300.000 Marco Biaz 2003 Marco Biazzetti Via San Isidoro, 8 10090 Romano Canavese (TO) Tel. 338-1288341 Mail: marcobiaz@libero.it Web: http://biazzetti.altervista.org ”Ho una pistola nel giardino, e tante teste nel mirino…” (Cani Sciolti in rock - Bella Blu d’Ivrea 1987) * Bussarono alla porta e andai ad aprire. Il tizio aveva in testa un casco integrale da motociclista e mi consegnò una busta di nylon. Gli domandai se c'era qualcosa da pagare. Rispose che era tutto a posto, poi si portò una mano al lato del casco e, mimando la cornetta del telefono, disse che qualcuno mi avrebbe chiamato. Nella busta c'era una scatola di cartone. Dentro ci trovai due pistole. Non era roba mia e non mi preoccupai: avevano sbagliato destinatario e sarebbero tornati a riprendersele. In bagno cambiai l'acqua e poi mi controllai la capigliatura. La stempiatura era sempre uguale, ma avevo l'impressione che aumentasse giorno dopo giorno, millimetro dopo millimetro. Chinai il capo e puntai gli occhi in avanti: era il modo migliore per verificare lo stato dell'alopecia. L'attaccatura era ormai simile a quella di Diabolik, con due ampie schiarite ai lati. Ma a differenza del criminale di Clerville, la stempiatura m'invecchiava. Mi lavai con il sapone la zona in prossimità delle tempie che puzzava di aglio. Avevo letto su un quotidiano che perdere i capelli era come farsi succhiare il sangue da un vampiro, e un rimedio efficace per combattere il problema era rappresentato dall'aglio. Faceva molto bene alla calvizie, meglio se strofinato direttamente sulle parti interessate. Mi ero lasciato convincere. Tutte le sere, prima di coricarmi, prendevo uno spicchio e mi davo una passata. Ma quanto aglio mi ci sarebbe voluto per fermare il Conte Dracula? Non era un bel periodo. Pioveva, faceva freddo, girava voce dell'imminente evacuazione di molti quartieri. Questione di giorni: un esercito di topi stava marciando sulla città. Uscii di casa, sbuffai, l’alito si condensò sulla punta del naso. Nell'aria aleggiava un cattivo odore, come di cantina piena di muffa. Detti un’occhiata alla posta. C’era qualcosa, una busta bianca, priva di affrancatura, destinatario, mittente. Immacolata. Me la girai tra le mani, la soppesai, pareva giunta dal nulla. Come le pistole. Stavo per aprirla, quando incrociai il postino e gli domandai se me l’aveva recapitata lui. Si tolse il sigarillo dalla bocca e sputò il fumo verso l'asfalto. “Quando?” “Poco fa. Ieri non c’era.” Mi guardò con una smorfia di noia, come se quel mattino mille persone gli avessero posto la stessa questione. “Impossibile” osservò. Imbucò una bolletta della Telecom in una cassetta e poi fece per andarsene. “Scusi?” Sbuffò. “Cosa c'è ancora?” “La busta.” Mi stava innervosendo. Gliela mostrai. La prese pizzicandola con due dita, la studiò con un occhio socchiuso, su e giù, avanti e dietro, quindi me la restituì. “Bel problema” sbadigliò. “Escluso il sottoscritto, può averla messa chiunque.” “Manca il francobollo” osservai. “Manca tutto.” “Una buca vale l’altra.” “Direi proprio di sì.” Il postino era un uomo tozzo, sui quarantacinque anni, voce roca, mani grandi e pizzetto incolto, postura ingobbita dal borsone con la corrispondenza sulle spalle, aveva una faccia piena di smorfie e lasciami stare, una di quelle che stanno sul collo di chi patisce la filosofia spicciola del lavoro e ha il vizio di girare il coltello nella ferita. Si passò la lingua sui denti e indicò la mia cassetta. “Se fossi stato io, l’avrei imbucata altrove…” La mia era appesa a un chiodo arrugginito, vecchia e malandata. “Mi chiedevo…” abbozzò un attimo dopo, guardandosi intorno con una certa circospezione. “Mi chiedevo cos’è questa paccottiglia bianca sparsa dappertutto.” “Boh, acqua piovana e farina” abbozzai. “Adesso ho capito” assentì, con ampi cenni del capo. Rimasi a fissarlo, il pugno destro stretto, pronto a partire per primo in caso di necessità. I suoi occhi dardeggiavano disprezzo verso il ballatoio, sicuramente anomalo in mezzo ad altri edifici più recenti e moderni, non bello da vedersi perché fatiscente, forse più adatto a un contesto bucolico, ma che ospitava sei single e non aveva mai causato grattacapi al quartiere. Due anni prima avevo cercato di dare un po' di tono alla facciata dipingendo la mia porta di rosso. Immediatamente i cinque vicini approvarono la mia creatività e mi seguirono, chi dipingendo l'uscio di giallo, rosa o arancione, chi appendendo un gagliardetto del Catanzaro o fissando sulla ringhiera un'antenna parabolica di dimensioni eccezionali che copriva l'intero ingresso. Un effetto scioccante, ma divertente. Il proprietario, con un passato hippy, rimase impressionato, ma incalzato dall'Ufficio Tecnico Comunale ci ordinò di ridipingere le porte di color caghetta, e di levare la parabolica. Il motivo della permanenza del gagliardetto del Catanzaro rimase sconosciuta. “Cosa?” lo sfidai, i pugni affondati nelle tasche. Lui scrollò le spalle, sorriso beffardo. “Lo sanno tutti che Ivrea sta per essere occupata dai topi. Ma se da una parte ci sono pochi onesti cittadini che si preoccupano di affrontare il problema, dall’altra c’è una categoria d’infami che gli preparano il pane!" Mi fece notare che gli autori dell'impasto erano dei balordi, che non potevano avere come obiettivo la morte dei topi: non avevano nemmeno preparato delle esche. "La funzione delle esche è quella d'impedire l'assunzione accidentale da parte di bambini e adulti" precisai. "Ma con trecentomila bestiacce in giro…" "Sono milioni." "Peggio ancora. Le esche non servono a un tubo." "Infami." “Si riferisce a qualcuno in particolare?” “Ce l’ho con i panettieri filo-animalisti. Di notte foraggiano il marciume a quattro zampe: andrebbero fucilati sul posto.” “Ma…” “Senza se e senza ma" continuò lui, unendo i polpastrelli del pollice e dell'indice sotto il suo naso. "Un solo granello di feci di topo può rovinare un'intera padella di riso!” Il postino zen riprese l’ombrello e se andò, lasciandomi solo a osservare gli ultimi lembi di vernice grigia sulla cassetta delle lettere che la ruggine stava inghiottendo. Piegai la busta in due e la misi in tasca. Sotto la pioggia che veniva giù a stravento, raggiunsi il bar gestito da un ex collega di lavoro, ubicato sotto i portici di una piazza. Era uno dei pochi locali rimasti aperti e aveva appeso sull'ingresso un cartello realizzato personalmente dall’assessore al commercio di Alleanza Nazionale, Alex Borghese. "Attento, il topo ti segue!" Scopiazzatura di una vecchia locandina di Rattus Norvegicus, degli Stranglers. Dalle vetrine era possibile osservare quanto accadeva in strada e, come tutti i traslochi in grande stile, non era un gran spettacolo. Ivrea, la Silicon Valley d'Italia, la città dell’Utopia di Adriano Olivetti stava tirando le cuoia come un vecchio moribondo. Non erano gli imminenti invasori a costituire il mortifero della città. Ciò che ne minacciava la sopravvivenza era l'abbandono da parte dei suoi cittadini. Gli anziani e facoltosi dirigenti che avevano captato le ricchezze di Olivetti, ora scappavano. Caricavano le loro belle auto e andavano a sistemarsi nelle seconde o terze case, al mare, in montagna, a Praga, Parigi, Malindi, Costa Azzurra, Cervinia, Courmayeur. Lasciavano agli scarti l'inconveniente di salvare capre e cavoli. Il futuro, se mai ce ne fosse stato uno. Non si respirava un'atmosfera di caos. La situazione si presentava assurdamente tranquilla, scontata, come una cosa che era nell'aria da tempo e che alla fine si doveva sbrigare. Le sole eccezioni erano incarnate da una folta rappresentanza della comunità dei Damanhur che cercava proseliti tra la popolazione indecisa, e dalle poche teste calde che attaccavano i partenti, scatenando risse grottesche e prendendo a sassate le auto stracariche di bagagli ed effetti personali. Presi un caffè macchiato e sfogliai La Stampa. A parte un articolo di cronaca locale che trattava la proliferazione di ratti a Ivrea, la mia attenzione si soffermò sui soliti annunci di lavoro, la maggior parte relativa alla ricerca di venditori di servizi generici e pacchetti software. L’offerta più eclatante del giorno apparteneva a un colosso delle telecomunicazioni, un tempo con uffici non distanti da dove abitavo, nella vecchia sede della Olivetti, per la posizione di BUSINESS DEVELOPMENT MANAGER. Profilo. Età non superiore ai 28 anni, laureato in ingegneria o economia e commercio con il massimo dei voti, inglese, francese, tedesco fluenti, gradite le lingue scandinave, esperienza di 5-6 anni maturata in aziende multinazionali del settore, auto propria, ottima conoscenza del business community del Nord dell’Europa e dei più moderni sistemi informatici, flessibilità, entusiasmo, voglia di crescere professionalmente, efficienza e aggressività in grado di garantire un forte impulso alla filiale italiana, delineando le linee commerciali, e target prioritari sui quali agire con decisione e rapidità. La ricerca è rivolta a entrambi i sessi. Sede di lavoro: Milano. Retribuzione nessun accenno. Finii il caffè e avvertii un gorgoglio lungo la trachea. Una mano davanti alla bocca soffocò un ruggito. Ero “a spasso” da un paio di mesi, grazie alla serietà del responsabile commerciale di una nota azienda francese, con sede a Genova, che, dopo tre estenuanti colloqui in Liguria, aveva promesso di assumermi. Si trattava di fare il “consulente” di prodotti sanitari presso enti locali, ospedali e case di cura. Dai tre ai cinquemila euro al mese tra fisso e provvigioni, auto aziendale, telefonino, pc portatile in dotazione e altri benefit. L’ingresso in azienda era fissato subito dopo la fine delle vacanze natalizie. Un corso di cinque giorni e poi via, sulla strada a gonfiare il fatturato. Passati i bagordi e le sbronze di Capodanno, nessuno si fece sentire. Provai a contattarlo diverse volte, ma il mio uomo non c’era mai. Lo trovai il 10 gennaio, alle ore 10,30. Non fu sorpreso di sentirmi: aveva appuntato tutte le mie chiamate dal 15 dicembre. “Sono pronto” gli annunciai. “Calma” disse lui. "Ci sono delle novità.” Le mie mani non fecero più presa su una lastra di ghiaccio verde e tran, scivolai giù finché non arrivò la mazzata finale. “Abbiamo preso un altro. Uno in gamba, con una struttura commerciale già avviata…” Cosa fai a uno così? Mille belle idee. Chini la testa, e di notte, invece di riposare, ti ripeti che una vita forse non basta per comprendere la giusta dose di dolore da infliggere a certe carogne. Ti ripeti che, se vuoi conservare un minimo di dignità, devi trattarli per quello che sono: bastardi. Diverse sfumature, ma tutti uguali: quando li ho davanti mi manca sempre una pistola tra le mani. Grazie alla deontologia di un pendaglio da forca, ero stato obbligato a restare in un luogo infetto, a rompere il salvadanaio per prendere un caffè al bar e leggere i tristi annunci di ricerca di personale sul giornale della Fiat. Ogni mattina, ogni volta che sfogliavo quelle pagine speravo che fosse il giorno buono per fare i bagagli. Un cane che si morde la coda: come potevo affidare a dei delinquenti mio futuro? Vita professionale a parte, la barca dei sentimenti non navigava in acque tranquille. Da qualche anno intrattenevo un rapporto stabile con una brava ragazza e, da circa otto mesi, avevo una splendida amante dagli occhi blu. Quest’ultima, una carrierista spietata e concentrazionaria, condizionava integralmente i miei umori. Il pallino della mia esistenza ruotava intorno agli SMS che mi spediva da tutta Italia, alle rare volte che la vedevo, ai suoi incredibili sguardi. La par condicio era esemplare. Entrambi tiravamo avanti una relazione logora al punto giusto, e avevamo una gran voglia di strapparci i vestiti dopo il primo bacio. Lì per lì appariva come un bellissimo volo, tra nuvole intrise di sogni così lontani dalla realtà. Ci volle poco per capire che l’immaginazione è indivisibile. La sua era scandita da tempi e ritmi precisi, e certe fantasie non erano che ordinarie pianificazioni. Io viaggiavo tra mille ispirazioni, mentre lei speculava sugli effetti collaterali, e calcolava il rischio. Aveva dei magnifici occhi blu, ma nemmeno un briciolo di coraggio. Quando smisi di rotolare nel desiderio, fu come spegnere la luce: uscirono i guai e iniziammo a precipitare. I frettolosi tentativi di rientro alla normalità furono automatici. “Niccolò!” Mi voltai e sollevai l’ombrello. Il mio ex collega mi stava rincorrendo sotto i portici, in mano una busta bianca. “T’è caduta dalla tasca” mi disse, porgendomela. La presi e ringraziai. Dopo quasi cinque mesi di siccità e di cieli limpidi e gelidi, pioveva da due giorni. Osservai le nuvole, scure, gonfie d'acqua, cattive. Per una volta, le brutte condizioni del tempo non erano l'argomento prediletto in città. Per mesi avevo avuto la pelle secca e screpolata, le montagne di fronte a casa erano pelate, senza una riga di neve, l’acquedotto di Ivrea era ridotto a un colabrodo e dal rubinetto scendeva spesso acqua sporca. Avrei avuto voglia di andarmene anch'io, per non vedere più i codardi partire. I vili avevano una chance: la possibilità di riciclarsi altrove, mentre gli scarti aspettavano di accomodarsi sui vassoi dell'invasore. Nonostante la pioggia e i roditori che puntavano le caviglie, le due vecchie del pianterreno stavano discutendo animatamente sotto gli ombrelli. Insieme facevano quasi duecento anni, ma dalla lingua non gliene davi trentasei. Si detestavano, eppure erano sempre lì ad accapigliarsi per cose futili. Si erano battezzate a vicenda: Madame Paralume e Camurria. La prima era siciliana, piccola, rinsecchita, un po’ gobbetta e con gli occhi che scintillavano per la cataratta cronica. Malgrado l’età, faceva ancora la sarta, fumava un bel pacchetto di Diana al giorno e deambulava nel cortile con il mozzicone stretto tra le dita scheletriche e ingiallite. Non c’era fatto, particolare, notizia, tresca condominiale che non filtrasse dal suo osservatorio. Se avevi bisogno di un consiglio sul gentil sesso, era la persona più indicata. La sua analisi sulle donne era di una linearità disarmante. Camurria era originaria di Catanzaro, e aveva il gagliardetto della squadra di calcio calabrese legato alle inferriate della finestra. Gliel'aveva regalato il figlio, morto un paio di anni prima di tumore al pancreas, in memoria del marito grande tifoso della compagine ionica. Camurria storceva la bocca e parlava soltanto in dialetto. Il sospetto gravitava nel suo unico occhio aperto (l’altro non riusciva più a sollevare la palpebra), notte e giorno tallonava i sorci con un forcone, nell'inutile tentativo di acchiapparne uno. Nel ballatoio girava voce che se li mangiasse cotti alla piastra. Quando giunsi sotto casa, le vecchie smisero di parlare e mi scrutarono con un piglio che era tutto un programma: ma com’è che ‘sto ragazzo non va mai a lavorare? Piegai leggermente il capo e osservai che erano vestite in modo simile: scamiciata lunga a fiori che spuntava sotto il cappotto. Augurai la buona giornata a entrambe. Camurria fiatò qualcosa in dialetto. Madame Paralume assunse le mie difese, sostenendo che Nico Pazzia era il più bravo picciotto del condominio. “Signora, ancora con ‘sto Pazzia?” brontolai. "Mi chiamo Pazzini, Niccolò Pazzini" “Qui, tutti la conoscono come Nico Pazzia” osservò la vecchia. “Grazie a lei.” Madame Paralume agitò la mano rinsecchita davanti alla faccia, come se avesse un ventaglio, e poi concluse: “Eh, quante storie! E' tornato il gatto?" "No." "Se lo sono pappati i topi" sogghignò Camurria. Paco, il mio gatto marrone, era sparito da cinque giorni. Era un micio che amava riposare di giorni e fare baldoria di notte. Nel suo sadico realismo, forse Camurria aveva ragione: non c'era speranza di ritrovarlo vivo. In casa tolsi gli occhiali con le lenti bagnate e mi strofinai i capelli con un asciugamano. Avevo il freddo piantato nelle ossa. Non c'era una lacrima di kerosene nella stufa, accesi il forno della cucina e poi misi sul gas un pentolino pieno d'acqua per il tè. In attesa che bollisse, mi occupai del pacco con le pistole. Le ispezionai per bene. Beretta. Due bestioni pronti all'uso. Le posai sul divano, canna contro canna, e il mio stato emotivo cambiò improvvisamente. Il respiro divenne pesante e cominciai ad avvertire una tremarella in tutto il corpo. Dovevo sbarazzarmene in fretta. Mai posseduto armi, non era il caso di cambiare per un errore di consegna. Tuttavia, pensandoci bene, era proprio l'errore a tenermi legato ai due bestioni. Seppur a malincuore, non potevo far altro che attendere: qualcuno sarebbe venuto a reclamarle. Tornai in cucina e inzuppai la bustina del tè nell'acqua bollente. Ero seduto accanto al forno, la tazza in mano, lo sguardo perso nella desolazione della strada, fino a poco tempo molto trafficata, quando mi ricordai della lettera anonima. L'avevo posata sul mobile dell'entrata. Presi il tagliacarte e introdussi la punta a margine della linguetta. Una leggera pressione e in un attimo la busta si schiuse come un fiore. Un taglio perfetto. Tirai fuori la lettera e lessi la prima frase. “Non buttarmi via: ti porterò fortuna.” * La catena di Sant’Antonio. Qualcuno ci crede, il resto se ne frega. Dipende da come gira la vita, dal grado di vulnerabilità del momento. Per quanto mi riguardava, la fortuna era un po’ che non me la mettevo in tasca. Mi passava sotto gli occhi, dormiva nel mio letto, ma non si faceva acciuffare, quindi decisi di continuare a scorrere la missiva. Il primo anello della catena aveva avuto origine in America, Michigan, tanti anni prima, la buona e la cattiva sorte l’avevano allungata sino a spingerla nella mia buca delle lettere. Chi aveva seguito i consigli riportati nella lettera, stava folleggiando sulle spiagge di Bora-Bora. Chi l’aveva cestinata soggiornava sottoterra o in galera, e una montagna di giorni infausti gravava ancora sulle sue spalle! Stupidaggini, pensai. Stavo per buttarla, quando fui colto da un dubbio improvviso. Bora-Bora o il carcere d'Ivrea? Se volevo stendermi al sole della Polinesia, urgeva fare qualcosa di molto semplice e senza sudare troppo: recapitare la lettera a un conoscente malato, o che versava in gravi condizioni d’indigenza. Non c’era bisogno di affrancarla: bastava lasciare una busta anonima nella buca delle lettere. Stupidaggini. Bora-Bora o la galera? Non avevo mai giocato una schedina al Totocalcio, passato la settimana sperando che uscisse il sei al Superenalotto, immaginato di cambiare il mio futuro puntando alla roulette di Saint Vincent. Soldi sprecati. Non credevo nel destino. Non m’illudevo che un giorno tutto potesse improvvisamente cambiare. Con le persone potevo nascondermi in mille modi, con la realtà non c’era via di scampo. Nonostante cercassi di stupirla con mille acrobazie, non riuscivo a convincerla sulla bontà dei miei propositi. Tuttavia qualcosa d’incontrollato scalciava dentro. Le cose cambiano senza troppa convinzione. Basta qualcosa, un blocco di ghiaccio dal cielo, una pallottola vagante, 300.000 topi sottocasa. La mia ragione si concedeva troppe pause e le crepe si aprivano in ogni situazione. Avevo raggiunto l’età per ritirarmi in Polinesia con un minimo di decenza. Questo era il mio unico vero e sano obiettivo. Senza rendermene conto, la mia mente stava già scorrendo i nomi e i volti dell’antropologia circense di conoscenti, amici e amiche disoccupati, sfaccendati, perdigiorno, orfani, falliti, malati, afflitti, infetti, precari, indebitati, derubati, frustrati, disillusi, agonizzanti. Mario, Marta e Alberto abitavano a due passi da me. Il primo aveva ricevuto una bella eredità dal padre, insegnava al liceo scientifico e guadagnava mucchietti di Euro ogni settimana grazie alla Borsa dei Piccoli. Le donne abbondavano, ma non riusciva a innamorarsi. Non idoneo. Se mai gli avessi imbucato una copia della lettera, l’Enel mi avrebbe tagliato la luce il giorno stesso. Economicamente Marta non se la passava male, ma non vedeva un uomo dalla notte dei tempi. Un vero peccato. Non era una cattiva ragazza. Ma il fatto che si fosse abituata all’idea di non avere né un amore né un ripiego sessuale, e s’atteggiasse a gran teorica dei rapporti di coppia, in qualche modo mi convinceva che lei non era con la canna del gas in bocca. Alberto faceva al caso mio. Pochi quattrini, sentimentalmente arido, tanti anni passati in America lo avevano reso simile a un cobra. Per lui il fine giustificava sempre il mezzo. Insegnava danze latino-americane, viveva in una casa simile alla mia e possedeva un’Alfa Arna di una tale indecenza, che i vicini gli lasciavano messaggini pizzicati tra i tergicristalli per invitarlo a rimuoverla dal parcheggio, oggetto di deturpazione paesaggistica. Fisicamente Alberto era a posto, ma il resto non andava e necessitava di una spintarella. Da impallinare. Dopo un giorno trovai un’altra busta nella posta. Era simile a quella precedente: bianca e completamente anonima. L’aprii e ci trovai dentro la lettera del Michigan. Non era facile. I casi erano due. Sant’Antonio mi aveva preso di mira, o Alberto mi considerava un povero diavolo. Fui tentato di rispedirgliela, poi mi trattenni: rischiavamo di rimpallarcela e di bloccare il vincolo. Toccava a Gianfranco, il sosia di Vallanzasca, con l’unico vantaggio di non avere ancora limato le sbarre di un penitenziario. Due figli, separato, sbandato, alcolizzato, non lavorava da cinque anni e doveva soldi a tutti. Uscii di casa, comprai una busta nell'unico tabaccaio aperto della città, e gliela infilai sotto la porta di casa prima di cena. Gianfranco era un ottimo investimento. Uno come lui, la catena l’avrebbe allungata fino al Capo di Buona Speranza. * Aveva dormito tutto il pomeriggio e aveva un aspetto tremendo, come se si fosse appena ripreso da una sbornia colossale. Il mio vicino si chiamava Carlo Giulio Cesari, detto Caio. “Lavoratori!” esclamai, entrando in casa sua. "Puzzi d'aglio" sbadigliò lui. "Ma se mi sono appena lavato!" "Non basta. Devi spruzzarti del profumo sui capelli." "Sì, e così li perdo tutti!" Caio s’accese uno spinello già iniziato e tirò una nota di fumo. Lui non aveva di questi problemi: s'era rasato a zero quando aveva iniziato a stempiarsi, e adesso gli brillava sulla testa una palla da biliardo. Il suo appartamento era invaso da uno swing inconfondibile. Mesi prima gli avevo masterizzato alcuni cd di Fred Buscaglione, e in casa sua non si sentiva altro. Con la scusa che da ragazzo suo padre aveva tentato il suicidio dopo aver appreso della scomparsa di Fred in un incidente d'auto, si sentiva investito di una missione: ascoltare criminal song dal mattino alla sera. Non c'era verso di fargli cambiare musica. Ufficialmente il mio vicino lavorava come installatore di cavi ottici, presso una nota multinazionale delle telecomunicazioni con degli uffici non distanti da casa nostra. Non l'avevo mai visto recarsi al lavoro. A suo dire era un tecnico stimato, formatosi all’estero, per questo motivo l’azienda non l’aveva ancora licenziato. Gli avevano imposto un contratto anomalo, di collaborazione occasionale, che non prevedeva retribuzione in caso di assenza. A casa passava il tempo a dormire o su internet a scaricare film e musica. Riceveva visite da parte di gente che io non conoscevo. In genere si trattava di professionisti locali, che si fermavano pochi minuti. Alcune ragazze s’intrattenevano anche tutta la notte. Lo vidi rovistare sotto il lavello della cucina, dal quale tirò fuori una caffettiera da sei tazze. La preparò e poi la mise sul fuoco. "Oggi non è proprio giornata” tossì. "Sono le otto. Invece di bere caffè, perché non mangiamo un boccone insieme?” Caio aprì alcuni sportelli della cucina e poi si passò le mani sul capo. “Da due giorni non metto il becco fuori e non c’è nulla da mettere sotto i denti.” "Il fumo non manca mai" osservai. "Sei venuto a farmi la predica?" “Non mi permetterei mai. Ci facciamo una pizza?” “Di nuovo?” “Ti fa schifo?” “L'hai fatta ieri sera!” Annuii. Erano due giorni che non andavo in bagno. “Non hai niente proprio niente?” riattaccai. “Nemmeno un tozzo di pane.” La moka brontolò. Un filo di vapore usciva dal beccuccio. Caio spense il fornello e attese qualche istante per servire il caffè. “Perché te ne stai rintanato in casa?” C’impiegò un attimo a rispondermi. Dovetti insistere. Lui scrollò le spalle e rispose: "Boh, mi fanno schifo i topi.” Prendemmo il caffè in silenzio. “Mmm, speriamo di avere ancora della farina” sospirai, dopo un po’. “L’ultimo pacchetto l’ho aperto ieri sera e l'ho seminato in cortile.” “Ti sarai mica messo a mangiare quelle bestiacce, come Camurria?” “Il veleno è esaurito. Era l’unico sistema per tenerle lontano…” Lui socchiuse gli occhi, dopodiché si avvicinò alla finestra e iniziò a tossire. “Con la pioggia che è venuta giù, c’è pasta per la pizza nel raggio di cento metri quadrati!” “Ho cercato di coprire tutti gli spazi.” “Vedo. Sei un genio, come quelli che innaffiano le strade di whisky e cognac sperando di ubriacare 'sto lerciume! Ma lo sai che i ratti hanno un quoziente intellettivo simile a quello dell’uomo? Fiutano il pericolo e se la squagliano." “E' tutto da verificare. Gli uomini non fuggono di fronte agli alcolici. Io cerco di non dare nulla per scontato. La farina ha funzionato, ma la pioggia non ci ha aiutato. Per stasera ho bisogno di buttarne dell’altra…" Grossi roditori erano assiepati lungo gli angoli e grattavano i filamenti bianchi intrisi di acqua piovana. “Sul nostro pianerottolo la farina è al riparo dalle gocce, e questa notte se ne staranno lontani” affermai. “Noi invece staremo a digiuno” obiettò lui. “Dobbiamo farci venire in mente qualcosa.” “Chiamo i vigili urbani” buttai lì. “So che intervengono con gli idranti nei casi più disperati. Magari ci portano anche qualcosa da mangiare...” “E pure due pollastrelle disponibili. Non siamo a Bucarest, Nico Pazzia!” "Detesto essere chiamato così." Caio arretrò, poi consultò l’orologio e mi fece notare che a quell’ora in Comune non avremmo trovato nessuno. Lo vidi andare in cucina, aprire il frigo e stappare una birra che versò in due bicchieri. “Facciamoci almeno portare delle pizze a domicilio.” “Il servizio non è assicurato in questo periodo” osservai. "Allora mangiamoci questo tuo capolavoro. Domani ti giuro che chiamo il sindaco!” "C'è ancora un sindaco, in questa città?" Stavo per tornare in casa, quando sentimmo bussare alla porta. Il nuovo arrivato era una bella donna tra i trenta e i trentacinque anni, capelli lisci biondicci, cappotto corto tinta cammello e stivali a punta neri. L’avevo già notata un paio di volte per le scale e avevo chiesto lumi a Caio. Mi aveva spiegato che era il suo avvocato di fiducia. Conoscendolo, non avrebbe esitato a confidarmi che se la portava a letto. C’era dell’altro, che scoprii più tardi. Prima di andarmene, Caio mi sussurrò nell’orecchio che se andava bene, saremmo andati al ristorante. Il mio appartamento era adiacente al suo. Muro contro muro. Dopo qualche minuto sentii le voci alzarsi sopra le righe, e immaginai che la prospettiva ristorante stava saltando. Si cenava in casa. Il problema era cosa mangiare. Mezzo pacchetto di farina non bastava per preparare una pizza e tenere lontano i topi dal pianerottolo. Dovevo trovarne dell'altra. Non mi restava che rivolgermi ai due inquilini del piano di sopra, e prepararmi a un match dagli esiti imprevisti. Gerri e Irina non erano persone che si potevano definire normali, che vai a trovare senza porti troppe domande. * Gerri Molotov, abitava sopra di me. Il suo vero nome era Gerardo Molon, veneto, professione impiegato all'A.S.L.. Era diventato Molotov dilettandosi a lanciare bottiglie fumanti nel cuore della notte, tanto per mettere disordine nella pacata vita notturna degli eporediesi. E, come sosteneva lui, per trovare un modo serio e virtuoso di comunicare con la cittadinanza... A parte il sottoscritto e Caio, nessuno conosceva la vera identità del vandalo che aveva affumicato gli sportelli bancomat e le saracinesche di tutte le banche locali, in collaborazione con il suo grande amico, Piero Brichét, rispettabilissimo commerciante di biancheria intima del centro cittadino. Insieme avevano fondato la Banda Molotov e infiammato Ivrea per qualche stagione, poi Piero aveva tentato d'impiccarsi e la collaborazione era finita, così come la loro amicizia. M'attaccai al campanello. Ero certo che non avrebbe aperto subito. Molotov era uno di quegli individui che detesta le sorprese: dietro la porta puoi trovare uno sbirro che ti rovina la serata. Da ubriaco, tra un aneddoto di fuoco e un dettaglio sulla demenza del suo ex-socio, lo ripeteva in continuazione. Notai che non aveva preso alcuna precauzione per tenere lontano il sorciume dal suo balcone. Non aveva amici, si disinteressava del mondo: la sua indifferenza faceva il gioco dell'invasore. Se i topi si fossero impadroniti della città, lui si sarebbe riciclato insegnando alle bestiacce l'arte di fabbricare Molotov. Era il migliore. “C’è qualcuno?” sentii chiedere dall'interno. Domanda insensata. Gerri era un artista nel confezionare bottiglie incendiarie, per tutto il resto non valeva una cicca. "E' probabile" risposi, e poi suonai nuovamente. "Chi sei?" "Topo Gigio." Sentii trafficare sulla serratura, poi la porta si aprì. Era ansimante, come se avesse interrotto una seduta di cyclette. Notai che aveva la gamba destra ingessata dall'inguine alla caviglia. "Ehi, che t'è successo?" Fece una smorfia di disappunto per dimostrare subito che la mia presenza non era apprezzata. "Sono caduto dalle scale." "Ti sei rotto qualcosa?" "Tu che dici?" "Dico che ieri eri tutto integro." "Ieri era ieri. Cosa vuoi, Pazzia?” mi aggredì. Il respiro pesante gli conferiva una tonalità più lugubre del solito. Possedeva una voce potente, baritonale. Una volta mi ero permesso di chiedergli per quale motivo non s'era dato all'opera. Mi aveva risposto di andare a farmi fottere. Scossi il capo, deglutii, risposi: “Uno ti viene a trovare, e tu lo tratti come un cane. Va bè che hai la gamba rotta, ma non si fa così. Sei il principe dell’ospitalità.” Di colpo Molotov assunse un’aria asfittica che avrebbe tradito anche il più sveglio dei poliziotti. Era più basso di me di qualche centimetro, magro, viso sottile, occhi castani, capelli lisci come spaghetti: una straordinaria somiglianza con quel cantante di Domodossola, Alberto Fortis, che un tempo cantava Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere… “Sono molto indaffarato” spiegò, vagando con lo sguardo sul soffitto. L'occhio mi cadde inevitabilmente sul tavolino blu aperto al centro della stanza, sopra il quale giaceva una copia de La Sentinella del Canavese. Era uno di quei modelli da picnic che si montano e smontano in un batter d'occhio, comodissimo, con quattro sgabelli incorporati e il buco al centro del tavolo per inserire l'ombrellone. Era lì anche la prima volta che ero entrato in casa sua, e avevo considerato Molotov come un fanatico delle merende all'aria aperta. Da quando abitava nel ballatoio, circa tre anni, non aveva mai dato il bianco ai muri, né cambiato i mobili e soprammobili che aveva lasciato il precedente inquilino, una tassista rissosa e sciattona quanto lui. L'unica novità che aveva apportato all'appartamento era quel tavolino blu di plastica. “Hai della farina?” gli domandai. “Ancora con questa storia?" sbottò. "Non ne posso più. Tutti i giorni la stessa menata!” "Una tragedia!" esclamai. Mi faceva incazzare quel suo modo di generalizzare e rendere ogni cosa estremamente pesante. "Non ti sopporto" grugnì lui, continuando a fissare il soffitto. "Nemmeno io." "Vattene." "Ho bisogno di farina. Non se ne trova più da nessuna parte.” “Cosa ci posso fare?" "Devi dirmi se ne hai." "Uff! Provo a guardare in cucina. Tu resta qui. Non ti muovere.” Tirai su con il naso un paio di volte. C'era odore di benzina. Molotov tornò dopo pochi secondi, trascinandosi la gamba ingessata. Allargò le braccia e fece oscillare le mani a mo' di pistola. "E' finita." Dalla gravità del tono, sembrava una sentenza mortale. Finita la farina, finito l'ossigeno. "Abbiamo le stesse tendenze culinarie" rilevai, indietreggiando. "A cosa ti riferisci?" "Alla pizza. Ieri me ne hai dato mezzo pacchetto, se non ne hai più…" "Il problema è tuo" sentenziò Molotov. Ballista. Non era il tipo che spargeva farina accanto sui marciapiedi Posai la mano sulla maniglia. Prima di uscire, tirai un lungo respiro e poi feci oscillare il dito indice verso di lui. "Ti sta tornando il vizietto?" dissi. Il volto di Molotov si contrasse, ebbe uno spasmo, la bocca rimase aperta come se gli mancasse l'aria. Rantolò, portandosi una mano al petto, poi si piegò in avanti e dette un cazzotto al gesso che si aprì in due. Una champagnotta vuota, nascosta all'interno dell'ingessatura, rotolò sul pavimento. Gli era tornato il vizietto. "Non sai fare lo zoppo" gli dissi, prima di uscire. Scesi un piano di scale interrogandomi se Molotov poteva essere il destinatario delle due pistole, o delle lettere di Sant'Antonio. O tutt'e due insieme. Il mio dito era pigiato sul campanello di Irina e non avevo ancora trovato una risposta accettabile. Gerri me lo immaginavo con una bottiglia di fuoco in mano, pronto al lancio, con le pistole non faceva una gran figura. E le letterine dal Michigan? Quando Irina aprì, ero voltato di schiena, i gomiti appoggiati alla ringhiera, intento a guardare sotto. "Tutto bene?" esordì lei, schiarendosi la gola. Stava sbocconcellando una barretta di cioccolata bianca. "Insomma..." risposi. "Hai per caso della farina?" "Non lo so. Devo vedere." L'elettrotecnica bielorussa si tolse gli occhiali dalla montatura nera, appariva stralunata, assorta in mille pensieri, quelli che crescono spontaneamente maneggiando un saldatore. L'odore di stagno che, nonostante il ventilatore, intrappola il respiro fino alla nausea. Si aggiustò la chioma nera annuendo a qualcosa che le frullava in testa. Gli occhiali roteavano in una mano. "Cosa stai architettando?" le domandai. "Niente che ti possa interessare. Ti va un caffè?" Ne avevo appena bevuto uno, ma dovevo assecondarla: era una ragazza che s'irritava facilmente. "Pacemu nyet? "Che barba, con questo russo!" "E' per farti riassaporare l'atmosfera di casa…" "E' una fissa demenziale!" Nel salottino-laboratorio, notai che era all'opera su un Radio Marelli. "Bianco e nero?" m'informai, sbirciando tra il disordine. Nel suo alloggio non c’era una cosa al posto giusto. Pareti tappezzate di pezzi di ricambio radiotelevisivi, utensili, fil di ferro intrecciato artisticamente, foto di parenti che sembravano vecchie di cento anni, decine di pallottole di carta stagnola allineate sui mobili. Oltre a qualche apparecchio marchiato in cirillico, non c'era oggetto che facesse intuire la sua provenienza ex Sovietica. "E' di un cliente che non s’è più fatto vedere" confermò lei, dirigendosi in cucina, l'unico angolo della casa un po' in ordine, ma che odorava di pance tivù. "Più nessuno si fa vedere" aggiunsi, sedendomi attorno al tavolo. "Per strada non è rimasto che qualche pazzo vagante…" "E' scoccata l'ora X" fece lei. "E sai una cosa? Quasi-quasi sono contenta." "Stavi pensando a questo poco fa?" Irina posò la tavoletta di cioccolata, si sistemò gli occhiali sulla testa, poi prese la caffettiera e confermò con un cenno del capo. "Un'occasione del genere, di non mettere più il becco fuori di casa, non capita tutti i giorni." Sta impazzendo, pensai. "Finché qualcuno non verrà a sgranocchiarti la soglia" commentai. Dopo aver messo il caffè sul fuoco, rimase in silenzio finché la caffettiera non iniziò a gorgogliare. La seguii muoversi come un animale in gabbia, su e giù per la cucina. Voleva parlare. "Caro mio, certi fenomeni non avvengono per caso" riattaccò, mentre riempiva le tazzine. "Qui il destino c’entra e non c’entra. Anche se a qualcuno piace pensare che ci sia un po’ di fato e un bel po’ di responsabilità collettiva in mezzo a questo scandalo!" Scossi il capo, pentito di aver messo piede in casa sua e di dover bere un altro caffè. La conoscevo dal primo giorno che era venuta a vivere qui, tre anni prima, e dovevo ammettere che l'Italia l'aveva tanto peggiorata, intellettualmente e nel carattere. Era bella e insopportabile, intelligente e contorta, sensuale e paranoica. Quando partiva con i suoi sermoni, veniva voglia di tapparle la bocca con un rotolo di scotch, o di spararle un colpo in gola. Forse era colpa di tutta quella cioccolata bianca che trangugiava in continuazione, e che le stava sbobinando il cervello. "Cosa ne pensi?" m'interpellò, la tazzina in una mano, gli occhi azzurri puntati su di me. Non ti permetteva di stare zitto. Passivo. Eri costretto a interagire. Secondo lei il discorso doveva sempre evolversi, giungere a delle conclusioni. Fui costretto a bere il caffè tutto d'un fiato. Mi pulii la bocca con il dorso della mano. "A cosa ti riferisci, in particolare?" "Ai topi, dai! Quelli sono fuori a divorarsi le strade, e io me ne sto rintanata in cinquantadue metri quadrati, tra video bolliti e rottami italiani e sovietici." "Fai i bagagli pure tu. Tornatene a Minsk." "Piuttosto mi seppellisco in casa per davvero. Sai come si muovono gli invasori per occupare una città?" mi chiese, facendo oscillare le lunghe dita come se stesse suonando il pianoforte. "Utilizzano vecchie e sane tattiche. Occupano gli spazi cittadini, stringono d’assedio interi quartieri. Su La Padania ho letto che sono grossi come gatti, baffetti e occhi a mandorla, e che è colpa dei cinesi e dei loro pessimi ristoranti se sono usciti dalle fogne. La proliferazione di topi è proporzionale a quella dei mandarini." "Leggi La Padania?" "M'arriva gratis nella buca delle lettere." Strano, pensai. A me lettere dal Michigan, a lei La Padania. C'era un nesso in questa corrispondenza assurda? "In ogni caso, a livello nazionale non c’è il minimo interesse dei media a ciò che sta succedendo qui. E' uno scandalo!" "Ho sentito che i topi rosicchiano anche il ferro" osservai. "La sai una cosa" riattaccò la bielorussa. "Non c’è via di scampo. Se non buttano l’atomica, vinceranno loro. Questo silenzio non è che un mezzo per allargare il fenomeno fino a Torino, e poi farsi mandare un vecchio B52 carico di ordigni sensazionali." "I topi sarebbero un pretesto per scatenare un attacco atomico?" "Esattamente. La Fiat è un problema, le Olimpiadi invernali sono un problema, il Torino Calcio è un problema, la città in sé è un problema perché solo i cinesi se la filano. Una vecchia e sana bombetta e via il problema. Che se ne vadano al creatore tutti quanti. Meglio un maestoso camposanto dove portare qualche corona in pompa magna, che una pessima Chinatown..." "Le fogne non si distruggono con le bombe" obbiettai. "Su questo siamo d'accordo. Ma ti sfugge un particolare. Il pericolo non risiede là fuori, nell’anarchia fuggita dalle cloache, ma in noi stessi…" Lo squillo di un cellulare interruppe la sua inclinazione apocalittica. La vidi esitare, titubante se rispondere o meno. "Sta squillando" le feci notare. "Potrebbe essere un seccatore e non mi va di parlargli." "Magari no." Sbuffò, prese il telefono, rispose. Dopo un paio di saluti si spostò nell'altra stanza. Conoscevo abbastanza bene Irina. Era un’elettrotecnica in via d’estinzione. Laureata in quei polpettoni di discipline che avrebbero dovuto conferirle una cultura olistica, ingegneria e filosofia, s'era convertita ai fondi di televisione. Nonostante la gente si disfasse dei televisori d'annata come di ordinari rifiuti, il lavoro non le mancava. In giro c’era ancora una certa nostalgia per il vecchio attrezzo in bianco e nero, la radio a transistor. Ogni sei mesi suo fratello arrivava dalla Bielorussia con la macchina carica di vestigia della tecnologia del Comintern. Televisori, radio, rasoi, frullatori, frigoriferi. Da queste parti andavano come i topi. La gente se li piazzava in casa o nei bar come reperti Maya. USSR, URSS, CCCP, DDR, RDT, CSSR: felicità garantita dai loghi del Patto di Varsavia! Irina tornò dopo qualche minuto. L'espressione del suo viso era più rilassata. "Di cosa stavamo parlando?" ricominciò, posando il telefono sulla tavola. "Della farina" sospirai. "Se me ne potevi prestare un po'." "A cosa ti serve?" "Devo fare una pizza." Aprì qualche sportello, finché non trovò un pacchetto che sostava tra le bottiglie dell'olio e dell'aceto. "Ecco qua. Ti basta?" "E' più che sufficiente." Prese un pezzo di cioccolata e m'accompagnò fino all'ingresso, chiedendomi dove avevo imparato a preparare la pizza. "Anni fa ho lavorato come cameriere. Ne vuoi un pezzo?" "No, la pizza non mi piace." "Non me l'hai mai detto." "Tu mi hai mai detto che adori l’aglio?” “Non lo adoro. Me lo spalmo sulla stempiatura per far ricrescere i capelli.” “Lì, dove sei tutto rosso?” ridacchiò. “Si nota tanto?” dissi, sistemandomi i capelli con un riportino. “Abbastanza. E che fanno, ricrescono?” “Ho appena iniziato. Ci va tempo. Però tra l’aglio e la pizza c’è una bella differenza…” “La pizza è una delle cose che non mi piacciono dell'Italia." "Tornatene a Minsk." Aprì la porta e con il mento mi fece cenno di smammare. "Nemmeno morta. Vacci tu, a Minsk." * Preparai l’impasto e poi mi sistemai davanti alla televisione. Dopo cinque minuti la spensi. Da qualche anno non riuscivo più a sopportarla. Mi ero stufato di ascoltare fesserie e di perdere gli occhi dietro a donne che non mi potevo permettere. Gliel’avevo fatto presente all'uomo Rai, l’esattore di canoni mai pagati che aveva cercato di dare una sbirciatina nel mio alloggio, casomai avessi avuto un apparecchio, casomai fosse stata la volta buona per stangarne uno. Tra i tanti inconvenienti di vivere in un ballatoio, quello della porta d’ingresso è certamente uno dei peggiori, poiché si accede direttamente in salotto dove, da qualche parte, è collocato il televisore. Il mio era un Mivar 14 pollici, comando manuale, posto sopra un mobile di ciliegio come un totem impolverato. L’esattore Rai, piccolo e con una folta capigliatura alla Jimi Hendrix, aveva studiato tutti i collegamenti tra le antenne e gli appartamenti e s’era fatto un'idea precisa delle utenze. Alla richiesta di presentargli la ricevuta di pagamento del canone, gli avevo spiegato che per me la tivù era un brutto soprammobile da far sparire al più presto. Se mi faceva il favore di portamela via… Dalla sua espressione intuì di essere il numero settecento della lista con la stessa giustificazione. Non rimase che staccare l’apparecchio dalla presa di corrente (non l’avevo mai collegato all’antenna centrale) e offrirglielo. Dalla sua espressione intuì che, nonostante la mia buona volontà, restavo il numero settecento della lista. Non si smuoveva e lo invitai ad andarsene con le buone maniere. “Non finisce qui” si congedò con un sorriso beffardo. Dopo circa mezz'oretta Caio si ripresentò a casa mia. Aveva una bottiglia di birra in mano ed era visibilmente seccato. La colpa era di Angela, la bella avvocatessa. “Niente ristorante!” protestò, entrando e lasciando la porta aperta. “Chiudila!” gli ordinai. “Non vorrei avere anche l’alloggio infestato dai sorci.” “Niente ristorante!” ripeté, rabbrividendo. “Cos'è andato storto?” “E’ una storia di una certa complessità” gesticolò, accendendosi la canna. “Difficile da spiegare in due parole.” “Metticene pure quattro. Ci va ancora un po' di tempo per la pizza.” “Hai trovato la farina?” mi chiese, sgranando gli occhi. “Da Irina.” Più che complessa, la storia, si presentava oscura. Caio mi raccontò che doveva dei soldi all’avvocatessa per alcuni processi in cui lo aveva difeso. “Processi? Tu hai subito dei processi?” “Sciocchezze” ammise lui, evitando di entrare nei dettagli. “Affari andati male, che hanno avuto come unico strascico delle parcelle da pagare.” Ingollò della birra e ripeté che si trattava di nulla d'importante. "Gli affari sono affari e bisogna rispettarli." “Giusto." Avevo come l’impressione che non ci sarebbe voluto molto tempo per scoprire i guai di Caio con la giustizia. Dopo cena discutemmo su come affrontare l'incognita dei ratti. Non trovavo altre soluzioni alla farina. Avevo arredato l’alloggio con mobili di recupero, restaurati da autodidatta e collocati in modo da valorizzare la luce interna ed esterna; le pareti tinteggiate utilizzando colori armoniosi, con la chicca del soffitto azzurro che ricordava i riflessi cromatici delle Cicladi. Con poche risorse ero riuscito a creare un ambiente piacevole, e nonostante il ballatoio non presentasse bene esternamente, l’interno era gradevole. La stessa cosa non si poteva dire dell’appartamento di Caio, il quale aveva comprato in blocco la mobilia all’Ikea e l’aveva sistemata senza un minimo di criterio. A un tratto vidi una scintilla brillare nei suoi occhi. “M’è venuta un’idea!” sobbalzò sulla sedia. Prese un coltello e si diresse verso l’angolo della parete che divideva il salotto dalla cucina. Puntò la lama sullo spigolo e cominciò a grattare. “Cosa fai!” urlai. “Non capisci?” “Questo appartamento è tutto ciò che possiedo, non lo distruggerò per colpa di una banda di topi famelici. Raschia i muri di casa tua. Questa non si tocca, a costo di restarci barricato dentro e morire di fame!” "Ci muori di freddo, se continui a non riscaldarlo." Caio si mise le mani sui fianchi, inclinò leggermente il capo e raccolse i pensieri. Dopo un po’ sostenne che non era il caso di imbruttire le nostre dimore per mancanza di derattizzante. Si limitò a sfregare con della carta vetro gli spigoli del suo appartamento. Alla fine apprezzai il lavoro. Gli angoli erano divenuti tondeggianti, più piacevoli sia al tatto che alla vista, così decisi di fare lo stesso in casa mia. Dopo una dura opera di levigatura, durata oltre tre ore, raccogliemmo quasi un secchio di polvere bianca che distribuimmo ai sorci. Per un po’ li avremmo tenuto alla larga, ma in futuro bisognava escogitare qualcos'altro. Non ci volevo pensare e mi coricai con la speranza che l’indomani il cielo d'Ivrea si sarebbe oscurato con l'arrivo di centinaia di aerei che buttavano esche derattizzanti piene di Brodim. In una notte sarebbero morti tutti. * Elena, la mia fidanzata, aveva i capelli neri, gli occhi neri, una folta peluria nera e il corpo seminato di nei. Una brava ragazza. Laureata, impiegata, sessualmente brillante. Possedeva le chiavi di casa, poteva suonare il campanello, ma preferì scazzottare l'ingresso e spegnere il sogno meraviglioso che stavo consumando avvinghiato al mio cuscino: il bel sole caldo che abbaglia, cappuccino, croissant comodamente seduto al dehors di un bar del Marais parigino. L'incubo era la sua faccia imbestialita, la busta che mi lanciò addosso senza nemmeno augurarmi il buongiorno. "Come puoi spedirmi certe scemenze?" Anni passati insieme, e guarda un po’ come si riduce un dialogo. Come aveva scoperto che ero io il mittente? Avrei potuto negare, ma entrambi non ne potevamo più. La fine si consumava senza rispetto. Da una settimana non la vedevo e sentivo, era all'oscuro del traffico di lettere di Sant'Antonio. Com'era risalita al mittente, restava un mistero. Non era la persona più adeguata per ricevere la posta del Michigan. Elena era di famiglia benestante, mai avuto un problema di salute, con gli uomini, con la vita tutta. Indirizzarla a lei, era stato come indirizzarla un po’ a me stesso, alla nostra storia. Era una lettera fifty-fifty, da strappare e dividere. Ma vai spiegare una cosa così. Non era un invito alla speranza, ma a qualcosa che ignoravo. Cosa mi costava provarci? Magari ci avrebbe fatto bene… Mi avrebbe sputato in faccia, lei che credeva ancora di rimettere in sesto i cocci già rincollati troppe volte? Un fuoco di paglia. Cinque minuti, poi sarebbe scoppiata a piangere. La lacrima era nascosta, stava per straripare sul viso, il suono del campanello sospese ogni attività e ci lasciò immobili a osservare il fastidio reciproco stampato sulle nostre facce. Lei si fregò gli occhi. Una botta all'ingresso mi fece trasalire. Qualcuno aveva suonato, poi aperto il cancelletto e percorso tutto il balcone fino al mio alloggio. "Cosa aspetti ad aprire?" sbottò Elena. La lettera giaceva per terra, stropicciata, la calpestai e tirai il chiavistello. Il tizio con il casco aveva una busta del Carrefour in mano e me la consegnò. Mimò il telefono accanto all'orecchio e disse che mi avrebbero chiamato. Frugai nella busta: una scatola di cartone con due pistole. Le posai accanto al televisore e lo rincorsi. "Ehi!" gli gridai, mentre si allontanava. "Aspetta, ci dev'essere un errore…" Il tizio si voltò, era alto sul metro e ottanta, casco Shoei nero con la visiera aperta dalla quale spuntavano due occhi chiari, scarponi neri, jeans stinti, chiodo e sciarpa beige al collo. "E' tutto a posto" mi disse. Quindi s'infilò giù per le scale e saltò sulla Hornet rossa parcheggiata in cortile. "Fermati!" Il rombo della Honda soffocò il mio richiamo. Filò via in un secondo. Quando rientrai in casa, stretto nelle spalle per il freddo, Elena stava maneggiando una Beretta. La pistola le penzolava nella mano destra, troppo pesante per il suo polso esile. "Per favore, lascia stare quella roba!" l'ammonii. Lei sollevò lo sguardo e mi lanciò un sorriso ebete. Poi mi puntò addosso il ferro, stringendolo con due mani. Era paonazza, tremava. Spinsi le braccia in avanti, per rabbonirla. "Posala, Elena! Potrebbe essere carica…" Fece un passo indietro, appoggiò gli indici sul grilletto. "Dimmi chi sei?" mi chiese, la voce era un sibilo indemoniato. "Elena, potrebbe partirti un colpo…" "Rispondi!" "Non è come pensi" sospirai. "C'è stato uno sbaglio. Quel tipo è la seconda volta che mi consegna delle pistole. Ne ho altre due nell'armadio della camera da letto…" Elena aggrottò la fronte, pensava. "Altre due?" disse. "Sì, ma non è roba mia. Te lo giuro." "Bugiardo. Te ne saresti disfatto in fretta." "Qualcuno verrà a riprendersele. Non posso dirgli che le ho buttate nella spazzatura!" "Perché no?" Deficiente. Le avrei ficcato un cazzotto in faccia. "Dammi quella cazzo di pistola, Elena!" gridai, avvicinandomi. "Stammi lontano.” Con la schiena urtò lo stipite della porta. Una smorfia di dolore le contrasse il viso. Scattai in avanti. Scattò il grilletto. Se avesse avuto il colpo il canna… Le strappai il cannone e la scaraventai a terra. Sollevai il braccio, furente, pronto per colpirla in testa con il calcio della Beretta, spappolarle quella palla di letame che aveva al posto del cervello, ma una scintilla brillò tra i suoi occhi terrorizzati e la mia mente: l’opportunismo. Mi trattenni, trattenni, trattenni… Fermai il ferro a un millimetro dalla sua testa. Tirai un lungo respiro. Lasciai scorrere i ragionamenti. Lei era accucciata in un angolo della sala, ansimante. “Non sai chi sono?” le chiesi, facendo dondolare la Beretta tra le mani. Dovevo avere il viso sfigurato da una sequenza di emozioni sconosciute e bestiali, perché Elena, dopo sette anni passati insieme, progetti di matrimonio, figli e famiglia, disse di no: per lei ero un estraneo come tanti altri. Complimenti. Basta una pistola, e la suppurazione fangosa di un amore finito viene fuori tutta in una volta. Una pistola, scarica, per chiudere. “Restituiscimi le chiavi di casa. Non farti mai più vedere.” Mi lasciò il mazzo sul divano e se ne andò a testa bassa. Ma prima di chiudere la porta alle sue spalle, si girò di scatto e si congedò in grande stile. "Ti devo confessare una cosa. E' da un po' che ce l'ho qui sullo stomaco." Me l'immaginavo: il tanfo di aglio. "Sentiamo…" "Non lo sai, ma ti ho tradito con un altro." "Bene. Adesso lo so." Quando rimasi da solo, mi sentii strano. Come se tra me e una certa realtà si fosse creato un fosso profondo, insormontabile. Non c’era più una via di ritorno. Dal punto di vista sentimentale non me ne dolevo, era il mezzo con cui eravamo giunti all’epilogo che mi lasciava frastornato: non ero il proprietario dei revolver. * Dormii a singhiozzo, quattro ore in tutto. Da anni soffrivo di disturbi del sonno. Il mattino seguente mi alzai con il freddo attaccato alle ossa, un senso di disgusto generalizzato mi tormentava. Alle nove, il sole era circondato da un alone nero. Sbattei le palpebre. La tinta non cambiò. Tutto era topo. Il disgusto si mischiava con una sirena perpetua che sibilava ovunque, cresceva, spaccava i nervi. Era simile a quella della Montefibre-Montedison che, fino a vent'anni prima, sibilava nel cielo di Ivrea per avvertire la cittadinanza che la giornata di lavoro stava iniziando. Questo era il richiamo degli invasori venuti dalle fogne. Dei furbi che volevano andare lontano. Il postino stava infilando qualcosa nelle buca delle lettere. Attesi che terminasse la semina e poi aprii la mia cassetta. Subito avvertii un grumo di saliva acida salire dallo stomaco. Un improvviso senso di rigetto. Stavolta non era colpa dell'insonnia, ma della busta bianca e anonima che giaceva accanto a un foglietto con l'intestazione del Comune d'Ivrea. “Postino!” “Non l’ho messa io” mi spiegò, prima ancora che ponessi la questione. Gliela porsi bruscamente e tornai verso casa. Madame Paralume e Camurria osservavano la scena piazzate davanti alle rispettive porte di casa. “E’ sua!” esclamò il portalettere. “E con ciò?” Rimase fermo, a gambe larghe, il sigarillo in bocca, sventolandosi la busta sotto il mento. Notai che aveva i lacci delle scarpe slegati, il bordo dei pantaloni lacero. “Roba che scotta, eh?” fece, con tono ironico. "C'è dentro il segreto per rispedire i topi nelle fogne." "Impossibile" sentenziò il postino. "A meno che lei non sia uno uomo-topo." Sventolai una mano davanti agli occhi, come per chiedergli se stava battendo i quarti. "Non se la prenda" continuò. "Volevo dire che solo un topo conosce le abitudini dei topi." "Quindi, solo un topo potrebbe rispedirli nelle fogne, giusto?" "Ben detto… A meno che lei non possegga in casa alcune tonnellate di quelle droghe elencate sul foglietto del Comune..." Il suo dito era puntato sulla circolare comunale. Stavo per prestare attenzione al foglietto, quando una grossa goccia di pioggia mi centrò la stempiatura. L'acqua scese sulla fronte. Con una mano l'asciugai. “Via, me la restituisca” tagliai corto. Sulla circolare del Comune c'erano elencati i più noti ed efficaci redonticidi in commercio. Brocum, Brodim, Clorat, Deration, Colbrom, Ratkill, Rattosin Pellet, Rodifen, Coldigf. In commercio dove? Il Sindaco annunciava che il Comune non ne aveva a disposizione nemmeno un grammo, ma se i cittadini erano in grado di procurarsene, non sussistevano impedimenti al loro utilizzo. Ci lasciava mano libera. Sbando totale. Buttai il foglietto e mi concentrai sulla lettera dal Michigan. Mia sorella s’era separata dopo vent’anni di matrimonio. La decisione era stata sua. Non ce la faceva più. Peggio di lei stava suo marito, che mi piombava in casa a tutte le ore cercando di buttare giù gli intonaci a testate. Avrei potuto consegnargliela a mano, la lettera, ma c’era il rischio che tornasse con mazzetta e piccone e sfasciasse il mio ovile. Abitava in un monolocale vicino all'autostrada. Comprai un’altra busta, appuntai un segno di riconoscimento sulla missiva con una V, e affidai a mio cognato le sorti della catena. Passarono alcuni giorni e quella busta tornò indietro. Non funzionava. Feci un altro tentativo. Avevo un’amica che non vedevo da tempo, Anna, di Torino, sempre nei guai. Ci sono persone con una predisposizione naturale a infognarsi in storie contorte, ma lei sbaragliava la concorrenza. Per tenere a distanza vampiri e tormenti, aveva registrato nella segreteria telefonica il seguente messaggio: “Anna è tornata dal Brasile e adesso si chiama Frango. Se interessati, parlate dopo il bip.” Il torbido era il suo pane: ci voleva una letterina per rimetterla a nuovo sul serio. Anna di Torino non era mai venuta a trovarmi. Non conosceva il mio indirizzo ed ero strasicuro che non sapesse nemmeno orientarsi a Ivrea. Con lei andavo sul sicuro, ero in una botte di ferro, e agli anelli di quella disgraziata catena se ne sarebbero aggiunti tanti altri. Fumava quando me la trovai sotto casa. Il gomito piantato su un fianco, il braccio che penzolava con la sigaretta tra le dita, il fondoschiena appoggiato alla mia auto. Quando la misi a fuoco, una fitta alla bocca dello stomaco mi tolse il respiro. Mi avvicinai a piccoli passi. Aveva smesso di piovere da poco e la strada era un susseguirsi di pozzanghere. Da un paio di anni Anna era affetta dalla psoriasi. La faccia e il collo seminati di chiazze rosse: da spedire in fretta sul Mar Morto. Si sforzò di sorridere. Aveva i capelli arruffati e gli occhi cerchiati di rosso, non trasmetteva una sensazione di buona forma fisica. “Ciao. Passavo di qui e ho pensato di farti un saluto” esordì lei. “Carino da parte tua. E’ tanto che aspetti?” Scrollò le spalle e non disse nulla. “Vieni su?” “No, vado di fretta.” “Il tempo di un caffè” insistei, ma senza convinzione. “No, proprio non posso. Volevo solo salutarti.” Girò sui tacchi e dribblando qualche pozza si avviò verso la stazione ferroviaria. La busta giaceva nella mia posta. Sui conoscenti non sortiva alcun effetto. Il mio database della sfiga coincideva con il loro. Inutile fare fotocopie per parenti e amici: tornava tutto indietro. Lettere che sembravano sfrecciare sul circuito ovale d'Indianapolis. Altro che Michigan! Nonostante mostrassi una certa dignità ed evitassi di parlare delle mie disdette, la gente mi considerava in cattivo stato. Non me lo diceva in faccia, lo pensava e mi metteva la catena al piede. Sarebbe stato controproducente recapitare la lettera ai miei vicini di casa, Caio Cesari, Gerri Molotov e Irina Matiušin: mi avrebbero inchiodato le buste sulla porta di casa. Mentre fu un vero azzardo il tentativo di togliere un piede dalla fossa alle due matusalemme del ballatoio, Camurria e Madame Paralume. Analfabete, devote, ficcanaso, dinanzi a tutte quelle parole intrise di sana spiritualità avrebbero sviluppato qualcosa d’importante. Non si agitarono. I loro violenti e quotidiani scontri verbali con i testimoni di Geova erano un aspetto che non avevo messo in conto: le vegliarde erano infatti ben schermate contro qualsiasi tentativo di proselitismo. Prima di ricevere la corrispondenza di Sant’Antonio, dovevano aver teso bene le orecchie e colto la rottura con la mia fidanzata. Cercarono quindi di alleviarmi la sofferenza, raccogliendo la posta dalla loro buca e trasferendola nella mia. Stavo per buttarle in pattumiera, quando un particolare catturò la mia attenzione e decisi per un ultimo, estremo tentativo. Un lavavetri al semaforo. Merce rara in un periodo di fuggi-fuggi generale. Un magrebino già sulla trentina, baffetti anarchici, sguardo incollerito, vestito con un giubbottino nero di finta pelle e jeans sdruciti. A forza di stare sdraiato sui cofani delle auto, ne aveva viste e passate di cotte e di crude. Tutt’a un tratto una carica d’entusiasmo mi riaprì il petto. Una ventata d'aria fresca. Speranza! Consultai l’orologio. Mezzogiorno. Nonostante qualche topo diurno lo infastidisse mentre cercava di spruzzare acqua sui parabrezza delle poche auto in circolazione, il lavavetri non staccava per il pranzo, quindi me la potevo prendere comoda fino a sera. Alle sei in punto uscii e mi appostai nei pressi del semaforo. Studiai a fondo la situazione. Pelle e ossa, sporco, intossicato, scroccone di sigarette, ghiotto di birra, si prendeva ogni sorta d’insulti e in media riusciva a lavare un vetro ogni venti automobili. Era il mio uomo. Intorno alle sette raccolse secchiello e spazzola e si diresse verso la periferia. Era stanco e ubriaco, barcollava e camminava così lento che fui costretto a fermarmi per evitare di raggiungerlo. Dopo circa un chilometro oltrepassammo la frontiera invisibile di una zona che s’era trasformata nel quartiere più battuto dagli extracomunitari: San Giovanni. Il brodo di cultura padanista lo bollava come una sorta favela zeppa di mussulmani e cinesi cornuti: i veri responsabili della devastazione rattista. Era stati loro a guidare i topi fino a San Giovanni. Dopo l'evacuazione del quartiere, avevano occupato gran parte degli alloggi e fondato la Casbah-Chinatown d'Ivrea, con tanto di muezzin che alle quattro del mattino urlava come un matto. Personalmente mi sentivo al sicuro, come in una fortezza, investito da un’ondata di fiducia. Non mi distinguevo in fatto di solidarietà e razzismo, quindi non mi conosceva nessuno. Avrei potuto seminare San Giovanni di lettere e trasformarlo nella Belgravia eporediese. In giro non c'era l'ombra di un sorcio. Il magrebino proseguì per un paio d’isolati, poi entrò in una palazzina che, rispetto alla mia, pareva un castello sulla Loira. Molto presto, caro lavavetri, ti costruirai una reggia nel cuore di Fez, pensai. Lo seguii oltre il portone. Nell’androne c’erano una dozzina di cassette della posta. Scorsi alcuni nominativi. Meridionali come Babace, Bellamace, Balice, altri albanesi, rumeni, asiatici, ideogrammi incomprensibili, slavi e poi due arabi: Marwan Zeitawi e Said El Kassir. Chi dei due? Presi la busta e la donai a El Kassir. Tornai a casa viaggiando un palmo da terra, convinto di aver finalmente irretito la buona sorta. Mio nonno mi aveva insegnato a fidarmi soltanto di chi si fida. Occhio ai nordafricani, sanno bene che ci vuole poco a essere più intelligente di un italiano che naviga in acque torbide. Mio nonno era del 1888 ed era stato spedito da Mussolini a conquistare la Libia, dove Graziani segregò migliaia di seguaci di Omar El Mukhtar e ne decretò la fine. Nel giro di ventiquattro ore mi resi conto della banale verità della vita: per essere famoso devi diventare qualcuno. Ricco o miserabile, mediocre o eccellente, non importa. Essenziale è non stare mai al centro, ma lambire gli estremi, a contatto con il rischio e la curiosità. La bestia della scarsità non si confonde e si riconosce ovunque, su occhi a mandorla, pelle scura o zigomi alti. In città non ero sconosciuto ai miei simili. Trovai una nuova busta nella posta e passai intere giornate a rifiutare il mittente lavavetri, abituato a boxare con una realtà maledetta. Alla fine fui costretto ad arrendermi all’evidenza e a cambiare nuovamente strategia. Mi arrovellai su qualche calcolo statistico, quindi depennai dal mio file gli amici malmessi e realizzai che una lettera di Sant’Antonio non si spedisce due volte alla stessa persona. La cosa più bizzarra non fu il ritorno dell’ultima lettera, bensì gli straordinari fenomeni positivi che si manifestarono nella vita di alcuni sfigati. Alberto lo incontrai per caso, nei pressi della stazione ferroviaria. Aveva ancora il biglietto del treno in mano. Era appena tornato da Torino, il suo viso irradiava allegria e sembrava ringiovanito. Mi raccontò di essere stato assunto come insegnante presso una delle più note scuole di danze caraibiche in Italia. Nel giro di un paio di giorni si sarebbe trasferito a Torino. Gianfranco stava entrando in banca. Fu una visione. Era vestito di tutto punto, baffi e capelli curati: Vallanzasca rimesso a nuovo. “Gian…?” feci. Dalla pacca sulla spalla non c’era dubbio: lui. “Come te la passi, vecchio mio?” esordì, tirando fuori un pacchetto di sigari Davidoff. Non fumava più N80. “Eh, insomma” risposi. “Tu?” “Non c’è male.” “Che fai?” “Vado in banca.” “In generale, dicevo.” “Domani parto per Ibiza. Sai, con questo marciume che esce dalle fogne, meglio levar le tende...” "Vai a Ibiza…" "L'isla blanca." Allargò le braccia e si congedò strizzandomi l'occhio: “Fatti furbo." Mia sorella si rimise con suo marito. Anna di Torino si fece sentire per invitarmi a un party. Pensai a uno scherzetto. Lei s’indispettì e promise di spedirmi un invito ufficiale. Dopo qualche giorno, nella buca trovai qualcosa di diverso dalla solita immacolata busta bianca. Nell’invito c'era l’indirizzo, la data, l’ora e un appunto scritto di suo pugno: vestiti bene e non toccare l'aglio. Il ricevimento era stato organizzato in una villa liberty sulla collina torinese, parco con fontane, parcheggio tappezzato di fuoriserie e posteggiatore peruviano, melting pot di servitù, disegni di Guttuso, litografie di Matisse, erre mosce, facce abbronzate, scarpe lucide, abiti che cadevano perfettamente. Per l’occasione mi ero organizzato a dovere: cento fotocopie della lettera. Mi assicurai che le auto fossero tutte aperte, poi, prima di annodarmi la sciarpetta di seta nera al collo e fare il mio ingresso alla festa, mi sbarazzai della corrispondenza. Una cinquantina di macchine, un paio a testa. Il peruviano non s'accorse di niente. Tra un bicchiere e l’altro incontrai parecchia gente, mi rilassai. Anna era impegnata a ricevere gli ospiti, a fare gli onori di casa. Una metamorfosi inverosimile. La psoriasi sembrava scomparsa. Indossava un vestito rosso lungo che la fasciava splendidamente. A fine della serata la presi da parte e la interrogai. M'interessava sapere se lavorava lì come governante, o per conto di una società di catering. Sorrise con distacco, fece dondolare la mano e poi mi presentò al suo futuro sposo. Aveva qualche annetto in più di lei, calvo, grassoccio, piccolo, talmente piccolo che non l’avevo notato durante la serata. Zoppicava un po’ per via di una vecchia caduta a cavallo. Gli strinsi la mano, molle come una fetta di stracchino, e mi disse: “Grazie.” Inarcai le sopraciglia e mi rivolsi a lei. “Non ci fare caso” lo giustificò, facendomi notare che aveva alzato il gomito. Mi accompagnò alla porta e ricevetti il secondo ringraziamento. “Di che?” “Non lo so” rispose lei. “Ma grazie lo stesso.” Tre giorni più tardi, mi fu recapitato a casa un pacco con cento buste. Non me la presi. Era prevedibile. Le controllai una ad una, intatte e ben piegate, quindi riempii una sacca, inforcai occhiali e cappello e puntai diritto nel ghetto del lavavetri. Mi tenni a debita distanza dalla casa di El Kassir, il lavavetri, le distribuii cercando di non dare nell’occhio. A lavoro ultimato, mentre mi accingevo a varcare il confine tra San Giovanni e il resto della città, incontrai il mio postino che stava cercando d’infilzare dei topi comuni con la punta dell’ombrello. Mi squadrò con diffidenza, dopodiché protese lo sguardo per capire che razza di borsa avevo sulle spalle. Si tolse il sigarillo dalla bocca, sputò per terra residui di tabacco. Mi girò intorno, lo osservai respirare a pieni polmoni, cogliere il mio odore e quel vago ondeggiare di spezie che si sentiva in prossimità della frontiera. Una smorfia di ribrezzo increspò il suo viso, poi fece un gesto con le mani inequivocabile: tu, arabi e cinesi siete una cosa sola. Se non fosse stato lui, portalettere esperto in lettere anonime, gli avrei spedito una busta a casa. Non so quali fossero i rapporti tra un idiota delle Poste Italiane e i diseredati del ghetto, sta di fatto che a ritmo di cinque al giorno, in due settimane mi ritornarono tutte indietro. Cento buste che non sapevo più dove mettere. * "I ratti si stanno accumulando" mi raccontò Gerri Molotov, seduto sulla prima rampa di scale del ballatoio, avvolto in un giaccone blu alla marinara con il bavero alzato. "Sono talmente famelici da aggredirsi tra loro, uno sopra l’altro, fino a coprire l’intera vetrina del negozio!" Gli occhi lucidi, la testa ciondolante, la voce impastata: alle sei di sera era sbronzo e malinconico. Gli capitava spesso, nella sua solitudine impenitente. Nessun problema a mettere a ferro e fuoco la città, ma gli bastavano tre bicchieri di vino per andare nel pallone. "Quale negozio?" gli chiesi. Strabuzzò gli occhi, come se gli avessi chiesto se sua madre aveva mai avuto un ménage à trois. "Che domanda idiote! Quello di Piero, no?" Piero Brichet, l'altro della Banda Molotov. "Ancora con questa paranoia del tuo socio?" Chinò il capo fino a toccare il mento con le ginocchia. "Adesso è solo un sorcio. Vende guêpiere alle madame, anzi, le vendeva, perché le madame si sono tutte trasferite. Io lo metto in padella con i topi." "In che modo?" "Mi sto organizzando. Domani è l'ultimo giorno di lavoro. Hanno deciso di farci stare a casa per l'emergenza ratti. Ognuno è libero di fare ciò che vuole, basta che non si presenti in ufficio." "Questo significa che si sono decisi a intervenire!" esclamai. Molotov emise un rutto. "Chi?" "Boh, non so, il governo." "Non provare a farmi ridere. La malvagità che vediamo nei topi è in parte riflesso della nostra…" "Della tua, soprattutto." Notai che Molotov indossava un paio di stivali di gomma verdi da pioggia. Mi spiegò che prima di uscire di casa li aveva ricoperti con uno strato di colla da legno. "Se i sorci ci piantano i denti, schizzeranno via disgustati" sogghignò. "Io passo alla fiamma sia loro che la biancheria intima di Piero. Vediamo chi la spunta." Si stava organizzando, Molotov. Ci provava. Ma la speranza è scarsa quando si ha a che fare con esseri immondi. Com’era possibile nauseare una chiavica? I nemici si ammazzano a tentativi. Così come si risolvono le questioni serie. Ex socio a parte, quello che intendeva Gerri era chiaro: tornava in azione con il sistema che gli aveva permesso di entrare nella Hall of Fame degli artisti dal botto facile. Molotov. Guerra ai topi a modo suo. Se riscendeva in campo, non c'era da rallegrarsi: Gerri era una molotov vagante, ti poteva incendiare la casa in qualsiasi momento. “Ci vuole una disinfestazione completa, perché la ripugnanza nei confronti dei topi è indiscutibilmente maggiore rispetto a quello dei piccoli essere umani che popolano una provincetta snob" mi spiegò. "Il tuo altruismo m'intenerisce." "Non ti sopporto" s'irrigidì. "Spero di non trovarmi la casa bruciata. Ormai è chiaro che hai ripreso il vizietto." "Sono costretto. Se qui si perde di vista la capacità dei roditori di umanizzarsi, siamo fritti." Infilò una mano in una tasca del giaccone e tirò fuori una busta. Me la sventolò sotto la faccia, con la lingua fuori dai denti. "Leggila. Fatti una cultura del bel mondo in cui viviamo." Lettera dal Michigan? Non era possibile. Non gliel'avevo spedita. Non poteva avercela con me. Esitai a prenderla: non avevo bisogno di un altro fornitore di imbecillità. Si sporse in avanti e me la sbatté sulle mani. "Leggila!" Involucro bianco, carta fine, identico al mio. Immacolato. Dentro scoprì qualcosa di peggio rispetto a una catena di Sant'Antonio. A differenza del mio grattacapo, la lettera di Molotov aveva un mittente: Vita da Topi. L'unico indirizzo faceva riferimento a un sito internet. "Dobbiamo proteggere e salvare gli unici essere viventi che non hanno diritto a vivere. I criminali vivisettori li torturano. Non sono protetti da alcuna legge. Possono essere massacrati sempre e comunque. Per il 99 percento degli umani sono la causa di qualunque disgrazia. Ma non hanno costruito nessun armamento, né nucleare, né chimico. Nessuno fino ad ora li ha difesi. Non sono responsabili né della deforestazione, né dell'effetto serra e nemmeno della desertificazione del nostro pianeta. Non hanno niente a che fare con l'inquinamento. Non hanno schiavizzato nessuna specie né si sono arrogati il diritto di usare la vita altrui. Abitano semplicemente da sempre la Terra. Hanno solo un difetto: SONO TOPI!" "C'è chi ancora li difende!" ruggì Molotov. "Sono il prodotto del pattume umano e mi vengono a dire che non hanno niente a che fare con l'inquinamento? Si stanno divorando la città e questi ignoranti sostengono che non hanno mai schiavizzato nessuno? Se pesco chi ha messo questa stronzata nella mia posta, giuro che gli do fuoco insieme ai topi!" Era tornato. Molotov e le sue bottiglie. Ma chi glielo andava a dire alle autorità che a Molotov bastava qualche autobotte di super per rimettere le cose a posto, che non c’erano problemi per il lavoro sporco? Ci pensava lui. No. Le autorità avrebbero preferito farsi divorare dai topi piuttosto che essere liberati da un terrorista. Gli eporediesi sbranati dai topi, e il bastardo in manette. Magari l’unico sopravvissuto di tutta la cittadinanza. Bella soddisfazione. * L'amante dagli occhi blu odiava essere chiamata con il suo nome di battesimo, Stefania. Sugli SMS si firmava Ste o Stefy. Quando dicevo Stefania, minacciava di cavarmi gli occhi. Anche per telefono. Era difficile incontrarla, sempre via per lavoro, impegnata a diventare una manager superpagata e a lamentarsi per la mancanza di tempo libero. Un pomeriggio, m'inviò un messaggio dalla Sicilia. Dall'ufficio assisto al tramonto sul mare. Emozionante. Vorrei che ci fossi anche tu. Vorrei fare l'amore, adesso. Qui o lì? le chiesi. Qui. Ero innamorato di lei, ma non la vedevo mai e ne avevo le scatole piene dei suoi messaggini. Mai una volta che alzasse quel dannato telefono e mi stuzzicasse con la sua voce. Le scrissi che mi ero stufato di questa relazione "extrasensoriale". Iniziammo a litigare via SMS. Dopo aver bruciato una ricarica a ripeterle che non volevo più saperne della sua psicopatologia professionale, e di quel menefreghismo tipico di chi ha trovato uno strano equilibrio tenendo un piede in troppe scarpe, ne avevo ricevuto uno che chiudeva ogni discussione. Addio, demente e contapalle! Addio: bene. Demente: ci sta. Contapalle? Ci volle un po’ per decifrarlo, colpa di un vecchio messaggio inviato all'inizio della nostra tresca: I love you. Per infondermi coraggio, conclusi che fare piazza pulita dei sentimenti logori era, probabilmente, l’antipasto della fortuna. Tutto agiva in stretta sinergia, come capita quando le cose prendono una brutta piega. Topi, lavoro, catena di Sant’Antonio e disfatte sentimentali erano intrecciati, macchiati di nero come l'inferno fognario. La mia vita viveva un periodo di selezione a dir poco bestiale. Le frequentazioni si erano ridotte al lumicino, i rapporti erano esclusivamente telefonici. L’insicurezza e il fastidio per le strade invase dai sorci prendeva il sopravvento non appena scendeva il crepuscolo. In pratica, l’unica persona che frequentavo era Caio, il mio vicino. La vita di Caio era un mistero. Lui non ne parlava. L'avvocatessa Angela veniva sovente a fargli visita, e con una donna così che si aggira per casa, l'andazzo dovrebbe essere uno spettacolo. Il motivo della sua presenza era però ben distante dalle mie fantasie. Rispetto al sottoscritto, Caio attraversava un periodo di forte socialità che confondeva le mie idee. La gente andava e veniva dal suo alloggio. Questo via vai mi faceva pensare che ci sono donne e uomini che non si curano delle malattie portate dai ratti, che non sfruttano la piaga di un’invasione immonda con trucchetti mirati a troncare i rapporti con gli altri: sfidano apertamente qualsiasi infezione come se fossero consapevoli di dover morire da lì a poco. Forse per il mio vicino rappresentavano la vera lotta clandestina all'invasione, mentre io giudicavo quella sorta di temerarietà puro menefreghismo. E siccome il menefreghismo non ha mai pagato, quelli andavano incontro a morte sicura. Fu una sera, poco prima di metterci a tavola per consumare l’ennesima pizza, che l’emergenza topi precipitò in modo drammatico. La mia margherita gigante emanava ottimo odore dal forno a gas. La farcitura era sempre la stessa, semplice ed essenziale: pomodoro, basilico congelato, mozzarella, origano, olio e sale. La pizza fondamentale. Io ne andavo pazzo. Ne ero talmente assuefatto, che l’avrei mangiata anche a pranzo. Non capivo chi, come Caio, si lamentava. In fondo anche la colazione è ripetitiva: caffelatte e biscotti, cappuccino e croissant. Caio aveva messo su un cd di Buscaglione e stava bevendo birra e fumando una canna seduto attorno alla tavola. Era incazzato per colpa del mancato arrivo di una corrispondenza urgente. Gli dissi che il postino veniva tutti i giorni, ma lui aspettava un pony express. Aveva le occhiaie violacee e le spalle basse, come se avesse avuto un macigno al posto del maglione di lana blu. Avevo appena controllato il grado di cottura della pizza e stavo per sfornarla, quando saltò in piedi e s’avvicinò alla finestra. “Cos’è questo rumore?” disse, chinandosi verso lo stipite che due anni prima avevo ridipinto di smalto azzurro come il soffitto. Gli davo le spalle. Levai la teglia dal forno con una presina e mi voltai. “Di cosa parli?” “Di questo coso qui!” esclamò, puntando la bottiglia di birra sul vetro della finestra. Impossibile capire com'era riuscito a captare quel rumore: la musica era talmente alta che dovevamo quasi urlare per capirci. Sul bordo della finestra c’era un rattus norvegicus grande come un gatto, che picchiava con le zampe e il muso contro il vetro. Un essere umano lo avrebbe fatto per via dell’ottimo aroma della mia pizza, per chiedere se ne avanzava una fetta, ma quella era una pantegana enorme, con esigenze difficili da soddisfare. Nella biologia d'identificazione dei sorci, il rattus norvegicus era il topo più grosso, seguito dal rattus rattus, o ratto comune, e dal più piccolo mus musculus, il topolino domestico. Il rattus norvegicus raggiungeva un massimo di 40 centimentri in lunghezza e 700 grammi di peso, ma il bestione sulla mia finestra era un extra-large con la testa a punta simile all'ogiva di un missile. La luce del neon rischiarava il suo pelo grigio-marrone e le orecchie piccole. Per una volta, forse aveva ragione Gerri Molotov: a furia di occupare le strade d’Ivrea, queste belve si stavano civilizzando. Era un fenomeno che non infondeva grande entusiasmo: chi è dotato di materia grigia diventa un osso duro da ricacciare nelle fogne. L'enorme sorcio, appena resosi conto di aver catturato la nostra attenzione, indietreggiò leggermente e, dritto sulle zampe, prese a scrutarci con piglio da gangster. Aveva davvero qualcosa di umano. Non vedendoci reagire, protese una zampa e picchiettò sul vetro, come per dire: avete deciso di lasciarmi qui a morire di freddo? “Cosa vorrà?” “Ci sta chiedendo di entrare” sottolineò Caio. “Anche i cani e i gatti lo fanno.” “Quelli sono animali intelligenti. Non mi pare di aver mai sentito parlare di topi svegli di comprendonio” osservò Caio, allungando la canna verso il sorcio per osservarne la reazione. “Di solito questi esseri schifosi se ne stanno nelle fogne, o fanno le cavie.” "Si stanno incivilendo" dissi. "Ha ragione Molotov." Caio stava per bere la birra, quando si bloccò, la bottiglia sulle labbra. "Molotov?" ansimò. Era sufficiente scandire il suo nome per metterlo in apprensione. "Ha ripreso a riempire bottiglie di benzina." "Ci risiamo?" "Vuole affumicare i topi." "Quello sarebbe capace di sfruttare qualsiasi situazione, pur di rimettersi all'opera." "O incendia tutta la città, o non può farcela" sostenni. Caio ingollò un sorso di birra e continuò a stuzzicare il ratto con lo spinello acceso da dietro il vetro. “Non ti ricorda Ray Liotta?” mi chiese. "Chi?" "Il topo." Era proprio un periodo strano, altrimenti non avrei prestato orecchio. Mi chinai e osservai il ratto attentamente. Personalmente avrei detto Renato Schifani, la pantegana di Forza Italia. Con gli occhiali. Ma nonostante Ray Liotta avesse la faccia leggermente schiacciata, quando il topo schiudeva la bocca e mostrava i denti aveva qualcosa che lo ricordava. Il ghigno insano. “Sì” continuò il mio vicino. “Stesso sorriso da schizzato.” Bevve un sorso e poi riattaccò: “Siamo sempre senza veleno?” “Non si trova neanche a pagarlo oro. L'ultima notizia che ho sentito alla radio, diceva che ne dovrebbe arrivare qualche container dalla Cina.” "Insieme a qualche migliaio di occhietti a mandorla… Dai retta a me, se Ray Liotta continua a bussare e non gli apriamo, ne chiama trecentomila e ci divora la casa.” “Devo farlo accomodare?” “Non scherzare! Però si deve agire subito. Non ci resta più molto tempo per tenere lontane queste belve.” Mi avvicinai al forno acceso e mi scaldai le mani gelate. “Perché il Comune non ci aiuta?” “A me lo chiedi? Come stai a farina?” “L’ho usata tutta per preparare la pizza." “Ne compri un pacco alla volta?” “Dopo il mio esperimento dell’altra sera, anche la farina è andata a ruba” spiegai. “Non se ne trova più in nessun negozio. E la stessa cosa vale per il cemento…” “Cemento?” Annuii. “Questo significa che l’emergenza è fuori controllo. Chi la gestisce in questa città? C’è una task force, un ufficio preposto all’emergenza, qualcosa?” “No.” Ci sedemmo e, dopo aver diviso in quattro parti la pizza cotta in una teglia rettangolare, iniziammo a mangiare. Si rivelò subito una cena inconsueta. Ray Liotta ci osservava dai vetri, aggressivo, famelico. Sopportavo a fatica i ristoranti di un certo livello, il cameriere con il fiato sul collo che trasforma la prospettiva di una rilassante cena in una serata a nervi tesi, tantomeno il ripugnante custode alle nostre spalle che sfoderava denti aguzzi e unghie affilate. La pizza ci rimase sullo stomaco, come un brutto presagio. Se non gli avessimo permesso di occupare il ballatoio, Ray Liotta sarebbe tornato con la sua banda e ci avrebbe fatto a pezzi. Il Tamerlano dei letamai. Mai come in quel momento la parola "derattizzazione" assunse un’importanza fondamentale per il nostro futuro. Del resto della città c’importava ben poco. Sarebbe stato un successo riuscire a spostare le mire degli invasori su un altro quartiere. Non era chiaro il motivo della momentanea concentrazione di almeno 300.000 topi nei pressi della nostra abitazione. Secondo alcuni esperti supersalutisti - ai quali in pochi credevano perché il mondo era da sempre infestato dai topi, la proliferazione incontrollata delle bestiacce aveva avuto origine nei dintorni d'Ivrea, precisamente nelle zone devastate dalla monocoltura di granoturco OGM, dove d'estate, passeggiando nelle poche stradine sterrate rimaste, non si riusciva a scorgere il sole. Nonostante il divieto a coltivare qualsiasi cereale geneticamente modificato, gli agricoltori avevano continuato a seminare i campi con il mais resistente ai parassiti. I granai e i campi erano pieni di topi che si cibavano di quella schifezza, e gli effetti sulla loro salute erano stati sconvolgenti. Si erano moltiplicati, erano diventati più grossi e robusti, avevano sviluppato processi cognitivi anomali e sorprendenti. Nessuno era riuscito a spiegare per quale motivo avessero lasciato i campi di granoturco per emigrare in uno dei luoghi più incantevoli dell’intero Canavese: il lago Sirio. Un tempo questo specchio d’acqua morenico rappresentava per gli eporediesi la “playa” dove trascorrere l’estate afosa; la giornata estiva terminava con il sole rosso che tramontava dietro la catena alpina della Valle d’Aosta. L’abbandono era il sintomo della fine di un mondo, e da quando si erano ritrovati a nuotare in mezzo a branchi di pantegane anfibie, gli eporediesi avevano ripudiato il lago senza venire a capo del problema. Un distacco dettato dal ribrezzo tipico di chi preferisce girare la testa dall’altra parte, piuttosto che affrontare una rogna in prima persona. La questione si poteva risolvere in tempi relativamente brevi, invece attorno al lago sono proliferate orde di topi che in seguito hanno iniziato a marciare su Ivrea. La terra non mente mai, e quando arriva il conto della natura è troppo tardi per tirare fuori il portafoglio. L'attività della pubblica amministrazione si sostanziava in vuoti annunci e sciocche interviste rilasciate ai media locali. Da come s'erano attivate le autorità locali, sembrava che la piaga dei topi non fosse altro che uno dei tanti espedienti per fare un po' di campagna elettorale: quelli a favore del lancio generalizzato di esche da parte di velivoli dell'esercito, quelli contrari (salutisti, ambientalisti, leghisti) poiché tale sistema avrebbe messo in pericolo le colture e la nostra alimentazione (meglio lasciare campo libero ai topi). C'erano poi gli animalisti che si opponevano strenuamente allo sterminio dei ratti. Con l'aggravarsi della situazione, molti esponenti politici, tra cui assessori e consiglieri comunali di entrambi gli schieramenti, avevano lasciato la città. A combinare un po' di can can erano rimasti il Vescovo d'Ivrea e i vecchi lenoni della destra rautiana e della sinistra democratico proletaria: bollito misto alla piemontese. Con aggiunta di topo. Non c'era un solo motivo per rallegrarsi. Il rompete le righe generalizzato rispettava il profilo politico-culturale di elettori ed eletti, di un paese declinante sotto ogni aspetto. L'unica verità che riuscivo a cogliere in quel momento era che l'uomo, nella sua massima espressione, non è un essere pensante. La luce del neon della cucina si affievolì, e subito il pensiero andò ai denti di quelle bestiacce che sminuzzavano i fili dell’alta tensione. S'attaccavano a qualsiasi cosa. Si sarebbero sbranate i muri del nostro ballatoio, i quattro gatti rimasti in città. Gli archeologici di un pianeta sconosciuto avrebbero recuperato i resti degli edifici di Figini e Pollini da qualche parte, magari a centinaia di metri di distanza da dove si trovavano adesso, forse un cartello del Mam rosicchiato, gli ultimi mattoni del castello e, probabilmente, il centro congressi La Serra ancora intatto. C’era una volta sulla Terra un Museo dell’Architettura a cielo Aperto. C’era una volta Ivrea, ai piedi delle Alpi. Come tutti gli aggressori di un certo pelo, i topi sarebbero divenuti stanziali. Avrebbero proclamato Ivrea capitale del loro regno. M’immaginavo Ray Liotta insediato nel castello, tutto proteso a reiterare l’istituto del ius prime noctis. Ma i topi avrebbero continuato a muoversi e a colonizzare altre zone. Questo era sicuro e bisognava fermarli. Notai Caio che scrutava le lancette del suo orologio e gli chiesi il motivo. “Sto cercando di capire quanto tempo ci resta.” Il suo tono di voce s’era fatto irrequieto. “Pensi che l’assalto sia stato fissato per stanotte?” chiesi. “Non lo so. Ma tra poco Ray Liotta suonerà la carica, e non resterà che darcela a gambe levate.” “Che mi dici degli altri inquilini?” “Di Molotov me ne frego, di Irina non so nulla: è un po' che non la incrocio. Potrebbe essere andata via." “E' in casa" precisai. "Così come le due vegliarde del pianterreno.” “Quelle non fanno testo. Non si muoveranno mai di qui.” Il nostro era l'unico edificio dove non s'erano verificati traslochi e fughe verso mete più sane e sicure. Istintivamente pensai che eravamo diventati una sorta di ghenga di resistenti, manovrata dalle due cariatidi del pianterreno, che con il loro casino organizzato movimentavano i cuori e le menti di tutta la casa. “Forse Irina sta progettando di andarsene" osservai. “Perché non proviamo a sentire cosa vuole fare?" "Non credo di riuscire a sopportarla." "La vorresti morta?" Toc-toc. Con la scopa battei sul soffitto. Dopo qualche secondo arrivò la risposta. Non rappresentava un sistema di comunicazione segreta, ma era sufficiente per capire se uno dei due era in casa e invitarlo a farsi vivo. Funzionava così anche con Caio. Il primo che batteva, attendeva l'arrivo dell'altro. Irina si presentò dopo cinque minuti. La bielorussa stringeva il telefonino in una mano, indossava un paio di jeans stinti e attillati e una camicia bianca da uomo. Era senza reggiseno, e la tensione accumulata nel scendere un piano con i topi alle calcagna, le aveva indurito i capezzoli. L'occhio cadeva lì. Forse aveva anche freddo. "Questa ha tutta l'aria di una convocazione" esordì. "Irina, sei sveglia come un topo!" esclamò Caio. "E' la prima volta che ricevo un complimento da te. Come lo devo interpretare?" "Lascia perdere" sorrise Caio. "Veniamo al sodo." "Già. Perché mi avete chiamato?" "Volevamo sapere se hai intenzione di abbandonare il condominio." "Potrebbero essere fatti miei" rispose. "Non ti abbiamo chiamato per ficcare il naso negli affari tuoi!" s'imbestialì Caio. "Ti rendi conto di che cosa sta succedendo in città?" "D’accordo. Non ho intenzione di sbaraccare." "Cosa vuoi fare, allora?" le domandai. "Hai pensato a come affrontare efficacemente questi topi schifosi?" "Dovrebbe essere compito delle autorità…" "Le autorità se ne fregano. Tocca a noi." Lei mise una mano sotto il mento e raccolse i pensieri. Ero certo che da lì a poco avrebbe attaccato con un discorsone dei suoi, ma non le avremmo dato tempo, spazio. "Mi piacerebbe rispulciare i libri di scuola impolverati sotto il letto" abbozzò. "Conservo delle proprie bibbie su come organizzarsi di fronte al nemico che attacca da Est a Ovest. In città e in campagna…" "Basta!" urlò Caio. "I topi ci stanno per divorare il cuore e tu ti metti a leggere i classici del comunismo? Mi sembra un'ottima idea. Brava!” "Grazie per il consiglio, ma abbassa la voce: io ho parlato di tentazione. Provo fastidio al solo pensiero che qualche dio mummificato potrebbe tornare utile in questo caso." "Magari lo fosse!" Guardai Caio poi chiusi gli occhi, già annoiato da quella discussione. Li riaprì sulla suoneria del suo cellulare: il vecchio inno dell'Unione Sovietica. Per un attimo cercò di identificare il numero sul display, poi sbatté le ciglia e rispose. “Matiušin" rispose, gelida. "Irene.” Per una ragione incomprensibile, premette il pulsante di vivavoce e ci toccò ascoltare la breve conversazione. “Irina” precisò lei. “Ciao, Fabio. Come stai?” “Bene. Stavo pensando di fare un salto da te. Avrei due splendidi modelli di un amico da riparare…” “Adesso?” “Dimmi tu.” “Boh, passa quando vuoi." Chiuse la comunicazione senza nemmeno salutarlo. "Questo è uno dei pochi uomini con i soldi che non ha lasciato Ivrea" commentò "Peggio per lui." "Si diverte a maciullare i topi sotto le ruote del suo fuoristrada." "Ci vuole altro per farli sparire. Ma parliamo di te. Stai architettando qualcosa, oppure no? " "Niente. Ma vi prometto che ci penserò su.” Sul viso di Caio si posò un'ombra di delusione. "Torna pure a casa, Irina" la congedò bruscamente. "E aspetta il tuo riccone con i televisori scassati!" Passarono alcuni minuti di totale silenzio, nei quali mi accorsi di non avvertire la presenza dell'inquilina di sotto, Madame Paralume, solitamente molto rumorosa fino a mezzanotte. Poi, improvvisamente Caio spostò indietro la sedia e s’alzò di scatto. “Forse c’è ancora una via d’uscita” disse, prendendo un sorso di birra. “Andiamo da me.” “Il pianerottolo sarà infestato!” “Vieni!” Caio guardò per l’ultima volta Ray Liotta puntandogli un dito contro. “Tu, non ti muovere.” Avevo già l’impressione che i topi ci avrebbero aggredito alle gambe e divorato in pochi minuti. Come tutte le porte dei ballatoi, la mia era divisa in due. Una metà mobile per entrare e uscire, un’altra bloccata alle due estremità con le serrature a scorrimento. Quando Caio tirò il chiavistello, infilai in mezzo una lastra di metallo che avevo recuperato nei giorni precedenti. Non subimmo un attacco frontale, ma la lastra, oltre a bloccare alcuni sorci, mi servì da catapulta per farli volare in cortile. Fuori soffiava un vento gelido, non c'era la luna e davanti a casa i lampioni erano spenti. Il buio sommergeva le nostre notti portando con sé la sozzura del mondo. Il mio vicino trascorreva molto tempo in casa, e il suo alloggio, a parte la polvere sui mobili, era in ordine. Poco dopo essere rientrato, Caio accese il lettore cd e partì con Buscaglione. A qualcuno piace Fred, be'? Lo swing si sposava male con il clima eporediese, ma lui non aveva il pallino delle colonne sonore. Mimò un mezzo passo, poi si voltò verso di me e con lo sguardo gelido mi disse: “Forse è meglio se tu torni da Ray Liotta. Non vorrei che si sentisse troppo solo.” C’impiegò dieci minuti, nei quali ingollai una birra fissando l'enorme sorcio insistere nel suo tentativo di persuasione: zampe e muso appiccicati al vetro. Non dava l’impressione del topo affamato o perseguitato che cerca rifugio nel mio appartamento, altrimenti non avrei esitato ad aprire la finestra. Aveva la biffa del boss dei bassifondi, grande e grosso e sbruffone. Fammi entrare o sei morto! Brutta bestia. Caio arrivò con una busta del pane sottobraccio. La posò sul tavolo e annunciò che c’era da lavorare. “Ti sembra l’ora?” “Vuoi aspettare fino a domani, dopo la colazione?” s'infuriò, sollevando il mento in direzione di Ray Liotta. All’interno della busta del pane c’era un sacchetto di nylon trasparente pieno zeppo di pasticche bianche. “Cosa sono?” “Sonniferi.” A occhio e croce erano un migliaio di pasticche. Evitai di chiedergli la provenienza. La sua idea consisteva nel triturarle con un matterello, in modo da creare una quantità tale di polverina bianca da infarinare l’intero cortile del nostro condominio. “Un palliativo davvero poco efficace” obiettai. “Domani sera ce li ritroviamo qui belli riposati.” “Hai una proposta migliore?” “Dovrei rifletterci un po’…” “Mentre tu lo fai, io punto all’overdose” chiarì lui. “I topi sono ingordi per natura. S’avventeranno sulla pappa come lupi affamati e ci resteranno secchi.” “C’è solo un problema” ribattei. “Con questa roba ci procureremo parecchia polvere, ma i topi sono una marea. Anche in caso d’overdose, i morti saranno solo una piccola parte…" Caio chiuse gli occhi e appoggiò il capo al muro della cucina. “E’ l’unica soluzione per tenerli lontano, stanotte.” Ci accorgemmo subito che con il matterello era un lavoro che nemmeno la propaganda staliniana avrebbe retto, soprattutto con quel topaccio che attendeva impaziente dietro la finestra. Avevo le lenti degli occhiali appannate. Ci munimmo di martelli e cominciammo a pestare decine di pasticche avvolte in panni e buste, ma anche questo metodo richiedeva troppo tempo e rischiavamo di rovinare il tavolo della cucina. La dispersione, poi, era tale che non ne valeva la pena: con tutto il pulviscolo che s’alzava ci saremmo appisolati nel giro di pochi minuti. Non restava che attivare il frullatore che stazionava sopra il mio frigorifero. Era un robot di marca che tritava anche i pinoli. Se il matterello era un attrezzo a cui tenevo molto - utilissimo per spianare la pizza - il frullatore lo trattavo come un figlio. Nel giro di un paio d’ore lo fondemmo. Il lavoro era completato, un sacco del pane pieno di polvere di Alcion, ma il robot era da buttare. Ray Liotta s'era dileguato. Forse aveva fiutato la trappola ed era andato a informare i suoi. Uscimmo di casa con l’olfatto e i vestiti impregnati dall’odore di bruciato che aveva ammorbato l’appartamento. Ben equipaggiati di stivali, jeans resistenti, giubbotti in pelle e caschi da moto, facemmo il giro della casa e spargemmo la prima dose di polvere sotto la finestra presidiata da Ray Lotta per tutta la sera. Era l’unica illuminata dell’isolato. In un attimo accorsero centinaia di ratti. La puzza era insopportabile. Uscivano da tutte le parti e fummo costretti a scappare. Nonostante la spossatezza causata dall’inspirazione della polvere durante la triturazione dei sonniferi, seminammo l'Alcion in cortile in pochi minuti, sotto la supervisione di Camurria e Madame Paralume appostate alle finestre. Quando rientrammo in casa mia avevamo le facce deformate dalla nausea per il lezzo che s’alzava dalla strada ed eravamo stanchissimi. Caio si buttò sul mio divano e non ci fu più modo di spostarlo. Mi risvegliai il mattino seguente alle dieci ed era ancora lì, nella stessa posizione. Accesi il forno per riscaldarci, poi andai alla finestra e scostai le tende. Il cortile era macchiato di puntini neri. Erano topi morti o soltanto colpiti da sonno psichico? * La consegna aveva dei criteri precisi. Una botta al campanello, un colpo all'uscio, una busta di nylon con dentro due pistole, qualcuno si farà vivo per telefono. Alla terza visita, finsi di allungarmi per ricevere la busta e afferrai il polso del tizio con il casco e lo tirai dentro casa. Lui mi prese per la gola e cercò di colpirmi con una testata, ma invece del mio naso, centrò in pieno la porta e rimbalzò indietro. Mollai la presa e con la schiena andò a sbattere contro la ringhiera. Le gambe si sollevarono da terra e stava per finire sotto. Non c’era molto, qualche metro, e poi aveva il casco, ma poteva rompersi qualcosa. Con un guizzo lo bloccai all’altezza delle caviglie, il corpo, dal fondoschiena in su, sospeso nel vuoto. “Dammi una mano!” m’implorò, la voce rimbombava dentro il casco. “Dimmi chi ti manda.” “Non lo so.” Lo feci dondolare su e giù. “Ti conviene dirmelo.” “Ti giuro che non lo so. Io eseguo solo gli ordini!” “E quali sarebbero?” “Consegna questa roba a Caio Cesari e digli che poi lo contattiamo noi.” Ero tentato di lasciarlo cadere. Lo feci dondolare ancora un po' e poi gli detti una mano a rimettersi in piedi. Il tizio si aggiustò il giubbotto e si spazzolò i pantaloni. “Tutto bene?” “Sì. Adesso spero che sia tutto chiaro.” “Chiaro. Ma io non sono Caio Cesari.” “No?” “E’ il mio vicino” gli spiegai, indicandogli l’ingresso dell’alloggio di Caio. “Oh, boiafaus! Tu hai ancora le buste?” “Sono in casa. Caio è un amico e gliele darò io personalmente.” Il tizio annuì. Sembrava soddisfatto. “Ah, e per le prossime consegne?” mi chiese. “Rivolgiti a lui.” Cosa se ne faceva Caio di tutte queste armi? Per pura curiosità, e poi perché ne ero coinvolto, ficcai il naso nella nuova busta. Il pacco era più piccolo dei precedenti, di cartone, chiuso con del nastro adesivo trasparente che tolsi senza pormi il problema di rovinare la confezione. Con mia grande sorpresa, dentro la scatola non c’erano le solite pistole Beretta, bensì due bombe a mano. Guerra. * L’invasione dei ratti era il problema più grave e impellente, e come tale fece passare in secondo piano un altro assedio: quello della catena di Sant’Antonio. Sino a farmene disinteressare completamente. M’impegnai nell'estremo tentativo di liberarmi dell’ingombrante seccatura epistolare. Se era vero che il mondo cambiava a ritmi vertiginosi, io avevo cento buste bianche che fermentavano in casa, e la situazione cominciava a farsi complessa. Me ne sbarazzai ficcandole in tutte le cassette possibili e immaginabili. Medici, notai, avvocati, sindacalisti, commercianti, salumieri, supermercati, negozi d’animali, tintorie e associazioni varie. Sconosciuti. Facoltosi o indigenti non aveva importanza. Non seguivo più le indicazioni del Michigan: sparavo su chi capitava. Qualcuno l’avrei impallinato di sicuro. L'ultima busta la infilai nella cassetta della Confagricoltori (dopo mesi di siccità non si sarebbero azzardati a bruciarla!), e mi sentii sollevato: ora toccava ai topi. Non c'era nulla al quale appellarsi per un aiuto, potevamo affidarci unicamente alla nostra fantasia. Fantasia: battezzai così un’ipotetica salvezza. Ce ne voleva tanta, un mondo, per ricacciare i topi nelle cloache e ridare ossigeno alla normalità. Ma come fare? Se non sei abituato a far uso dell'immaginazione il genio non appare all'improvviso. Dovevo raccontarmi una verità che non esisteva, solo in questo modo l'estro mi avrebbe teso una mano. Tornai a casa e notai nel cortile un tizio che stava scaricando due grossi televisori. Doveva essere Fabio, l'amico di Irina. Era un pezzo di ragazzo, alto, palestrato, camminata da bullo con le spalle che ondeggiavano su e giù. Addosso aveva un piumino nero, jeans, scarponi, cappello di lana nero. Lo avevo già visto da qualche parte. Sistemò gli apparecchi per terra, uno sopra l'altro e quindi chiuse il baule del fuoristrada Guardale lì, mi dissi. Le televisioni d’antan che fortificano la nostalgia dei suoi clienti. Ma come possono ancora pensare alla tivù, certe persone? Un apparecchio per volta, seguii Fabio salire fino al mio piano e poi mi chiusi in casa. Mi stavo allineando al modus vivendi delle due vecchie di sotto, che trascorrevano gran parte della giornata dietro le finestre. Dopo aver consegnato le tivù ad Irina, Fabio scese di corsa le scale per riprendere la jeep, ma si trovò davanti una scena inattesa: il suo fuoristrada era circondato dai topi. Lo aspettavano disposti a falange, le fauci bene in vista, emettendo un sibilo sinistro. Lo vidi tapparsi il naso per il tanfo. Non sembrava particolarmente intimorito dalla loro presenza. L'incontro sembrava un regolamento di conti. Fabio si divertiva a tritarli sotto le ruote del suo macchinone, come un giustiziere, e adesso i quattrozampe erano decisi a fargliela pagare. Finito il tempo delle cavie, era iniziato quella degli attributi. Chi era il capo, Ray Liotta? Dov'era in quel momento? Nuova Storia, vecchio problema. Il bellimbusto non si scompose. Si aspettava un attacco. Lo volevano strapazzare per bene. Era già stato tutto pianificato. Ma la mancanza di un leader dava al palestrato spazi di manovra ancora enormi. Lo vidi dare un’occhiata a un cielo nero come la pece, poi con un balzo raggiunse il paraurti posteriore dell’auto. La sua azione spiazzò il nemico. In un attimo era dentro l’abitacolo, il motore acceso. Ingranò due marce e riprese a macinare le interiora rattose sotto le gomme. Estasi. Fabio era un incosciente con un coraggio da esploratore polare. Nervi saldi e colpo d’occhio bruciante. Uno, tre, otto, nove: le sue sgommate come una partita a dadi. Ridusse Il cortile in una fabbrichetta di confiture dell’Alta Savoia. Un vero macello. Lo vidi nuovamente scendere dalla jeep e salire da Irina. I topi accorsero in massa e coprirono interamente la sua auto. Non l'avrebbe mai più guidata. * La mia mano sinistra colse un leggero fruscio. Ero solito dormire con un braccio che penzolava fuori dal letto, a pochi centimetri dal pavimento. Un'abitudine nata in seguito a un lungo periodo d'insonnia che mi aveva quasi ammazzato. Ero convinto che almeno un braccio in quella posizione (sul letto matrimoniale non era possibile stendere entrambe le braccia), avrebbe rilassato il corpo. La testa era sprofondata nel cuscino e guardava verso destra. La federa puzzava di aglio. Prima di coricarmi, agganciavo una tendina nera agli infissi per impedire al giorno di aggredire il mio sonno instabile. Ma avevo lasciato la porta leggermente aperta e la luce proveniente dal salotto rischiarava una parte della stanza, e potevo scorgere i mobili, le pareti, la porta, la chitarra appoggiata al muro. Il fruscio continuò lento per diversi secondi. Sembrava che mi stuzzicassero le dita con della setola morbidissima. Stavo ancora sognando? Cercai la sveglia elettronica come punto di riferimento: segnava le otto e due minuti. Ero sveglio. C'era qualcosa che s'aggirava sotto il materasso. Non era uno spiffero d'aria. Il dubbio penetrò come una lama affilata nella stanza. All'infuori di una catena di Sant'Antonio che mi faceva ammattire, c'era poco spazio per le ambiguità. Per chi si preparava al peggio, i topi avevano la precedenza su tutto. Una domanda risuonava come un allarme nella mia testa: se era un topo a solleticare la mia mano, com'era entrato? Immaginai tutti i punti possibili d'accesso. Quanto era grosso, il bastardo, come Ray Liotta? Era da solo, o insieme alla sua banda? Non dovevo produrre il minimo movimento, altrimenti sarebbe fuggito (l'idea di rincorrere un sorcio per la casa, mi faceva inorridire), o avrebbe morsicato la mia mano trasmettendomi chissà quale malattia. Curvai la testa in direzione del braccio e mi posizionai in modo da poter scorgere cosa succedeva sotto il letto. Le strisce di luce che provenivano dal salotto non erano sufficienti a chiarire la questione. Dovevo prendere una decisione. Avrei potuto sollevare la mano e abbatterlo con un cazzotto. Avevo ben presente la rapidità dei topi e rischiavo di non colpirlo, di sbriciolarmi le ossa contro il pavimento. La strategia più efficace consisteva nell'acchiapparlo. Avrei schiuso la mano e sarei lentamente sceso fino a stringerlo in una tenaglia d'acciaio: le mie dita incazzate. Lo avrei spappolato. Schifoso. Devo ammettere che in altre circostanze, non sarei riuscito a prendere un ratto con le mani. C'era qualcosa di darwiniano nella mia capacità di adattarmi alla situazione. I topi si moltiplicavano, io m'imbestialivo. Non fu semplice. Allargai la mano con cautela, le dita si sollevarono un millimetro alla volta, per minuti interminabili, finché lo strofinio passò dalle dita al palmo. Pensai di non aver a che fare con un sorcio particolarmente sveglio, altrimenti se ne sarebbe accorto. L'immagine di Ray Liotta che bussava alla finestra era fissa nella mia mente: lui non ci sarebbe cascato. Adagio. Non dava nemmeno l'impressione di essere un coso enorme, ma non si poteva mai dire. Quando lo sentii fregarsi con un po’ più di convinzione, strinsi la tenaglia e mi buttai giù. Ci stava giusto nella mia mano sinistra. La coda spuntava tra le mie dita, ed era più lunga del corpo. Il suo cuore doveva essersi fermato per lo spavento, non si dimenava, immobile dentro la trappola che gli avevo teso. Non mi fidavo e lo tenni stretto finché non mi spostai in salotto dove c'era più luce. Schiusi leggermente la mano e notai che la mia preda era un topolino domestico, grigio scuro, vivo e vegeto. Lo annusai, non puzzava. Lo chiamai Domotopo. La classificazione "domestico" non gli dava diritto di soggiornare in casa mia. Come c'era arrivato? Un complice di Ray Liotta? Non aveva la stessa biffa. Pareva terrorizzato, ma non m'inteneriva: i topi li schiacci o sei spacciato. Prima di eliminarlo, dovevo scoprire da dove era entrato. Nonostante le ridotte dimensioni, poteva aver fatto da apripista a un branco di luride pantegane. Era probabile che lo avessero seguito e si stessero aprendo un varco. In questo caso, lo avrei congelato nel freezer come capro espiatorio. In casa non c'era un solo involucro che potesse ospitare per un po' il Domotopo. Non possedevo scatole di scarpe, contenitori del caffè, oggetti utili a contenere alimenti. Girai a vuoto per almeno venti minuti. Il forno non andava bene: ci mancava solo che chiudessi il topo nel luogo (sacro) dove la mia pizza lievitava soffice e croccante. Una sistemazione momentanea poteva essere la custodia della chitarra, ma c'era il rischio che mi facesse a pezzi il rivestimento interno. Nel frigo trovai un vecchio barattolo di marmellata Zuegg che avevo riempito con salsa di pomodoro. Non era facile svitare il tappo con una mano impegnata. Alla fine trovai il sistema giusto stringendo il barattolo tra le ginocchia. Eliminai due dita di sugo buttandolo nel water e ci ficcai dentro l'intruso. Il contatto con il pomodoro non lo spaventò. Era di suo gradimento e si mise a mangiare. Lo studiai, seduto in cucina. Era buffo. I movimenti rallentarono vistosamente dopo qualche minuto per mancanza di ossigeno. Stavo per ucciderlo. Non mi sentivo particolarmente orgoglioso. Fosse stato un bestione come Ray Liotta, avrei camminato due spanne da terra, ma questo Domotopo sembrava più una vittima dell'invasione dei suoi simili, che un attivista convinto. Il topolino si accasciò nella poltiglia rossa e smise di agitarsi. Presi cacciavite e martello e praticai un foro al centro della capsula, quindi, incurante delle sue condizioni di salute, infilai il barattolo dentro la custodia della chitarra. Vivo o morto, non volevo girare per la casa con quel baffetto che mi osservava. Com’era arrivato? L'appartamento misurava 50 metri quadrati, tuttavia c'impiegai due ore per verificare la mancanza di un passaggio. Due ore. Ovunque. Dietro, dentro e sopra gli armadi. In cinque anni non avevo mai perlustrato l'alloggio con tale meticolosità. Trovai di tutto: monete, calzini, penne, carte da gioco, cd, maccheroni, muffe, ragnatele, ragni e bestie morte, ma non un buco. Il Domotopo era entrato dalla porta principale, e io, nonostante la maniacale attenzione, non me n'ero accorto. Oppure era spuntato direttamente dal cesso. Un fatto gravissimo. Se arrivavano su dalla toilette, la fine era scritta. Sigillai il coperchio del water con del silicone. Da giorni non mangiavo frutta né verdura, e la latitanza delle mie deiezioni era cronica. Non c'era più speranza di chiudermi in bagno per mezz'ora, a rileggere per la centesima volta il vecchio fumetto che giaceva sul cesto giallo del bucato: Diabolik, chi sei? Per la pipì sarebbe stato sufficiente il bidé. * Nel giro di poche ore Caio lo venne a sapere. Era il destinatario della mercanzia e le telefonate che aspettava arrivarono. Il corriere aveva cantato e adesso mi ritrovavo faccia a faccia con il mio vicino. "Tu hai qualcosa che mi appartiene." Andai a prendere la roba in camera da letto. Dopo anni passati a cenare insieme, ero senza parole. Nemmeno Madame Paralume, che leggeva la vita al condominio, era al corrente dei suoi traffici. A cosa gli serviva l'attrezzatura? Aprì le buste e si assicurò che ci fosse tutto. "So cosa pensi, ma non è come credi" abbozzò. Mi tolsi la gomma della bocca e la buttai nel posacenere. "Non sto pensando a niente." "Che cosa vuoi che ti dica?" "Fai tu. Stai preparando una rapina?" "Non dire fesserie. Una pistola è per me, le altre sono in vendita." "Frequenti un poligono?" "No. Ma è sempre meglio avere una pistola in casa. " "Uno dorme più tranquillo." "Mi hai tolto le parole di bocca." "Delle bombe a mano, che mi dici?" "Ne ho prese un paio per i topi." "Che c'entrano?" "Se ne devo lasciare questa casa per colpa loro, faccio saltare tutto." "Ottima idea." "E' da un po' che ci penso. Mi piacerebbe trovare una soluzione diversa, ma per il momento ho solo le bombe per la testa." "Due sono poche per far crollare il ballatoio e ucciderli tutti." "Non posso farmi mandare un arsenale! Sai quanto costano 'ste ananas?" "No. E poi, trovarlo un arsenale…" "Umm, per quello non c'è problema" rispose, strizzandomi l'occhio. "Basta pagare." "Mi hai sempre detto che installavi cavi ottici per le telecomunicazioni…" "Me ne sono occupato fino a un paio di anni fa. Poi ho deciso di cambiare. Non si può passare la vita a lavorare." "E adesso, come va?" "Meglio. Ho chiuso con le telecomunicazioni. Anche se la comunicazione resta un aspetto importante del mio lavoro." "Al punto che le armi sono state recapitate al sottoscritto!" "Un errore imperdonabile. Lo riconosco." "Non ha nient'altro da dirmi?" insistei. "Non vorrei stuzzicare la tua voglia di lavorare." Caio aveva l'ufficio in casa. Comprava, smerciava, smaltiva… Ignorando la cultura del sospetto, l'andirivieni di gente che andava a trovarlo non mi aveva mai impensierito. Per anni aveva nascosto la sua identità in maniera perfetta. Chapeau! * Arriva quando meno te lo aspetti. Come un pacco con due pistole, il fuoco di Molotov, lo sfogo di 300.000 topi. Il mio cellulare si agitava. Quando notai il vibracall in azione, mi sembrò di tornare indietro di giorni, settimane, un'eternità. Una telefonata. Forse qualcuno che aveva sbagliato numero, il Comune che annunciava lo sgombero del ballatoio, la Rai che mi faceva causa, telemarketing dei Damanhur, Caio. Per un attimo sperai che fosse Stefy, la mia amante dagli occhi blu. Ma era impossibile: quella mandava solo SMS. Sul display del Siemens compariva una scritta: ID sconosciuto. Un bisturi guidato da una mano invisibile era penetrato nel mio immaginario. Era gentile, non rispondere? Per qualche secondo finsi di interessarmi ad altro. Passai davanti alla custodia della chitarra, le detti un colpetto sopra senza ricevere risposta; cercai delle ragnatele sul soffitto. Ma non c'era nulla che potesse distrarmi da quel maledetto squillo, e alla fine risposi per pura sfida. In caso di telemarketing, avrei gettato il Siemens dalla finestra, ai ratti che ne avrebbero fatto un uso migliore. Una sfida. La peggiore che potessi immaginare. Una voce maschile, dal taglio tipicamente aziendale, si rassicurò in merito alle mie generalità, poi spiegò il motivo della chiamata: una proposta d'assunzione. Diversi mesi prima, a settembre, avevo trovato sul Corriere della Sera l'annuncio di un'azienda valtellinese che produceva caschetti per ciclisti. Venti giorni più tardi ero stato convocato per un colloquio in un hotel di Milano. Routine. Noi facciamo questo. Tu chi sei, cosa pensi, quali sono le tue attitudini professionali? La solita perdita di tempo, avvilente. Tre mesi dopo mi richiamavano per un incontro de-fi-ni-ti-vo! Dalle parole del Responsabile del Personale, avevo già un piede in azienda. Dovevo recarmi in sede il giorno successivo, inderogabilmente, per incontrare il responsabile del personale e concludere l'accordo. L'appuntamento era fissato per le 17.00. Mi avrebbero rimborsato il viaggio. La posizione era di Responsabile commerciale per la Lombardia. Vendevo caschetti da ciclista. Bellissimo. Un lavoro facile, al quale mi sarei adattato magnificamente. La mia passione per la mountain bike era una carta da giocare. Avrei venduto milioni di baschetti, mi sarei fatto un po' di grana e avrei vissuto bene per qualche tempo. Lasciavo definitivamente Ivrea per trasferirmi in Valtellina. Se avevo già un piede in azienda, non c'era tempo da perdere: riempivo le valige e traslocavo nel giro di poche ore. Il problema dei topi non mi riguardava più. Per sconfiggerli ci voleva un piano con i fiocchi. Cosa restavo a fare? Purtroppo, come spesso capita, la solidarietà si scalda se c’è ciccia da mordere, altrimenti fa la fine di un gatto sotto le ruote di un’auto in corsa. Dopo un incessante assottigliamento di copertoni grandi e piccoli, carne, ossa e pelle penetrano nell’asfalto, come risucchiate. Resta una macchia che la pioggia cancella. Immaginai la mia nuova casa in Valtellina, arredamento con mobilia d'epoca, i gerani sul balcone. Una decappottabile sarebbe stato il mezzo ideale per muoversi in un luogo sconosciuto, altrimenti mi sarei accontentato della station wagon aziendale. Meglio se svedese. Inizialmente avrei avuto molte donne, poi mi sarei sistemato con una bella ragazza, interessante, intelligente, spiritosa, simpatica, più giovane di me. La mia fantasia già se la vedeva. La somiglianza con il legale di Caio, Angela, era straordinaria. Due gocce d'acqua, e non c'era verso di cambiarle i connotati. Un'immaginazione a senso unico. Possibile che mi fossi fissato sulla pin up del foro eporediese? Bussai a Caio. Non era in casa. Lo chiamai sul cellulare. Spento. Tentai allora di contattare altre persone che non vedevo da qualche settimana, come l’ex fidanzata e i miei familiari che vivevano a Torino, ma non c'era più nessuno in ascolto. Nessuno a cui comunicare la grande notizia, neppure mediante SMS con un'amante. Me la sarei goduto da solo. Mi avvicinai alla finestra e lanciai uno sguardo fuori. Piccoli esseri si muovevano velocemente sul selciato. Il cielo era attraversato da interminabili filamenti di nubi grigie, la sua luce giallastra rievocava le facce della cirrosi. Rimasi a osservare il profilo delle montagne intorno, con la sensazione che ci fosse cattiva salute ovunque. Pochissime auto transitavano. Il mondo sembrava chiuso fuori. Chi era rimasto in città, aveva le ore contate: era infatti previsto uno sgombero in massa. A un tratto vidi un'auto entrare nel cortile e fermarsi davanti al portone di casa. Era una Golf nera dalla quale uscì Fabio. I resti del suo potente fuoristrada giacevano a qualche metro di distanza. I topi gli avevano fatto un servizio completo, lasciandogli soltanto la carrozzeria sverniciata e i cerchioni delle ruote. Si tolse il cappello di lana nero, si aggiustò i capelli sui lati, poi mise una gomma in bocca e fissò il baraccone giapponese con lo sguardo inviperito. Era vestito con il solito piumino nero, i jeans e gli scarponi. La figura di Irina si materializzò nel cortile pochi secondi dopo. Confabularono accanto all'auto, poi Fabio aprì il portellone della Golf ed entrambi salirono su da lei. Qualcosa bolliva in pentola. Qualche minuto d'attesa e Fabio ricomparve con un bestione da 28 pollici che infilò di taglio nel baule. La vettura s’inclinò sul posteriore. Tornò su e poco dopo ricomparve con un altro pezzo d'antiquariato delle stesse dimensioni, che sistemò accanto al primo. Irina scese subito dopo. Con il gomito appoggiato al tettuccio della macchina, si mise a tracciare linee immaginarie nell'aria. Stava illustrando a Fabio un piano che mi risultava incomprensibile, e che mi fece salire un'inspiegabile tensione. Uscii sulla balconata e, prima che lei s'infilasse in auto, le chiesi se aveva intenzione di lasciare la baracca senza salutare. "Cosa te lo fa pensare?" ribatté. "Quei due pezzi da museo che avete messo nel baule." "Non hai proprio capito un tubo, Nico. Quelli sono i miei video prediletti, Nagasaki e Saigon, li ho scelti per la festa che organizzo ai topi questa sera." "Una festa?" "Certo. Ci sarà da divertirsi.” Il suo sorriso aveva un non so che di sinistro: sfumava nella crudeltà. Cosa stava macchinando? Una festa per i topi. Perché non mi aveva invitato? La novità mi fece dimenticare cose ben più importanti, come la pianificazione del viaggio in Valtellina. Il giorno seguente avrei cambiato vita. La sera scese di schianto. Si aspettava l’ondata finale che avrebbe cancellato Eporedia. Alle otto e mezzo passò un’auto dei vigili che annunciava lo sgombero forzato degli appartamenti ancora occupati. Il tutto sarebbe avvenuto entro le ventiquattro ore successive, con l'intervento dell'esercito. La gente fuori, i topi dentro. Mi allungai sul letto, nel tentativo di concentrarmi e decidere se combattere quell'ultima notte, al fianco di Caio, o trincerarmi in casa fino al giorno successivo. La buona sorte non passava tutti i momenti: dovevo fare quello che andava fatto. Ma riuscivo a focalizzare la mia attenzione unicamente sui passi di Gerri Molotov che, al piano di sopra, camminava avanti e indietro, un kamikaze travolto dall'ansia di una fine imminente. I topi avevano paura del fuoco, e Molotov ne era consapevole: avrebbe incendiato la città? Scappavo, come tanti altri. La vita è una continua fuga da se stessi, e a me andava bene. Qual era il problema? Forse altrove non sarebbe cambiato granché, l'onda lunga dell'invasione era inarrestabile e non avrei mai disfatto le valigie. I topi erano come la mafia e il Mossad: non c’era speranza di far perdere le tracce. Io mi stancavo, quelli facevano il loro mestiere. La meschinità m’inorridiva al pari dei topi, che erano mediocri e sicuramente aspiravano alla meritocrazia. Ci andava la fantasia. Ma quale? Mi alzai e preparai i bagagli. Cercai di razionalizzare al massimo la mia partenza e buttai dentro le cose che mi potevano servire veramente. Il resto lo lasciavo per il banchetto finale. Oggetti che mi accompagnavano da circa quindici anni, da quando, a vent'anni, ero andato a vivere da solo: difficile sbarazzarsene. Lo stereo, i dischi, i libri, la chitarra: lasciare queste cose era come privarsi di un braccio, una gamba… "Razionale!" Cose. Roba che si compra. I topi non sarebbero indietreggiati davanti a nessuna cifra. Io avevo un'unica possibilità: un salto nel vuoto. Non mi fidavo dei dirigenti che promettevano di assumermi e poi non si facevano più sentire, ma non c'era scelta: erano come i topi, ma non mi divoravano lo zaino. Sarei fuggito il mattino seguente. Tornai in cucina. Presi una birra Menabrea dal frigorifero e mi sedetti. Faceva troppo freddo per bere birra, ma era l'unica cosa che avevo in frigo. Lasciai scorrere lo sguardo sulle pareti della cucina e notai che avevano bisogno di una tinteggiata. Anche la stampa della Cavalleria Rossa, di Malevic, appesa su un lato, si presentava smorta. Passai un dito sul vetro della cornice e il polpastrello rimase impregnato di polvere. Una leggera patina di minuscoli frammenti di Alcion ricopriva i mobili. A ogni respiro ne assorbivo una quantità indecifrabile. Fu per colpa di quel residuo di barbiturici e di ciò che successe più tardi, se le mie esitazioni finirono lì. Non riuscii nemmeno a terminare la bottiglia che mi ritrovai con la testa sul cuscino. Dormii come un ghiro fino alle sei di sera, allorché fui svegliato da una brusca scampanellata. Lì per lì pensai a Caio, e come prima reazione mi voltai dall’altra parte cercando di riprendere sonno. La sua nuova veste da bandito era qualcosa che non avevo ancora metabolizzato. Ma lo scampanellio si fece più insistente, come una zanzara notturna che orbita sul letto. Dopo un po’ andai ad aprire e mi trovai di fronte Angela, l'avvocatessa. Stava cercando Caio e sembrava avere una certa fretta. Una gnocca da capogiro che non temeva l’aggressione dei sorci puzzolenti. Istintivamente mi tolsi gli occhiali da vista e sbattei le palpebre. Gonna nera con spacco laterale “scientifico”, che lasciava intravedere una gamba ben tornita, stivali neri e giacca in cuoio da vera guapa: non avevo più una goccia di saliva. Dopo aver controllato il mio abbigliamento, ed essermi accorto di aver dormito con le scarpe, tentai un approccio garbato e le annunciai che Caio non avrebbe tardato. “Ti posso offrire qualcosa?” Il legale traccheggiò per qualche secondo sul pianerottolo, poi spuntarono due bei toponi e non si fece pregare. Entrò poco convinta, una smorfia di diffidenza stampata in viso e lo sguardo che orbitava attorno a ogni cosa. Quando la vidi tirare su con il naso un paio di volte, m'infilai in bagno e mi lavai a fondo le stempiature. Stavolta mi spruzzai anche del profumo nei capelli. Stavo per uscire, quando l'occhio mi cadde sul fumetto di Diabolik che giaceva sul portabiancheria giallo ed ebbi un'idea fantastica. Chissà perché non ci avevo mai pensato! L'attaccatura dei capelli di Diabolik era simile alla mia e scendeva a punta sulla fronte. Presi un rasoio bilama e con due colpi eliminai la punta. Restava un'ombra dove avevo passato il rasoio, ma con il tempo se ne sarebbe andata. Così sembravo meno stempiato. Quando uscii, lei attendeva nel soggiorno, la punta del piede che si accaniva sul pavimento. "Fa freddo qui dentro" osservò. Finsi di non sentire. "Un drink?" le domandai. Buttò un occhio sul Rado che aveva al polso e mi disse: “Prendo un aperitivo… una cosa rapida.” “Ho della birra.” “Meglio qualcosa di caldo." Mi piaceva. Non aggressiva, banale e rampante come ne esistevano a bizzeffe, ma con il coltello tra i denti; andava diritta al punto e non ti faceva perdere tempo. Io ero in condizioni disastrose. Ci voleva una buona dose di caffeina per riprendermi dal sonno ipnotico. La feci accomodare in cucina. Il lavello era intasato di piatti e bicchieri sporchi. Per fortuna avevo ancora una caffettiera pulita, la più grande, da sei tazze. Preparare il caffè con una moka di quelle dimensioni, faceva pensare alle mangiate delle grandi occasioni, con una marea di amici che hanno urgenza di una brodaglia bollente per disinnescare la bomba calorica piantata sullo stomaco. “Aspetti qualcuno?” mi chiese. “Ehm, Caio, no? Ci facciamo sempre un caffè doppio a quest’ora.” “Non l’avrei detto.” Chissà quante cose ignora del sottoscritto, pensai. La vidi posare lo sguardo sul tavolo, muovere un dito timidamente sulla tavola, tracciare una curvilinea in mezzo allo strato di polvere bianca. Con la coda dell’occhio non la perdevo di vista. Misi la moka sul fuoco mentre lei inumidiva un polpastrello e lo piantava nella polvere. Conversazione breve, di socievole ben poco, ma nel breve tempo che passammo assieme intuii che Angela non era un legale con le narici annegate nel propellente della modernità. Non era stata in grado di distinguere il sonnifero dalla cocaina, e s’era accasciata sul tavolo come una barbona. Le gambe interminabili svettavano dal lato del tavolo e mi fecero divampare, come se fossi vittima di un attacco fulmineo di pitiriasi rosea di Gilbert. Per la prima volta nella vita, tra sequenze sempre più lunghe di sbadigli, il mio cervello ipotizzò un coito furtivo. Una cosa velocissima. Tac-tac-pum-pum. Se i topi si umanizzavano, io mi trasformavo in Speedy Gonzales. Un'opportunità unica e irripetibile. Il giorno dopo sarei partito. Angela era così dolce con gli occhi chiusi! Una donna completamente diversa. Una di quelle rare che… Fu un vero miracolo se riuscii a trasportarla fino a letto. A mezzanotte fui svegliato dallo squillo del telefono e dai colpi che scuotevano il muro della camera. Era la parete divisoria tra il mio alloggio e quello di Caio. Risposi al telefono. “Ma dove ti sei cacciato?" mi aggredì il mio vicino. "E’ da mezz’ora che ti cerco!” “Stavo dormendo” sbadigliai. “Abbiamo la casa assediata dai mostri, e tu dormi?” Gli spiegai che non si trattava di un atto volontario. “Avevi ragione tu” continuò, moderando il tono. “I sonniferi non funzionano. I topi si fanno una bella ronfata e poi ritornano belli riposati a infestare le strade.” “Buttagli una bomba a mano.” “Ah, ah, questo non significa che te ne devi fregare!” “Sai bene quanto mi rode avere trecentomila topi sottocasa!” “Se non ti muovi, tra poco ce li avrai dentro! Mi vengono su dal water!” Saltai giù dal letto. Accesi la luce della stanza e trovai l’avvocatessa sotto le coperte. Le sollevai lentamente e vidi che era ancora vestita, la gonna arrotolata sino alla vita e gli stivali ai piedi. Con estrema delicatezza le tolsi le scarpe e le posai accanto al comodino. Me la gustai per qualche secondo. Avrei desiderato vederla più spesso in quella posizione, nel mio letto. Il coito furtivo s’era dissolto nel narcotico. Mi accontentai di sfiorarle la guancia con un bacio. * Le auto parcheggiate nel cortile parevano ondeggiare sotto la luce dei lampioni: erano coperte di roditori di ogni tipo e dimensione. Uno squittio amplificato veniva su dall’asfalto accompagnato da un tanfo insopportabile. Caio aveva un aspetto terrificante. Sciatto, barba da fare, occhi gonfi, spinello acceso. Dal pizzetto spuntavano diversi peli bianchi. Aveva un sacco del pane in mano. Buscaglione cantava: "Noi duri, in fondo siam dei puri…" “Non me ne sto fregando!” esordii. “Ho la casa da disinfestare. C’è polvere di sonnifero ovunque!” “Lasciamo perdere” fece lui, con un gesto brusco. “Capita solo a te di dormire sui problemi.” Avrei dovuto dirgli subito che dei topi non ne volevo più sapere, che l'indomani sarei schizzato via per sempre da questa fogna. Caio lasciò scivolare il sacco ai suoi piedi, tirò una nota dalla canna e sbatté le palpebre. Faceva fatica a tenere gli occhi aperti, la sua figura tremava tutta. Andò in bagnò e si lavò la faccia. “E’ iniziato l’attacco finale" disse. "I ratti si sono impadroniti di tutti i quartieri. Lo hanno detto al telegiornale nazionale, per la prima volta. Il sindaco ha diramato l’ordinanza di evacuazione della città nelle prossime ventiquattro ore. Poi ci penserà l’esercito.” “L’esercito?” “I santi invocati dal Vescovo d'Ivrea non sono serviti. Al momento non è chiaro quando le truppe entreranno in città per eliminare le bestiacce. Stanotte tocca ancora a noi.” “Uhm, il frullatore è andato, come facciamo a tritare le pillole?” “Non ce n’è bisogno di alcun frullatore.” “Meglio." “Stavolta non sono calmanti…” biascicò. Mi bloccai. In un lampo mi passò il torpore dell'Alcion e la mia mente elencò la composizione chimica di alcuni micidiali rodenticidi: brodifacoum, denatonio benzoato, clorofacinone, bromadiolone, warfarin, sulfuchinossalina… Ci mancava solo la droga giusta per stanare i bastardi. “Hai trovato il veleno. Cos'è, Ratkill, Brocum, Brodin?” "Un brodino…" Il mio vicino scosse il capo e poi sbuffò: “Mi lasci finire?” Feci un mezzo inchino, spontaneo. Caio ritrasse le labbra, poi mise le mani sui fianchi e inarcò la schiena. La postura del ducismo gli veniva abbastanza bene, nonostante la magrezza. “Veleno non se ne trova più neanche a parlare cinese. La farina è finita, la calce pure, se grattiamo ancora i muri la casa ci cade in testa, lo stock di pillole che mi ero procurato se n’è andato in un attimo… Stanotte abbiamo una sola via d’uscita. Domani arriverà l’esercito e andremo in villeggiatura allo Stadio Comunale di Torino, dove hanno già sistemato delle tendopoli.” “Come in Cile.” “Però, con questa roba qui” continuò lui, battendo una mano sul sacco, “possiamo stanare i mostri.” “Hai appena detto che non è veleno …” “Infatti.” “Si può sapere che c’è dentro, bombe a mano?” “Ehm, si tratta di roba buona… Bisogna solo capire se anche i topi la gradiscono.” “Ma cos’è, ricotta con lo zucchero?” “Più o meno. Non è formaggio ma c'è lo zucchero. E’ una sorta di adulterazione…” “Sei un genio. Cos’hai mischiato con lo zucchero?” Stava per confessarmelo, quando la porta d’ingresso iniziò tremare sotto una raffica di pugni. “Aprite! Aprite!” “Dev’essere Angela” dissi. “E tu, come lo sai?” “Dalla voce, no?” “Ma sta urlando!” “La sento. Apri!” Caio afferrò la sua lastra di metallo e, dopo aver fatto scattare il chiavistello, la infilò in mezzo alla porta. Pensavo che Angela non temesse i sorci, ma ne aveva talmente tanti attorno che la sua immagine di professionista seria e impenetrabile s’era sgretolata in un istante. Scalciava alla rinfusa, come un’ossessa, nel tentativo di allontanare le bestie che le insediavano le caviglie. A fatica superò la lastra e si catapultò dentro. Un rattus norvegicus era rimasto aggrappato alla gonna. Gli assestai un cazzottone e precipitò sul pavimento, tramortito. Caio prese una padella in cucina e lo finì con due colpi. Poi lo gettò nel cortile. “Non mi pare la serata ideale per far visita a un cliente” borbottò Caio, rivolgendosi ad Angela. Gli occhi scuri dell'avvocatessa dardeggiarono di fastidio. Aveva i capelli biondicci in disordine, come una persona che s’è appena alzata dal letto. “Hai riposato bene?” interloquii, per rompere la tensione che montava tra loro due. “Mi sento un po’ frastornata …" sbadigliò. “Anch'io” solidarizzai. “Se qualcuno vuole spiegarmi, sono ben contento di ascoltarlo” sbuffò Caio. “Ti sembra il momento di discutere su come ho dormito?” sbadigliò nuovamente lei. “Mi sembra che ci siano argomenti ben più importanti da affrontare.” "Quali, per esempio?" “Le mie parcelle… l'invasione dei topi. Non potresti spegnere la musica?" chiese lei. "E' un'ossessione da gerontocomio questo Buscaglione!" "Non mi toccare Fred!" reagì lui. "E' la sola cosa che mi rende allegro." Un formicolio iniziò a assillare le mani di Caio. Si avvicinò a lei minaccioso, pronto a colpire. Intervenni. Cercai di spiegare com’erano andate le cose, il caffè e il tavolo seminato di polvere di sonnifero, ma lui rimase scettico. Dava per certo ciò che io non avrei mai disdegnato. “Se la madame restava alla sua maison, era molto meglio” dichiarò. “Non è colpa mia se devo batter cassa a un mio cliente” attaccò lei. “Hai un un problema di avidità cronica.” “Tu d’inadempienza incallita.” “Ti comunico che per un bel po’ non vedrai più un quattrino” annunciò lui, prendendo la busta del pane e stringendola contro il petto. “Che vuoi dire?” s’irrigidì lei. “Il saldo delle tue parcelle sta qui dentro.” “Lo zucchero?” m'intromisi. “Ma piantala! Dovresti immaginare che non è con lo zucchero che mi procuro il grano per pagare un avvocato!” “Ma quanti processi hai dovuto affrontare?” “Una mezza dozzina. Problemi di ricettazione, contrabbando, sai com’è, per arrotondare…” “Spaccio di sostanze stupefacenti, traffico d’armi” precisò Angela. “Artiglieria pesante” buttai lì. “Da far crollare questa palazzina” sorrise Caio. “Come sarebbe?” domandò Angela, aggrottando la fronte. “Lo vedi questo sacco? Qui dentro c’è la neve che mi tocca spalare per liberarmi dalle tue parcelle.” “Ah, bene, adesso è pure colpa mia!” “Se non fosse stato per te, avrei smesso da un pezzo.” “Dovevi informarti in anticipo, caro mio. Gli avvocati costano.” Caio cercò nei miei occhi la conferma alle sue parole. Anche Angela si soffermò su di me. “Secondo me, avete ragione entrambi." “Te la sei portata a letto” sentenziò Caio. “Non è come pensi.” Una cappa di silenzio piombò nel soggiorno. Non c’era un progetto serio. Il nostro si articolava nell’ennesimo sforzo di allontanare i topi dal ballatoio. La speranza non sfiorava più la mente, agivamo con le polveri rimaste: zucchero a velo e cocaina. Miscela subito battezzata “Dulcinea”. Se non funzionava, due bombe a mano e morta lì. Una volta smorzato l'attrito tra Angela e Caio, tentammo di tirare giù un programma per la distribuzione del nobile cocktail derattizzante. Il primo punto della scaletta prevedeva il lancio di un paio di manciate direttamente sul nostro terrazzo, in modo da verificare l’immediato effetto sulle bestiacce. Caio aprì la finestra e poi mi chiese di passargli la busta del pane con Dulcinea. Ne raccolse un pugno che gettò sul balcone. In pochi secondi notammo un flusso incredibile di ratti che si dirigeva verso la zona dov’era sparsa Dulcinea. Caio ne prese un altro pugno e lo distribuì davanti alla mia porta. I topi s’assieparono, battendosi come leoni per accaparrarsi la magica polverina. Mentre assistevamo alla carica, Caio mi confessò che era stato via tutto il giorno per rifornirsi di zucchero a velo. Aveva ripulito tutti i negozi di alimentari dell'Alto Canavese, fino ad immagazzinare quasi cento chili di dolcificante. La coca presente nel sacco ammontava invece a “solo” tre chili, e faceva parte di una grossa partita da smerciare tra Torino e Milano. Non avevo in mente il valore di mercato di quella roba, ma sarebbe bastata per pagare le parcelle di Angela. Ci coprimmo bene e uscimmo di casa. Angela restò dentro. Non era il caso di portarsela dietro. Fuori faceva freddo, sottozero. I sorci stavano sempre battagliando davanti alla mia porta, uno sopra l’altro, un bailamme infernale. Il fetore era tale che fummo costretti a turarci il naso. Decidemmo di non prendere le scale, ma di saltare giù dalla ringhiera. Un salto di tre metri attutito da una strage di bestiacce sotto le suole. Gnec! Fu come atterrare su un tappeto di gomma. Caio mi lanciò una busta di nylon nel quale avevamo messo un po' di Dulcinea, e subito dopo saltò anche lui. Il piazzale era invaso. Tiravamo calci alla cieca. Madame Paralume e Camurria osservavano dai vetri, le loro facce scheletriche non infondevano coraggio. Non c’era anima viva in giro e uno stridio macabro ci avvolgeva. Spargemmo Dulcinea contro il marciapiede. Due manciate a testa. In pochi secondi i topi s’assieparono sul bordo della strada. Una fiumana. Si saltavano addosso, si mordevano, si uccidevano. Caio prese altra miscela e tracciò una linea lungo il muro, per circa una decina di metri. I topi s’allinearono. Noi saltammo sopra il tettuccio di ciò che restava del fuoristrada di Fabio e spargemmo altra polvere tutt’intorno al veicolo. Centinaia di pantegane seguirono la striscia e fecero più volte il giro dell’auto. Dopo qualche minuto, notammo che i loro movimenti perdevano di elasticità, come pecore sembravano accontentarsi di seguire i loro simili che leccavano i tratti d’asfalto segnati con Dulcinea. Il nostro cocktail non li ammazzava, l'inebetiva. Lo zucchero a velo stemperava l’euforia dell’alcaloide. Quanto sarebbe durato il suo effetto? “M'è venuta un’idea ” dissi a Caio. “E se usassimo il resto dello zucchero per cercare di allontanarli definitivamente da questo quartiere?” “Spiegati meglio.” Gli esposi il mio piano, poi scendemmo dal tettuccio del fuoristrada e tornammo di corsa a casa. I topi erano sballati e ci lasciarono via libera. Ma era solo una piccola parte di quelli che avevano invaso Ivrea e il nostro quartiere. A casa trovammo Angela che parlava al telefono con una sua collega, stesa sul divano: Olympia dei ratti. Peccato che mancasse solo il tempo per fermarsi a bere uno scotch e fare quattro chiacchiere sullo stato d’innevamento delle piste di Cervinia! In alcune bacinelle svuotammo le confezioni di zucchero a velo, dopodiché dividemmo in parti uguali la rimanenza di Dulcinea presente nella busta del pane. Una volta mescolata la mistura, preparammo una ventina di sacchetti della spesa e fummo pronti a partire. Restava un dubbio grande come il nostro ballatoio. Qual era il mezzo migliore per distribuire Dulcinea con la giusta parsimonia? Se volevamo tracciare un percorso di diversi chilometri utilizzando l’automobile di Angela, era indispensabile trovare lo strumento adatto per spargere il nostro antidoto. In cucina conservavo un grosso imbuto e andai a prenderlo. Era sicuramente adatto all’uso, ma con il difetto di un beccuccio troppo corto. Anche procedendo a bassissima velocità, parte della polverina si sarebbe dispersa. Fu l’avvocatesssa, fino a quel momento poco collaborativa, a suggerirci l’attrezzo più idoneo alla semina. Un piffero. Caio ne aveva uno appeso sopra il divano. Era il piffero che suo padre aveva utilizzato durante lo Storico Carnevale d’Ivrea. “Attaccatelo all’imbuto” suggerì Angela. Caio non pareva convinto. Suo padre aveva fatto parte della “sacra” banda dei Pifferi del Carnevale, e quello strumento di legno rappresentava una reliquia, un mezzo per mantenere in vita la memoria. Un museo di famiglia in miniatura, con Fred Buscaglione che faceva da colonna sonora. Dovetti insistere per convincerlo che, in fondo, anche i Pifferi potevano dare il loro contributo alla causa. Si persuase solo dopo aver ascoltato con attenzione le parole della canzone del Carnevale, che mi toccò intonare davanti allo sguardo incredulo di Angela. Era un eporediese DOC: s'emozionava alle note di quell'inno di battaglia. Il piffero s’adattava alla perfezione al beccuccio dell’imbuto. Eravamo davvero pronti per partire. Ma c'era un'ultima cosa da chiarire: la mia posizione. “Ho qualcosa da dire” abbozzai. "Fai in fretta" disse Caio, senza rivolgermi lo sguardo. "E' importante." Mi fissò, serio, le mani appese ai fianchi. Non trovavo le parole, strozzate in gola. Dalla bocca mi uscii un altro pensiero in forma di gorgoglio che nessuno capì e dovetti riformulare. "Come… come puoi essere sicuro che Dulcinea sarà davvero efficace con i topi?" Caio s'irrigidì, scosse il capo diverse volte, come se non avesse preso in considerazione l'eventualità di un fallimento. "E' roba buona" rispose. "Abbiamo provato fuori…" "Non c'era tutto quello zucchero a velo mischiato assieme" osservai. Un attimo d'empasse, poi Caio ammise che bisognava testarla su una cavia. "Ne abbiamo una sottomano?" chiese Angela. "Basta aprire la porta." Non c'era che l'imbarazzo della scelta. Ma dopo qualche secondo mi ricordai del Domotopo che avevo rinchiuso nella custodia della chitarra. Balzai in piedi ed esclamai: "Ho qualcosa che fa al caso nostro!" Il Domotopo s'era ripreso e si dimenava all'interno del barattolo della Zuegg. Aveva mangiato tutta la polpa di pomodoro. Caio lo vide e si mise a ridere. "Ma che razza di topo è, questo?" "Dove l'hai preso?" chiese Angela, alla quale il topolino fece subito tenerezza. "Sotto il mio letto." "Ho dormito in un letto infestato dai topi?" "Tranquilla. Lui era già nel barattolo." Chiesi a Caio una presa di Dulcinea. Svitai il barattolo e gliela buttai dentro. Il Domotopo apprezzò. Bene. Sembrava ghiotto di quella polverina, ma ciò non era ancora sufficiente per globalizzare il palato di un esercito di suoi simili. Nessuno sapeva come sperimentare la pozione sul topolino, finché, gironzolando per la stanza non mi venne un lampo di genio. Il letto. Un modello moderno con il contenitore sotto il materasso. Era il posto ideale per collaudare la miscela magica. Chiesi a Caio di alzare il materasso. Storse il naso, temeva che il Domotopo gli avrebbe rosicchiato le molle, però non ci volle molto a convincerlo. Disegnammo un percorso a serpentina, una striscia di circa un metro di lunghezza e larga un paio di millimetri. Presi il topolino nel barattolo e lo piazzai all'inizio della serpentina tossica. La mano a tenaglia su di lui, nel caso decidesse di fare il furbetto e saltare fuori. Ma non ne aveva la minima intenzione. Fece girare un po’ il musetto a destra e sinistra e poi si tuffò nella polvere. Ingordo. Seguì la striscia senza particolare fretta. Quando giunse alla fine, Caio abbassò il materasso e ci si sedette sopra. "Perfetto" disse, battendo le mani. "La roba funziona. Dobbiamo uscire e stanarli tutti." Era ora di vuotare il mio sacco. "Non vengo" dissi. "Scusa?" "Io non vengo." Caio sorrise, poi scoppiò a ridere fino alle convulsioni, e a coinvolgere Angela e me in quell'esplosione d'ilarità. "Per fortuna che ci sei tu" osservò Caio, "che riesci a farmi divertire nei momenti peggiori." "E' stata una cosa involontaria" spiegai. "Ma non stavo scherzando." "Cosa significa?" "Che non vengo. Andate voi. La miscela funziona, non avete bisogno di me." Si accese lo spinello lasciato a metà nel posacenere, tirò una lunga boccata e poi ansimò: "No, non ho ancora capito." Sbuffai. Era difficile. "Ho deciso di lasciar perdere. Domani parto, lascio Ivrea per sempre.” "Te ne vai?" La voce di Caio era un ruggito di cattiveria. "E dove?" "Non ha importanza il luogo. Ho trovato un lavoro lontano da qui." "Hai già preparato le valige?" mi chiese. "Parto domattina." "E stanotte non mi aiuti?" "No." "Molto bene" ripeté alcune volte. "Sei un fenomeno." "Dovresti essere contento" dissi. "Dopo tutto questo tempo…" "Un cazzo!" gridò. "Io mi rovino con il narcotraffico nel tentativo di schiacciare questi maledetti topi, e tu sbaracchi?" "Se ne va" aggiunse l'avvocatessa, con un sorriso amaro. "Scappa, come tutti i vigliacchi…" "Tu chiudi il becco!" la interruppi. "Non sai nulla." "So che te la fai sotto, e questo mi basta." "Senti chi parla. Per te un tribunale vale l'altro. Oggi sei a Ivrea, domani a Venezia…" "Poveretto" disse lei, stizzosa. "Ho bisogno del tuo aiuto, Niccolò" sussurrò Caio, posando le mani sulle mie spalle e guardandomi fisso negli occhi. "Lo so che corriamo un grosso rischio, ma forse ce la possiamo fare. Adesso abbiamo un piano serio, studiato nei minimi particolari, se non funziona butto le due bombe a mano e leviamo tutti le tende. Solo per questa notte, Niccolò. Poi domani scappa, emigra, non farti più vedere." Non potevo. Davo una svolta alla vita, dovevo pensare a me, al futuro e basta. Avevo come l'impressione che se mi fossi impelagato con lui, non ci sarebbe più stata alcuna chance di dare un calcio al presente. Anzi, c'era il rischio di cadere in qualcosa di molto peggio. La mia decisione era presa, irrevocabile. Avrei avuto voglia di salutarlo l'indomani mattina, prima di partire. Un abbraccio, una pacca sulla spalla e in bocca al lupo. Ma non era possibile: Caio non c'era più. Non vivevo rimorsi di coscienza, ma c'ero molto vicino. Dispiacere, mi convinsi, era solo dispiacere. Io venivo prima di ogni cosa. Io. Il mondo avvelenato che brulicava oltre la mia porta, non mi doveva interessare. In casa il senso dell'assedio era bruciante. Per non pensarci controllai i bagagli. Mancavano un sacco di cose, rasoio, schiuma da barba, un set di asciugamani, spazzolini, dentifricio, le ciabatte, forbicine, accordatore della chitarra, tagliacapelli che usavo per radermi sotto le ascelle, poi avevo bisogno di camice, pantaloni, calzini neri, slip. Al diavolo la razionalizzazione! Traslocavo e dovevo fare le cose per bene, evitare di sbarcare in una città nuova come uno straccione. Riempì un vecchio borsone dell'Adidas con ciò che mi occorreva. Durante la preparazione sentii la porta di Caio sbattere alcune volte nel giro di dieci minuti: stavano caricando la macchina con le borse di Dulcinea. Non c'era alcun piano potenzialmente valido per affrontare l'invasione. Nessuna salvezza contro i ratti. Eravamo destinati ad essere sopraffatti, divorati, assorbiti. L'unico sistema per tenerli lontani era fuggire. Nella caccia all'uomo, alla fine, qualcuno, noi o loro, si sarebbe stancato. La sveglia, un'altra cosa che dovevo mettere in borsa, segnava la mezzanotte. Era ora di mettersi a letto e riposare. Il giorno dopo mi aspettava un lungo viaggio in treno. Non avrei scommesso uno stecchino sulla possibilità di appisolarmi nel giro di pochi minuti. La sensazione di averla fatta marcia al mio vicino e di consegnare ai topi il luogo natio, mi assillava. Ogni pensiero era un chiodo piantato nel presente e nei ricordi. L'egoismo è una luce spenta, una porta chiusa, un dialogo interrotto, la sporca coscienza di chi dorme sui problemi… E invece mi addormentai subito. Il sonno mi avvolse come una pesante e calda coperta, oscurando il mondo dei cercasenso. Ero forte. Sognai di porte trasparenti che sbattevano, di mani invisibili che le aprivano e le chiudevano, che bussavano insistentemente fino a spaccarmi l'udito, il cervello, il sonno… Non so con quale rapidità il rumore di un vetro in frantumi mi ripescò dall'abisso irreale in cui ero precipitato. Quando riaprii gli occhi avevo l'impressione di essere tornato da un viaggio tra le galassie sconosciute dell'universo, miliardi di anni luce bruciati in un secondo. Pam! Di scatto accesi la luce e mi sedetti sul letto. Istintivamente diressi lo sguardo a sinistra, verso la finestra, da dove proveniva un sibilo acuto. La testa di Ray Liotta aveva sfondato il vetro, i suoi occhietti mi scrutavano con crudele passione: sono qui, caro! Dietro di lui, 300.000. Mi sfregai gli occhi per sincerarmi della realtà, se non stavo con i piedi in un brutto sogno. Era un incubo reale. La fine o l'inizio di una caccia all'uomo: dipendeva dai punti di vista. Non era questione di ore e minuti, ma di secondi. Era scontato, no? No. Del surplus di sfiducia, in quel momento, non me ne facevo un bel niente. C'ero dentro fino al collo. Il terrore non mi paralizzò. Appeso a una parete della stanza da letto, c'era un'arma che, in un modo o nell'altro, era legata ai topi. Da anni temevo che i topi d'appartamento sarebbero venuti a farmi visita. Se non fossi stato in casa, mi avrebbero portato via la chitarra, il computer e le altre poche cose che potevano valere qualcosa. In caso contrario, mi sarei difeso. Si trattava di un lungo pugnale tailandese acquistato a Chang Mai, nel 1986. Manico semplice in legno scuro, lama ricurva e intarsiata, lunga oltre due spanne. Una piccola spada. Portarlo in Italia era stato un giochetto da ragazzi. L'avevo messo in valigia, avvolto nei vestiti, e a Linate gli sbirri non mi avevano degnato di uno sguardo. Nulla da dichiarare. Sinceramente non sapevo cosa farmene di quell'aggeggio. Era un souvenir e basta, la difesa contro i ladri era diventata una giustificazione en passant, che in seguito s'era trasformata in convinzione per non buttare o regalare l'arma a un potenziale serial killer. Era pronto. Il colpo ce l'avevo addosso da tempo, anche se non avevo mai tranciato di netto nemmeno una banana, prima di allora. Ray Liotta e i suoi 300.000 premevano sul vetro. Ancora qualche spinta e la mia casa sarebbe stata spazzata via da un uragano puzzolente. Mi alzai in piedi e sfilai il coltello dalla custodia di legno. La testa di Liotta sbucava dal vetro come quella di un cervo imbalsamato inchiodato al muro. L'espressione era sempre la medesima: arrogante. Andai giù con tutto il disagio che un brusco risveglio produce, il disgusto profondo che mi tormentava da settimane, la rabbia per un sopruso uscito dalle fogne. Gliela staccai di netto. Rotolò sul pavimento come il gomitolo inseguito dal gatto, e terminò la sua corsa sotto il letto. Ero il miglior boia in circolazione. Non ebbi il tempo di gioire, presi la roba da vestire e mi spostai in salotto. Mentre chiudevo la porta della stanza alle mie spalle, i vetri scoppiarono. Cosa avrebbero fatto i 300.000 senza il loro capo? Uscii di casa di corsa, addosso una t-shirt e i pantaloni, un maglione dolcevita e una giacca di pelle nera in mano. Con gli scarponi ancora da allacciare saltai sui topi appostati sul balcone. Temevo di non trovare più Caio, ma quando vidi la luce accesa del suo appartamento, tirai un respiro di sollievo. Bussai e lo invocai urlando a squarciagola. Il tempo per la resistenza fuori al freddo si contava come i secondi su due mani. Aprì immediatamente. La mia foga quasi lo scaraventò a terra. "Calmati" mi suggerì. "Se hai cambiato idea, avrai il tempo di sfogarti." Lui e l'avvocatessa stavano per uscire, pronti ad affrontare il nemico in quella che Caio aveva ribattezzato la "soluzione finale". Per noi, o per loro. Raccontai della decapitazione di Ray Liotta. "Lo avrei fatto anch'io" commentò Caio. Erano un po' risentiti e freddi per il mio comportamento, ma ero certo che si sarebbero ripresi velocemente. Non mi fecero il terzo grado, mi lasciarono vestire e quando ebbi finito annunciai che ero pronto. L'avvocatessa, nel suo timore malcelato, abbozzò un sorriso. Caio ripassò brevemente il piano, poi prese la pistola da un cassetto e la infilò nei pantaloni. “Tagliamo la testa al topo!" LA SOLUZIONE FINALE Mai come in questo momento era il fine che contava. Le luci dei lampioni erano fiammelle sciupate. Camurria e Madame Paralume aspettavano lo tsunami rattoso dentro casa. La schiena diritta, nonostante l'età. Il maremoto delle fogne non le spaventava. Per tenere a bada i ratti spargemmo un paio di manciate contro i muri. Le bestiacce intuirono immediatamente chi erano i padroni della sbobba e subimmo un attacco fulmineo. Spiazzati e impauriti, lanciammo a casaccio e Dulcinea finì contro gli ingressi di Madame Paralume e Camurria. Le loro urla in siciliano e calabrese, mischiate al fischio dei topi, ci accompagnarono fino all’auto. Angela si mise al volante. Nonostante si fosse ripresa, non era nelle condizioni ideali per pilotare la sua BMW X5 nera fiammante: lenta nei riflessi e troppi sbadigli. Avevamo buone possibilità d'impantanarci in qualche incidente. Mentre lei era tutta intenta a sbadigliare, Caio piazzò sotto il naso dell'avvocatessa una manata di Dulcinea che la fece prontamente starnutire. Mi accomodai tra i sedili posteriori, in mezzo ai sacchi di Dulcinea. Caio si mise accanto ad Angela, che si massaggiava il naso irritato. Le operazioni procedettero in perfetta sincronia. Caio reggeva l’imbuto accanto alla portiera socchiusa, Dulcinea scorreva lungo il piffero e si posava sull’asfalto. Da dietro, servendomi di un mestolo, io gli garantivo i rifornimenti. Ben presto centinaia di topi s’incolonnarono. Sperai che ci fossero anche quelli che mi avevano invaso l'alloggio, orfani di Ray Liotta. L’obiettivo era di raggiungere il lago Sirio, luogo da cui aveva preso corpo l’invasione. Fili di nebbia umida strisciavano lungo le abitazioni. Dalla stazione ferroviaria imboccammo corso Costantino Nigra e, mentre avanzavamo a bassissima velocità, scorgemmo un individuo appollaiato sul muretto della scuola elementare. Aveva in una mano una bottiglia e nell'altra un accendigas con la fiamma che tremolava. Gerri Molotov. I topi se lo sarebbero divorato in un batter d’occhio. Anche con quella bottiglia. Rallentammo. Eravamo quasi i fermi, a rischio accerchiamento. “Cosa vuole fare, quel demente?” chiese Angela. “Il barbecue” rispose Caio, stizzito. “Molotov non ci voleva” commentai. “E’ uno della banda Molotov?” chiese Angela. “Uno specialista.” “Pensavo fossero morti.” osservò lei. Di fronte alla scuola elementare, c'era il negozio di biancheria intima di Piero, l'altro componente della Banda Molotov. I topi avevano oscurato le vetrine, non c’era più un fondoschiena in bella vista. Quanti erano, due-tremila? Forse di più. Sapevo che Gerri aveva intenzione di lanciare la bottiglia contro il negozio. Era la sua vendetta per aver abbandonato la banda e l'amicizia che li legava dall'infanzia. C’era un solo modo per fargliela pagare. Un unico, sicuro, infallibile modo: la bottiglia di fuoco che aveva in mano. Gli faceva un favore da vero amico. Gli friggeva la lingerie, la corsetteria, le natiche plastificate delle mannequin, il registratore di cassa. Via tutto. Piero diventava una vittima della Banda Molotov. Insospettabile. Con una bottiglia e un po’ di carburante, gli lavava i sensi di colpa e chiudeva in bellezza, con l'aggiunta di qualche migliaio di bestiacce arrostite. Gerri ci vide e divenne nervoso. Si muoveva a scatti. “Avvicinati” ordinò Caio ad Angela. La vettura sterzò leggermente verso il bordo della strada e Caio abbassò il finestrino. “Che fai, tiri?” domandò. Molotov scosse il capo, come se non avesse compreso la domanda. Aveva lo sguardo allucinato ed era vestito di nero. “Li arrostisci, o te la squagli?” “Mi stavo chiedendo che cos’era questo sibilo” borbottò, indicando la colonna di topi che seguiva la nostra vettura. “Se non te la batti adesso, non hai più scampo.” “Grazie per il consiglio” disse, infiammando lo stoppino. Attraversò la strada a grandi falcate e poi, quando giunse a pochi metri dal negozio completamente ricoperto da un muro di sorci, lanciò la bottiglia. Un’esplosione incendiò la notte. In un attimo il muro crollò e una moltitudine di schifose creature si agitarono sul pavè con il pelo infiammato. Angela pigiò leggermente sull’acceleratore e spolpò un bel numero di fiammelle ambulanti. Molotov aveva indugiato troppo gustandosi il suo gesto e ora si trovava circondato da topi fumanti e dalla colonna di nuovi piccoli cocainomani. Si guardò intorno diverse volte, poi diresse l’attenzione verso l’unica ancora di salvezza: il nostro veicolo. Spiccò balzi degni di Jesse Owens, spiaccicando i topi sotto le suole come mozzarelle e in pochi secondi ce lo ritrovammo sul cofano della BMW, aggrappato ai tergicristalli. Ci consultammo se farlo entrare o lasciarlo in pasto ai topi. Le sue scorribande ci avevano tenuto svegli a lungo, Angela aveva temuto di ritrovarsi l’auto incenerita. Non era un fior di personaggio da tirarsi dietro, ma la sua bottiglia contro il negozio infestato dai ratti costituiva un concentrato di filantropia cristallina. Gli uomini cambiano, si adattano, sopravvivono, i topi fanno più o meno la stessa cosa. Quindi, o noi o loro. Molotov la pensava alla stessa maniera, ma non era un motivo sufficiente per sposare Dulcinea con il suo propellente. Fummo costretti a caricarlo, altrimenti le pantegane lo avrebbero fatto a pezzi ostruendo il passaggio alla vettura. Molotov puzzava di benzina. Spostò alcune buste e s'accomodò accanto a me. “Dove li state portando?” ansimò, lasciandosi andare contro lo schienale. “A casa” risposi. “Che gli state rifilando per convincerli?” “Chiudi il becco, Molotov.” "Da quando in qua mi chiamate così?" Aveva un'aria di sfida così ingenua che, se non fosse stato per i topi, ci avrebbe fatto tenerezza. "Da sempre." Nei pressi del ponte sulla Dora, di fronte alla fontana dedicata a Camillo Olivetti, scorgemmo un’automobile dalla foggia insolita. Avvicinandosi ci rendemmo conto che si trattava di una banalissima Golf nera, il cui aspetto in lontananza era alterato dalla presenza di due persone accucciate sul cofano e da un televisore piazzato sul tettuccio. “Altri due pazzi!" esclamò Angela. A pochi metri dall’auto, Caio abbassò nuovamente il finestrino. Stava per dire qualcosa, ma non ci riuscì. I due appollaiati sul cofano della Golf, come su una turca, erano Irina e il suo amico Fabio. Gli dissi di averli visti portare via due televisori nella tarda mattinata. "Irina li ha chiamati Saigon e Nagasaki. Le servivano per una festa." "E sarebbe questa?" All'altezza della fontana di Olivetti, due strade confluivano sul Ponte Nuovo della Dora, fatto saltare dai partigiani durante il secondo conflitto mondiale per bloccare la logistica del Terzo Reich tra Torino e la Valle d’Aosta. Sarebbe stato sufficiente cancellare nuovamente il viadotto per bloccare l’avanzata dei ratti verso la stazione ferroviaria e i quartieri nuovi, ma ciò avrebbe intruppato i sorci nel centro cittadino e impedito l’arrivo dei convogli militari da Torino. Il portellone della Golf era stato sbullonato, e nel baule lampeggiava l'altro 28 pollici. Uno all'interno e uno sopra la capote per dare l'effetto di due schermi in funzione piazzati una sopra l'altro. Erano alimentati da un generatore che produceva un fracasso terribile. Una mostruosa e tremolante onda di topi neri era collocata di fronte ai due apparecchi, fulminata. Attorno alla Golf, Irina e Fabio avevano sparso del liquido: un mélange di candeggina, ammorbidente e paraflu. Con quella moltitudine di bestiacce a due passi per loro non c'era via di scampo. Ci fermammo. Poi una voce vellutata aleggiò tra le vampate di luce degli schermi: “Se la sinistra andasse al governo questo sarebbe l’esito: miseria, terrore, morte…” Gli occhietti di migliaia e migliaia di piccoli mandarini si dilatarono, attenti, vittime di un incantesimo. L’esercito rattoso si moltiplicò a vista d’occhio. I due geni della tivù s'abbracciarono, impauriti. Alcune cose non avevano funzionato nel loro piano. Non si erano concentrati sui particolari che sono la fortuna di ogni progetto. Decisero di scappare e scesero dalla parte anteriore della Golf. "Dobbiamo aiutarli!" esclamai. “Non passeremo mai di qui” protestò Angela. “In un modo o nell’altro dobbiamo andare avanti" intervenne Caio. “Tutte quelle bestiacce ce le dobbiamo portare dietro.” “E' qui la festa?” chiesi, indicando il 28 pollici sul tettuccio. Nessuno dei due rispose. Irina fece un gesto stizzoso e corse verso di noi. “Avete un generatore di corrente in macchina?” ansimò Fabio, alle sue spalle. "La nostra macchina è piena di generatori" rispose Caio." “Non sto scherzando!" "Tu pensi che noi stiamo scherzando?" “Ho chiesto se avete un generatore!” insisté Fabio. "Mi serve per far funzionare un flessibile." “Ne avete già uno!” sbottò Caio, indicando la loro auto. “Non ci basta!” Più che un nuovo generatore, gli serviva una spina multipla per attaccare i due televisori e il flessibile. Se l'erano dimenticata. Caio scostò il capo per osservare meglio la moltitudine di sorci. Gran parte di quelli che avevamo stuzzicato con Dulcinea, ci avevano superato ed erano andati a godersi il programma. Temevamo di essere accerchiati, Angela pigiava impazientemente sul pedale dell’acceleratore e continuava a ripetere che attraverso quel punto non ci saremmo mai infilati. Molotov masticava rumorosamente una gomma e sbuffava. “E’ stata un’ottima idea quella di piazzarli davanti alla tivù, ma se non vi date una mossa si stancheranno. Qual è il vostro piano?” domandò Caio. “Vogliamo tagliare la ringhiera e buttare la macchina in Dora con tutti i topi" rispose Irina. "Ma senza flessibile non si fa niente. Voi?” “Li portiamo al lago Sirio.” Toccai la spalla di Caio e suggerì che la cosa migliore sarebbe stata unire le forze: i nostri e i loro topi. “Si potrebbe fare” fece Irina. “C’è solo un problema: da qui non possiamo più muoverci.” Fu Molotov a proporre di caricarli in macchina, nel baule della X5. Prima, però, i due Einstein dovevano spegnere i televisori. Non era il caso di mettere gli invasori di fronte a una scelta spinosa: Dulcinea o etere? Bisognava fare in un lampo. “E’ sufficiente premere un interruttore” spiegò Fabio, aggiustandosi il cappello di lana sulla testa. Affiancammo la Golf. Fabio entrò nell’abitacolo e iniziò ad armeggiare intorno al generatore. Lo spostò sul sedile del passeggero, curandosi di non tirare alcun filo elettrico. Scese dall’auto, ci guardò, il dito puntato su un interruttore posto al centro dell’erogatore di corrente. Irina, seduta nel baule, teneva una mano appoggiata alla maniglia interna del portellone. Accadde tutto in un secondo. Fabio premette l’interruttore e le televisioni si oscurarono. Una sorta di ululato si levò in mezzo all'onda puzzolente. I topi non sapevano più cosa fare, si muovevano come impazziti, e noi sfruttammo il momento di panico per transitare a tutta birra in mezzo ai quei luridi spettatori. La costosa BMW sobbalzò per una trentina di metri, tanto era estesa la striscia di sorci che si erano goduti lo show. Fu una strage piena di tensione, ma voluta e portata a termine con successo. Rallentammo e riprendemmo a spargere Dulcinea. Dopo qualche minuto di completo smarrimento, i topi ripresero a seguire la nostra vettura. Facemmo un veloce giro di presentazione con i due geni della tivù. Non fecero una piega quando presentammo Gerri come il signor Molotov. "Non immaginavo che fossi tu, il bastardo" commentò la bielorussa. Molotov non fece una piega: la popolarità cominciava a piacergli. Oltrepassammo il ponte sul fiume e proseguimmo per il Lungodora. Non c’era sbirro o anima viva in giro e, per quel che riguardava la guida di Angela, questo giocò a nostro favore. All’altezza della piazza del mercato, svoltammo a destra per il Lago Sirio. La colonna alle nostre spalle s’ingrossava a vista d’occhio. Caio si lamentò del braccio indolenzito e chiese una sigaretta. Angela infiammò una Merit e gliela fece tirare dalla sua mano. Molotov, Fabio e Irina osservavano la schiera di roditori in una sorta di silenzio religioso, stretti in mezzo alle borse di Dulcinea. Davanti al campo da tennis dei Canottieri, ci ricordammo che, poco più avanti, una sbarra impediva alle automobili di scendere verso il lago. Eravamo obbligati a proseguire fino ai bagni Moia. Dopo un buon quarto d’ora percorso a passo d’uomo, giungemmo in riva al lago. Avevamo quasi terminato Dulcinea e una moltitudine di bestie voraci ci seguiva. La luna piena si specchiava sul lago ghiacciato. Una sensazione di orrore ci percosse da cima a fondo: la temperatura polare aveva congelato le acque del Sirio. I topi erano usciti in cerca di cibo e non erano più potuti rientrare in acqua, nelle fogne che scaricano nel lago? Erano rimasti “intrappolati” fuori? Chi poteva saperlo? Fino a pochi anni prima, il Sirio rappresentava la playa degli eporediesi, mentre ora era la Malibu del sorciume: un’immensa chiavica a cielo aperto che d’estate emanava un lezzo insopportabile. Sulla superficie gelata giacevano pietre e pezzi di legno, probabilmente lanciate per verificare la consistenza del manto ghiacciato. Non c’era verso di rispedire i topi nella cloaca morenica con il supporto della sola Dulcinea. Avremmo potuto spaccare il ghiaccio, ma quanto ci sarebbe voluto? E poi, chi s’azzardava a uscire? L’orda schifosa spingeva alle nostre spalle, intontita ed euforica al tempo stesso, ingorda fino all’inverosimile. La X5 prese a tremare. Angela si mise a gridare, poi ingranò la retromarcia e ne stese un numero imprecisato. “Non è questa la soluzione migliore” reagì Caio, sempre più nervoso. “Avanti!” esclamai, indicando il lago. “Dovrei lanciarmi dentro con la macchina?” “Non abbiamo scelta. Dobbiamo rompere il ghiaccio e trascinarli in acqua.” “Ha ragione lui” intervenne Molotov. “Io riprendo a seminare la polvere rimasta, tu ingrani la prima e procedi lentamente fino a quando non arriviamo sulla giasa” spiegò Caio. Angela si portò un dito alla tempia e riprese a starnazzare: “Siete suonati. La BMW m’è costata una fortuna, non la butto nel lago perché l’avete deciso voi!” “L’hanno deciso loro” puntualizzai, sollevando il mento verso i ratti, giunti all’altezza dei tergicristalli. “Se preferisci essere divorata…” aggiunse Caio. “Sgommare da qui, ecco ciò che farò!” “Ma quelli ci seguiranno fino a Ivrea!” intervenne Irina. “Dipende dalla velocità. Io scarico i cavalli della BMW, poi ci penseranno i soldati.” “Cavalli un corno! Non ha importanza se vai forte o piano” osservò Fabio. “Ci vedranno andare via e seguiranno quel poco di polverina rimasta sulla strada” aggiunsi. “Dobbiamo buttarci con la macchina nel lago e basta” concluse Molotov. Impossibile convincerla. L’avvocatessa avrebbe preferito dare in pasto la sua città ai topi e all’esercito, piuttosto che sacrificare la X5. Ingranò la retromarcia e spappolò masse di bestiacce. Se l’avessero pizzicata quelli dell’Associazione Animali, su cui pesavano diverse responsabilità per il mancato intervento da parte della pubblica amministrazione, non le sarebbe bastata tutta la sua scienza giuridica per evitarle la forca. Dopo la retro, mise la prima e s’avviò verso Ivrea. In poco meno di cento metri mise sotto migliaia di topi. Un bel lavoro, tuttavia insufficiente a sistemare la nostra causa. Fu grazie a Caio se, personalmente, scoprii dove è collocato il confine tra un uomo comune e un pusher. Nel politically correct. Tollerante della propria intolleranza. Il pusher non applica forme di discriminazione. Donne e uomini sono veramente uguali. Per lui esiste l’azione legata a fatti contingenti. Caio impugnò il freno a mano e la BMW sobbalzò su se stessa, con uno stridio di gomme da lacerare le vene. Angela reagì rifilandogli una gomitata che parò facilmente. Aveva il piede pigiato sull’acceleratore, la cloche del cambio bloccata sulla folle dalla mano di Caio, le urla che rimbombavano nell’abitacolo: in pochi secondi s’era trasformata in un’isterica in piena crisi depressiva. “Dimmi se sei andata a letto con lui!” protestò Caio, avvicinando la faccia a quella di Angela. “Devo saperlo!” “Che storia è questa?” chiese Irina. “Non t’impicciare” gli consigliai. I topi avevano accerchiato l’automobile e s’apprestavano ad avvolgerla. Intercettavano l’odore di Dulcinea che proveniva dall’interno. Angela tirò un lungo respiro e parve riprendere il controllo di se stessa. “Perché lo vuoi sapere?” lo interrogò, sfidando il suo sguardo. Era quello che Caio voleva. Un attimo. Uno solo. Eguaglianza assoluta. Poi la sua fronte scattò come una molla e centrò in pieno il setto nasale di Angela. Tum! Due rivoli di sangue s’incrociarono sulle labbra, l’avvocatessa s’afflosciò sul sedile come un sacco di nylon vuoto. Si picchiano anche le donne. Quando serve. Senza indugi inclinammo il ribaltabile del guidatore e spostammo dietro il suo corpo esanime, la testa appoggiata sulle gambe di Gerri Molotov, dopodiché tornammo sulla rampa di lancio. Un bel massacro di ratti anche stavolta. Il lago era davanti ai nostri occhi, duro. Mai stato così duro. Insieme ai miei coetanei, avevo trascorso le estati della mia adolescenza nelle sue acque, partendo dal quartiere di San Grato in bici o in autostop, di nascosto dai genitori. Avevo imparato a nuotare, a flirtare sotto il sole di luglio, avevo messo in crisi certi amori conoscendo nuove donne. Nel Sirio erano annegati degli amici, mi ero tuffato con la Vespa, avevo fatto a botte con diversi ragazzi ed ero stato derubato. Una memoria forte rimossa dal tanfo continuo, dalle troppe stagioni passate senza farci un bagno dentro. Quanti luoghi abitavano tra i miei ricordi puzzando di marcio? Impossibile contarli tutti. Eravamo pronti. Aprimmo un finestrino e gettammo qua e là della polvere per allontanare i topi. Saltammo fuori poco prima che l’auto posasse i pneumatici sulla superficie gelata. Sorreggevo Angela sulle spalle, il sangue che colava dal naso scivolava sulla mia giacca di pelle nera. La vettura scivolò in avanti per qualche metro, quindi si bloccò. Restammo impietriti a osservare quello che speravamo non accadesse. Se il ghiaccio non si spaccava, addio. Caio non si perse d’animo e sparse ciò che restava dell’ultima borsa di Dulcinea sul retro della vettura. Ma non accadde nulla. Sfilò la Beretta dai pantaloni e svuotò il caricatore sul ghiaccio. Mucchi di topi schizzarono per aria, ma non la crosta gelata non si ruppe. Sconfortato, tirò anche la pistola contro la BMW. "Le bombe!" esclamai. "Lancia le bombe!" "Le ho lasciate a casa, cazzo!" “Siamo spacciati” frignarono Irina e Fabio. “No" disse Molotov. "Ci penso io.” Dall'interno del giaccone tirò fuori una champagnotta con della benzina. Tolse il tappo e c’infilò dentro un fazzoletto arrotolato. “Te le porti in giro così?” gli domandai. “Quando serve” rispose, agitando la bottiglia verso Caio. Da una tasca sfilò l’accendigas e infiammò il fazzoletto. “Addio, bestiacce schifose!” Un lancio perfetto contro il portellone posteriore della BMW. Un boato. Fuoco, topi e carburante rotolarono sul ghiaccio, la vettura fu avvolta dalle fiamme. Una serie di gemiti sinistri si sollevarono dal tappeto di freddo, poi un grido lancinante squarciò la notte, soffocò il sibilo emesso dai ratti che avevano preso d’assalto le ultime pagliuzze di Dulcinea. Erano talmente tanti che si muovevano uno sopra l’altro, mordendosi a vicenda. Un odore rivoltante ci stritolava l’olfatto. Il ghiaccio si ruppe con un tonfo. La costosa X5 affondò nel giro di pochi secondi portandosi dietro i topi. Pochi riuscirono a raggiungere la riva, gli altri rimasero congelati. Tornammo indietro esausti. Camminavo accanto ad Angela, che si tamponava il naso maledicendo Caio. Molotov continuava a ripetere che aveva fatto un buon lavoro. Fabio e Irina procedevano abbracciati, senza fiatare. La città era libera dai topi. Bella come mai. Vivibile. Strada facendo, per un attimo immaginai il lago ripulito, riossigenato, un ecosistema che ricercava il suo equilibrio. Ma con tutti i topi che aveva dovuto inghiottire, sarebbe stato meglio seppellirlo con un'immensa colata di cemento, come il sarcofago piantato sul reattore 2 della centrale di nucleare di Chernobyl. Non c’eravamo accorti del tempo trascorso, mancava infatti poco all’alba. A Porta Vercelli incrociammo la prima colonna di blindati. Erano carichi di militari venuti a ripulire la città infetta. Quella vista minacciosa cancellò l’allegria per la nostra impresa. I militari erano scortati da alcune vetture dei carabinieri. Una di queste, una Punto, si fermò accanto a noi. Uscirono due carabinieri, alti più o meno uguali, uno con il pizzetto e le basette, l’altro completamente calvo. I loro occhi vorticavano carichi di diffidenza. Avevano la rivoltella in pugno e ci chiesero cosa ci facevamo in giro a quell’ora. “Prendiamo una boccata d’aria” risposi. “Favorite i documenti.” Mentre ci apprestavamo a tirare fuori le carte d’identità, Angela ed io ci rendemmo conto che Caio, Molotov, Irina e Fabio erano spariti. Non se n’erano nemmeno accorti i militari infreddoliti e infagottati che ci osservavano dai blindati. “Cosa l’è capitato?” chiese ad Angela il carabiniere calvo, dopo aver controllato i documenti. “Ho battuto” rispose lei. L’occhio di entrambi i militi cadde improvvisamente sul piffero che spuntava dalla tasca della mia giacca. Caio l’aveva staccato dall’imbuto mentre la macchina sprofondava nel lago. Sprovvisto di tasche profonde nel suo giubbotto, mi aveva chiesto di tenerglielo. “Magari su quello?” ironizzò il milite con pizzetto e basettoni, indicando il piffero. “Faccia un po’ vedere…” Glielo porsi. Era un militare di stanza a Ivrea, poiché riconobbe al volo lo strumento e fece un commento sul Carnevale che si sarebbe celebrato da lì a un mese. Stava per restituirmelo, quando s’accorse che il piffero gli aveva lasciato un’ombra bianca sul guanto nero e lo trattenne. Io da una parte, lui dall’altra. Mollai la presa poco dopo. “Che roba è” gli chiese il collega calvo. L’altro annusò il guanto, poi se lo tolse, infilò un mignolo nel piffero e se lo leccò. “Sembra zucchero vanigliato” rispose, facendo scorrere la lingua sul palato. Rificcò il mignolo nello strumento e verificò nuovamente. “Ha uno strano gusto…” I due ci osservarono, seri come la morte, e mi sentii nei guai. Un blocco di cemento si posò sul mio stomaco. Prima di salire sulla pattuglia, scorsi Caio e Molotov che ci osservavano rintanati dentro lo sportello bancomat dell’Istituto Bancario San Paolo di Porta Vercelli. Degli altri due nessuna traccia. Angela fu rilasciata subito. Raccontò di essersi fatta male da sola in casa. Aveva il setto nasale rotto e la portarono in ospedale. Il carabiniere che mi torchiò era un uomo maturo, fronte spaziosa, denti gialli, naso aquilino e uno sguardo penetrante come una spada. Esordì scandendo il mio nome e cognome, quindi, dopo una pausa scientifica di mezzo minuto, fece una precisazione, quasi volesse farmi sentire un divo dell’assistenza sociale: "Detto Nico Pazzia." In quella situazione, il suo sarcasmo mi faceva solletico. Voleva accertarsi sui miei movimenti della sera precedente. Era difficile ammettere la verità, di avere derattizzato la città con l'aiuto di una miscela di cocaina e zucchero a velo, ma non avevo altra scelta se volevo alleggerire la mia posizione. Dissi tutto, tenendo fuori da questa vicenda il fornitore e inventore di Dulcinea e il suo avvocato. Dopo un sopralluogo, i carabinieri assodarono la veridicità delle mie affermazioni. Anche se dubitavano della mia azione solitaria, ricevetti un sacco di complimenti dagli stessi militari. Un po' divo, ma non lo davo a vedere. L’unico ostacolo che m’impediva un pronto ritorno a casa, era la coca: dove e come me l’ero procurata? Non avevo sotto mano degli albanesi come capri espiatori. Era sempre la solita storia. Elimini milioni di persone per instaurare il culto della personalità e sei un eroe, debelli la piaga dei ratti che hanno invaso la tua città e ti bollano come un narcotrafficante. Non era mio compito derattizzare la città. Avrei dovuto seminare Dulcinea fino alla caserma dei Carabinieri! Con i bazooka i gendarmi avrebbero affrontato l’invasione come solo loro sanno fare. Io avevo usato cipria colombiana e zucchero per i dolci. Logorio d’equità. Fu come impantanarsi in una fogna, a brancolare nel buio con 300.000 topi alle calcagna, soprattutto quando raccontai al mio aguzzino che, in precedenza, avevo cosparso la città di lettere di Sant’Antonio. Non l’avessi mai fatto! Il blocco di cemento sullo stomaco divenne un palazzo d’angoscia. Il carabiniere assunse un sorriso sadico, pura perfidia che strisciava sulle labbra. “Balle!” ripeté diverse volte. “Da qualche tempo gli spacciatori hanno tutti lo stesso alibi: Sant’Antonio e la sua catena!” “E’ una questione di sventure...” “Non mi pare che le stia andando molto bene” osservò il carabiniere. “Ho liberato la città dai topi.” “Ci avrebbe pensato i soldati, senza utilizzare sostanze proibite.” Mi comunicò che l’esercito aveva portato a Ivrea cinque tonnellate di rodenticida cinese. Grazie a Dulcinea non era stato necessario. Ma il conto a Pechino qualcuno lo doveva pagare. Lettere dal Michigan: balle. Derattizzazione abusiva: balle. “Si procuri un buon avvocato” mi consigliò il carabiniere. La mia vita cambiava improvvisamente. In galera non c’ero mai stato. Era tutto così nuovo. Avevo talmente tanto tempo a disposizione, che la noia soffocava l’autocommiserazione. Mio nonno sosteneva che un uomo, per essere tale, deve guardare il cielo dietro le sbarre di una cella. Dormivo otto ore filate, non mi spalmavo più l'aglio sulla calvizie, i pasti erano regolari e variegati (pizza una volta la settimana), su una parete c’era un poster con una playa di Bora-Bora, sull’altra il calendario di una bambola dell’Est, non avevo l’ansia di cercare un lavoro e di pagare il canone Rai. Per la maggior parte dei miei compagni di delinquere ero un eroe, per altri un gran pezzo di stronzo: se i sorci avessero assalito il penitenziario, in molti sarebbero evasi. Anche in una prigione sopravvivevano le illusioni. Di Caio non ebbi più notizie. Mi aveva spedito un pacco con tutti i cd di Buscaglione e due righe di congedo: erano spariti tre chili di coca e spariva anche lui. Adios, amigo. Non ero mai stato così in forma. Non so come, con quale artificio, ma in carcere avevano clonato l’idea di libertà, e a trentacinque anni avevo scoperto il mio mestiere preferito: spedire lettere della Catena di Sant’Antonio ai carabinieri di tutta Italia. Il mio legale, una bella donna che senza volerlo s’era appisolata sul tavolo della mia cucina, mi consigliava di restare tranquillo se le lettere non tornavano indietro. “Rilassati. Quando esci ti porto a cena fuori...” Se tutto fosse filato liscio, avrei continuato a sognare i topi. Adesso ero qualcuno. Nico Pazzia.