perfetta da parte di migliaia di dimostranti autoconvocatisi davanti ai cancelli del complesso. La scintilla della rivolta, in quell’atmosfera tesissima, è presto scoccata e i manifestanti si sono riversati all’interno della struttura, devastandola. A nulla sono valse le smentite della dirigenza della Città Perfetta, che in una dichiarazione ufficiale ha negato l’esistenza di qualsivoglia attività espropriativa realizzata a danno di organizzazioni di assistenza a malati mentali. I vertici di Polizia e i Vigili del Fuoco hanno sostenuto tale versione smentendo che si sia mai verificato un incendio doloso, tanto meno con delle vittime, nella zona della Città Perfetta. Ciononostante, uno dei leader della protesta ha risposto: Non ci stupisce che su questa – come su molte altre tristi storie del nostro Paese – sia calato il silenzio imbarazzato e colpevole delle istituzioni, subito sostituito dall’osceno balletto delle smentite affrettate e delle negazioni dell’evidenza. Gli interessi in gioco qui sono talmente alti che un piccolo incendio e la morte di poche invisibili persone sono eventi che possono facilmente sparire nel nulla. Non mi stupirei se fra qualche mese o anno si arrivasse perfino a negare che Daryl Domino sia mai davvero esistito. Ma noi non ci lasceremo prendere in giro. I vertici della Morgan Holding, maggiore azionista della C.P., hanno comunque fatto sapere in uno scarno comunicato che la presidenza della società che gestisce la Città Perfetta è passata, per un avvicendamento da tempo programmato, al dott. Celso Grande, uno dei più brillanti giovani protagonisti del panorama imprenditoriale del Paese. Articolo estratto dal quotidiano «Il Trombettiere di Gerico» 82. I piccoli pon pon attaccati ai capezzoli della ragazza girano prima in senso orario, poi in senso antiorario e infine in senso opposto l’uno all’altro. Molto anni Settanta. Viene il mal di mare solo a guardarli, dunque mi concentro sul sedere. Il locale è identico a come lo avevo lasciato l’ultima volta: stessa luce artificiale, stessa notte artificiale anche alle undici di mattina, stesso odore di cipria e lubrificanti: l’odore del porno. Stesse facce, comprese la mia e quella di Sebastian. Davanti a me il nuovo volto dell’attivismo ambientalista: pacioccone e senza pietà. Un fauno stanco e barbuto, con la voglia di scherzare e pasticciare. Sul giornale di oggi, che tengo aperto sul tavolo per darmi uno sciocco contegno, c’è l’intervista a uno squaletto della nuova finanza pulita. Un santone che ha fatto i soldi con agriturismi e cibi biologici e che propugna il ritorno alla natura, facendolo pagare caro. Attacca senza pietà i sistemi della Morgan Holding, messi a nudo dalla nostra piccola impresa, definendoli: «Volgare pattume di un affarismo che prescinde dall’etica». Quella stessa etica, presumo, che attacca cartellini con prezzi da capogiro ai graziosi barattoli di ogni cazzatella ecologica prodotta dall’intervistato, talché solo a fegati dotati di ragguardevoli conti in banca è concesso di drenare alimenti sani; quanto agli altri, che si ingozzino pure di soia geneticamente modificata. Vecchi squali contro nuovi squali. – Colpito e affondato, eh? – comincio. – Già –. Gli occhi azzurri da gattone infernale brillano. – Purtroppo però non siamo riusciti a sganciarci da Morgan. Il vecchio ha intuito il bluff; sapeva che non avremmo mai avuto lo stomaco di mollare Ganimede. Avremo quello che abbiamo chiesto, ma lui ci terrà con sé. Sarà un problema quando la M.H. comincerà ad andar giù. – Oh, io non mi preoccuperei. Quelli non rimangono mai troppo tempo sott’acqua –. Il fatalismo si aggiunge alle altre centotrentuno caratteristiche contrastanti emerse dalla sua personalità da quando lo conosco. – Missione compiuta, allora? – Direi proprio di sì. – Saranno contenti i tuoi capi… – Niente capi, non è mica un esercito. Siamo solo squadre di guastatori che collaborano fra di loro all’interno di una rete… Comunque sì, stanno parlando di noi in giro, a bassa voce. – Non era più semplice quando si protestava per le strade? Non c’era più coscienza, più responsabilità, invece di questa partita a scacchi giocata davanti a un pubblico bendato? Sebastian si tormenta le guance con la mano destra stretta a pinza, mentre mi infila indolente l’indice sinistro nell’orecchio. Lo ritira quasi subito, chiudendo il pugno. Abbassa la testa sul doppio mento e mi osserva da sotto in su, poi da quel suo pugnetto, si erge un pollice assertivo (può mai essere assertivo un pollice?) – Primo, la gente dimentica. Qualsiasi cosa tu faccia. Secondo, – dal pugno mi viene sparato addosso l’indice otorino di prima, anch’esso assertivo ma tendente in parte all’accusatorio (sul potenziale accusatorio degli indici non ho dubbi). – Secondo, più sei visibile, più sei vulnerabile. Per strada sei un bersaglio, vieni infiltrato, strumentalizzato, manganellato, accusato. Da dove siamo noi, questo non possono farlo. La piazza è morta, ciccio. Il terrorismo è stramorto. Ora ci siamo noi, che abbiamo imparato la doppiezza e il cinismo dai nostri padri e i valori immortali dai nostri nonni; non abbiamo l’ambizione di cambiare tutto, vogliamo solo rompere qualche uovo nel paniere. Con organizzazione, informazioni e competenza puoi anche rompere quelle più grosse, però devi farlo in silenzio. – Da quant’era che ci tenevi d’occhio? – Da un bel po’ –. Sebastian si riempie la bocca di noccioline, mastica avido, si lecca il sale rimasto sulle dita e manda giù tutto con un sorso di birra. – Quando mi hai avvicinato la prima volta, al bar, tutta quella sceneggiata… – Dovevo cominciare a tastarvi il polso, essere sicuro della vostra avversione per Morgan, nutrirla. Poi, i suicidi di Fanny Globo e Max hanno accelerato le cose. Quelli non potevo prevederli e ho dovuto improvvisare. C’era il rischio che il dolore vi distraesse. Per questo ho cominciato a uscire allo scoperto, dovevo convincervi in fretta che la storia dell’omicidio di Max era una falsa pista. Una perdita di tempo pericolosa per le mie strategie. – Devo dire che a tratti mi fai schifo. – Lo prendo come un complimento. Alla maggior parte della gente non piace fare calcoli, ma poi gode dei vantaggi ottenuti da chi ha calcolato al posto suo. – Cosa mi dici del mio pseudo-rapimento? Un calcolo anche quello? – Avevi già fatto una cazzata e volevo convincerti a non farne altre. Stavi attirando troppo l’attenzione, e in quel momento poteva essermi fatale: dovevo ancora contattare Borsch, e non c’era spazio per passi falsi –. La soddisfazione traspare chiara dai suoi lineamenti, come da quelli di un bambino. – Mi sembri contento. – Non dovrei? Ho salvato il culo a voi e a Ganimede, la Città Perfetta andrà gioiosamente a puttane e… – Non sono molto convinto che lo scandaletto di Daryl Domino distruggerà la Città Perfetta. La gente dimentica, l’hai detto tu. – Oh sì, la gente dimentica, ma con un imbecille del calibro di Celso Grande al comando è solo questione di tempo. Non ci saranno fallimenti, solo dimenticatoi e sabbie mobili. Gli piove in testa un perizoma. – Gloria, tesoro, lo sai che non c’è bisogno di stuzzicarmi! – Però abbiamo avuto anche una bella fortuna –. Cerco di riportarlo nei binari della discussione da cui una mutanda di lycra l’aveva fatto deragliare. Mi guarda storto: – Non esiste la fortuna, esiste la buona volontà. – Ehi, non mi sembra il posto adatto per fare il profeta, se Morgan non si fosse interessato proprio alla nostra società, hai voglia tu a parlare di buona volontà. Neanche in cento anni. Sebastian si raspa la sua eterna barba di due giorni scrutandomi con l’ironia che si riserva alle immagini patetiche: – Cento no, ma due anni pieni sì. Io non faccio le cose a caso, Giona. Mai. Cristo. – Ma come potevi sapere in anticipo che Morgan si sarebbe accorto di Daryl Domino e che avrebbe voluto assorbirci? – Non l’ho saputo, infatti, gliel’ho suggerito. L’ho progettato e provocato. Si preparano molte esche, si abbozzano molte trame, ma alla fine solo una di queste diventa romanzo. È toccato a voi, siete fortunati. Un lavoro di anni… – Qualcuno deve avervi finanziato, e anche parecchio. – Nessuno è libero a questo mondo –. Sospira teatrale: – Nemmeno io, per quanto sembri strano. Certo che abbiamo dei finanziatori, cosa credevi? – Batte distratto il dito sull’articolo-intervista dedicato al nuovo finanziere ecologico avversario di Morgan. – Ti do un consiglio, Giona: non entrare mai in politica e non giocare a Risiko per soldi. La strategia non fa per te. Si alza. – Sebastian! – Sì? – Il gattone si volta a guardarmi prima di schizzare via. – Ritiro quel che ho detto poco fa, non mi fai schifo, il tuo altruismo calcolatore è una mutazione genetica positiva. Abbassa la testa e fa segno di no: – Ricordi quando ti ho parlato dell’incidente aereo che ha lasciato solo al comando il nostro buon Lorenzo? Annuisco. – Mio padre era capo officina e responsabile manutenzione della flotta aerea del suocero di Morgan. Dopo il disastro venne messo sotto inchiesta e poi licenziato. Sei mesi dopo si beccò un infarto… Quell’aereo lo avevano revisionato due giorni prima, e funzionava benissimo. Tutti gli altruisti hanno un motivo personale, Giona. Tutti. Se fosse un videogioco, Sebastian sarebbe… no, devono ancora inventare un videogioco che gli somigli. Potremmo provarci noi. Mi gira le spalle: – Ciao minchione, ci vediamo in giro –. Accenna un passo di fox-trot, torna indietro, mi schiaffeggia lieve e veloce sul collo, con un certo affetto, e si allontana. Lasciandomi come al solito. Come un minchione. 83. Ganimede guarda in Tv le immagini degli scontri alla Città Perfetta, e allo stesso tempo rivede nella sua mente la scena che gli si è presentata in ufficio stamattina. Heidi Charisse era china, in tutta la sua scricchiolante vecchiezza, su un cassetto raccoglitore d’archivio. Nello sforzo di raggiungere chissà quale pratica da fotocopiare, aveva assunto un’angolazione prossima ai novanta gradi. Ganimede si figurò per un attimo, con un brivido di piacere, il misfatto che gli ispirava una simile posizione. Poi si chiese: perché pensarlo e basta? Frugò tra i cascami della sua prudenza, ma non trovò materiale sufficiente. Dunque passò dal pensiero all’azione: prese tre passi di rincorsa, e col sorriso sulle labbra le diede un gran bel calcio in culo. – Pa’? – Dorotea appare leggera, come un fantasma di ottantacinque chili, alle spalle del padre. – Ciao piccola, – dice Ganimede, col terrore che non gli venga nient’altro. – Riguardo a quella selezione per la Città Perfetta… scusa ma… – Lo so, lo so, – si affretta a tranquillizzarla, poi ammicca verso lo schermo. – È uno schifo quello che hanno fatto a Daryl Domino, e tu hai fatto benissimo. Scusami tu –. Sorridono imbarazzati, nascondendosi a vicenda un segreto che entrambi conoscono per motivi diversi. Dot si allontana beccheggiando. Arrivata alla soglia, si volta di scatto: – Pa’? – Sì? – Niente… – Abbassa la testa, poi la rialza come a prendere la rincorsa: – Magari uno di questi giorni passo da te, in ufficio. – Quando vuoi, amore, quando vuoi, – dice Ganimede, con la fugace e stranissima sensazione di essere dimagrito di trenta chili in quattro secondi. 84. Il messaggio di posta elettronica arriva a tutti nello stesso momento, come un pugno liquido nello stomaco. Dall’indirizzo di Max. Una mail programmata da lui per essere inviata stamattina. Nel giorno di Natale. Oggetto: Cartolina d’auguri da lontano lontano Ciao. Ora che le acque si sono calmate (spero) parliamo delle cose che non si possono dire, ok? Parliamo dei ragazzi cattivi e stupidi. Quelli che rovinano gli altri senza aiutare se stessi. Tranquilli, non mi riferisco mica a voi. C’è un tipo che gira in moto e suona il sax, per esempio. Vive sempre dall’alto. Intelligenza bellezza pregiudizi. Tutto dall’attico dove si vive bene e si vede male. Dall’alto del privé di una discoteca, dove il tipo tocca la ragazza con fredde ed esperte dita da chirurgo. Una routine da visita medica, che a lei probabilmente dà il voltastomaco. Ma non lo dirà mai in giro, e dunque va bene così. Perché guardare giù, del resto? Perché perdere tempo a sporcarsi le mani? Cos’è questa mania che hanno tutti? E allora perché ti metti a cazzeggiare fra messaggerie e chat line? Ti perdi fra le maschere, ti fai stuzzicare da sentimenti volatili, irreali, formattabili. Alcuni discutono di Daryl Domino (argomento che conosci bene). Ti fermi e ascolti. Poi intervieni, fai il vago, godendo un po’ degli inconsapevoli complimenti che ti fanno. Poni domande ingenue, scherzi, piaci a qualcuno. Potrebbe anche essere un ciccione nazista frocio con la passione per i coltelli, che si fa chiamare Fanny, ma sembra una persona carina. Giochi con lei, senza capire quando il gioco finisce. Non può finire, non deve. Parlagli Fanny, parlagli. Fanny ti deve parlare perché tu ne vuoi ancora. Corteggia la verità, almeno una volta, chiedile di tenerti la mano. E poi arriva l’appuntamento. Con un piccolo trucco lo fai chiedere a lei. Mentre conti giorni ore e minuti come il più sfigato dei fidanzatini di Peynet, sale l’angoscia. Ricordi quelle dita nel privé, che frugano impersonali come una perquisizione, come un’indagine sanitaria. Potrebbe succedere ancora. Ti spaventi. Ti blocchi. Passi dal luogo dell’appuntamento e la vedi. Sei sicuro che sia lei: tiene quello stupido giornale in bella mostra, come riconoscimento. Carina minuta energica. Striati ed enormi occhi di gatto. Tu non hai il giornale, però, e tiri dritto. Ricacciando indietro un urlo. Per due giorni tremo ogni volta che apro la posta elettronica e per due giorni rimango deluso e sollevato quando non trovo nulla. Il terzo giorno scopro il danno che ho fatto. Non sono mai morto prima, ma non può essere peggio di così. Lei non esiste più e non c’è dubbio che sia colpa mia. Non solo mia, forse, ma che importanza ha? Devo esserne responsabile. Voglio esserne responsabile. Due volte ho creato per lei un fantasma. Qualcosa che non c’era quando lei ne ha avuto bisogno. Quando il mondo le è mancato sotto i piedi. Un mondo che adesso crolla addosso a me. Con l’assurdità di Daryl Domino, con l’avidità della Morgan Holding, con l’immoralità della Città Perfetta, con la distruzione del mio giardino. Sulle prime pensavo di reagire, combattere. Ma mi sa che non sono tanto capace. Io, il Grande Incompleto, il venditore di fuochi fatui, il sempre premiato per meriti altrui, il vanitoso eroe di carta. Questo bastardo viziato e banale finirà in modo banale ma corretto. Il piccolo Zorro con la spada di plastica volerà per l’ennesima volta dalla finestra, ma il suo formidabile cavallo non sarà lì sotto ad attenderlo. Sublime disattenzione domenicale. Domenica di pianto e di uggioso stordimento. Il maldidenti dietro il narcotico rimane sempre maldidenti. Pulsa, respira, si nutre. Accidenti a lui. Dio ha creato la domenica per chi non ha tempo di piangersi addosso nel resto della settimana. Scusate la sintassi, ma sono un po’ eccitato. Buon Natale. Format Max: 85. – Dovevamo per forza dar la colpa a qualcun altro, vero? Impossibile ammettere di non avere capito niente –. Bella si massaggia il braccio sinistro con la mano destra. Il suo maglione è troppo leggero per i pochi gradi di questa mattina lattiginosa, ma lei non sembra farci caso. Accende una sigaretta: dita bianche a coppa davanti a guance rosse. – Di fronte a eventi dolorosi che sconvolgono l’ordine delle cose è istintivo reagire con una negazione, – dico, sentendomi fuori luogo. – Cos’è, una citazione di Freud? – Una pioggia finissima, quasi vaporizzata, viene giù in silenzio. L’erba bagnata mi fa venir voglia di passarci su le braccia nude, non so perché. La piccola radura dove ci siamo fermati aggetta sulla valle entro cui sorge la Città Perfetta. Il massimo di «gita in campagna a contatto con la natura» che è venuto in mente a due tizi disperatamente urbanizzati e inadatti anche a un’escursione di due ore come noi: tech senza speranza. Il vento sibila radente sull’erba e si infrange contro l’unico albero della zona. Mi accorgo solo adesso che, in caso di temporale, questa posizione non è molto adatta; spazi aperti, fulmini, alberi e le fibbie metalliche dei nostri zaini non formano una bella squadra. Se venissimo colpiti e carbonizzati qui, quanto tempo ci metterebbero a trovarci? Ci cercherebbero, poi? Che idiozie mi vengono in mente. Cerco di ripararla un po’ dalle raffiche, facendole scudo con il busto. Lei sorride della mia goffa interpretazione di «maschio dominante». – Magari, se lo avessimo ascoltato di più, – dico, – se non mi fossi limitato a sputare veleno ogni volta che Max si girava dall’altra parte, se avessi avuto un po’ di pazienza, un po’ di attenzione. In fondo si trattava di mantenere un sistema in equilibrio, di calcolare variabili… dovremmo esserci abituati. – Ma che cazzo dici –. Non è una domanda. Bella mi guarda da sotto in su, accovacciata sotto la mia ascella: – Lascia perdere la matematica, almeno per oggi. Il tuono si sostituisce alla mia risposta. Sotto la pioggia, ora più forte, la natura parla ad alta voce una lingua fresca e ignota. Dà gioia anche a chi non la comprende. Poi i capelli si rizzano in testa, quando una luce intensa attraversa da un estremo all’altro l’orizzonte. Ci ricopre. Degli altri non sappiamo niente. 86. Chiuso nel suo nuovo ufficio tutto pelle e radica, Celso Grande si concede qualche minuto di meritato autocompiacimento. Ha appena finito di motivare il suo nuovo staff con un discorso brillante e informale, dispensando con generosità i suoi benefit preferiti: sorrisi e contatto fisico. Pacche sulle spalle, doppie strette di mano, guance pizzicate, battute volgari ma non troppo, finti affondo ai testicoli e complimenti ai vestiti delle segretarie racchie. Dopo aver bevuto Veuve Clicquot della sua riserva personale, hanno tutti zompettato abbracciati cantando: «Chi non salta un fallito è!» traendone gioiosa soddisfazione. Il quadro è già pronto: dare un’impostazione più sensuale e attraente alla Città Perfetta. Basta coi tormentoni da primi della classe ingessati! Siamo giovani, siamo freschi, abbiamo il successo e i vent’anni per godercelo. E ce li avremo sempre. Taglio netto ai vecchi barbogi. Nella Città Perfetta si indossano vestiti comodi e sformati, si va a lavorare in bici e pantaloncini, si vive in gruppo e si ride molto. Si ama. Si crea. Per sempre giovani. Per sempre lontani dalle responsabilità. Ha già in mente il claim: «Un mondo senza dolore». Gli è venuto così, e domani sarà su tutti i cartelloni. Ha in mente il futuro. 87. Stamattina il biglietto l’ho trovato subito. Lo aveva scritto su un post-it e me l’aveva attaccato alla fronte, a tendina sugli occhi. Diceva: – Non te la prendere, ma così il nostro rapporto non va da nessuna parte. È arrivato il momento di cambiare. Cerca di capire e scusami. B. Mi aveva mollato! Dovevo immaginare che lo avrebbe fatto con un altro di quei suoi fottutissimi bigliettini. E sapevo per certo che quello strafottutissimo bigliettino finale sarebbe stato anche l’ultima parola di Bella sull’argomento. Non le avrei mai cavato nient’altro, nemmeno legandola e arrostendole gli alluci con l’accendino. Se l’amore fosse un videogioco, sarebbe un simulatore di volo: ti sembra di volare, ma non voli affatto. Stavo ancora cercando di capire se mi faceva più male l’abbandono o la mancanza di spiegazioni (gli amanti abbandonati si gingillano spesso con questa robaccia masochista), quando mi sono accorto che Bella dormiva accanto a me, e per la prima volta non mi ero svegliato dopo di lei, da solo. Rileggendo il bigliettino, ne interpretai il corretto significato. Sotto il letto c’era una valigia, nel cassettone centrale biancheria inconciliabile col mio sesso. Ancor prima delle otto e del caffè, contemplavo le piccole cose inadatte che, sparse per la mia stanza, testimoniavano un’epoca che da oggi non esiste più: la collezione di cd di trip-hop da ascoltare di notte al buio, il tappetino per gli addominali (mai usato se non come scendiletto), una mia foto scattata da qualcuno che non è più nei miei pensieri, l’abat-jour solo da una parte del letto (l’unica, la mia). Sorrisi, inchinandomi a una decisione che non ricordavo di aver preso e che non avrei contestato. E adesso giù per Constancia Avenue, pedalando come un matto con l’aria frizzante che vellica le mie gambe scoperte da sontuosi pantaloncini d’annata – non sono disposto a rinunciare proprio a tutto e Bella è troppo giusta per chiedermi assurdi sacrifici, per cui in auto ci va da sola (a che serve l’autoradio, se no?) Sfreccio, accarezzando portiere e sfuggendo agile ai mortiferi solchi del tram. Di tanto in tanto abbandono il manubrio portando le mani intrecciate dietro la nuca. Ostentando confusi e manieristici gesti di libertà. Penso a Ken, al nostro Papà, al suo insopprimibile istinto di prendersi cura di orfani randagi, al suo sorriso di ieri: la nave in porto, per sempre al sicuro nella rada. Penso a Chiara, alla sua scelta di eterna neutralità e basso profilo, a come sia in controtendenza rispetto ai tempi, e a quanto l’ammiro per questo. Penso a Marianna che ormai accetta di corrompere di frequente la sua dieta ricca di cereali con le nostre merendine al colesterolo. E penso al Conte insieme a lei, alla loro schiva storia d’amore, che portano avanti camminando sulle uova. Penso a Bella e mi tengo tutto per me, anche se forse non dovrei. Faccio anch’io parte del tuo progetto «Barbie – Segreti di Bellezza», mio piccolo tesoro? Può darsi, può darsi. Scarto a destra, bruciando un semaforo e fanculando un motociclista mentre penso a come siamo ormai perfetti nel nostro limbo sentimental-professionale. Lo abbiamo ottenuto mentendo, ricattando un ricattatore, rispondendo con minacce ad altre minacce. Perdendo la nostra purezza, il che, secondo banali e borghesi interpretazioni, equivale a diventare «grandi». Ma sempre convinti di non finire come quel vecchio, arido bastardo di Morgan. Facciamo quello che ci piace, quello che vogliamo in piena autonomia, come lui ci aveva promesso. Ma non andremo da nessuna parte da soli, senza il paracadute economico e ideologico della Morgan Holding. Senza essere parte di qualcosa che detestiamo. Almeno fino a quando non decideremo di ritirarci in campagna, o di inventare il capitalismo dal volto umano – potremmo farlo, in fondo… Eccoci qui, alla fine. Lontani i tempi dell’autolesionismo, siamo rientrati anche noi nella generazione del bungee-jumping: vogliamo giocare senza rischiare, cadere senza farci male. Siamo diventati quelli del sex no drugs & rock and roll. Spariamo a salve e scopiamo ricoperti di gomma. Usiamo la verità solo nascondendola nell’ironia. Abbiamo eretto il revival a filosofia di vita, rievochiamo gli anni Settanta coi pantaloni a zampa e il nero agli occhi, ma sostituendo la realtà virtuale all’LSD. E poi gli anni Ottanta e poi i Novanta, e poi ricominciamo ancora. Non corriamo il pericolo di avere idee originali. Pretendiamo di mangiare genuini cibi campagnoli acquistandoli al supermercato. Siamo carini, abbiamo un lavoro e una ragazza, forse domani un figlio, e allora? Che c’è di male nel fatto che nessuno ci può trovare qualcosa di male? Freno, alzandomi sul sellino, appena arrivato al mio forse eterno posto di lavoro. E penso a Max, a Max, a Max.