Progetto Babele Speciale Inverno 2008 EDITORIALE PB Speciale Inverno 2008 a cura di Marco R. Capelli - marco_roberto_capelli@progettobabele.it Ogni tanto, così, quasi per scherzo, mi capita di firmare un editoriale per Progetto Babele. E’ un po’ come ritrovarsi tra vecchi amici: non hai l’ansia di non saper cosa dire perchè, anche se si rimane in silenzio, ci si capisce comunque. Certo che, di cose, ne sono successe in questi sei anni... Non tutte positive, ovviamente. Come potrebbe essere diversamente? Però PB è ancora vivo, pulsante. Ancora pieno di potenzialità inespresse che, magari, è vero, resteranno per sempre tali, ma che contribuiscono comunque a dare profondità, spessore e personalità ad una rivista da sempre sui generis. Come sui generis è questo editoriale. Per una volta, infatti, non vi illustrerò i racconti che troverete in questo speciale (ventuno in tutto le firme, vecchie e nuove conoscenze): a voi il piacere - ed il brivido - di addentrarvi tra le pagine di PB per la prima volta senza l’ausilio di un - per quanto indegno - Virgilio virtuale. Occuperò, invece, questo spazio per ringraziare quanti ci hanno seguito fin qui ed avranno la cortesia di farlo ancora. Ci sono grossi cambiamenti nel futuro della rivista, nuovi collaboratori e nuove risorse che, se tutto va come previsto, ci consentiranno di recuperare la periodicità perduta e di rimetter mano ai tanti - troppi - progetti sospesi. Nel frattempo, godetevi questo Speciale Inverno che arriva, è vero, al limitare della primavera. Ma trattandosi di una primavera incerta ed un po’ uggiosa, almeno dalle mie parti, si adatta comunque ancora bene alla stagione in corso. Un cordialissimo saluto e... buona lettura. Marco R. Capelli INDICE PBSpeciale Inverno 2008 I I RACCONTI Il predestinato di Heiko Caimi Cater di Alessio Iarrera Cronoloop di Vittorio Baccelli Cul de sac di Stefano Crupi Dieci giorni di Paolo Bertoli Gli ultimi uomini di Lorenzo Paletti Il cane giallo di Luca Bidoli Il sole e la luna al banchetto di Gino Luka Il primo funerale nella terra delle formiche di Ales.Cascio L'urlo di sabbia di Salvatore Mulliri La cappella espiatoria di Gianni Caspani La bambina delle lacrime di Elisa Lai La musica dentro di Miriam Ballerini La porta di Giuseppe Costantino Budetta La scala dei ricordi di Gordiano Lupi Lui e Lei di Carla Montuschi No more heroes di Simona Scionti Promessa in chiave di Sol Paolo Campana Settembre di Valeria Francese Soddisfatti o Redenti di Marcello Falco Umani di Gianluigi Lancellotti. NOTA SULLE ILLUSTRAZIONI Tutte le immagini utilizzate sono state scelte o perché prive di copyright o perché l’utilizzo è stato preventivamente autorizzato dagli autori. In caso, per errore, avessimo inserito una immagine protetta da copyright, ci scusiamo anticipatamente e chiediamo cortesemente all’autore di informarci così da poter procedere alla rimozione dell’illustrazione di sua proprietà. Ricordiamo comunque che Progetto Babele è una iniziativa “no profit” e che nessun beneficio economico deriva dalla diffusione della rivista. NOTA SUI DIRITTI D'AUTORE I diritti sui testi presentati in questo numero di PROGETTO BABELE sono e restano dei rispettivi autori che prestano quanto pubblicato a puro titolo di favore. Pertanto, ogni riproduzione, anche parziale, non preventivamente autorizzata dall'autore è da considerarsi una violazione del diritto di copyright. Resta inteso che gli autori si assumono piena responsabilità per quanto riguarda il contenuto e la proprietà delle loro opere. PROGETTO BABELE redazione@progettobabele.it Capo Redattore: Marco R. Capelli marco_roberto_capelli@progettobabele.it Redazione e editing: Carlo Santulli csantulli@progettobabele.it Dario Alfieri protonotaro@yahoo.it Resp. sez. Poesia: Pietro Pancamo pipancam@tin.it IMPAGINAZIONE: Marco R. Capelli, Dario Alfieri Editing: C.Santulli, Marco R. Capelli, D.Alfieri Foto di copertina di LUIGI SCUDERI Elab.grafica Marco R. Capelli Progetto Babele è una pubblicazione aperiodica senza fini di lucro a cura dell’Associazione Letteraria Progetto Babele. PB non rappresenta una testata giornalistica in quanto parte integrante del sito omonimo che viene aggiornato senza nessuna periodicità e che non si può quindi considerare un prodotto editoriale ai sensi della legge 62 del 7-03-2001 Eventuali utili (qualora ve ne fossero) vengono reinvestiti nelle attività culturali dell’Associazione. La collaborazione è libera, gratuita e subordinata solo al giudizio, inappellabile, della redazione. Tutto il materiale può essere inviato seguendo le istruzioni riportate sul sito. WWW.PROGETTOBABELE.IT PBSI2008 VERSIONE 1.0 - 10-03-08 pg.3 pg.8 pg.10 pg.12 pg.16 pg.19 pg.21 pg.22 pg.23 pg.26 pg.30 pg.33 pg.34 pg.35 pg.37 pg.38 pg.39 pg.40 pg.43 pg.46 pg.51 Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Il predestinato di Heiko H. Caimi "Non ci sono errori nell'esistenza, tutto è giustificato dalla grandiosità dell'obiettivo, dal brillante futuro che vogliamo". (Rogelio Iriarte) I quattro uomini sedevano nelle lussuose poltrone dell'ufficio, attorno ad un tavolino in vetro sul quale erano posati altrettanti bicchieri ed alcune bottiglie di liquori. Nonostante i doppi vetri, l'agitazione esterna penetrava nella stanza: suoni attutiti di canti e grida. Il direttore sudava copiosamente, e si stava asciugando la fronte con un fazzoletto. La luce del lampadario gli illuminava il capo e metteva in risalto la fronte lucida. -Nessuno la ritiene responsabile-, lo rassicurò il presidente, che sedeva composto di fronte a lui. Il direttore lo guardò di sfuggita, poi tornò a posare gli occhi sul consigliere, che sorrideva serafico alla sua sinistra. Aveva già visto altre volte quell'uomo, sempre in compagnia del presidente, ma non aveva mai saputo chi fosse. O, meglio, tutti sapevano che era il consigliere del presidente, ma nessuno ne conosceva il nome o la provenienza. Anche il suo accento era neutro, perfetto come la dizione di un attore consumato. L'uomo nell'ombra, invece, non lo aveva mai visto prima. Il presidente glielo aveva presentato come un onorevole, e aveva anche citato il suo cognome, ma non lo aveva mai sentito nominare prima. Eppure il suo volto gli era in qualche modo familiare, anche se non avrebbe saputo dire dove e quando lo avesse già visto: era come un ricordo ancestrale, che riemergesse dal passato. Ma non ricordava di averlo mai conosciuto prima. -Lo so-, rispose il direttore, -ma gli uomini là fuori sono infuriati. Non so per quanto tempo potremo ancora resistere prima che facciano qualcosa-. -Che cosa teme?- gli chiese il presidente, fissandolo negli occhi. -Temo che comincino a danneggiare le strutture- rispose il direttore. -E poi sa dio che cosa sono capaci di fare. Non li ho mai visti così compatti e aggressivi. Ho paura che prima o poi la loro rabbia esploda, e a quel punto non so quali potrebbero essere le conseguenze-. -E' normale- intervenne il consigliere senza che quel sorriso da serafino divertito gli abbandonasse il volto. -Hanno paura. E quando gli uomini hanno paura, o scappano o diventano aggressivi. Quando sono in molti, di solito diventano aggressivi-. -Non so come faccia a restare così calmo-, gli rispose il direttore. -A quelli basta un pretesto per esplodere. E a quel punto non so come faremo a fermarli-. -Ma non dobbiamo affatto fermarli- precisò il consigliere. -Che cosa vuole dire?- domandò il presidente, con quieta curiosità. -Dobbiamo assecondarli- affermò il consigliere sorridendo ampiamente. -Vuol dire che dobbiamo riaprire la fabbrica?- chiese allarmato il direttore. -Anche questo, anche questo- confermò il consigliere. -Ma ogni cosa a suo tempo. Prima dobbiamo pensare agli alcolici-. -Agli alcolici?- chiese il direttore guardandosi intorno smarrito, e cercando inutilmente nel volto del presidente un eguale smarrimento. -Si, agli alcolici- ribadì il consigliere. -Whiskey, Gin, Cognac, Courvoisier eccetera eccetera. Ma, mi raccomando, tutti prodotti di qualità-. -Ma… Ma… Ce n'è quanti ne vuole, di là. Basta…- Non sono per noi, direttore-. -Ah, no? E per chi sarebbero, allora?-. -Per gli operai-. -Ma lei è impazzito!- strillò il direttore, schizzando dalla poltrona. -Si calmi, per favore- lo esortò il presidente. -Ma si rende conto di quello che dice?- gli chiese il direttore. -Mi rendo perfettamente conto- disse il consigliere, sempre serafico. L'uomo nell'ombra osservava la scena con un sogghigno, senza dire una parola. -Si sieda, per favore- lo invitò il presidente. Il direttore lo guardò, sempre più smarrito, poi obbedì, tornando a tergersi la fronte con il fazzoletto. -E poi dobbiamo trovare un dirigente- proseguì il consigliere. -Un dirigente sacrificabile-. -Sacrificabile?- chiese il presidente. -Si, qualcuno che non abbia una posizione troppo rilevante, che non abbia appoggi politici e che sia particolarmente detestato dagli operai-. Tre sguardi interrogativi si puntarono sul direttore, che restò muto a mulinare la testa da uno all'altro. Erano tre sguardi sostanzialmente differenti: il consigliere gli poneva l'implicita domanda con un sorriso da primo della classe; il direttore gliela imponeva con un'occhiata autoritaria; l'onorevole glielo proponeva con uno sguardo luciferino. Non ci stava capendo niente e, man mano che si evolveva, la situazione gli sembrava sempre meno comprensibile. Sapeva della fiducia di cui godeva il consigliere, ma non si aspettava che la sua voce fosse legge. -Allora?- lo incitò il presidente. Non gli veniva in mente proprio niente. Niente e nessuno. -Qualcuno che sia riuscito a raccogliere tutte le antipatie degli operai-, cercò di soccorrerlo il consigliere. Il direttore lo guardò, e si perse in quello sguardo azzurro, serafico come il sorriso. Ma un'immagine si stava facendo strada nella sua mente. Un volto, un individuo preciso. Come si chiamava il direttore del personale? Ottavio, si, Ottavio. C'era l'abitudine di chiamarsi per nome, tra dirigenti. Una regola che aiutava l'informalità. Apparente, questo è ovvio. Una tattica che aveva sempre adottato, in tutte le fabbriche nelle quali aveva lavorato, e che si era dimostrata vincente. Però a volte gli sfuggivano i cognomi. Qual era il cognome di Ottavio? Pur… Par… Perucca? No… Parrucca? Forse Parussa… Gli sembrava uno scioglilingua. Si ricordava che era un cognome poco diffuso, un cognome del sud. Par… Par… Ah, si, ecco… Progetto Babele Speciale Inverno 2008 -Paruscia!- esclamò sorridendo, come uno studente che abbia appena rammentato il dato che gli farà superare l'esame. -Paruscia?- gli chiese il presidente. -Si, è il direttore del personale-, chiarì sollevato il direttore. Era certo che fosse il tipo di persona che cercavano. Anche perché allo sguardo luciferino dell'onorevole si era improvvisamente aggiunta l'espressione soddisfatta di un gatto che ha appena divorato un topo, come se sapesse esattamente di chi stesse parlando e fosse in accordo con la sua scelta. -Mi racconti di questo Paruscia- lo sollecitò il consigliere. -Che cosa vuole sapere?-. -Solo l'essenziale. Chi è, da dove viene e che rapporto ha con gli altri operai-. -Beh, è presto detto… Paruscia era uno di loro…- Bene-. -Un operaio, voglio dire…- Perfetto-. -Un gran lavoratore, già non molto amato per questo-. -Ottimo-. -E proprio per questo è stato promosso capo settore-. -E a questo punto è stato ancora meno amato…- intervenne il presidente. -Si, proprio così- confermò il direttore. -Prosegua…- lo invitò il consigliere. L'uomo nell'ombra si sfregava le mani come un usuraio soddisfatto. -Poi, però, è entrato nel sindacato, ed è stato eletto a rappresentare la fabbrica-. -Ah…- -Si, era un operaio, ma aveva anche studiato. Faceva questo lavoro perché non aveva trovato posto altrove-. -Vada avanti. Dopo essere diventato sindacalista che cosa ha fatto?-. -Ha portato avanti lotte importanti per gli operai. E in quel momento è stato molto popolare. Ma la sua popolarità è durata poco-. -Bene-. -Infatti gli abbiamo proposto un incarico da dirigente-. -E naturalmente ha accettato- intervenne il presidente. -Beh, diciamo che prima ha trattato. Conditio sine qua non per ottenere quel posto era che abbandonasse il sindacato. E non sembrava molto disposto a rinunciare a rappresentare i nostri dipendenti-. -E quindi?-. -Quando gli ho offerto il posto di direttore del personale ha smesso di trattare-. Il direttore stava riacquistando la sicurezza abituale. Si sentiva di aver fatto un buon lavoro, con quel Paruscia. E ne andava fiero. -Ha accattato subito?-. -Senza batter ciglio- disse il direttore guardando il presidente negli occhi. -Hah!- esclamò l'uomo nell'ombra. -E da allora, naturalmente, è considerato un traditore- osservò il consigliere. -Naturalmente- confermò il direttore, compiaciuto. -Direi che il soggetto si presta a quello che ho in mente- sorrise il consigliere. Né il presidente né il direttore osarono chiedergli che cosa stesse architettando. Pendevano ambedue dalle sue labbra. L'onorevole, invece, giaceva in silenzio avvolto dall'ombra, con aria insolitamente allegra. Pareva che stesse giocando, e che si stesse eseguendo un gioco che a lui piaceva molto. -Bene- disse il consigliere rivolto al direttore. -Veda di effettuare un ordine urgente per la consegna di approvvigionamenti per la mensa. E faccia sì che sul mezzo che li trasporterà ci sia una cassa contente superalcolici e con un'etichetta che indichi chiaramente che è destinata a lei. Naturalmente imballata adeguatamente, in maniera che, anche cadendo, non provochi la rottura del contenuto-. -A me?- domandò il direttore, stupito, indicandosi. -Si, a lei- rispose reciso il consigliere. -Ma, naturalmente, lei non la riceverà mai-. E sorrise amabilmente. -Ma allora a quale scopo…- Faremo in modo che cada nelle mani degli operai-. -Ma come? E poi, che senso ha?-. -Ha il senso che ha- intervenne il presidente, fissando il consigliere incuriosito. Il direttore, rimesso al proprio posto, non osò replicare. -Immagini il camion che arriva in mezzo alla folla di scioperantispiegò il consigliere. -Immagini l'agitazione. Immagini la difficoltà ad attraversare quella massa di gente. Ed immagini che, una volta aperti i cancelli, nel trambusto generale cada una grossa cassa, destinata proprio a lei -e indicò il direttore- e contenente superalcolici-. -Se la berranno tutta- osservò il direttore. -Si, e alla sua salute- proseguì il consigliere. -E non solo. Distratti dalla cassa, eviteranno di oltrepassare i cancelli, e avremo il tempo di farli richiudere-. -Ma così diventeranno ancora più feroci!- non poté fare a meno di esclamare il direttore, allarmato. -E' esattamente quello che vogliamo- ribatté il consigliere, parlando a nome di tutti. -Forse non si rende conto…- intervenne nuovamente il direttore. -Non è uno sciopero pacifico. Hanno già abbattuto la statua del presidente, e hanno manifestato davanti a casa mia. Se siamo venuti qui in elicottero è perché l'ultima volta che sono arrivato in macchina mi hanno bersagliato di sassi. Basta un nulla per far scoppiare la scintilla…! Scavalcheranno i cancelli e demoliranno la fabbrica!- Ed è proprio qui che faremo intervenire Paruscia-. -Ma che cosa può fare quel povero cristo?- chiese il direttore, ormai esasperato dall'assurdità di quanto veniva detto e dalla tranquillità dei suoi interlocutori. -Quel povero cristo, come lo chiama lei, è un dirigente- spiegò il consigliere, leggermente spazientito. Sembrava un professore che deve ripetere la spiegazione ad uno studente tonto. -E quindi, che lo voglia o no, è uno di noi-. -Beh, non esageriamo…- intervenne il presidente. -L'importante è che gli operai pensino a lui come ad uno di noi. Il resto non ci interessa. Basta che lo pensino loro-. -Ma perché?- chiese il direttore, che era disposto a sentirsi tonto pur di capire. -Ha idea di quanto ci odiano, e di quanto odiano lei, da quando ha annunciato possibili sospensioni dal lavoro?-. -Certo, se non lo so io…!- E allora noi gli daremo in pasto Paruscia. Che, in quanto direttore del personale, è uno dei loro oppressori. Lo odiano, e lo odieranno ancora di più quando convocheremo un'assemblea e lo faremo parlare davanti agli scioperanti-. -E che cosa dovrebbe dire agli operai?- domandò il presidente. -Quello che noi gli faremo dire. Che le sospensioni dal lavoro sono confermate, che chi non rinuncerà immediatamente al diritto di sciopero verrà licenziato, che non ci sarà cassa integrazione, che non ci sarà alcun rinnovo del contratto, né aumenti salariali, e che gli avanzamenti di categoria sono bloccati-. -Ma non possiamo…!- gridò il direttore, balzando nuovamente in piedi. -Oh, si che possiamo…!-, replicò fermamente il consigliere. Anzi, dobbiamo-. -Ma non ci crederà nessuno!- protestò ancora il direttore. -Oh, sì che ci crederanno. Anche se non è vero. Ci crederanno perché vorranno crederci. Perché sono esasperati, e non ne possono più. E perché alcuni di loro saranno pieni d'alcol, e non saranno più in grado di ragionare-. -Ma così faranno a pezzi l'azienda!-. Il direttore non sapeva più come uscire da quella situazione. Il consigliere era un pazzo, e il presidente del gruppo sembrava prendere per oro colato le sue parole, mentre l'onorevole sorrideva con la stessa felicità di un aguzzino. -No, direttore, non l'azienda- disse il consigliere. -Paruscia. Faranno a pezzi semplicemente Paruscia-. -Ma… Ma…-. -Volete ristabilire l'ordine, no? Volete porre fine allo sciopero e riavviare la produzione, no? E allora questa è la soluzione-. -Ma i sindacati…-. -L'operazione di pompieraggio che hanno fatto i sindacati non è servita a niente. Per questa strada non arriveremo da nessuna Progetto Babele Speciale Inverno 2008 parte. Non li batteremo per sfinimento. Non possiamo più farli star buoni senza dar loro nulla in cambio. E non possiamo lasciare che si astengano ancora dal lavoro. La produzione è ferma, e anche nelle altre fabbriche si sta creando agitazione. Ci vuole una soluzione radicale per ovviare al problema. E l'unico modo è aumentare il disordine per poter tornare all'ordine-. -Vuol dire che faremo intervenire la polizia? Si rischia che ci siano dei feriti, forse anche dei morti, e a quel punto avremo contro anche l'opinione pubblica, e gli operai saranno ancora più feroci-. -No, niente polizia. Non mi ha seguito. Noi non vogliamo un inasprimento delle tensioni. Noi vogliamo porre fine a tutte le tensioni. Non dobbiamo fornirgli un pretesto per una nuova rivolta. Dobbiamo semplicemente fornirgli un capro espiatorio-. -Paruscia?- chiese il presidente. -Paruscia, esattamente- confermò il consigliere. "Uccidere è quasi un istinto naturale nel genere umano, è impossibile estirparlo, non ce l'hanno fatta neppure nei paesi più sviluppati". (Rogelio Iriarte) La mattina seguente un camion ricoperto da un telone attraversò strombazzando la folla di scioperanti, che si spostarono di malavoglia per lasciarlo passare. Alcuni di loro volevano salire sul camion per controllarne il carico, ma non ottennero molti consensi e desistettero. Altri consigliarono di aspettare che al camion venisse aperto il cancello, e poi di entrare in massa nella fabbrica per occuparla. Altri ancora proposero di rovesciare il camion assalendolo in gruppo. Ma nessuno fece niente fino a quando il cancello non iniziò ad aprirsi. Alcuni operai si misero a seguire il camion, pronti ad entrare. Ma proprio in quel momento il telone nel retro dell'automezzo si mosse, e una cassa precipitò all'esterno, rischiando di ferire gli uomini che erano dietro al camion. Il direttore osservava preoccupato la scena, attraverso le telecamere esterne della sorveglianza. Stava sudando, e stava sudando freddo. Bastava un piccolo errore, e quel piano sofisticato sarebbe andato a monte, provocando chissà quali conseguenze. Ma l'uomo all'interno del camion era riuscito a scaricare la cassa senza che nessuno degli operai si accorgesse del trucco, e l'attenzione degli scioperanti più vicini era stata attratta dalla merce perduta. Il cancello si richiuse senza che nessun operaio entrasse. Questa parte del piano era andata a meraviglia. Ma era tutto troppo rischioso. C'era la possibilità che quella macchinazione fallisse da un momento all'altro, e lui era terrorizzato dalle possibili conseguenze. Uno dei cameraman che erano stati assoldati per l'occasione stava filmando la scena da un furgone appositamente parcheggiato all'interno del cancello, attraverso il vetro posteriore oscurato. Il furgone era stato portato lì quella notte, come se volesse uscire, ed era stato bersagliato da una gragnola di sassi proveniente dall'esterno. Il guidatore aveva dapprima invertito la marcia, poi aveva arrestato il mezzo ed era fuggito verso la fabbrica, inseguito da insulti e minacce. Il cameraman, armato di telecamera digitale, attendeva nel retro del furgone di svolgere il lavoro per cui era stato pagato. Gli scioperanti scoprirono l'etichetta sulla cassa, che era destinata al direttore. E, come previsto, l'aprirono, scoprirono il contenuto e incominciarono a passarselo di mano in mano, scolando in breve tempo tutte le bottiglie alla faccia del direttore, e inneggiando alla sua morte. Alcuni finti scioperanti diffusero la voce che la fabbrica sarebbe stata chiusa, e che gli operai sarebbero stati tutti sospesi dal lavoro. A nulla valsero le rassicurazioni dei sindacalisti, che furono trattati a male parole per il nulla che erano riusciti ad ottenere, e si allontanarono per evitare aggressioni. All'inno di "vogliamo lavorare!", gli scioperanti incominciarono ad intonare canzoni di protesta dandosi il tempo battendo con chiavi inglesi, pinze ed altri attrezzi su bidoni vuoti, come i giorni precedenti. Striscioni multicolori riassumevano le varie istanze dei manifestanti. Il direttore continuava a sudare freddo. Si stava per passare alla seconda parte del piano. Gli altoparlanti della fabbrica annunciarono che i cancelli sarebbero stati aperti, e che gli operai erano invitati a raggiungere ordinatamente la sala che era stata loro riservata per le assemblee, e che sarebbero state date loro informazioni importanti sul futuro dell'azienda. Le canzoni cessarono. Un silenzio letale avvolse gli scioperanti. Alcune camionette della polizia arrivarono in quel momento, e si disposero sul margine della strada, ad una cinquantina di metri dall'ingresso. Una ventina di poliziotti armati ne scese e si dispose davanti ai camioncini, sorvegliando gli operai da lontano. Un vociare di protesta si sollevò dalla folla. L'altoparlante ripeté l'annuncio. I cancelli incominciarono ad aprirsi, attirando l'attenzione dei manifestanti. La polizia restava immobile alle loro spalle, come era stato loro richiesto. Avevano l'ordine di non intervenire se non si fossero verificati disordini. Il direttore, sorpreso, osservò gli operai entrare più o meno ordinatamente. Non si aspettavano la convocazione di un'assemblea. La sorpresa aveva fatto intervenire, improvvisamente, una compostezza imquietante. Il cameraman nel furgoncino continuò a filmare la moltitudine che entrava nel cortile della fabbrica, come la lenta sfilata di un funerale importante. Un secondo cameraman, a sua volta dotato di telecamera digitale, li riprendeva in controcampo dall'interno della fabbrica. Un mormorio di stupore accompagnava i lenti passi quasi rassegnati degli scioperanti. Attoniti per la sorpresa, si avviarono con passo pesante verso l'ala della fabbrica che ospitava la sala delle assemblee. Raggiunsero l'ingresso della sala. Lì si sarebbero radunati mentre Paruscia si preparava a comparire. "Paruscia non è un uomo, è solo un simbolo", aveva detto il consigliere al direttore. "Non deve considerarlo come un uomo. Paruscia ci rappresenta tutti. Come dirigente, per loro è come noi, un oppressore, ed è causa come noi della loro sofferenza. Paruscia è un'illusione, una rappresentazione, uno specchietto per le allodole. Non un uomo". Ma quella mattina presto, quando aveva dovuto convocare Paruscia, il direttore aveva visto soltanto un uomo spaurito. E, quando gli aveva riferito che cosa avrebbe dovuto fare, che cosa avrebbe dovuto dire, aveva letto il terrore negli occhi del dirigente. Era come se sapesse che cosa lo aspettava, come se avesse intuito tutto. Ma non si era sottratto all'ingrato compito. Aveva detto "Lo farò!", con la stessa enfasi con cui Garibaldi doveva aver pronunciato "Obbedisco!". Ma si era allontanato con le spalle basse, come un condannato a morte. Cosciente, forse al di là della possibilità di comprenderlo, del proprio ruolo di vittima sacrificale. In fondo Paruscia non era uno di loro, non era veramente un dirigente: nasceva come operaio, e come operaio aveva tradito la sua stessa classe accettando un ruolo dirigenziale. Ma restava pur sempre un operaio, un operaio che aveva fatto carriera. Un traditore. Uno che aveva tradito la sua stessa gente. "Ma non si preoccupi", aveva detto il consigliere. "Una volta morto, Paruscia tornerà ad essere uno di loro". "E come?", aveva chiesto il direttore. "Vedrà, vedrà…" era stata la sibillina risposta di quell'uomo diabolico. La massa di operai sciamò all'interno della sala delle assemblee. Il palco era ancora vuoto, ma era stato predisposto un microfono, e gli altoparlanti erano accesi, come si poteva notare dal brusìo elettrico di fondo. Un terzo cameraman riprendeva la scena nascosto alle spalle del palco, attraverso una feritoia nel muro. Come gli altri due, era stato dotato di telecamera digitale, e aveva ordine, se qualcuno fosse stato assalito, di non concentrare le inquadrature sulla scena, ma di muovere la telecamera in maniera da simulare uno sballottamento e di allontanarsi velocemente, a telecamera accesa, simulando una fuga. Una volta che tutti furono entrati nella grande sala, e si furono seduti, Paruscia uscì da una porticina laterale e salì sul palco, accolto da un mormorio diffuso. Aveva lo stesso volto di chi debba annunciare una morte, e camminava con passo strascicato, come di qualcuno cui sia stata annunciata una sciagura. Il suo atteggiamento contribuì ad aumentare la tensione, che già si poteva tagliare con il coltello. Il microfono era acceso. Paruscia disse: -Prova… Prova…". L'impianto funzionava perfettamente. Il dirigente non se sembrò Progetto Babele Speciale Inverno 2008 felice. Si schiarì la voce, e quel suono catarroso invase la sala attraverso gli altoparlanti. Come l'eco di un'incertezza. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. E non erano occhi benevo li. "Devono credere che Paruscia sia malvagio", aveva detto il consigliere. "E noi gli daremo motivo di crederlo. Loro credono che noi siamo malvagi, e credono che Paruscia sia uno di noi. Ma Paruscia è stato anche uno di loro, e allora bisogna far vedere loro che invece è un uomo importante, che parla per l'azienda, che è in intimità con noi". E anche questa voce era stata diffusa, aumentando la diffidenza verso l'ex operaio. -Ho parlato con il direttore stamattina-, esordì Paruscia. Un mormorio ostile si alzò dalla folla. Alcuni non riuscirono a star seduti e si alzarono in piedi. Paruscia non era mai stato il tramite dell'azienda, prima. Ma ora era proprio lui che gli veniva a parlare, era proprio lui che era stato in riunione con il direttore quella mattina. -Non ci sono buone notizie- continuò il dirigente. Quasi tutti scattarono in piedi a quelle parole. Alcuni misero mano agli arnesi da lavoro, istintivamente, senza pensare. Lo fissavano con rancore. Era lui il latore di cattive notizie, era lui che veniva a confermare tutte le loro peggiori paure. Era lui, l'alleato dei capi, il direttore del personale, quello che avrebbe deciso chi sarebbe stato sospeso dal lavoro. Quando Paruscia riferì quello che gli era stato ordinato di dire le sue parole vennero accolte da un silenzio tombale. Gli operai non riuscivano a credere alle proprie orecchie. -Mi dispiace, ma è proprio così- disse Paruscia sconsideratamente. -Ah, ti dispiace!- esclamò una voce in mezzo alla folla. -Ma se sei d'accordo con loro!- gridò un'altra voce. E le voci si richiamarono le une alle altre, si sobillarono, divennero un tuono che si espandeva veloce avvolgendo il senso stesso di quanto veniva pronunciato. Paruscia fece per allontanarsi. Non fu una buona idea. -Sta cercando di fuggire!- gridò una voce. Ci volle qualche secondo perché le voci, trasportandosi di bocca in bocca, riuscissero a passare l'informazione a tutto il convegno. Ma fu solo una questione di secondi. Paruscia non era ancora riuscito ad abbandonare il palco quando fu raggiunto dal primo, che lo bloccò mettendogli una mano sul braccio. -E adesso dove credi di andare?- gli chiese l'operaio. La risposta di Paruscia rimase sulle sue labbra, mentre tremava spaventato. Un secondo operaio lo colpì al braccio che gli era stato bloccato, con una chiave inglese. Paruscia gridò di dolore. Nel giro di pochi istanti la folla gli fu addosso, come squali attirati dal sangue. Esaltata, esasperata, urlante. Paruscia venne sollevato, buttato per terra, calpestato, preso a calci, trasportato a braccia sulle teste della folla, mentre gridava inascoltato supplicandoli di lasciarlo andare. Ancora vivo, venne rigettato a terra in mezzo alla sala, e presto gli uomini e le donne gli furono addosso come un branco di lupi affamati, affamati di vendetta, affamati di disperazione, di odio e di paura. Alcuni, più sobri degli altri, cercarono di fermare quella folla inferocita. Ma non ci fu niente da fare, e chi si opponeva veniva spintonato o colpito. "Bisognerà far arrestare i responsabili", aveva osservato il direttore. "No, nessuno deve sapere chi sono i responsabili, anche se fosse possibile individuarli", aveva risposto il consigliere. "Responsabili devono essere tutti, nessuno escluso. Non si dovrà mai scoprire chi lo ha colpito, chi lo ha ferito, chi lo ha ucciso. Devono essere tutti, tutti quanti insieme". Il cameraman continuava a filmare, ma come se fosse un novellino incapace di seguire i movimenti della folla. La sala sembrava gridare delle grida di tutti i presenti. Gli operai colpivano Paruscia e uscivano dal cerchio che si era stretto intorno a lui, lasciando spazio anche agli altri per colpirlo a loro volta. Il cameraman pensò che era il momento giusto per allontanarsi. E lo fece, lasciando accesa la telecamera e di corsa. Il boato di voci si spense piano piano. Gli operai, sconvolti dalla loro stessa azione, incominciarono ad allontanarsi da Paruscia. L'uomo giaceva a terra, con i vestiti stracciati, sanguinante e con il collo ritorto all'indietro, in una posizione che nessun essere umano vivo poteva assumere. Una gamba era completamente fuori squadra, un braccio sembrava volergli uscire a forza dalla spalla. Tra gli scioperanti, che dapprima si erano allontanati lentamente dal cadavere, insieme alla coscienza del delitto commesso cominciò a serpeggiare la paura, e si diedero a una fuga disordinata, di corsa, travolgendosi gli uni con gli altri, in cerca di salvezza. Ma i cancelli erano stati richiusi e la polizia, attirata da quel clamore, stava all'erta appena fuori dal cancello, con le armi in pugno. Sarebbe potuta essere una carneficina. Ma ci furono solo alcuni feriti, calpestati e spintonati durante la fuga. Il piano era riuscito perfettamente. Ora non restava che passare all'ultima fase. Ma il direttore non ne era per niente compiaciuto. III "La morte è una matita rosso-vivo con cui si scrive la storia dell'umanità". (Rogelio Iriarte) "Non possono ucciderci veramente", aveva detto il consigliere. "Uccidere? Uccidere chi?, aveva chiesto il direttore. "Uccidere noi. In particolare lei e il presidente. Vi odiano e se potessero vi ucciderebbero seduta stante. Solo così potrebbero placare la loro rabbia". "Beh, ma non vorrà…", era intervenuto il presidente. "Quindi", aveva proseguito il consigliere, ignorandolo, "ci faremo uccidere". E aveva fissato il presidente negli occhi. "Ci faremo uccidere?" aveva domandato quello, incredulo. "Si, ma non noi… Un nostro emissario. Noi per loro siamo come dei, irraggiungibili. Si sentono impotenti nei nostri confronti, ed è bene che sia così. Ma che cosa fece la gente quando volle uccidere Dio? Sacrificarono suo figlio, sacrificarono Gesù". "Beh, non credo che volessero uccidere Dio…" aveva detto il presidente. "No, ma volevano punire Gesù per aver osato credersi Dio. Non importa se lo fosse o meno, importa ciò che pensava la gente. Allo stesso modo sacrificherebbero noi, perché noi siamo come dei per loro. Lo stesso, quello che noi abbiamo da proporgli non lo vogliono ascoltare. Ma noi glielo faremo ascoltare a forza. Noi gli daremo in pasto il figlio, nostro figlio, il nostro figlio simbolico: Paruscia". Parlava come un profeta impazzito, come un gesù malvagio, e il direttore ne aveva paura. Ma il presidente lo ascoltava quasi passivamente, e l'onorevole, pur non dicendo una parola, sembrava condividere tutto ciò che il consigliere diceva; anzi, ne sembrava esaltato, e la sua espressione si faceva sempre più diabolica. Il direttore ebbe il sospetto che si trattasse del diavolo stesso. "Ma ci sarà una minoranza di persone che non parteciperà al massacro", aveva obiettato il presidente. "Loro non contano nulla", aveva risposto il consigliere. "Ma sapranno come sono andate le cose, potranno testimoniarlo. Potranno indicare i colpevoli". "Lasci che si discreditino da soli, che siano soli contro tutti, che additino i colpevoli. Finiranno solo per confermare ciò che vogliono negare, perché di fronte ad una simile azione nessuno crederà a loro, e verranno odiati proprio perché vogliono dire la verità. Perché gli altri non saranno disposti ad accettare le conseguenze della loro violenza, non saranno disposti a pagare. Vorranno solo cancellare quell'episodio dalle loro coscienze, vorranno solo dimenticare". La notizia ebbe un'eco enorme sulla stampa e ed in televisione, a livello internazionale. "Operai inferociti massacrano dirigente": non è una notizia di tutti i giorni. E' una notizia che fa scalpore. Ma la notizia in sé, accompagnata in televisione da immagini di manifestazioni pacifiche degli stessi operai, e da filmati storici del Sessantanove, non risultava convincente fino in fondo. Presto, infatti, cominciarono ad arrivare alle emittenti televisive filmati amatoriali dell'accaduto, girati apparentemente da mani- festanti che non avevano partecipato al massacro ma che volevano, giustamente, restare anonimi. In uno si vedevano gli operai della fabbrica che si passavano bottiglie di superalcolici, incitandosi gli uni con gli altri. In un altro si vedevano gli operai Progetto Babele Speciale Inverno 2008 entrare nella fabbrica con in mano arnesi da lavoro che, nelle inquadrature, sembravano pericolosi oggetti contundenti. In un altro ancora si vedeva la folla inferocita che assaliva Paruscia, ma nella confusione generale non si distingueva molto, anche se si vedeva chiaramente la furia, la follia di quegli atti; venne mostrata anche la scena della fuga, con l'immagine che si allontanava dal luogo del massacro. In un ultimo filmato si vedevano gli stessi operai in fuga disordinata nel cortile della fabbrica. Non c'era traccia di altre scene. Pareva che questo fosse il solo materiale girato. "Quello che ci serve è una buona campagna stampa", aveva detto il consigliere. "E sta a noi pilotarla adeguatamente". Paruscia divenne un martire. Una veglia funebre notturna, con torce e candele, venne organizzata all'esterno della fabbrica, con manifesti che rappresentavano il volto di Paruscia in una foto, diffusa dalla stampa, in cui appariva con un'aria ingenua e innocente. Da martire, appunto. Nella veglia, opportunamente pubblicizzata attraverso i mezzi d'informazione come manifestazione pacifica contro la violenza, vennero coinvolti movimenti religiosi, gruppi pacifisti moderati, politici di tutti gli schieramenti, uniti nel lutto nazionale, attori e personaggi di spettacolo, tutti egualmente convinti della grande opportunità offerta da quest'occasione. "Gli operai si sentiranno ancora più in colpa", aveva anticipato il consigliere, "e diventeranno ancora più mansueti. A questo punto gli offriremo dieci dove loro chiedevano cento, e ne saranno soddisfatti. Anzi, si sentiranno in colpa per aver ottenuto quel poco. Mentre noi sembreremo generosi nell'offrire loro anche solo un minimo, dopo quello che avranno fatto". Del massacro vennero accusati tutti gli operai, indistintamente. Nessun credito ebbero le rare testimonianze che additavano l'uno o l'altro come responsabile. E tutti, indistintamente, vennero graziati, non potendosi procedere contro ignoti. "Non importa chi è il colpevole", aveva detto il consigliere. "Non verrà mai scoperto, e se sarà necessario faremo in modo che non venga mai scoperto. L'importante è che tutti siano colpevoli, che tutti si sentano colpevoli". Il fatto che gli operai si fossero ubriacati prima dell'assemblea sconvolse particolarmente l'opinione pubblica, e anche i mezzi d'informazione diedero grande risalto a questo particolare. Non diedero alcun risalto, invece, alle false informazioni che erano state fornite agli operai, dapprima tramite gli infiltrati e in seguito dallo stesso Paruscia, il cui discorso non risultava da alcun filmato. "Dobbiamo esasperare la situazione dandogli false informazioni e fornendo loro sostanze che alterino la loro coscienza. Devono perdere lucidità, devono essere in grado di lasciarsi andare alla violenza", aveva detto il consigliere. "I superalcolici di cui ha detto prima?", aveva chiesto il presidente. "Esatto". "Ma non sarebbe meglio indirizzarli direttamente a Paruscia? In questo modo crederanno fino in fondo che sia uno di noi, e lo odieranno ancora di più". "Pessima idea. Paruscia è solo un capro espiatorio, non devono identificarlo completamente con noi. Se facciamo una cosa del genere lui non sarà più solo un emissario, ma verrà visto come uno di noi, come uno di quelli che decidono il loro destino. Dev'essere così, ma in tono minore. Noi dobbiamo continuare a sembrare intoccabili". "Ma è orribile!", aveva esclamato il direttore. "Se davvero accadrà quello che dice, manderemo Paruscia al massacro". "Oh, si, ed è proprio quello che ci serve. Gli affari sono affari. Che lo uccidano, che lo smembrino e sparpaglino i pezzi del suo corpo per tutta la fabbrica. Questo le darà l'idea di quello che vorrebbero fare a noi. Lo pensi, questo, lo pensi sempre, soprattutto dopo che ogni cosa sarà avvenuta. Pensi a Paruscia e pensi al fatto che la sua fine l'ha salvata dalla fine che avrebbero voluto far fare a lei. Uccideranno Paruscia solo perché non avranno per le mani lei, o il presidente. In mancanza di uno di noi, prenderanno lui come bersaglio. Lo pensi, lo pensi sempre, e vedrà che non si sentirà più tanto in colpa". "Ma lo faranno? Lo faranno davvero?". Il direttore continuava ad essere scettico. E aveva paura. "Oh, certo che lo faranno. Una parte della loro coscienza saprà esattamente quello che stanno facendo, che così si renderanno colpevoli senza nessuna possibilità di redenzione, ma lo faranno lo stesso, perché non potranno farne a meno. Perché in quel momento penseranno a quelli che veramente avrebbero voglia di uccidere, a lei, al presidente, ma voi siete persone importanti, potenti, e gente che compare anche in televisione. C'è come un veto, una inibizione. Ma Paruscia in quel momento sarà per loro la nostra rappresentazione, e saremo noi che loro uccideranno attraverso Paruscia. Se potessero colpire uno di noi, sarebbe la fine. Non potremmo più sembrare così invulnerabili. Non potremmo più essere simili e dèi". Ottavio Paruscia divenne l'emblema di qualcosa che bisognava assolutamente evitare. Si continuò a parlarne, per settimane. Divenne un martire, un simbolo. Un nuovo salvatore dell'umanità, che aveva mostrato le conseguenze della violenza e, indirettamente, una via per la pace. Un'immagine che non si poteva più seppellire, perché era ormai diventata altro da quanto Paruscia fosse mai stato. E infatti ai suoi funerali, accompagnati da diecine di personaggi pubblici, parteciparono più di quarantamila persone. Fu una manifestazione pacifica, con stendardi che raffiguravano Paruscia nella foto già adoperata per la veglia e per i telegiorna li. Il direttore e il presidente della fabbrica, perdonando pubblicamente gli operai, "perché non sapevano ciò che facevano", divennero di esempio persino per i cristiani, e vennero additati come persone virtuose e generose. Le azioni della loro azienda andarono a mille. Presto la televisione di stato produsse una fiction su Paruscia, che portò nelle case di tutta la popolazione la struggente storia di un uomo che, operaio, aveva fatto di tutto per aiutare gli altri operai, prima come sindacalista, poi come benevolo direttore del personale. Un uomo generoso, disposto ad ogni sacrificio per aiutare i propri colleghi. Ma un uomo incompreso, ucciso senza alcuna giustificazione dalla rabbia di operai che non erano in grado di comprendere le ragioni, giuste, sacrosante, dell'azienda. La divinizzazione di Paruscia era iniziata. IV "La legge del dolore stabilisce che attraverso la sofferenza, affondando in essa, trova dimora la materia umana, scoria che anela a diventare Dio". (Rogelio Iriarte) Quando la fabbrica riaprì e gli operai tornarono a lavorare trovarono ad attenderli, appesi lungo tutti i corridoi, accanto ai macchinari di lavoro, nella mensa, ovunque, manifesti raffiguranti il martire Ottavio Paruscia. Quel volto odiato, odioso, che ricordava loro in ogni momento la colpa che avevano commesso, li perseguitava anche in azienda, oltre che nei loro sogni; li accompagnava per tutta la giornata lavorativa, come nella vita di tutti i giorni. Il loro risentimento era ormai arginato dal senso di colpa, dall'essere stati additati come assassini, come colpevoli al di là di ogni perdono, e il fatto che non fossero stati puniti li sprofondava ancora più violentemente nella vergogna, nella colpa. E nella rancorosa gratitudine verso chi li aveva perdonati e aveva ridato loro il posto di lavoro, coscienti di non aver ottenuto nulla se non la propria dannazione, riconoscevano anche loro in Paruscia un simbolo divino, quello del dio che li aveva puniti, e della redenzione che non avrebbero mai trovato. Heiko Caimi (heikoh@libero.it) Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Cater di Alessio Iarrera Indossai il vestito che mi aveva regalato la mamma per il mio ventiquattresimo compleanno, quello nero con lo spacco. Facevo fatica a metterlo perché tremavo ma Cater mi aiutò allacciando la lampo dietro. Mi misi anche il rossetto e la cipria. Poi mi fermai i capelli con una spilletta d'argento a forma di pesce. - I gatti… alla fine la colpa è sempre dei gatti… Cater parlava piano. Sapeva che a quell'ora la dottoressa Gelati faceva il giro del reparto e io non avrei dovuto essere sveglia. - Ma Federico sta facendomi fare di nuovo tutti gli esami. Povero fratellino, si preoccupa molto per me. Dopo che la nostra cara mamma è morta in un incidente automobilistico per colpa di un gatto è lui adesso a prendermi gl'appuntamenti dai medici, a por- tarmi alle terapie e alle visite specialistiche. E adesso la dottoressa Gelati è sempre qui con me. -Prende tempo. Lo sai che prende tempo. - a Cater piaceva approfondire le cose. Lei aveva il sesto senso e per questo io l'amavo. E poi Cater non avrebbe mai preso le anfetamine o l'LSD per esempio, e soprattutto non mi avrebbe mai regalato un gatto. Perciò era ora che ascoltassi le sue parole una buona volta. -Angela, lo sai che non stai bene. - sussurrò lei - Mi dispiace se te la prendi, ma quella cosa dei gatti è una tua fissazione. E' una malattia e comunque te ne saresti accorta anche da sola, prima o poi. Quindi, è meglio che te lo dica io. - Che cosa stai dicendo, Cater? - Uffa, sto parlando di Federico, che dorme sempre qui accanto alla tua camera tutte le notti! E della dottoressa Gelati. Loro non pensano che stai migliorando anzi, non vogliono affatto che tu migliori. - Oh, ma loro sono… Cater, non puoi dirmi questo… -Ascoltami bene, ora! Non essere stupida! Pensi che ti abbiano mandato in quest'ospedale solo perché dovevi essere curata? E' da quando hai avuto a che fare coi gatti che ti stanno curando. E adesso la cura è finita. Insomma, sei guarita no? E allora dovresti essere fuori da qui. Invece la dottoressa Gelati passa ogni giorno nella tua camera e tuo fratello Federico ti tiene ancora chiusa qui dentro. Ero rimasta a bocca aperta. Avevo voglia di piangere ma non feci altro che abbassare la testa perché nel cuore sapevo che Cater, come al solito, aveva ragione. -Tu trova il modo d'uscire di qui - disse Cater - vedrai come la dottoressa Gelati ti corre subito dietro con tutto il reparto per legarti al letto. E io non mi lascio fregare dai suoi referti medici. Tu sei sanissima… ti sei vista, almeno? Le tue occhiaie sono sparite! Dovresti ritornare in mezzo alla gente, trovare un bel ragazzo e innamorarti… - Ma io non ho mai avuto un ragazzo. - le rammentai. - Non potrò mai averlo… un ragazzo… - E' la solita palla che ti raccontano i dottori. - disse Cater, facendomi un sorrisetto. - Anche Federico ti ha detto un sacco di bugie. Sei bellissima, Angela! Potresti avere tutti gli uomini che vuoi! Se solo ti conoscessero, non si farebbero mai scappare una bella ragazza come te. Ma Federico non vuole che tu abbia dei corteggiatori. Ti hanno perfino inviato dei bigliettini d'amore dolcissimi ma tuo fratello e la dottoressa Gelati li hanno buttati nella pattumiera. - Sul serio? Li hanno buttati via sul serio? - Ma sicuro. E poi lo sai benissimo cosa vogliono loro. Vogliono farti credere che sei malata. Così possono sposarsi e vivere con l'eredità della tua povera mamma mentre tu resti tutta la vita rinchiusa qui dentro… -Fa che non sia vero! - cominciai a tremare. Non riuscivo più a trattenermi. Era terribile. La dottoressa Gelati mi aveva detto che se seguivo la terapia non avrei mai più avuto le allucinazioni, i tremori e le altre conseguenze. Eppure, adesso stavo tremando. -Lo sai cosa mettono nel purè e nell'acqua che bevi? - continuò Cater - Vuoi che ti dica se Federico e la dottoressa Gelati si vedono di nascosto? - Basta! - gridai. -Non urlare così, scema! Non vedi l'ora che la dottoressa venga nella tua stanza con la siringa pronta e ti faccia un altro buco nel braccio? Oggi sei stata fortunata che ti ha dato la pillola di tranquillante… -E' vero, adesso la dottoressa pensa che stia dormendo… - E se non c'ero io a dirti di non inghiottire quella schifezza - Cater mi guardò con espressione di rimprovero. - ora tu saresti davvero nel mondo dei sogni. Devi andare via da qui, Angela. Subito, adesso, altrimenti sarà troppo tardi per farlo… Aveva buon senso, il rischio che mi rinchiudessero per tutta la vita poteva essere imminente. Dovevo andarmene dall'ospedale al più presto… da troppo tempo non prendevo le anfetamine. - Scappiamocene via. - continuò Cater. - Andiamo in un ostello per un po', magari in una baraccopoli. Nella periferia ce ne sono così tante che non ci troverebbero mai. Penserò io a farti star bene. - Ma la periferia è lontana. - Non importa. Faremo l'autostop o prenderemo l'autobus. -Non abbiamo soldi. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 - Li troveremo, piccola. Stai tranquilla. Fidati di me. Sì, di Cater potevo solo aver fiducia. Era vero che, in fondo, era a causa dell'incidente della mamma che avevo cominciato con le anfetamine. Quel gattaccio maledetto. E un po' la colpa era anche di Cater, se avevo iniziato a stare male. Ma Cater aveva sempre cercato di aiutarmi. E io avevo bisogno del suo aiuto. Quindi, non potevo che fidarmi di lei. - Scapperemo questa notte, non appena la dottoressa Gelati sarà andata via - suggerì Cater. - Attenderemo che Federico si metta a russare nella stanza accanto alla tua, va bene? Ora mettiti a dormire che più tardi ti sveglio… Mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi. Il sonno non si fece attendere perché ero tranquilla. Non dormivo così da mesi, da quando avevo cominciato ad avercela coi gatti. Per la prima volta dormivo senza aver bisogno di medicine ed ero serena perché sapevo che Cater mi avrebbe svegliato all'ora giusta. Quando riaprii gli occhi, tremavo dalla testa ai piedi. Cater mi scuoteva le spalle nella stanza buia. Osservai le pareti e vidi che la porta dell'ingresso era aperta, ma Cater non parlava più a bassa voce. -Prendi poca roba con te… solo le cose che ti servono… Indossai il vestito che mi aveva regalato la mamma per il mio ventiquattresimo compleanno, quello nero con lo spacco. Facevo fatica a metterlo perché tremavo ma Cater mi aiutò allacciando la lampo dietro. Mi misi anche il rossetto e la cipria. Poi mi fermai i capelli con una spilletta d'argento a forma di pesce. Mi spezzai un'unghia per aprire il fermaglio e l'ago sottile, entrando nella carne, mi fece quasi urlare dal dolore. Ma non era niente rispetto al dolore che provavo per quello che mi avevano fatto Federico e la dottoressa Gelati. Era un dolore interno, profondo. Qualcosa s'era rotto dentro di me dal giorno che lui voleva rinchiudermi in manicomio per scoparsi la dottoressa Gelati sul letto di mia madre e deridermi per come ero stata ingenua a credere alle loro bugie. Dalla rabbia mi strappai la spilla a forma di pesce dai capelli e me la ficcai in tasca. - E' una buona idea, stai molto meglio senza quell'orrendo fermaglio. - disse Cater. - Anzi, dammelo che lo butto via. Le consegnai il pesce d'argento con un sorriso. Lei si prendeva sempre cura di me perché aveva la capacità di ragionare. -Andiamo. -Ma perché tieni quella spilla in mano? - chiesi. -Ah, questa? Scusami, volevo buttarla via. Invece adesso me la tengo io. Me la metto nei miei capelli, così? Non ti sembro buffa? Risi. Cater sapeva sempre farmi ridere. -Andiamo via, adesso. Non so quando torna la dottoressa Gelati, quindi dobbiamo muoverci, Angela. Federico sta dormendo della grossa. -Non sento il suo russare. - Che stupida sei, Angela! Ho chiuso la porta della stanza di tuo fratello mentre dormivi. Io e Cater andammo nella camera di Federico per controllare che dormisse. Poi uscimmo nel corridoio ma non passammo per l'ingresso principale, no. Cater aveva visto la porta dell'uscita di sicurezza con il maniglione antipanico e fu lei a guidarmi lungo la rampa delle scale antincendio. - Mentre dormivi ho prelevato un po' di soldi dal portafogli di tuo fratello. - disse Cater. I lampioni della strada riuscivano a malapena a illuminare l'asfalto ma Cater mi spronò a correre. Dovevamo allontanarci prima dell'arrivo della dottoressa Gelati, prima che fosse scattato l'allarme. E corremmo più lontano possibile dall'ospedale finché non ci arrestammo, esauste, alla fermata dell'autobus 18. Ce l'avevamo fatta ma la fuga non era ancora finita e io avevo ricominciato a tremare. -Angela, smettila per favore! - sbottò Cater. -Ma non riesco a smettere! Dove andiamo adesso? Dove andiamo? Ho paura… -Accidenti, non ti sapevo così fifona… aspetta… - Cater mise la mano nella tasca della mia gonna e tirò fuori un pacchettino. Tieni e sta zitta adesso! Scartai la confezione e quasi gridai dalla gioia. -Anfetamine! Come hai fatto a trovarle? - Oh, non è stato difficile! Nello studio della dottoressa Gelati ci sono tante scatole di questo tipo. E' bastato guardare l'elenco dei medicinali e rompere il vetro dell'armadietto. Te le ho messe nella tasca del vestito per farti una sorpresa. Tutto qui. -Grazie, Cater! Mi tremava la mano ma il pacchetto riuscii ad aprirlo. Presi due capsule rosse e le feci sciogliere in gola. Il loro sapore mi riempì di letizia, di benessere. Da quanto tempo non sentivo quel gusto e non trovavo quella tranquillità nel mio cervello? - Esagerata! Ne bastava una! - disse Cater, sorridendo. - Zitta ti prego. - le risposi, con dolcezza. - Tu sapevi. Sapevi che ne avevo bisogno. Lasciami godere questo momento, adesso. - Uffa, lo sai che non voglio che ti droghi. - protestò Cater. - Io non ho bisogno di drogarmi per essere lucida e non mi piace vederti star male senza quelle capsule! -Non posso farne a meno, lo sai. -Dovresti prenderne poche, non tutte insieme. E mi piacerebbe sapere perché non sei capace di controllare le tue crisi! La tua mania dei gatti! - Lascia che ne prenda altre due, ti prego. Sono soltanto due compresse. Mi cacciai in gola altre due pastiglie e Cater mi guardò di traverso. - Sto cercando di tirarti fuori dai guai, Angela. Se non la smetti di drogarti io ti lascio qui e ti arrangi! La sua voce mi lasciò a bocca aperta. - Non abbandonarmi, Cater. Smetterò, te lo prometto. Ho bisogno del tuo aiuto però. Fino a quando non starò bene. -Ah, sì! - rise lei. - Quando starai bene, dici! E intanto il pacchetto è quasi vuoto! Io mi preoccupo per te e tu cosa fai? Pensi solo a farti di acido. E quando sei fatta pensi ai gatti! Non pensi a me che ti ho fatta uscire dall'ospedale, che ti ho salvato da tuo fratello e dalla dottoressa Gelati. Arrivò l'autobus e salimmo. Ci sedemmo nell'ultimo sedile accanto alla portiera. L'autista era insonnolito. Era l'alba e doveva essersi svegliato da poco. Ci guardava dallo specchietto retrovisore dell'abitacolo ma vidi che i suoi occhi prima quasi chiusi dal sonno, si spalancarono e si affrettò a comporre un numero di telefono dalla centralina. -Tu sei l'unica amica che ho. - dissi a Cater. -Non fare la vittima! Se Cater si arrabbiava era capace di insultarmi o peggio, di picchiarmi. Adesso era furiosa. Era così arrabbiata che ripresi a tremare. Così mi cacciai in gola altre due pastiglie. - Io ti servo solo per ripulire i tuoi casini. Ti servo e basta. Ti servo quando devi sfogarti con qualcuno e nessuno ti ascolta. Quando devi lamentarti dei gatti. Quando devo raccontare bugie per salvarti. Ma nessuno pensa a me. Tuo fratello e la dottoressa Gelati non pensano a me. Non pensano che anch'io potrei avere il fidanzato e una vita mia. L'amore. No, io sono soltanto una serva. La tua serva. E dove sono le soddisfazioni? Non riesco Progetto Babele Speciale Inverno 2008 nemmeno a farti smettere di prendere quelle dannate pastiglie! Tutto questo lavoro per niente! Tu non hai idea di cosa abbia fatto per te stanotte. E tutti questi anni insieme? Ma adesso mi sono proprio stufata, Angela. Resta pure con la tua droga e i tuoi gatti! Io me ne vado! Cominciai a piangere quando lei si alzò e percorse il corridoio dell'autobus. Poi uscì dalla portiera quando l'autista si fermò. Senza guardarmi in viso, come se non mi conoscesse. Io cercai di correrle dietro ma mi mancavano le forze. I sedili vuoti mi giravano attorno come se fossi seduta su una giostra. Allora il pacchetto vuoto mi cadde sul sedile e io crollai picchiando la testa contro il finestrino. Quando ripresi conoscenza, erano tutti lì davanti a me. L'autista, il poliziotto e la dottoressa Gelati. Mi faceva male la testa nel punto dove avevo picchiato contro il vetro. Usciva anche un po' di sangue dalla ferita e mi ero sporcata il vestito che mi aveva regalato la mamma. Mi chiesi se Cater non fosse andata di proposito dalla polizia ma quando glielo domandai, la dottoressa Gelati mi disse di no. Mi avevano preso sull'autobus dopo che avevano ricevuto la telefonata dell'autista e avevano trovato il corpo di Federico a letto con un piccolo foro sul torace e molto sangue sul lenzuolo. Allora immaginai quello che mi aveva fatto Cater, con rammarico. Anche lei alla fine era diventata infida come i gatti. Mi aveva lasciato sull'autobus perché sapeva che mi avrebbero preso e accusata dell'omicidio di mio fratello. Così dissi tutto alla dottoressa Gelati e alla polizia. Ma l'autista e la dottoressa sostennero che non avevano visto nessuna Caterina che sedeva accanto a me sull'autobus e che il sedile accanto al mio era vuoto. Il poliziotto si mise a ridere quando, in lacrime, lo pregai di trovare Cater e di farle dire tutta la verità. Soltanto la dottoressa sembrò capire il mio sfogo e i miei singhiozzi. Quando restammo sole nella stanza mi chiese tutto di lei, quanti anni aveva, l'aspetto che aveva e le sue idee di fuga dall'ospedale. Io risposi a tutte le domande. Allora la dottoressa mi portò davanti allo specchio della stanza degli interrogatori e mi chiese se potevo indicarla. Ma certo che potevo farlo… Puntai il dito verso lo specchio e anche Cater m'indicò. I suoi capelli erano sporchi del sangue rappreso che era uscito dal fermaglio a forma di pesce. Ma adesso l'ago s'era rotto e la spilla cadeva malamente di lato, impigliandosi tra i suoi numerosi ricci lunghi. E lei se ne stava in piedi davanti a me e miagolava. -Miaooo… miaooo… miaooo… Dissi alla dottoressa Gelati che era nello specchio e lei mi rispose che adesso aveva capito. Era meglio così, in fondo. Anche se avevo ripreso a tremare. Cater non mi aveva mai abbandonata e ora che ci eravamo ritrovate non ci saremo mai più perse di vista. Era felice di rivedermi e anch'io sorrisi. Il cuore mi batteva forte. Ero contenta! Contenta! Sapevo che Cater mi amava. Anche se odiavo i gatti che avevano ucciso mia madre lei c'era, lei c'era sempre stata. Dopo qualche minuto cominciai a miagolare anch'io. Poi tutte due ci mettemmo a ridere e a miagolare. Non ci fermammo neppure quando la dottoressa Gelati uscì dalla stanza. E rimanemmo contro le sbarre della cella d'isolamento, io e Cater, miagolando e facendoci le fusa come due gatte in amore. Alessio Iarrera (aiarrera@libero.it) Cronoloop di Vittorio Baccelli Mi ritrovo all'istante nella cronomacchina mentre cessa il ronzio: capisco d'essere ancora una volta arrivato. Ho vissuto infinite volte questo momento, che avrebbe dovuto esser di vittoria per l'umanità e di gloria per il sottoscritto. La cronomacchina cessa di ronzare all'improvviso, capisco d'essere arrivato. Ho una strana sensazione: mi sembra di rivivere questo momento per la milionesima volta, comunque mi scuoto, apro il portello. È come le impronte di Aldrin sulla Luna, è come Colombo quando avvistò l'America, invece fuori ci sono solo due militari che mi aspettano, e anche piuttosto dimessi, neppure in alta uniforme. Accanto a loro c'è una limousine nera con una portiera aperta che mi aspetta. La limousine è sporca, avrebbe bisogno d'una bella lavata, peccato lasciare così una macchina tanto bella, sto pensando mentre supero i due militari ed entro in auto. Nel lussuoso abitacolo un generale con la faccia tesa, gli occhi infossa- ti, la barba lunga e la divisa in disordine, mi sta aspettando. Un generale che conosco ma del quale non so il nome. L'auto parte e guardo il panorama dal finestrino blindato mentre il generale stancamente mi mette al corrente degli ultimi sviluppi della situazione. Tutte cose che già conosco a menadito perché ho sentito infinite volte, intanto l'auto prosegue nel suo viaggio verso una base militare nascosta trai monti. Sono stanco, stanco di ripetere gli stessi gesti, d'ascoltare le stesse parole, ma forse tutti sono stanchi di rivivere gli stessi momenti. Stiamo andando verso una villetta all'interno della base. C'è la mia ragazza che mi aspetta, staremo assieme fino al momento del ritorno. Abbiamo superato il tratto di deserto e ora l'auto imbocca il rettilineo che porta alla base, eccola, le sbarre sono già alzate, ancora poche centinaia di metri e saremo davanti alla villetta. Il generale intanto non ha mai smesso di parlare malgrado la mia palese disattenzione. La limousine s'arresta, scendo lentamente e mi avvio verso la porta d'ingresso, salgo i cinque scalini e sono sul porticato, la porta adesso dovrebbe aprirsi e lei mi getterà le braccia al collo piangendo. Ma la porta resta chiusa, ho un attimo d'indecisione, poi spingo ed entro: la casa è in penombra, vado in camera, lei è sdraiata sul letto, ancora in camicia da notte, mi chino su di lei, la bacio, sta piangendo. L'abbraccio e restiamo entrambi in silenzio, sento la limousine ripartire. Resto sdraiato accanto a lei, chiudo gli occhi. Tutto è sempre uguale a sempre, ma qualcosa, qualche piccola cosa è mutata, lei non mi ha atteso davanti all'ingresso, era sul letto: le varianti sono allora possibili. Mi alzo e vado in bagno, orino, mi bagno a lungo la faccia con l'acqua fredda, mi guardo allo specchio: sono invecchiato, dimagrito, la pelle ha assunto un colorito giallastro per niente buono ed è attaccata alle ossa della mia faccia, gli occhi sono arrossa- ti come fossi febbricitante e infossati, i capelli non sono più neri, ma opachi e brizzolati. Lo scotto da pagare per il primo balzo temporale di solo sette giorni, è stato alto per me, per tutti, sicuramente troppo alto, ma chi avrebbe potuto prevederne le conseguenze? Devo cambiare qualcosa nell'immutabilità degli atti, ho visto che è possibile, comincio dalle piccole cose, devo uscire dalla routine, far uscire tutti dalla routine. È successo che la cronomacchina è esplosa nell'attimo del ritorno, io sono morto allora, la mia vita attuale è solo apparente, quando giungerà il momento del ritorno il modulo esploderà e sarò costretto a rivivere all'infinito questa sequenza tra la partenza, l'arrivo nel futuro, i cinque giorni trascorsi nel futuro, il ritorno, la morte e di nuovo mi ritrovo all'arrivo, tutto si ripete in un loop infinito. Devo interromperlo, qualcosa oggi è mutato, lei mi Progetto Babele Speciale Inverno 2008 attendeva sul letto, devo divergere dalla realtà codificata che s'è inceppata chissà da quanto, ma non è stabile, può mutare. Esco dal bagno, mi accendo una sigaretta delle sue, io non ho mai fumato, cerco di traspirare l'aroma, ma tossisco, esco in veranda, il sole sta per tramontare: finisco la sigaretta senza traspirarla. Mi cambio ed esco, prendo una jeep e corro fino al mare, resto sugli scogli e guardo le onde frangersi fino al mattino. Ritorno alla villetta, c'è il generale che mi aspetta, davanti ad un caffè mi spiega che stanno cambiando tutta la strumentazione del modulo: è nuova e modificata, forse tutto andrà bene, l'ascolto privo d'interesse. Se tutto fosse andato bene il modulo non sarebbe esploso giorni fa al momento dell'arrivo e io non sarei morto in quell'istante. Siete stati tutti al mio funerale, comunque con l'aria assente l'ascolto senza intervenire. Finalmente se ne va, bevo anch'io un caffè e mangio qualche biscotto, afferro poi la mia ragazza, che è in cucina e faccio l'amore con lei sul tavolo, con rabbia, mentre lei passivamente si lascia fare. Ora ha dei segni viola sul collo e sui seni, mi accendo un'altra sigaretta, comincio a prenderci gusto, esco cerco un'altra jeep e riparto, questa volta in direzione dei monti. Nessuno cerca di fermarmi, nessuno dice niente. Corro, corro sempre nella stessa direzione, passo villaggi e campi, metto benzina e riparto dal distributore senza pagare, giungo infine, molte ore dopo ad una grande città, non so quale sia e non può importarmene di meno. La benzina che ho messo sta per finire, c'è un parcheggio a più piani, lascio la jeep al quarto piano e scendo a piedi. Attraverso due strade e m'infilo in un pub semibuio e zeppo di gente che sembra immersa nei propri gesti, mi verso direttamente dal bancone una birra dietro l'altra, nessuno sembra far attenzione alla mia presenza, sono già morto, sono un fantasma penso ridacchiando tristemente tra me: è un'infinità di tempo che non sorridevo, questo è un buon segno. C'è roba da mangiare anche se cose di plastica da pub, posto a sufficienza per dormire, gabinetti a volontà, musica in sottofondo, anche se è sempre quel nazirock oggi di moda, ci sono poi accessi a programmi simstim alla parete, bene, mi collego. Il tempo scorre, ma ne ho persa la cognizione: questa volta non partirò; cambierà qualcosa? Non ho risposte, ma a breve saprò. Da giorni sono sbronzo di birra, la barba è lunga ed è tutta gri gia e ora fumo continuamente: nessuno chiede i soldi delle mie consumazioni e il locale sembra non chiudere mai. Tutti si com portano come se non esistessi, anche quella che forse è una barista e che mi sono scopato di brutto sul divano, ma è ovvio sono morto e loro ripetono all'infinito gli stessi gesti e se io esito ancora, scusatemi, loro cercano di non accorgersene, o alme no fanno il possibile. Sto dormendo, ma mi sveglio all'improvvi so. Sono nella cronomacchina che cessa di ronzare, sono ancora una volta arrivato. Rivivo per la millesima volta il momento, apro lo sportello, fuori due militari m'aspettano accanto alla cronomacchina c'è una limousine nera sempre più sporca con la portiera aperta. So cosa fare, supero i due militari ed entro in auto. Nell'abitacolo un tempo lussuoso c'è il solito generale ancor più trasandato che mi sta aspettando: sbadiglio mentre lui cantilena le solite cose, arrivo alla villetta entro la base, lei è in camera, mi getto sul letto accanto a lei e la lascio piangere. Rifletto: devo fermare la sequenza, i militari non ci riescono, tutto si riavvolge su se stesso, non solo la mia vita, ma l'intera Terra e forse tutto l'universo o l'intero multiverso, addirittura. Rifletto, bevo birra e fumo: la mia barba è lunga, quasi bianca, sto invecchiando ad una velocità impressionante. Devo mutare l'evento, comincio con una doccia calda, poi mi rado barba e capelli e m'infilo in una tuta azzurra dell'Adidas, cerco un paio di scarpe da ginnastica e in un armadietto ne trovo un paio della stessa marca e colore, me le metto. Vado poi nel salotto, c'è un piccolo frigo estraggo gin e succhi di frutta, prendo un bicchiere e poso tutto su un tavolinetto accanto al divano. Mi siedo, accendo la TRI-TV bevo e fumo, lei si siede accanto a me e poggia la testa sulla mia spalla. Attendo il ritorno del generale con la TRI-TV accesa su un canale musicale che trasmette quasi ininterrottamente brani di quel nazi-rock che mi sta sulle palle, così alla moda. Passa un'eternità, infine il generale arriva, si siede accanto a me sul divano: prima ancora che inizi a parlare gli sfondo il cranio all'improvviso con un posacenere d'onice, estraggo dalla sua fondina la pistola, tolgo la sicura, mi accerto che sia carica e sparo in mezzo alla fronte alla mia ragazza che sta strillando a pieni polmoni appoggiata alla parete. Un foro rosso si delinea nel bel mezzo della sua fronte, poi lei scivola per terra e la parete dietro di lei è tutta schizzata di sangue come un informale di Pollok. Il generale ha tutto il volto coperto dal suo sangue che adesso gli sta inzuppando la divisa e sgocciola sul divano. Mi metto la canna della pistola in bocca, rivolta verso l'alto e coi miei due indici premo dolcemente il grilletto. Mi ritrovo all'istante nella cronomacchina mentre cessa il ronzio: capisco d'essere ancora una volta arrivato. Ho vissuto infinite volte questo momento, che avrebbe dovuto esser di vittoria per l'umanità e di gloria per il sottoscritto; fuori i due militari m'aspettano, accanto alla cronomacchina c'è la solita limousine con la portiera aperta, al suo interno il generale del cazzo, con la divisa stazzonata come non mai, mi sta aspettando. Scendo dal modulo e mi siedo per terra, faccio cenno al generale nell'auto di venire da me. I due militari restano in piedi indifferenti, il generale è colto di sorpresa e resta nell'auto. "Esci coglione!" E aspetto, infine si decide e di malavoglia mi s'avvicina, poi si siede anche lui per terra guardandomi interrogativamente. Gli faccio cenno di tacere e lui non apre bocca. Chiedo se c'è una sigaretta, lui fa cenno ad un soldato e gli chiede di procurarla. Un soldato se ne va a piedi mentre l'altro resta indifferente in attesa così come il generale davanti ai miei occhi. Il tempo scorre lento, infine il soldato torna e mi porge un pacchetto di Marlboro senza Progetto Babele Speciale Inverno 2008 voluttà l'aroma del tabacco. Lentamente me la fumo tutta, poi con l'indice e il pollice scaglio lontano il mozzicone. "Dobbiamo parlare, dico al generale, so benissimo cosa sta succedendo, al rientro il modulo è esploso e io sono morto, voi mi avete già fatto i funerali e adesso volete cambiare tutti i circuiti del modulo per arginare ilmalfunzionamento. È già stato fatto infinite volte e non ha funzionato. Voi invece lasciate stare tutto com'è, anzi io non mi muovo da qui fino al momento della partenza. Non voglio vedere nessuno, portatemi da mangiare, delle birre e delle sigarette. Niente altro, dormirò sul modulo e per il resto vivrò all'aperto proprio in questo punto. Lei mi lasci la sua pistola e stia certo che sparerò a chiunque si presenti, ora sparite tutti, mandatemi ciò che ho chiesto e dopo nessuno deve avvicinarsi." Il generale mi porge l'arma, arrossisce e risale in auto mormorandomi: "Buona fortuna!". L'auto riparte e i due soldati mi fanno uno stanco saluto militare e a piedi se ne vanno. Resto seduto per terra, accanto al modulo, per la prima volta ho la sensazione di non aver mai vissuto questa situazione, il tempo passa, poi arriva una camionetta con altri due soldati che scaricano vari pacchi davanti a me, poi militarmente mi salutano e in silenzio ripartono. È trascorso un giorno, forse due, chissà… la mia cognizione del tempo peggiora a vista d'occhio, come il mio aspetto d'altronde, l'area attorno al modulo sembra una discarica: lattine vuote di birra, escrementi, salviette sporche, resti di cibo, fogli di giornale, piatti, bicchieri e posate di plastica, resti di confezioni… cicche ovunque. I cinque giorni forse sono passati ed è il momento del ritorno, mi tolgo tutti i vestiti luridi che ho addosso e nudo rientro nel modulo, attendo. Dopo un'eternità: PARTENZA! Il ronzio cessa e l'esplosione non avviene, fuori mille telecamere mi stanno attendendo, bandiere dell'ONU degli USA, della CE, generali in alta uniforme e capi di stato in abito da cerimonia… Non capisco, s'è interrotto il loop, come è possibile? Non ho fatto nulla stavolta per fermarlo… sono confuso come mai… forse sto sognando… apro il portello e faccio la mia uscita trionfale: un vecchio con la pelle gialla attaccata alle ossa, con la barba e i capelli lunghi totalmente bianchi, nudo, che barcolla e si tiene a mala pena in piedi. A fatica mi alzo e scendo tra la folla che si è fatta muta, mi prendono conati di vomito e butto fuori le ultime birre mal digerite mentre orina calda scorre sulle mie gambe e sento che pure l'intestino si libera. Mi accascio davanti all'intero mondo allibito, mille telecamere stanno trasmettendo le immagini a tutto il mondo… malgrado le apparenze sono finalmente felice, non avrò fatto un'uscita trionfale, ma ho allontanato l'incubo. Loro ancora non sanno. Vittorio Baccelli baccelli1@interfree.it Cul de Sac di Stefano Crupi L'amore è tutto ciò che si può ancora tradire. Andrea Pazienza Avevo poco più di un giorno quando iniziai a rotolare. La mia essenza vitrea, da poco solidificatasi, aveva assunto un colore turchino brillante, facendomi risaltare nella sacca di iuta in cui mi avevano posto a riposare. Accanto a me colori sbiaditi, opache rotondità, nulla neppure minimamente in grado di offuscare la mia brillantezza. La luce fece un breve capolino aprendo e chiudendo il coperchio su di me. A quel punto emisi un riflesso, di proposito. Mostrai il profilo migliore di me catturando più luce possibile ed emettendo un barbaglio folgorante che probabilmente colpì nel segno. Non fu un'estrazione casuale, come malelingue non esiteranno a dire. Fu una scelta precisa, ne sono sicura, fatta seguendo il richiamo che avevo emesso. Due dita sottili mi afferrarono, mi fecero viaggiare lungo il collo della sacca, e mi riposero in un'altra, più calda e morbida, scossa da lievi sobbalzi, nella quale riposai per circa un'ora. Poi la stessa mano mi rapì dalla mia culla dondolante. Mi tenne un po' a mezz'aria, donandomi per la prima volta una vertigine, ed infine mi poggiò su quello che sarebbe diventato il mio campo di battaglia, l'asfalto rovente-plumbeo-ruvido-dissestato sul quale i bambini avevano disegnato la pista. Il mio padrone, i cui tocchi mi avrebbero lanciato attraverso quei tortuosi viaggi lucidi, tra anse di cemento a gomito, dritto fino alla buca salvifica, era un bambino dagli occhi chiari e dal ciuffo biondo. Tra le orbite sembrava avere due mie gemelle, che mi si puntavano contro come ad incoraggiarmi, a fornirmi la forza per vincere. Il suo indice mi carezzava, mi lucidava, mi cincischiava addosso. Poi, all'improvviso, una stoccata brusca della sua unghia sulla mia corazza vetrosa fece girare il mondo. Ondeggiando all'interno di tornanti pieni di spigoli, sbalzata su puntuti sassolini o escrescenze dell'asfalto irregolare, riuscii a fermare la mia corsa in prossimità della buca scura. Da allora ne è passato di tempo. Presto, man mano che, nelle competizioni che si succedevano, accumulavamo vittorie su vittorie, l'attaccamento tra me ed il mio padrone divenne viscerale. La danza che facevo tra i suoi polpastrelli accaldati, quando nervoso cercava conforto dalla mia intrinseca freschezza, lo riportava lentamente alla calma. Era come se sulle mie pareti lisce scivolassero le sue paure, ogni suo pensiero negativo. Mi usava, sì, mi usava: come oggetto da mostrare per conquistare ricciolute biondine. Fungevo da specchio per le allodole nei suoi primi abbordaggi amorosi. A me non dispiaceva. Al contrario. Lentamente tra me e lui si creò una specie di simbiosi. Prima di addormentarsi mi posava sul suo comodino, adagiandomi con cura su un cuscino rosa approntato apposta per me; non dimenticava mai di portarmi con sé, nella sua tasca destra, quasi come un amuleto. Il suo protocollo comportamentale era il frutto di anni di esperimenti apotropaici. Prima di ogni competizione perdeva qualche minuto nei suoi riti scaramantici: tre giri intorno a se stesso verso destra, un saltello, il segno della croce. Poi cadeva sul ginocchio sinistro, e mi sistemava all'estremo destro della linea di partenza. In gara appariva freddo e calcolatore. Silenzioso. Di fronte alle espressioni di sorpresa che accompagnavano i suoi tocchi più spettacolari, opponeva un'espressione di circostanza, per nulla a disagio. Fui immediatamente colpita dal talento naturale che dimostrava nei tiri ad effetto. Sembrava conoscerne perfettamente i segreti, le infinite potenzialità. Le rotazioni che m'imponeva sfiorandomi con quella parte del dito dove si incontrano unghia e pelle erano millimetricamente precise: incontrando la parete l'angolo che disegnavo si allargava o si stringeva a suo piacimento quel tanto che bastava per colpire in pieno l'avversaria. Rarissime volte i suoi colpi uscivano troppo lunghi o troppo corti. La preparazione era scrupolosa, non amava essere affrettato. Nonostante aumentassero gli spettatori delle nostre performance la sua calma era il segno di una maturità rara e di una forza di volontà davvero singolare in un ragazzo così giovane. Prima mi girava intorno piegando la testa come a misurare con lo sguardo le Progetto Babele Speciale Inverno 2008 filtro e uno Zippo. Mi accendo una sigaretta e assaporo con distanze. Sembrava perdersi in complicati calcoli angolari, vagliava le varie possibilità concedendo a tutte lo stesso identico tempo. Poi, dopo aver deciso, si piegava finalmente, scaricando tutto il suo peso sul ginocchio sinistro. Da qui prendeva la mira chiudendo l'occhio sinistro e inclinando leggermente il capo. "Vai bella", era la formula propiziatoria che recitava prima di colpirmi e lanciarmi lungo le linee sperate. A quel punto tutto per me cominciava a confondersi, entravo in una specie di trance dalla quale solo lentamente riuscivo a riemergere. (Si è portati a credere che qualsiasi movimento rotatorio ci sia congeniale, perché essendo tonde è quasi naturale pensarci mentre rotoliamo. Ma in realtà non è così. La nostra forma ci è imposta da umani demiurghi, conoscitori superficiali della nostra vera natura. Il nostro essere sferico ha come conseguenza immediata quella di assicurarci una rotazione in qualsiasi senso, ma ciò comporta che raramente accada di ruotare nel senso che a noi più aggrada. Non conoscendo la nostra natura inoltre - e quindi ignorando persino la nostra capacità pensante - l'uomo crede sia la stessa cosa colpirci davanti o dietro, perché per lui non abbiamo né un davanti né un di dietro. E così ci tocca adattarci. Questo sforzo di adattamento è la spiegazione alle inevitabile turbolenze che a volte la nostra traiettoria subisce. Anche il mio padrone spesso infatti si è chiesto, dando voce ad un pensiero, come un suo tiro, apparentemente riuscito perfetto, su una superficie eccezionalmente liscia, all'improvviso deviasse fino a risultare sbagliato. Nonostante il colpo fosse stato abbastanza netto, e avesse impresso la giusta dose di forza, e avesse calcolato la giusta angolatura, il tiro si era dimostrato, senza un'apparente ragione, di quel poco imperfetto da pregiudicare inevitabilmente il risultato. La spiegazione è tutta qui. Non essendo stata posta nel giusto verso, non partivo da dritta, di conseguenza, mio malgrado, il fastidio di partire da una posizione scomoda ed il tentativo di aggiustarmi in itinere imprimeva alla mia traiettoria quella leggera deviazione che causava il fallimento del tiro. Non so se il mio padrone abbia capito tutto questo. Ho notato con il tempo una cresciuta attenzione per il modo in cui mi pone alla partenza. Ma capisco anche che per lui è difficile individuare il mio giusto verso. Sono volubile ed imprevedibile, come l'asfalto, d'altronde, su cui mi fanno viaggiare le sue dita). Questa la mia storia più recente, o meglio il prologo della storia che avevo intenzione di raccontarvi. Ora viene il dunque. Era da poco iniziata la nostra stagione estiva, la decima che vivevo con il mio padrone e quindi anche la decima della mia vita. Per quell'anno avevamo deciso di partecipare solo ad un numero piuttosto limitato di competizioni. Avendone vinte gran parte negli anni precedenti, il mio padrone aveva deciso di intervallare le gare ad esibizioni di abilità nelle quali stava cominciando a cimentarsi (e che aveva capito essere anche più remunerative rispetto al denaro che racimolava dai premi dei tornei). Si trattava di piccoli esperimenti di tiro da grandi distanze. Costruendo una pista di bicchieri di plastica e di vetro, progettava di abbattere tutti i bicchieri di carta utilizzando come sponda sia le mura che i bicchieri di vetro. L'avevamo provato per giorni, poi, dopo una serie poco incoraggiante di fallimenti, tutto aveva cominciato a collimare. Il gioco riusciva, e l'effetto che ne derivava era garantito. Questo era il clou del nostro spettacolo. Era entusiasmante vedere la gente sorprendersi di fronte alle mie evoluzioni. Non riuscivano a credere che fossi io a produrre quel caos di tintinnii e di accartocciamenti. Ed invece non facevo altro che recitare la mia parte, proiettandomi a razzo su traiettorie percorse innumerevoli volte e conosciute a menadito. Ho sempre avuto la tendenza a brillare. Non è scritta nella mia struttura molecolare la modestia e, d'altra parte, quale fra di noi non aspira ad essere riconosciuta la più bella e la più luccicante di tutte? Io in quei momenti vivevo in pieno questa sensazione, sebbene conoscessi la tendenza degli uomini a dare tutto il merito al loro simile, ad elogiare cioè l'abilità del mio padrone ed a oscurare parzialmente il mio ruolo, nonostante ciò, sentirmi tutti gli occhi puntati addosso era fonte di un piacere indescrivibile. Mi sentivo al centro del mondo, un'incandescente meteora piovuta dal cielo per illuminare i loro sogni. Mai avrei pensato di cadere repentinamente da quel piedistallo di egocentrismo che mi ero costruita a bella posta e che le circostanze avevano contribuito a consolidare. Quando quel ragazzo, scuro di carnagione e con le ciglia talmente folte da formare una sorta di tettoia sullo sguardo torvo e litigioso, uscì dalla folla e lanciò la sfida al mio padrone, vidi per la prima volta sul suo volto disegnarsi un'espressione tra il sorpreso e lo spaurito. Tra l'indice ed il pollice occhieggiava una perla amaranto dal luccichio abbagliante. Il mio padrone ovviamente non osò tirarsi indietro. Dopo solo un attimo di esitazione accettò con impeto. Da sempre amante delle sfide colse l'occasione al volo vedendo in essa l'ennesimo pretesto per dimostrare al mondo intero - pubblico inesperto ed addetti ai lavori - quanto il suo talento fosse incontestabile e puro. Osservai a fondo la presenza cristallina che mi venne affiancata sulla linea di partenza, mentre il mio padrone si cimentava nella sua solita danza propiziatoria. Una sciabola di rosso l'attraversava da parte a parte. Ne avevo incontrati di avversari, ma mai come quella volta avevo provato per la loro bellezza un trasporto tanto grande. Per la prima volta provai il desiderio inappagabile di essere come lei, desiderai di esserlo con tutte le mie forze, per la prima volta provai un sentimento dolce-amaro molto simile all'invidia. All'inizio ci sembrò di trovarci di fronte ad un avversario di buon livello. Dalla fase preparatoria di ogni suo tiro, dal peso che dava a variabili che un novellino avrebbe invece tralasciato, dalla stessa manualità che dimostrava nel trattamento della sua compagna, dall'agilità con la quale il dito indice diede un tocco leggero lanciandola in un tiro per nulla pretenzioso ma al contrario quasi offensivo per lo scopo palese ed intrinseco che aveva di studiare l'approccio nervoso che il mio padrone avrebbe adottato, ogni cosa mi suggeriva che non sarebbe stato per nulla facile avere la meglio stavolta. Le cose si misero però molto peggio di quanto pensassi. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Senza un'apparente ragione già durante il primo round - in questa parte di mondo le partite erano organizzate in sette round, con una durata massima per round di cinque minuti oltre la quale la partita veniva considerata patta e veniva assegnato un punto a ciascuno degli sfidanti - il mio padrone scelse di procedere in un modo che a me sembrò incredibile, quasi puerile, in ogni caso inspiegabile per un tipo come lui. Avevo immediatamente capito che la traiettoria che mi aveva imposto stava lentamente portandomi a scontrare la rivale amaranto, e, per quanto mi fossi sforzata di modificare la linea sulla quale rotolavo, era stata talmente tanta la forza che mi aveva impresso che non ero riuscita a fare un granché. Cozzai energicamente contro la sua parete vetrosa e la feci schizzare lontano, contro il muro di fronte, mentre io rimanevo immobile sul mio asse, persa in una rotazione vorticosa. L'uomo cigliato a quel punto sbottò. Corse dapprima a raccoglierla lontano, la guardò minuziosamente, millimetro per millimetro, per vedere se c'erano scalfitture, abrasioni, poi indirizzò verso il mio padrone improperi disonorevoli. Per un attimo ebbi paura che i due potessero arrivare alle mani. Fronte contro fronte, il ragazzo continuò a sputacchiargli contro offese irripetibili, che potevano far pensare, ad uno spettatore dell'ultimo minuto, antichi rancori venuti a galla all'improvviso, tutti in una volta. Invece, almeno per quanto ne sapevo, non si erano mai visti fino ad allora. Il mio padrone stette a guardarlo per tutto il tempo con un sorriso sghembo, ironico. Dopodiché intervennero finalmente persone a dividerli, che con argomenti concilianti, riuscirono a riportare parzialmente la calma, abbastanza da convincerli ad azzerare tutto e a ricominciare daccapo. Se intenzione del mio padrone era quella di innervosire il suo avversario, magari in questo modo provando una nuova tattica di gioco (mai usata prima di allora) che non solo gli offrisse l'occasione di sperimentare strade mai percorse, ma anche di fornirgli nuovo pepe a sfide che si ripetevano da un po' di tempo sempre noiosamente uguali (tanto che alle suddette sfide come ho già avuto modo di dire il mio padrone preferiva di gran lunga le esibizioni e non solo per una questione meramente economica), devo dire che i suoi scopi furono raggiunti in pieno. Alla spocchia che Moses, il ragazzo cigliato, aveva mostrato presentandosi, ora si era sostituita un'accresciuta cautela che influenzava ogni sua mossa, conferendo ad ogni suo gesto un palpabile alone di diffidenza. La partita ricominciò dall'inizio. Accanto a me la mia avversaria era ora leggermente impolverata e provata dal volo che le avevo imposto. Nel suo riflesso obliquo lessi "astio nei miei confronti" "odio profondo" "disprezzo estremo", e paventai una sua ritorsione. Stavolta sia Moses che il mio padrone giocarono a carte scoperte senza provocazioni né furbizie. Con la solita freddezza di sempre mi furono dati tocchi precisi che mi condussero facilmente alla vittoria dei primi due round. Sembrava che la nuova tattica funzionasse perché Moses collezionò in quei frangenti un numero di errori davvero banali. Poi la partita prese una piega diversa. Da una posizione scomoda, nascosto dietro una duna d'asfalto e parzialmente impallato dalla buca, Moses indovinò un tiro di elevata difficoltà, aggiudicandosi in questo modo il terzo round e ritrovando nuova sicurezza da una dimostrazione così eccelsa di classe. Imprimendo alla sua compagna un effetto leggero e variabile, questa s'incamminò dapprima sulla duna scavalcandola, poi, acquistando velocità, ripiegò leggermente verso sinistra, fino a che non me la vidi piombare addosso, compiaciuta e irruente. Da questo momento in poi ci trovammo ad affrontare un altro avversario. Divenuto d'improvviso freddo e controllato, divenne difficile per il mio padrone trovare una posizione in grado di metterlo in difficoltà. Se non fosse sopraggiunta un'intuizione ad illuminarlo (ulteriore prova questa del suo talento ossia della sua capacità di ascoltare il proprio intuito e di seguirlo, anche se farlo comporta sopportare un rischio non indifferente) e a fargli cambiare atteggiamento, la partita sarebbe finita probabilmente nei prossimi tre round. Invece il mio padrone scrutò l'animo di Moses, leggendovi un atteggiamento di sufficienza di fronte alle mosse più facili. Presuntuoso ed arrogante, il mio padrone lo aveva catalogato come uno di quei giocatori capaci di vincere con gli avversari più bravi e di incappare, con quelli più mediocri, in umilianti sconfitte. Metterlo di fronte a tiri semplici, magari fingendo un atteggiamento d'arrendevolezza, gli avrebbe fornito l'arma per batterlo. Il rischio che correva era enorme. Ma questo tipo di approccio psicologico alla partita, geniale nella sua originalità e audacia, diede i suoi frutti solo nel round successivo, il quarto. Moses sbagliò un tiro di una semplicità puerile, arrossendo di vergogna e cedendo qualcosa sul versante autostima. Se non fosse intervenuto a quel punto un colpo di fortuna ... Nel gioco delle biglie la componente fortuna ha un peso non indifferente, e nel quinto e sesto round Moses allungò la sua collezione di colpi di fortuna con due autentici capolavori del caso. Nel quinto round inciampai su una pietruzza e fui sbalzata di molto lontano dall'obiettivo che mi ero posta, pregiudicando inevitabilmente l'intera partita. Nel sesto, invece, incontrai un'invisibile crepa sul muro che mi impresse un effetto del tutto errato, e che mi portò a pochi centimetri dalla mia rivale amaranto senza riuscire a toccarla. Nel settimo ed ultimo round ci giocammo quindi la partita. Stavolta il rischio che si correva era davvero grande. Mentre nel quarto round l'atteggiamento fintamente arrendevole si era dimostrato giusto e vincente, stavolta che era in gioco l'intera partita, era necessario mettere in campo tutto il proprio talento. Il mio padrone appariva sicuro di sé e controllato; nonostante ciò lo conoscevo troppo bene per non leggere nei suoi occhi quel disagio, nuovo e al quale non era abituato, che provava nel non essere riuscito, stavolta, a battere il suo avversario prima di arrivare all'ultimo round. Vincere sempre e facilmente può rammollirti, di una misura talmente piccola ed impercettibile da emergere solo quando la partita diventa combattuta ed estenuante. Intanto Moses aveva ripreso l'atteggiamento urtante dell'inizio. Aveva lanciato un tiro floscio, che aveva fatto fermare la sua rossa a metà strada, qualche centimetro prima della leggera curva che divideva il percorso. Non mi piaceva Moses, e la paura di finire nelle sue mani mi trasmetteva uno strano infinitesimale tremolio su tutto il mio guscio vitreo. Sebbene si dimostrasse piuttosto attento all'incolumità ed alla lucidità della sua compagna, c'era nel suo modo di toccarla, di lanciarla e riposizionarla un'energica trasandatezza, una legnosa grossolanità che io non avrei potuto sopportare. D'altra parte nutrivo anche una piccola paura che potesse verificarsi la cosa contraria, ossia che potesse sostanziarsi l'ipotesi di vittoria del mio padrone (a ragione più probabile vista l'enorme stima che nutrivo nei suoi confronti) e di vincita quindi della perla adamantina. La bellezza di quest'ultima, la sua superba rotondità, la sua fluida scorrevolezza rappresentavano per me una minaccia. Nulla mi diceva che, un giorno, non sarebbe stata preferita a me, nulla mi garan Progetto Babele Speciale Inverno 2008 tiva che una volta vinta sarebbe rimasta a marcire nel cimitero delle sconfitte, ossia sul fondo della sacca di juta. Fino ad allora il pensiero non l'aveva mai sfiorato - d'altronde non l'avevo mai deluso e, scaramantico com'era, mai avrebbe abbandonato una come me, in grado di regalargli una serie così lunga di vittorie - ma, come si sa, le cose cambiano per tutti e non vedo perché per me non debba essere lo stesso. Questa concatenazione farraginosa di pensieri (siete sorpresi dalle enorme mole di pensieri che sono in grado di produrre, ammettetelo, mai lo avreste immaginato) mi esortava a trovare al più presto una soluzione. Quando nel terzo round Moses aveva indovinato il tiro della vita, il mio padrone ne era rimasto così profondamente colpito che da quel momento notai una maggiore attenzione nei confronti della rossa. Non sono paranoica se affermo che cominciava a mettere radici nella sua mente (ed ora toccava a me non far germogliare questa radice) l'idea di aver- ne trovato una alla mia altezza, in grado di sostituirmi alla grande e di proiettarlo ancora più lontano laddove io non ero stata in grado di portarlo. Almeno così la pensavo in quel momento. Avevo pochissimo tempo per inventarmi qualcosa e riponevo l'unica speranza nel fatto che la partita potesse prolungarsi oltre il tempo limite. L'inizio del settimo round mi faceva ben sperare. Con il suo atteggiamento provocatorio Moses cercava di tirarla per le lunghe, tanto che pensai ad un certo punto che anche nelle sue intenzioni ci fosse quello di finirla patta. Seguiva pedissequamente le mosse del mio padrone, approntando opportune ma cautelative contromosse, senza mai scoprirsi più di tanto, ma piuttosto facendo un gioco di rimessa. Quando nel quarto round aveva sbagliato un colpo a dir poco semplicissimo, imprimendo una forza non necessaria quanto sarebbe bastato un semplice accompagnamento, questa sua sufficienza gli aveva fatto fare davanti alla folla accorsa numerosa la figura del pivello, dell'ennesima vittima sacrificale. Nel giro però di pochi minuti tutti avevano dovuto ricredersi. Il ragazzo dalla peluria stranamente localizzata aveva condotto il campione, di cui si parlava come dell'imbattuto, fino all'ultimo minuto dell'ultimo round. La sensazione di trovarsi di fronte ad un evento raro aveva reso più frizzante l'atmosfera, ed il pubblico - composto ora anche da famiglie che si concentravano intorno a quegli stand soprattutto col sopraggiungere della sera, quando l'aria cominciava a rinfrescarsi e le bancarelle si riempivano di leccornie e stuzzicherie - assisteva sì composto, ma col viso proteso al fine di cogliere dell'evento il maggior numero di particolari possibile. Ad un tratto l'orologio in cima al palo a strisce, in fondo allo spiazzo, diede un rintocco: si entrava nell'ultimo minuto della gara, c'era da muoversi, da affrettare la mossa. I secondi rapidamente cominciarono a scorrere sotto la grande lancetta, emettendo un leggero ticchettio ansiogeno. Solo in quel momento il mio padrone capì quanto si fosse lasciato distrarre. Irritato dal- l'atteggiamento di Moses non aveva fatto caso al trascorrere del tempo, ed ora correva il rischio di pareggiarla, quella maledetta partita, pareggiare ossia perdere, perché pareggiare per lui equivaleva a perdere, vale a dire ad interrompere la striscia di vittorie nette, incontestabili, durata fino ad allora. Dopo aver conquistato la buca da qualche tempo, avevo provato in un numero imprecisato di tentativi (sette od otto) a colpire la maledetta, ma questa era stata, fino ad allora, bravissima nel nascondersi dietro gli ostacoli che puntellavano la pista. Nel suo estenuante giochino, Moses dimostrava una lunga esperienza e sagacia, tendeva ad estenuare l'avversario facendo leva sulla tensione nervosa e cercando così di indurlo in errore. Il mio padrone cominciò allora a giocare il tutto per tutto. M'imprimeva un effetto fortissimo, che sarebbe stato in grado di disegnare le curve a gomito che lui voleva, se solo... se solo non mi ci fossi messa anch'io, contro di lui. Sì, lo ammetto, tentai più volte di cambiare la traiettoria. Ecco, a questo punto della storia non posso che provare una sensazione terribile, un senso d'angoscia profonda che mi confonde i pensieri. Mi toccò decidere in pochi attimi. Ed in pochi attimi la paura mi fece scegliere. Per la prima volta giocai non con lui, ma contro di lui. Non mi si giudichi frettolosamente. Ero troppo legata a lui da non pagare il prezzo del tradimento pur di rimanergli lì, accanto, per sempre. Quando mancavano esattamente dieci secondi, mentre dalla sua fronte ormai madida di sudore gocciolavano pesanti gocce sull'asfalto rovente, ed un vocio sottile aleggiava sulla folla ed ampliava la sensazione di attesa, il mio padrone mi lanciò in quello che avrei scoperto sarebbe stato il mio ultimo viaggio. La rossa era parzialmente nascosta da un ostacolo a forma di piramide e dalla parte finale della buca. Non c'era abbastanza tempo per conquistare in un primo tempo la buca e poi cozzarla vincendo. Allora dapprima disegnai una parabola che mi condusse fino a lambire un lato della base quadrata della piramide, da qui, spinta dall'effetto, puntai dritto fino allo spigolo della buca, sul cui bordo il mio padrone puntava a farmi scorrere in equilibrio precario come un acrobata, fino ad abbandonare quel filo di rasoio nel punto, in coincidenza del quale, avrei dovuto cozzare la mia avversaria. Ma le cose non andarono così. Non so bene dove trovai le energie per uno sforzo così intenso. Abbandonai il bordo della buca qualche millimetro prima, in una misura piccola ma sufficiente per evitare l'incontro mentre il gong dell'orologio sanciva la fine della partita ed il disonorevole, agli occhi del mio padrone, risultato di patta. Ero salva. Le cose si erano svolte come avevo voluto e nulla e soprattutto nessuna si era frapposta fra me ed il mio padrone. Seguirono una stretta di mano e qualche scambio di battute con il ragazzo cigliato. Per lui quel giorno era stato un giorno straordinario perché era stato capace di recuperare in una partita nella quale partiva sfavorito. Per lui contava la mezza vittoria che aveva ottenuto. Sulla coscienza del mio padrone invece pesava, di una misura che non avevo immaginato potesse essere così grande, il gravame della mezza sconfitta. Quando tornammo a casa immediatamente mi accorsi che qualcosa si era incrinato. Avevo esultato troppo presto. Non ero affatto salva. Al contrario. Sembrava essersi accorto delle mie intenzioni. Sembrava vedere davanti a sé, come una presenza corpo- rea e burrosa, lo spettro del mio tradimento. Da allora il mio mondo è buio e ruvido. Dal fondo del sacco di juta lancio, ogni qualvolta una luce si sporge, il mio barbaglio azzurrognolo. Ma nessuno ha ancora risposto al mio richiamo. Sarà che non ho più lo smalto di un tempo, o sarà il destino chissà. A volte penso al mio padrone-compagno-amico. Penso che forse mi merito tutto questo. Ma sono anche consapevole di averlo tradito per amore. E questo basta, almeno per un po'. Spesso mi perdo nel pensiero rifocillante che un giorno saranno di nuovo le sue dita a trarmi d'impaccio, a salvarmi da questo limbo opaco nel quale sono cascata... Stefano Crupi belriguardo@hotmail.com Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Dieci giorni di Paolo Bertoli E quello che lo rende un bastardo è che lui lo sa e l'ha sempre saputo, di essere bello, e la bellezza è potere… lo odio perchè lui si può permettere di avere chi vuole, e allora si dimentica di me in un attimo. Non ha paura di rimanere solo, può avere chi vuole, quando vuole. Primo giorno Rieccoci, piccolo diario mio, era da tanto che non ti parlavo più. Credevo di essere felice. E quando si è felici non c'è bisogno di un amico con cui sfogarsi. Ti ho comprato in un mercatino del centro, sei fatto a mano, hai una copertina di cuoio e un piccolo laccio di pelle per chiuderti. Mi servi resistente. Da oggi, ogni sera scriverò qualcosa. Prometto.Oggi è il primo giorno di un lungo cammino che, spero, mi porterà ad un vita interiore un po' più serena. Oggi è il primo giorno del nuovo grande proposito: Dimenticare. Rinascere. Riprendermi in mano. Diventare donna. Diventare questa donna, nuova e pur sempre la stessa. Tu sei il mio unico confidente fin da quando sono piccola. Tu mi conosci e non mi giudichi. E con te non mi sento obbligata a essere felice, o bella, o simpatica; posso essere come sono e non come gli altri mi vorrebbero. E posso scrivere come mi pare, solo per me e per te. E lui se n'è andato da 31+26 giorni. Cinquantasette giorni. Mi sento vuota e sola. Mi alzo la mattina e d'istinto un braccio lo va a cercare nell'altra piazza del letto. Ma lui non c'è. Non c'è più capisci? Mi sento come se mi dovessi afflosciare da un momento all'altro, come in quel film che ho visto l'altro giorno, in cui arrivano degli alieni che con armi potentissime risucchiano i corpi degli uomini e ne lasciano solo dei vestiti vuoti e svolazzanti. Mi sento così. Risucchiata via. Oggi è il primo giorno, ma la mia fronte non è alta. Mi sento sfinita. Lentamente, ce la devo fare. Dimenticare. Per ora basta così, non sono più abituata. A domani. Secondo giorno. Oggi l'ho rivisto. Prima di incontrarlo ho riletto le lettere che lui mi mandava, all'inizio della nostra storia, così piene di amore e di speranza. Non dovevo. Quanto mi hanno fatto male! Quella frase poi, non me la scorderò mai, quelle parole, sono una ferita aperta che non si rimarginerà più, temo: Non lasciarmi mai, amore mio, e amami con tutta la follia e l'energia che ti appartengono e che mi fanno rinascere nuovo, ogni giorno. Dimmelo tu, che sei l'unico amico mio, come si fa a scrivere cose così e poi dimenticarsele in un attimo, da un giorno all'altro. Come si fa a mandare tutto a rotoli solo per delle piccole... incomprensioni. Mi sembra di essermi svegliata in un incubo. Una mattina ti alzi, ed è tutto diverso. Lui… non c'è più. Tutte le piccole tappe del tuo fallimento, però, tu non le vedi più. Non so come dire. I giorni, tanti, in cui lentamente il vostro rapporto si è frantumato come un muro troppo friabile, non ce li hai più, davanti agli occhi, non li vedi più, non li vuoi vedere, ora che lui non c'è… tu rivedi solo i momenti in cui gli brillavano gli occhi ed eravate I N N A M O R AT I … oh, che ti devo dire, è così! è proprio così, non esagero, me lo rivedo nel mio letto, e lo guardo, e vedo solo quello, nient' altro, lui che dorme, nel mio letto, quanto è bello vederlo dormire, cogl'occhi chiusi, sfiorargli il labbro con il dito, ascoltarlo respirare, sentirgli mormorare qualcosa, vedere le sue labbra che diventano un piccolo sorriso, il sorriso del mio amore che gli entra dentro fino al cuore. E oggi invece, erano due mesi che non ci vedevamo, cinquantotto giorni, per la precisione, eravamo in macchina, davanti a casa sua, era una scena triste, gli ho ridato i suoi maglioni e i suoi libri e il suo anello, sì, anche quello, quel suo fottuto piccolo anello con cui diceva di avermi sposato, a modo suo, Sposami bimba, mi aveva detto, quella sera, al mare, con gli occhi che luccicavano come perle, Qui, adesso, non ci serve nessun prete e nessuna chiesa, sposami, Eva avvolta dal serpente di Salvatore Romano resta con me, per sempre. E io mi ero sciolta in un brodo di giuggiole e mi era sembrata una cosa bellissima e davvero romantica, e Certo, gli avevo detto, che ti sposo, qui e adesso, come vuoi tu. Oggi lui ha preso i libri e i maglioni, l'anello tienilo, ha detto, quello è un regalo... oh ma, ma come si fa ad essere così superficiali? Quello è un regalo, ha detto, puoi tenerlo. E tutto quello che c'era dietro, a quel regalo, lo posso tenere? Quel per sempre, lo posso tenere? Non te le ricordi più quelle due piccole parole così importanti per me? Macchè. Lui sorrideva. Lui non prova più niente, si vede. Come minimo si sarà già trovato una troietta con cui sostituirmi. Oggi aveva un'aria fraterna, amica, tinta di una gentile compassione, era così lontano e diverso da quel ragazzo appassionato che avevo conosciuto e amato con tutta me stessa. Sorrideva. E io lo odiavo. Volevo solo investirlo con tutto il mio dolore, con tutte le parole che non ho mai avuto il coraggio di dirgli, ma sentivo che non se non se lo meritava, una voce dentro di me mi diceva che non dovevo umiliarmi oltre, che non se lo meritava, il mio dolore, le mie lacrime, la mia anima devastata... e mentre rimettevo l'anello in tasca, dalla radio è uscita quella maledetta canzone di Tiziano Ferro che era stata la colonna sonora del nostro primo incontro, e mi si sono velati gli occhi e ho cominciato a piangere. Mi sono sentita patetica e... brutta, triste, in una parola, indesiderabile; lui mi ha accarezzato la testa e ha sorriso, io tremavo tutta, e avevo le guance bagnate dalle lacrime e non riuscivo a parlare. Mi ha detto di tirarmi su e di trattarmi bene, e mi ha augurato tutto il bene del mondo e mi ha detto di essere felice, che me lo merito. Sono tornata a casa e ho strappato le sue lettere ed ero infuriata e in cuor mio gli ho augurato tutto il male, del mondo, e… ascoltami bene, piccolo diario mio ME LO DEVO DIMENTICARE. Okay? Tutto chiaro? Tu mi darai una mano, mi fa bene scrivere. Non ci voglio più pensare, non ci devo più pensare. …ma è difficile. Vivo da giorni con un infinità di piccole spine che mi si conficcano da tutte le parti, sono i ricordi, i ricordi di quel 'noi' che non esiste più, frammenti infiniti e infinitesimali, tessere del mosaico di quel nostro amore che ormai è solo una stagione del passato; mi basta poco, per cadere in un pozzo di desolazione, uno sguardo, una musica, una frase. Piccoli coriandoli che mi rimangono sulla pelle, sotto i vestiti, ogni giorno. Martelli sul mio cuore. E la cosa che più mi fa imbestialire è che non tutto mi Progetto Babele Speciale Inverno 2008 parla di lui, ma solo le cose più belle. Solo le canzoni più romantiche, solo i film più struggenti e commuoventi, ogni cosa bella, mi parla di quel bastardo che mi fa stare così male e che è sparito dalla mia vita, così, da un giorno all'altro, come un brutto male, cinquantotto giorni or sono. Terzo giorno Siamo arrivati al terzo giorno e non mi sono ancora attaccata alla canna del gas. Possiamo dire che va bene, piccolo amico mio. Mi continuo a ripetere giorno dopo giorno, ora dopo ora, che Devo voltare pagina anch'io. Devo voltare pagina anch'io. Oggi gli ho mandato un sms, non ho resistito, lo so, è stato un errore, ma non ce la facevo più e mi sono umiliata ancora, e non potevo fare a meno di umiliarmi, di raschiare il fondo del barile dei sentimenti e delle suppliche, Io ti amo ancora, gli ho scritto a 31+28 giorni da quando ci siamo lasciati, Ti amo, e non ti dimentico. Sono una fallita piccolo diario mio. Sapevo benissimo che avrei avuto una risposta come quella che ho avuto: Anch'io ti ho amato moltissimo ma ora capisco che è giusto così e io non mi faccio problemi e vado avanti e ora sto bene così…e poteva metterci una virgola, almeno. Piccolo bastardo. E allora io non ho resistito e quell'attacco di malinconia che mi frullava di dentro si è mutato in odio e rabbia e voglia di spaccare tutto, e non ho potuto fare a meno di scrivergli che Io non l'ho mai amato uno così, che pensa solo a fare il fighetto per la via della città, e fa solo finta di scrivere delle belle lettere e di amare con il cuore, e invece poi cambia la morosa come cambia un paio di scarpe, e ho solo fatto un enorme errore a fidarmi di uno come lui e …poi basta perché erano già tre messaggi e mi sentivo umiliata a filtrare il mio dolore dentro a quegli stupidi sms. Lui li adora, gli sms. Anch'io li adoravo. Quando all'inizio mi mandava quelle frasi che erano come i raggi di un sole accecante che porta via tutte le nuvole. Ah, dimenticavo… gli ultimi messaggi, tutti pieni di insulti reciproci; quando sentirai di quest'ultima cosa di sicuro capirai perché sono così sconvolta e perché scrivo così incasinata. Io sto uscendo con una persona, ora. E sto bene, e spero che tu trovi qualcuno di giusto per te. Ero seduta, in camera, quando mi è arrivato l'sms, le pareti mi sono piombate addosso, ho sentito il colore sparire dalla mia pelle, il cuore dentro al petto…oh, quello poi, sembrava un pallone da rugby impazzito e imprigionato dentro a una scatola troppo fragile per contenerlo. Ha già trovato un'altra. Ha già trovato un'altra... …ma per lui è più facile, lui è un uomo bellissimo, ricordo che ogni donna si girava a guardarlo, quando entravamo abbraccia- ti nei locali, e lo so che tutte si chiedevano come facesse uno così a stare con una come me, che con quella bellezza non ha mai avuto niente a che spartire. E quello che lo rende un bastardo è che lui lo sa e l'ha sempre saputo, di essere bello, e la bellezza è potere… lo odio perchè lui si può permettere di avere chi vuole, e allora si dimentica di me in un attimo. Non ha paura di rimanere solo, può avere chi vuole, quando vuole. Io non riesco nemmeno a immaginare, di volere qualcun'altro. Non capisce che io vedevo in lui molto di più, di quella semplice e banale bellezza esteriore. Io vedevo dove iniziava e dove finiva. Quanto sono stata stupida, piccolo diario mio, quanto mi rode questa situazione, mi ci vorrebbe una lobotomia, portatemi via la parte del cervello che ancora si ricorda di lui, portatemi via la parte del cuore che ancora lo ama. Ti prego. Piccolo diario mio, aiutami almeno tu. Forse tu, sei quello giusto per me. Basta, ora letto e dolore. Trattati bene, trattati bene. P.S: Hai visto quanto ho scritto oggi? Quarto giorno. Non faccio altro che guardare dei film alla tv. Mi aiuta a non pensare. Le ragazze con cui condivido l'appartamento erano stufe di vedermi sempre così triste e allora stasera sono piombate incamera mia e È ora di uscire, mi hanno detto, Così non si può andare avanti, staccati da quella dannata tivvù. Ci siamo fatte belle e ci siamo messe tutte in tiro e siamo andate in centro. Mi hanno portato nei locali alla moda, e poi in discoteca. Purtroppo non è servito a nulla e ho sperato tutta la sera di tornare presto a casa. Quelli erano i posti che frequentavo con lui, e ad andarci con le amiche mi sembrava di essere senza una parte di me. Mi sembrava che tutti mi guardassero strano, con occhio compassionevole, mi sentivo un caso umano. Poi, le mie amiche, sono diverse da me. Loro si lasciano e si prendono coi morosi ad ogni piè sospinto, e comunque anche se magari sono single hanno amici di letto, hanno molte compagnie, non hanno scrupoli nel tradire, fare sesso con chi capita... oh, ma perchè io sono così diversa? oh, che tormento! Gli sms dell'altro giorno, li ho cancellati tutti. Purtroppo stasera, appena tornata a casa, ne ho riletto uno, uno degl'ultimi. Era rimasto in memoria. C'hai trentanni, c'era scritto, Non puoi dire certe cose, lo so che mi amavi e non è giusto che mi insulti, non eravamo felici, insieme, lo sai.I miei trent'anni. Oh! quanto ci aveva pestato, negli ultimi tempi, quel piccolo bastardo. Mentre lui non faceva altro che comprarsi vestiti nuovi, abbronzarsi, e andare in palestra e in discoteca a fare il figo. Ventenne dei miei stivali. Non è giusto che mi faccia sentire vecchia. Lui che mi aveva fatto rinascere. Lui così giovane, bastardo e bello. Prima di lui, anni fa, diarino mio tu lo sai, ce n'era stato solo uno. Ho avuto un solo ragazzo, prima di lui. E anche quello ha tracciato un solco dentro di me che ancora fa male, a pensarci, anche adesso che la ferita è un'altra ed è così tremendamente difficile da curare. A volte penso che non ce la faccio, che forse, mollare tutto, non sarebbe poi così male, se solo mi venisse da fare un sorriso sincero, davanti alla vita, se solo non mi svegliassi dentro ad incubi che mi creo da sola… perché forse è solo colpa mia, del mio esser così maniacale, e precisa, e rigorosa, i libri ben impilati, gli orari ben scanditi, tutto dev'essere preciso come lo voglio io… lui non mi sopportava quando facevo così. Lui voleva la mia follia e la mia energia. Ma per me il mondo dovrebbe essere come un sogno, come un enorme puzzle dove tutti i pezzi si incastrano perfettamente. Purtroppo però, ho capito da tempo che le persone non sono pezzi di puzzle, e devono smussare un po' i loro spigoli, se vogliono stare insieme. Forse è questo il mio problema. Io non mi smusso. Io sono come sono. E adesso patisco. Non so che pensare, piccolo diario mio (ma so che non pensare, a volte, aiuta). Trent'anni, vecchia. Patetica. Notte, speriamo domani vada meglio. Quinto giorno Chi può essere quella dannata troia? Sicuro una di quelle stronze dell'università, quelle studentelle svampite e giovani e tutto sesso! Oddio, no, una di quelle della palestra, giovani e belle e tremendamente in forma. Giovani giovani giovani. Io ho paura a guardarmi allo specchio. Ce li vedo, a chiacchierare davanti a un bel bicchiere di vino rosso, che a lui piaceva tanto e a me faceva venire le sfogazioni sulla pelle, ce lo vedo quel porco infilare gli occhi nella scollatura di quella… oh, ma quanto sono stupida, basta. Niente da fare, quinto giorno, tutto è sempre più difficile. 31+30+1 giorno. Sessantadue giorni. Nulla cambia. Sesto giorno E se tu adesso fossi qui, piccolo bimbo bastardo, ti direi che è quando si entra nelle categorie che si esce dal sogno, quando si entra nelle parole… che i sogni vacillano! Perchè non lo capisci? Ti amo, ti amavo, non ti amo più… che diavolo significa? Amare è un verbo che si può coniugare solo al presente. Io non mi evolvo, diceva Picasso, Io sono. E io amo. Ti. Amo. Per me NON ESISTE 'ti amavo' o 'ti ho amata…'. Per me esiste ti amo. In corsivo. Ti amo. E non smetterò mai. Come si fa a dire ' Non ti amo più'? ma 'più' cosa? Io non amo 'più' o 'meno'. Amarti è un sogno che non finisce mai, che non può finire. Amarti è il sorgere del sole, è il fiorire delle piante… Amarti non è retorica. Amarti è esistere. Amarti è fuori dal tempo, Amarti è sempre, Amarti è tutto. Io non so smettere, di amare. Mi avete sempre tutti abbandonata, infatti,in vita mia. Io non sono capace, di lasciare. Quando tu mi dicevi Ti amo io ti dicevo Ridillo. E sai perché? non solo per l'intimo piacere che mi procuravano quelle due parole, Progetto Babele Speciale Inverno 2008 ma anche, e soprattutto, per la sottile paura che, in un attimo solo, tu potessi cambiare idea, perché un attimo solo può bastare, a quelli come te, per dimenticare… Io sono diversa. E quindi ora il mio sogno è un incubo infinito, l'amore un eterno tormento, e tu… non ci sei più, semplicemente, non esisti più, sei diventato categoria, tu sei solo una parola, sei solo un'ombra senza vita, un'immagine senza contorni,sei solo un cadavere dentro al mio cuore. Settimo giorno Non riesco a parlare, nemmeno a te, oggi no. Lo so che avevo promesso, ma non ci riesco. Non capisco cosa stia succedendo, quello che è successo oggi è così... Oddio non mi vengono le parole, la vita è una merda. Ottavo giorno Dunque, proviamoci. Chissà che mi aiuti a stare meglio. Spero di riuscire a scrivere. Andando avanti con le parole capirai perché ieri non ho potuto scrivere più di quello che ho fatto. Stavo guardando un film, ieri, era mezzogiorno, più o meno, tutto era come sempre, quando è squillato il telefono. Oddio è tutto così strano… Era la polizia. Mi chiedevano se potevo andare in centrale, il prima possibile. Io non temevo nulla di grave, non avevo idea del motivo della mia convocazione, ma pensavo fosse una roba di multe magari, una cosa così, senza importanza, d'altronde non ho mai fatto nulla di male per cui... Insomma che sono arrivata là verso l'una... oddio, non riesco quasi a scrivere, è incredibile quello che può capitare in una vita... Un poliziotto mi ha portato nell'ufficio del Commissario capo, non ricordo il nome. Era un tipo basso e grasso, pelato, col fare arrogante, sprofondato in una poltrona di pelle. Alla sua destra, c'era un altro poliziotto, il tenente qualcosa, molto alto e smilzo, con un piccolo pizzetto e i capelli folti e ... no! Non riesco a raccontare come se fosse la pagina di un romanzo, no! non ci riesco! piccolo diario mio, com'è possibile? ti rendi conto? ME L'HANNO UCCISO! Lui, il mio amore bastardo, il mio pensiero fisso di sessantaquattro giorni ormai, l'uomo che ha attraversato la mia anima e non se n'è mai più andato, che io sento ancora vivo qui, vicino a me, dentro di me, che non ho mai dimenticato nemmeno quando mi ha trattato come una merda, nemmeno quando mi ha lasciato, nemmeno quando l'ho odiato con tutta me stessa...io...io... non ho mai permesso al suo spirito di abbandonarmi... e...e tu lo sai…Non mi vengono le parole, amico mio, l'hanno ammazzato! un pirata della strada, l'ha preso sotto ed è scappato. Chi può aver fatto una cosa simile? Non so cosa pensare, mi butto nel letto sperando di sciogliermi in un liquido denso e attraversare le coperte, il materasso, penetrare le pieghe e i mattoni, e rimanere inghiottita, al sicuro, nel cuore del mondo. (Piccolo diario mio, se solo tu potessi parlare, mi diresti di smetterla di piangere, visto che sono proprio io quella che pochi giorni fa gli augurava tutto il male possibile. Smettila di piangere, stupida inutile e indesiderabile donna.) Nono giorno Non posso lasciare la città. Mi hanno detto i poliziotti. La cosa mi riesce facile visto che è due mesi che non metto il naso fuori di casa. Hanno detto che in quanto sua ex sono una persona informata dei fatti o qualcosa del genere, e quindi devo rimanere reperibile. Mi hanno fatto un lungo interrogatorio, l'altro ieri, al commissariato, un'infinità di domande, e per me è stato difficile perchè non ci capivo nulla, ero già abbacchiata per il mio mal d'amore e una cosa così proprio non me l'aspettavo... e quindi non riuscivo a spiccicar parola ed ero solo angoscia e singhiozzi. Quando mi hanno lasciato andare sono tornata a casa e le mie amiche sapevano già tutto, conoscevano il mio ex e avevano sentito dell'omicidio da un servizio speciale che era andato in onda in tv. Mi hanno abbracciato in silenzio e hanno pianto insieme a me. Menomale che c'erano loro. Poi mi ha chiamato la mamma, e mi ha consolato come solo lei sa fare. Qualche ora dopo, io ero sul letto, in camera mia, quando hanno suonato alla porta. Era il tenente del commissariato, quello alto e smilzo. Le ragazze lo hanno fatto entrare, e lo hanno portato in camera mia, e lui si è seduto sul letto, accanto a me, con molta... delicatezza, sì piccolo diario mio, delicatezza è la parola giusta. E abbiamo parlato per molto, molto tempo. Non era un interrogatorio, i suoi toni erano molto più gentili di quello sbruffone di un Commissario che c'era in centrale. Poi, ha ricevuto una telefonata, mi ha detto che doveva andarsene a proseguire le indagini, e se n'è andato dicendo che sarebbe tornato anche oggi per parlare ancora e così ha fatto, infatti. Ha detto di star tranquilla, e mi ha guardato con apprensione, forse temeva chefacessi qualche pazzia, visto com'ero triste. Non so. É stato gentile. Poi oggi… Ora sono stanca, e penso quasi di avere sonno, sono parecchi giorni che dormo poco e male e quindi, mi perdonerai amico mio, se ti lascio e vado a dormire. Ultimo giorno Il tenente ha detto che, comunque, potrò continuare a scriverti, piccolo amico mio. Non proprio qui, ma su un altro diario, che mi daranno loro. Ultimo giorno dunque, per questo te cartaceo, ricoperto di pelle, e col cordino. Sei durato solo dieci giorni, peccato. Speriamo che quello che mi forniranno sia bello come te. Ogni sera, avrò un'ora per scrivere. Il tenente ha detto che glipotrebbe venire utile, per capirmi. È garbato, e carino anche. E ha detto che verrà a trovarmi spesso, qui dove sono ora. Ieri è tornato ancora a casa mia, come aveva detto, e abbiamo parlato per un po', e poi mi ha portato qui. Ha detto che ho bisogno di attenzioni, che devono curarmi… Il tenente dice che vivo in un mondo mio, che ho bisogno di affetto e di qualcuno che si prenda cura di me. Dice che sei scritto bene, piccolo diario mio, e non so se l'ha detto per pura gentilezza, ha detto che gli verrai molto utile, per aiutarmi. Il tenente dice che mi invento tutto, che vivo in una realtà diversa. Tu non li guardi, i film, ha detto, Tu li vivi. Dentro di te. Dice che c'entro qualcosa con la morte del mio piccolo amore bastardo… dice che l'altra sera non posso essere uscita con le mie amiche perché non esiste nessuna amica e nessuna coinquilina, che vivo sola già da un po'…e pensa che si è permesso di affermare che non ho neppure i genitori, che sono orfana da sempre (ignorando che proprio l'altro giorno ho ricevuto una telefonata dolcissima dalla mamma…) e dice che è tutto una mia invenzione… ed è per quello che non esiste uno straccio di nome proprio, tra le mie parole… e poi ha parlato della mia macchina, ha detto che era ammaccata e piena di graffi, e insomma che a sentire il tenente, loro lo sanno, che sono stata io. Dice che quando entro nel mio mondo posso essere molto pericolosa, sia per me che per gli altri, anche se non è proprio colpa mia, ma di qualcosa che ho dentro e che ogni tanto si scatena senza che io lo possa controllare, e che… che fa esplodere tutti i pezzi del puzzle. Lui dice che funziono così, soffro, distruggo, e poi, lentamente, dimentico, e ricostruisco. D'altronde era questo che mi ero ripromessa di fare, e tu lo sai. Dimenticare. Dice che io agisco così, di rimozione, mi sforzo per creare e dimenticare. Pensa te. La gente dev'essere proprio tutta impazzita! Io non dimentico nulla e non mi invento nulla. E tu lo sai. L'anello che ho al dito mi ricorda che devo rimanere con i piedi ben piantati per terra, se non voglio soffrire ancora, se non voglio che i martelli ricomincino a battere sul mio cuore. Il tenente ha detto che mi guarirà, col tempo - ma non credo ce la farà, a farmi diventare come vuole lui, insomma… dice delle cose che non stanno né in cielo e né in terra! se va avanti così arriverà persino a negare il fatto che sono una donna… Ora devo scappare, addio, piccolo unico amico mio, domani un altro giorno e un altro te. Un nuovo diario, e pur sempre lo stesso. Questa volta per me, per te, e anche per il tenente, e la sua gentilezza. Con tutta la mia energia, e la mia follia. Scusa se ho scritto così di fretta, ma l'infermiere è già entrato, ora mi sta guardando e aspetta con impazienza che finisca di scrivere queste mie ultime parole. In mano ha una camicia di forza. Notte amico mio, il resto a domani. Paolo Bertoli bertolipaolo@hotmail.com Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Gli ultimi uomini di Lorenzo Paletti 4 agosto 2019 / poco prima mezzogiorno Alla sveglia, questa mattina, ho trovato una zattera incagliata sul lembo di spiaggia davanti alla mia capanna. Mi chiedo chi possa essere. Chi, con un mezzo così rudimentale abbia potuto raggiungere la mia isola. La vela è un lembo di stoffa verde. Una volta il colore doveva essere molto più intenso, ma il sole e la salsedine ti rovinano. Io ne so qualcosa. Dopo che mi sarò procurato il pasto proverò a cercare il possessore della zattera, sempre che questa non sia arrivata qui da sola, e il mare non si sia mangiato il misterioso viaggiatore. 4 agosto 2019 / sera Le ricerche sono state infruttuose. L'isola non è che un piccolo lembo di terra, ma è pieno di grotte e zone boscose dove qualcuno potrebbe nascondersi. Solo con mi domando perché, nonostante la mia abitazione sia ben visibile dal mare, il viaggiatore non sia venuto a bussare alla porta di legno. Dubito sempre più che troverò qualcuno sull'isola. Il sole è sceso già da un pezzo. Vado a coricarmi. 5 agosto 2019 / primo pomeriggio Il cielo, stamane, era limpido in un modo sorprendente. Dal turchese sfumava verso l'orizzonte in un verde molto simile a quello del mare. Ho controllato altri possibili nascondigli, ma nessuna treccia del misterioso viaggiatore. 5 agosto 2019 / notte Non riesco a dormire. Mojo continua a saltare per la casa e gridare. Ho provato ad avvicinarmi, ma ha digrignato i denti. 5 agosto 2019 / notte Mojo è fuggita dalla finestra e si è messa a dondolarsi sui rami senza sosta. Non capisco cosa le prenda, ma posso finalmente tornare a dormire. 6 agosto 2019 / dopo mezzogiorno Dopo la notte nella quale ho poco dormito, questa mattina mi sono svegliato tardi. Dopo avere fatto colazione sono uscito, e la zattera era scomparsa. Non ci sono segni di trasporto sul bagnasciuga, quindi deve essere stata spostata durante la notte, con l'alta marea, che ha cancellato le impronte. Forse Mojo aveva sentito la presenza del viaggiatore. Sono solo e mi sento inquieto. 6 agosto 2019 / sera Mojo non è ancora ritornata. Fuori piove, ma la temperatura non si abbassa. Inoltre mi sembra di sentire uno strano odore nell'aria. Questo pomeriggio, prima che il cielo si annuvolasse, ho completato le ricerche sull'isola. Posso dire con cautela che qui non vive nessun altro eccetto me. Ma allora, chi ha spostato la zattera? 7 agosto 2019/ mezzogiorno Non so se è veramente mezzogiorno. Il sole non si vede, perché il cielo è coperto da strane nuvole rosse. I pesci intorno all'isola sono morti, ne ho trovati molti sulla spiaggia, e penso che quelli in acqua abbiano fatto la stessa fine. Anche il mare non sembra più lo stesso, e non è perché riflette il cielo. 7 agosto 2019/ prima di cena Ho ritrovato Mojo. È morta. Era a pochi passi dalla capanna. Andando a seppellirla nella foresta mi è parso di vedere l'ombra di un uomo nascondersi nella vegetazione. Durante il tragitto ho notato anche che molti animali dell'isola sono morti. Deve essere stata la pioggia. Ma perché il cielo è rosso, e la pioggia uccide? Cosa sta succedendo? 8 agosto 2019/ alba Questa notte non ho chiuso occhio. La foresta è silenziosa, come se gli animali fossero a lutto. Sono rimasto a guardare il mare e la foresta, sperando quasi di poter incontrare il misterioso viaggiatore, ma nulla, soltanto un silenzio terrificante. 8 agosto 2019/ tardo pomeriggio Le ore non passano più. Sull'isola si sta allargando un odore insopportabile di putrido, di carne marcia. Verso mezzogiorno (non sono riuscito a mangiare) mi è parso di sentire dei passi sul portico della capanna, ma quando sono corso a vedere chi o cosa fosse, non c'era nessuno. Mi sento assonnato. 8 agosto 2019/ notte Sono sfinito. Il cielo non ha ancora perso quella strana colorazione e l'odore di cadavere diventa sempre più acre. Sto cominciando a pensare di utilizzare il telefono. Mi ero ripromesso di utilizzarlo solo in caso di emergenza, ma devo ancora decidere se questa sia una vera emergenza. Ora gli occhi mi si chiudono. 9 agosto 2019/ poco prima di mezzogiorno Oggi la situazione è migliorata. Il cielo è tornato ad avere il solito colore, ma sulla riva si ammassano sempre più pesci morti. Non so cosa fare. Inoltre le mie riserve di cibo stanno terminando. Mangiare pesce non mi sembra una buona idea, ma dopo quella dannata pioggia, nemmeno la frutta della foresta, o gli animali, sono una garanzia. Nel frattempo ho deciso che questo pomeriggio, con il favore della luce, riproverò a individuare il ricercatore. Oramai me lo sento nelle viscere. C'è qualcun altro sull'isola, e devo scoprire chi è. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 9 agosto 2019/ sera Nella capanna ho trovato una sigaretta. L'ho fumata quasi con un unico tiro, era buona. Non so come possa essere finita dove l'ho trovata, ma era della marca che fumavo prima di decidere di fare la vita che faccio qui. Probabilmente me ne ero portato un pacchetto e non ne ho ricordo. La riscoperta del tabacco è stata talmente sorprendente che mi sono dimenticato della ricerca. Me ne occuperò domattina. Mi sento meglio. 10 agosto 2019/ alba Parto per l'operazione di individuazione del viaggiatore con un pezzo di cocco come colazione. In cuor mio spero di trovare qualcuno. 10 agosto 2019/ tardo pomeriggio L'ho trovato. È un uomo sulla cinquantina, brizzolato. Era sul picco più alto dell'isola che sgranocchiava noccioline da una confezione di plastica. La cosa che mi ha impressionato è stato il suo viso. La pelle bianca come il latte, e gli occhi scuri e profondi come la notte, mentre scrutava l'orizzonte, totalmente immobile. Gli ho chiesto chi era, cosa ci faceva lì, come ci era arrivato. Ma lui non ha aperto bocca. È restato lì collo sguardo fisso come se non ci fossi stato. Sono riuscito a trascinarlo a forza nella capanna. Era freddo, quasi congelato. L'ho coperto e gli ho dato una zuppa calda, che ha mangiato come se fosse in trance. Adesso si è addormentato, ed è steso in camera. Non riesco a capire cosa abbia, o cosa ci faccia sull'isola. Mi auguro di riuscire a farlo parlare. 10 agosto 2019/ notte Ho lasciato il viaggiatore a dormire tutto il pomeriggio e non si è ancora svegliato. Io sono uscito per ammirare le stelle cadenti. Il cielo era miracolosamente limpido e sono riuscito a intravederne una. Involontariamente il primo desiderio che mi è venuto in mente è stato: sopravvivere. A cosa, non lo so. 11 agosto 2019/ mezza mattina Quando mi sono alzato, il viaggiatore era seduto al tavolo sotto il porticato della capanna. Io ho fatto colazione, lui è rimasto in silenzio. Indossa un paio di pantaloni che dovevano fare completo con una giacca, e una camicia che in un tempo lontano dovesseessere stata bianca. È a piedi nudi, e ogni parte del suo vestiario è ridotto come la vela della sua zattera. Probabilmente è stato proprio la marea a portarselo con me. Il viaggiatore non ha ancora parlato, e la sua salute mi preoccupa. 11 agosto 2019/ notte Lui dorme. Questo pomeriggio mi sono avvicinato con del tè caldo. Lui era seduto sul divano. Ho preso la tazza tra le mani e poi l'ha lasciata cadere e ha sbarrato gli occhi, come se stesse osservando una scena già vista. E lì, per la prima volta, l'ho sentito parlare. Ha una voce roca, acuta. Con tono basito ha ripetuto: "Hai visto? Sono arrivati. Che ti dicevo? Ci siamo salvati per poco. Ora siamo gli ultimi. Gli ultimi uomini". È andato avanti così senza sosta per diverse ore, senza sosta. Ho provato a chiedergli di cosa stesse parlando, di spiegarsi meglio, ma era come sordo. A un tratto ha gridato ed è svenuto, accasciandosi sul sofà. 12 agosto 2019/ mezzogiorno Durante la notte il viaggiatore è morto. Nel sonno, probabilmente, non l'ho sentito gridare, lamentarsi o fare rumore. È morto in silenzio. Meglio per lui, penso che fosse pazzo. Chissà cosa gli girava per la testa? A cosa pensava. L'ho portato nella foresta, ho scavato una buca e l'ho seppellito coprendolo con un telo di juta. Ho pregato per lui, ma non sono un prete, e mi dispiace di non avergli dato una benedizione. Forse non l'avrebbe voluta, ma certamente mi sarei sentito meglio io. Continuo ad essere preoccupato, il mare si è portato via i pesci deceduti e le cose sono tornate alla normalità, ma quella pioggia… e quell'uomo… E quello che ha detto… Non riesco a darmi pace. 12 agosto 2019/ profonda notte Il mio sonno è sconnesso, intervallato, e quando riesco a chiudere gli occhi, è talmente leggero che non dura più di alcuni minuti. Dalla foresta arriva un gran frastuono, gli animali sono in fermento. Si prepara qualcosa di brutto. 13 agosto 2019/ mezza mattina Questa notte, ahimè, ho capito. Tre aerei militari hanno sorvolato l'isola a tutta velocità, hanno attraversato l'orizzonte e sono scomparsi. Ho visto un grande lampo, abbagliante, provenire dalla loro direzione, e quindi si è sentito un grande botto, che ha fatto tremare la terra. Poi, in lontananza, si è materializzata una nube a forma di fungo. Il motivo per il quale ero fuggito, la pazzia dell'uomo, è venuto a prendermi anche qui. Il viaggiatore doveva essere uno dei pochi superstiti. Chissà da quanto è cominciato l'olocausto nucleare? 13 agosto 2019/ pomeriggio Il fungo ci ha messo diverso tempo a dissolversi. E il cielo è diventato ancora rosso. Ora tutto ha una spiegazione, ma nulla un senso. Mi sento debole, e non so se è una questione mentale o fisica. E soprattutto mi sento preoccupato, per me e per gli uomini. Vado a fare un pisolino. Mi sento molto stanco. 18 agosto 2019/ sera Negli ultimi giorni la situazione è degenerata a velocità vertiginosa. Le esplosioni all'orizzonta si sono susseguite con una frequenza impressionante, mentre i jet militari continuano a tagliare il cielo sull'isola in tutte le direzioni. È dall'ultima volta che ho scritto che non vedo il cielo azzurro, ma mi sembrano secoli. Ho finito da tempo la riserva di cibo, e mangio animali malati e frutta radioattiva. Il mare ha una strana schiuma che si rifrange sulla spiaggia. 20 agosto 2019/ pomeriggio Sono seduto in riva al mare, a debita distanza. L'acqua è diventata rossa, mischiata con il sangue. Mi chiedo da dove arrivi. Sono dimagrito e se mi guardo allo specchio mi pare che il mio volto sia invecchiato di trent'anni in pochi giorni. Sento il cuore che pompa debolmente. Non so se sia stata la pioggia, o quello che ho mangiato, o il contatto con il misterioso viaggiatore, ma mi sento male. Dentro. Sono sfinito. Distrutto da questa vita e dall'umanità. Sono stanco. Ma mi piace pensare che qualcuno, quando un domani leggerà questo diario, se un domani e un qualcuno ci saranno ancora, potrà sapere che me ne vado con una certezza: L'uomo ha sempre un'altra speranza. Ora, con la penna tra le dita, muoio. Lorenzo Paletti lorenzo.paletti@gmail.com Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Il cane giallo di Luca Bidoli L'ho riconosciuto, dagli occhi, il custode della fabbrica di Srebrenica- anche se lui non lo poteva sapere- ci eravamo già incontrati mille altre volte, senza neppure sfiorarci, con i sacchetti dei vermi e petali appassiti, negli occhi, ficcati nelle nostre palpebre. La fabbrica comparve sulla sinistra, enorme, una massa grigia di vuoti e spazi, contrappesi, di lamiere e tubi. Un gigantesco ventre di ruggine, ferro, acciaio. Un dinosauro accartocciato su sé stesso, con qualcosa di primitivo, di estraneo e duro, dentro. E niente intorno. Il vuoto, forse le colline lontane, il sole dietro le nubi, a rischiarare il luccichio dell'asfalto. Il cimitero, accanto, disturbava: quelle costruzioni moderne, scintillanti nelle pietre, le scritte in inglese, i prati con gli steli verdi a ricordare i morti, gli assenti. Un'occhiata veloce, di rito, un passeggiare tra viali accurati e lamine incortecciate nella terra. Le foto, in bianco e nero, nella sala asettica del ricordo. Un obitorio per una vivisezione, per raggrumare un dolore che non sapeva farsi ancora sdegno, e ira. A che scopo? Perché tanta cura, tanto ordine rigoroso, perché tante geometrie, quando invece lì accanto, si apriva il vero posto, la fabbrica della memoria, l'urna sacrale che neppure la pioggia -diventata fitta, intanto, rapida nella sua monotona scansione del tempo- riusciva ad attutire, a rendere meno opprimente? La pioggia: durante la pioggia cosa fanno da queste parti gli uomini e le donne, di cosa parlano tra loro i vecchi, come giocano i bambini? Dove, su quali limiti si posano gli occhi, che cosa immaginano oltre il verde dei prati, degli alberi, al di là degli agguati, delle raffiche, dei suoni che questo vento leggero di inizio maggio ancora portava con sé? Era, quel suono, una lingua non straniera, nella quale e dalla quale traevano forza e sostanza le nostre emozioni, il nostro sospetto di essere già, dalla prima percezione di quella massa di rocce e ferro, in un altrove. Che erano nel nostro tempo, queste, le nostre sole Termopili possibili: nell'eccidio, nelle stragi, pensavamo, si declinano i giorni della pioggia in questa parte del globo, in questo specchio divelto del pianeta. Un cane: era un cane, un imprecisato cucciolo, ad accoglierci, nel prato antistante l'ingresso. E poi, poco dopo, un uomo. L'unico che dovevamo incontrare, conoscere, in quel luogo. Né troppo giovane, né vecchio, magro, di altezza normale: non ne ricordo il nome. Aveva la barba lunga, e nei suoi occhi sembrava quasi di leggere la timidezza antica di chi si sente sempre fuori posto, davanti ad un estraneo, davanti a degli stranieri. Anch'io ho sensi simili, del sospetto di essere in casa d'altri, ospiti poco graditi e temporanei. Non lo amo il mio tempo, non lo amo. Nelle tasche poche cose, qualche spicciolo, e le spine, quelle sì, appresso a noi, gradite e complici compagne. L'ho riconosciuto, dagli occhi, il custode della fabbrica di Srebrenica- anche se lui non lo poteva sapere- ci eravamo già incontrati mille altre volte, senza neppure sfiorarci, con i sacchetti dei vermi e petali appassiti, negli occhi, ficcati nelle nostre palpebre. Ci siamo intesi subito, anche se io non capivo una parola. C'era Silvia. Lei era il mio, il nostro tramite, il punto di confine. E di confini ne avremmo attraversati molti in quelle ore. Dietro ad ogni porta, oltre ogni muro: un nuovo vuoto, un altro aggredirsi e il chiedere come e perché, e le risposte che si smorzavano tutte nelle domande. Non c'è, forse, sofferenza peggiore: quando sai, e non riesci neppure a disperarti, perché hai già compreso troppo. Diviene un limite, una barriera: anche il capire non ti è d'aiuto, davanti al puro e semplice orrore, davanti ad ogni, qualsiasi atto o forma di violenza. Non hai più parole: ti sono ostili, non ti servono. Anzi, ti allontanano. Forse recuperi altri linguaggi: gli sguardi, il tuo, il nostro passo nel fango e nelle pozze d'acqua marcita, e tra i calcinacci, nelle scorie, il peso del tuo corpo, le braccia che barcollano ai tuoi fianchi, l'ombra delle colline che si allontana dal tuo orizzonte. E pensi al vuoto, che è già colmo, pieno di coloro che non ci sono. Sono morti. Distesi nei prati al di là della strada, nel camposanto miliardario. Ma è qui- affermi a te stesso, con forza- è qui, che loro ancora respirano e io mi nutro della loro stessa aria e cammino, libero. Libero, forse. La fabbrica: lì i serbi avevano radunato la gente, lì avevano portato donne e bambini, e gli uomini. Poi, lo smistamento- via le donne e i bambini, quelli più piccoli, i vecchi ricurvi- e il massacro, l'eliminazione. Dai dieci ai settant'anni, gli uomini. L'anagrafe è spietata, crea una condanna. L'età diventa, al pari della tua fede, il marchio di una sentenza, di una fine. Perché? Perché tanto odio? Perché, ora, questo silenzio, questa pioggia che lava i nostri volti ma non arriva a toccare quello che ci cresce dentro, quello che muore ad ogni passo sulle nostre labbra? Perché? Così, io, Silvia, il custode e il suo cane, attraversavamo i padiglioni, le stanze, attenti agli usci divelti, alle buche negli asfalti, alle assi riverse per terra, alla ruggine che raschiava la gola e faceva amara la bocca. Quanti passi ci separavano dall'uscita? Contavo i metri, i passi mi precedevano: se la vista era quella di un cieco, era solo per percepire i suoni, i rumori, gli echi. Lui aveva perso la sua famiglia, lì. Era l'unico superstite. Io l'avevo compreso subito: dagli occhi, questi immondi, spietati occhi che tutto dicono, che tutto tradiscono. La stretta di mano, non così forte, non così debole. Il cane, quel cane che ci seguiva, in un tragitto conosciuto e ripetuto, con uno scodinzolare da cucciolo, da lattante, l'essere più nuovo del mondo, da quelle parti. Sapeva molte più cose di me, quel cane. Volevamo vedere i graffiti: quelli lasciati dagli olandesi, dai soldati che avrebbero dovuto essere protezione, salvaguardia, salvezza. Quelli lasciati dai carnefici, e da altri, indistinti, innominabili, inghiottiti dalla pioggia. Già, i graffiti. Primitivi segnali di presenza, tracce, testimonianze. Lancinanti spezzoni divelti dall'universo, comete estranee alla vita, frasi volgari, membri maschili e svastiche, elicotterini e carri armati disegnati da bambini ebeti, sfatti dalla noia e dall'uso del terrore: dalla sua abitudine, dall'assuefazione che cresce nel vuoto. Io li vedevo, quei ragazzi, que Progetto Babele Speciale Inverno 2008 gli uomini. Li immaginavo, esausti, ubriachi, sfiniti. Ne sentivo l'odore di vomito racchiuso dentro le pareti, comunicante con le latrine, i tubi della fabbrica, i rigagnoli di urina e catrame. E questo odore di piscio, vomito, catrame e ruggine vecchia si diffondeva nella mia testa e non mi lasciava respirare. Barcollavo, e davo l'impressione di essere ubriaco. Anche il sorriso da ubriaco avevo: ma era solo una smorfia, di dolore. La pioggia batteva forte, sulle lamiere, sui soffitti anneriti dal fumo e dagli incendi, nelle grandi sale vuote che un tempo avevano visto il lavoro di uomini e di macchine, poi il resto di una città sottratta alla sua gente, i corpi che erano solo e unicamente corpi. E odori, odori che raschiavano ancora la superficie delle pareti. In un capannone, l'avviso: qui erano riuniti tutti. Tutti insieme, prima. Per l'ultima volta. Siamo usciti: noi lo potevamo fare. Ci era concesso e con le nostre stesse gambe, guidati e coccolati come bambini cresciuti nelle bambagie della storia. Nati dalla parte giusta del mondo, quella dove la follia ha altri aspetti e cancrene, ma non diviene, non è incubo collettivo, radice del male. E sentivo una reale, totale solitudine, una sensazione salutare di disincanto da tutto e tutti, dalle parole vuote, dalle inutili professioni di fede, di amore, di redenzioni ultraterrene, di salvezze stanche ed affrante, affamate. Provavo solo una grande, insopprimibile sete, e desiderio di abbracciare un essere umano, un cane, di vedere una lucertola dileguarsi negli interstizi, salvarsi tra le fessure e le crepe, di accoccolarmi dentro e sputare contro la luce. Rischiarava, fuori. Da un arbusto spuntavano fiori, violacei. Odoravano di buono. Il custode ne staccò uno e lo porse a Silvia. " E' per il viaggio di ritorno, ci profumerà tutta la macchina." Al cancello d'ingresso il commiato. Pochi cenni del capo, una stretta di mano, gli occhi che si curvavano nel peso impossibile del ricordo. " Hai domande da fargli?" " No." " Neanche una? Forse si aspetta almeno una domanda..." " Il cane, come si chiama il suo cane?" Il suo cane si chiamava Giallo, come il colore del suo pelo, fulvo, denso e striato di luce intensa. E' la sola parola che io conosca, che io ricordi, in quella lingua. Suona leggera, lieve: porta bene per un essere vivente. Non tornerò così presto, in quella fabbrica. Se ne scrivo, e parlo con qualcuno del cane giallo, è solo per non essere creduto, per prendere le distanze, anche da me. Accadono cose strane, a volte. Luca Bidoli, Srebrenica, Bosnia Erzegovina, 2 maggio 2006. luca.bidoli@virgilio.it Il sole e la luna al banchetto di Gino Luka Una volta il Sole, re della luce, ordinò ai suoi astro-ministri di allestire una grande festa. Organizzò un banchetto maestoso e per concludere, uno spettacolo di fuochi d'artificio preparato da Halley, la famosissima cometa. Parteciparono ospiti importanti del nostro sistema solare, come Venere, Mercurio, Marte, detto anche il pianeta rosso; Giove, accompagnato dai suoi dodici satelliti e Saturno, adornato di anelli luminosi. Tutti erano in ottima forma, solo Mercurio si presentò un po' meno splendente del solito. Inoltre, ai festeggiamenti presero parte astri e pianeti provenienti dalle più lontane costellazioni. Il Sole, per mostrare a tutti la propria popolarità, aveva invitato anche migliaia di spettatori-asteroidi, tra i quali spiccavano Cerere ed Eros. Non furono invitate solo le stelle supergiganti come Antares ed Epsilon Aurigae. dei cieli era arrivato a mani vuote, si Accanto al Sole, ospite di particolare accigliò e disse: "Ero venuta a trovarti, riguardo fra i numerosi commensali, si portandoti tantissimi regali, come scorta accomodò la Luna. avevo radunato gli astri più stupendi che Era splendida, attraente e i suoi raggi ero riuscita a vedere durante il mio viag sfolgoranti erano incantevoli. Di proposi gio, ma tu sei arrivato da solo, e per to, aveva portato con sé dei bellissimi giunta senza portare nulla. Non vorrai regali, in più aveva raccolto lungo le vie sostenere che te ne sei scordato." del firmamento mazzolini di stelle scintil "In un certo senso sì", rispose il Sole. lanti da dare in omaggio al Sole. "Ma non è come tu pensi. È stato pro- La Luna e il Sole rimasero insieme per prio per via del dono, che ho rimandato diverso tempo, si divertirono, quindi Lei la mia visita di giorno in giorno. tornò alla sua orbita. Pensavo, mia bella Luna, di donarti un Adesso toccava al Sole contraccambia- vestito da regina, perciò avevo convoca re, ma non sapeva che tipo di regalo to la migliore delle stelle-sarte affinché portarle. Pensava fra sé e sé: "Ed io, lo cucisse su misura per te. Lei mi ha cosa potrei donarle? Cosa offrirle?". Il rivelato che tu cambi faccia e corporatu- Sole si sentiva in difficoltà, perché non ra abitualmente; per questo, non mi aveva esperienza in questo campo. sono interessato del vestito e sono Rifletté intensamente e decise di rega venuto da te come mi vedi. Tuttavia, non larle un abito da sera sfavillante, ricama- avrei mai immaginato che per te fossero to e ornato di brillanti, cucito su misura più importanti i regali delle mie premure. per un corpo così grazioso. Chiamò una Mi rendo conto della tua natura, e capi- fra le più brave stelle-sarte, e le illustrò sco il perché non potremmo mai stare la sua idea, ma la stella gli raccontò un insieme." fatto di cui soltanto le stelle che girava- Dopo una breve pausa, il Sole affranto no attorno alla Luna e chiacchieravano asserì orgoglioso: "A questo punto tu ed con lei, erano venute a conoscenza: io non abbiamo più nulla da dirci. "Vostra Altezza! Come farò a cucire il Comunque, se avrai bisogno della mia vestito alla Luna, se non ha mai la stes luce per abbellirti, la metto tutta a tua sa corporatura? disposizione. Non desidero aggiungere altro, perciò ti saluto." Così dicendo, l'al "Oggi è robusta e tutta tonda, domani mo Sole si congedò cortesemente e dimagrirà, dopo qualche giorno le spun andò via. terà una gobba da stregaccia. Ora, tu La Luna si rese conto dell'accaduto: l'i che ci guidi e sei sapiente più di tutti noi nutile stratagemma dei regali che aveva messi insieme, mi potresti consigliare preparato per conquistare il re della luce come fare a prendere le misure e a indo non aveva funzionato, ma ormai era vinare la taglia precisa della Luna?" troppo tardi per rimediare. Indispettita, Il Sole, dopo aver pensato un po' rispo impallidì amaramente, e rassegnandosi se: "Lasciate, lasciate stare!" al proprio destino, ancora oggi segue la Giunto il momento, si presentò alla Luna stessa orbita tenendosi a debita distan senza portare alcun dono. Lei fece di za dal Sole. tutto per servire e riverire il re della luce, Gino Luka ma quando s'accorse che il dominatore illyricus@tiscali.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Il primo funerale nella terra delle formiche di Alessandro Cascio (...) Verso la collinetta di cavoli e patate, dalla pianura delle rose rosse alla landa paludosa, per spingersi dall'albero di pesco fin sopra i nani di pietra, da dove si poteva scorgere l'immensa pianura d'erba, terra delle formiche, l'inizio di tutti gli inizi, la schiavitù di tutte le schiavitù. (...) I Signori Hambala erano somali da sempre e inglesi da 10 anni appena. Da qualche tempo avevano finalmente comprato un negozio di frutta esotica a Queen's Ray, il quartiere nero di Londra, e avevano coronato il sogno di una vita. Ormai possedevano tutto ciò che una famiglia potesse desiderare: dei figli, un amore ben consolidato, una terra che li ospitava in libertà e una villetta a schiera con un piccolo giardino e uno splendido barbecue per le domeniche a pranzo con gli amici. A dire la verità il barbecue l'avevano appena comprato e non era una di quelle ultime trovate moderne che, piuttosto che semplici piattaforme su cui arrostire, sembrano vere e proprie cucine in giardino. Era invece una semplice catasta di mattoni incollati col cemento, una lastra di marmo, neanche delle migliori, e una grata per arrostire hamburger di soia. Non era il migliore dei barbecue ma, come diceva lo stesso Signor Hambala: "Gli hamburger di soia hanno lo stesso sapore dovunque si arrostiscano." Non è di certo della casa o delle spese degli Hambala che si vuole parlare e neanche, a dire il vero, dei loro hambureger, ma del fatto che, dopo la serata con i vicini, i coniugi non tirarono via i pezzetti di soia rimasti attaccati e penzolanti dalla grata e… non ci vuole di certo una mente geniale per capire che prima o poi, a pulire, sarebbero arrivate le formiche. Le formiche vengono di solito avvertite dalle sentinelle: "Cibo sulla grata del barbecue, cibo sulla grata del…" "Ma non dovevamo prima ripulire la cantina dalla farina di ceci?" disse Trentuno a Dieci che stava spingendo via un brandello, non ben identificato, di un insetto. Una zanzara, forse, o qualcosa che somigliasse ad una zanzara, che era così morta e mal ridotta che non la si riusciva a distinguere da qualsiasi altra carcassa di insetto. "Cos'ha la soia che i ceci non hanno?" Ma Dieci, che era una formica che lavora duro, non si faceva troppe domande: lei pensava che se non si dà l'anima, si finisce come la cicala. La cicala suonava e… "Ancora con questa storia?" si innervosì Trentuno. Da quando il Signor Hambala aveva raccontato la storia della cicala canterina ai figli, nelle formiche era nata una fede, la parola di Hambala era diventata una dottrina da seguire: "Non bisogna cantare e divertirsi troppo, altrimenti si finisce come la cicala, che quando arrivò l'inverno morì, mentre le formiche invece…" "Te lo dico io" disse Trentuno, "si trovarono sotto tre metri di terra a sistemare le proprie cibarie e a mangiare, aspettando un'altra Estate di duro lavoro" e lo disse a gran voce, tanto che le altre formiche si voltarono e la guardarono irritate, come se stesse bestemmiando. Anzi, a dire il vero, andare contro la dottrina della cicala era una vera e propria bestemmia che poteva essere punita, se non dalla legge delle formiche, da quella della natura. Dieci abbandonò il suo insetto, lo lasciò per un attimo guardandosi attorno, e si avvicinò a Trentuno che se ne stava indecisa tra i ceci e la soia. "Senti amica mia", disse Dieci, "che sia soia, che siano ceci, alla fine ciò che conta è che stiamo lavorando e non stiamo cantando, che quando la Natura ci verrà contro, noi saremo al sicuro e mangeremo." Trentuno fece il coro al vecchio Dieci: "… e dopo aver mangiato moriremo, o moriremo prima, mentre mangiamo o… forse adesso, pestati dal figlio degli Hambala che corre per i prati." Trentuno non era una formica cattiva, neanche era mai stata una svogliata, ma ditemi se da tanto torto, con quelle parole, non poteva passare a ragione? Milioni di formiche lavoravano duro da tanto, fino allo sfinimento, fino a morire, così com'era successo ad amici ed amici di amici. Quelle schiattavano sotto una suola di un imbecille con la vista troppo corta per vedere dove cammina e, appena venivano rilasciate in terra: cosa succedeva? Succedeva che arrivava un amico o un amico di un amico e le prendeva, le usava come cibo e non ne piangeva neanche la morte. Tanto le formiche sono tutte uguali di fronte al lavoro e morire a lavoro è come morire in guerra, non si può piangere più di tanto. Così, visto che le formiche per la maggior parte del tempo lavorano, alla fine non le piange mai nessuno: le formiche non piangono i loro morti. Dieci lasciò il suo insetto e disse a Trentuno di seguirla, che avrebbe portato lei i pezzi più grossi e che avrebbe lasciato i pezzi più piccoli a chi avesse crisi d'identità. "Non vorrai mica diventare una cicala?" "Perché no? Cosa avranno le cicale che non vanno? Muoiono felici e suonano, almeno quello. E poi… non si è mai vista una cicala morire di fame in tutto il giardino, da anni." Che la fede che avevano per la parola di Hambala e per il lavoro, fosse in realtà una farsa? La regina, i consiglieri, i messaggeri e le formiche guerriere avevano sempre il meglio e a loro, alle operaie, toccavano sempre le pagliuzze. Dovevano quindi lasciare i ceci per la soia per poi finire ugualmente a mangiare pagliuzze? Che prendessero direttamente quelle, allora. Dieci era avanti già di un bel po' e parlava, parlava, parlava… quanto parlava lo sapeva solo lei. Blaterava di lealtà alla regina, di valori, della parola di Hambala circa le cicale: "Hai ascoltato anche tu, no? Eri una piccola formica ma c'eri, eri lì mentre lui leggeva dal gran libro." La vecchia formica continuava ciò che era ormai divenuto un monologo. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Trentuno era già con la testa dove voleva andare: via da lì. Ma Dieci, vecchia com'era, non si sarebbe accorta della sua assenza ancora per molto e tutti l'avrebbero presa per una formica squinternata qual era e che, tutti lo sapevano, sarebbe morta da lì a poco, per via dell'età, senza che nessuno versasse una lacrima… tanto le formiche sono tutte uguali, tanto loro hanno il rimpiazzo, tanto loro non le piange nessuno. Trentuno, invece, dov'era? Era in viaggio, ecco dov'era. In viaggio verso l'ovest, verso i muri di cinta del giardino dove, si diceva, abitassero le cicale. Nessuno si era mai spinto verso l'Ovest, perché si mormorava che quegli insetti fannulloni, con quei canti, avrebbero portato il popolo delle formiche a diventare come loro, senza fede, senza dedizione ai loro capi, senza benché minima voglia di fare, senza futuro. Era una società condannata a collassare, prima o poi… e da quel giorno solo le formiche avrebbero dominato il giardino, solo loro. Ma a tutto quello, Trentuno aveva finito di credere da tempo. E allora via, verso i nani di pietra, fino a spingersi oltre gli alberi di pesco e poi oltre la landa paludosa e alla pianura delle rose rosse, per arrivare fino alla collinetta dei cavoli e delle patate, da dove si poteva scorgere l'immenso muro di cemento, la fine di tutte le fini, la libertà di tutte le libertà. Le cicale non erano così piccole come Trentuno pensava. Erano giganti a dire la verità e scansare i loro atterraggi ad ogni salto restando in equilibrio ad ogni spostamento d'aria che creavano, era un'impresa. Non c'era d'aver paura. La loro musica era sì, tanto forte da arrivare oltre i confini, ma in fin dei conti erano innocue, tranquille e beate, pronte a scambiarsi qualche parola, a lamentarsi come ogni società di insetti e a suonare e… morire. Si accorse, Trentuno, che un gruppo di cicale stava di fronte ad un'altra cicala che stava parlando, dall'alto di un sasso, alla folla triste. La formica si fece spazio e ascoltò. "Oggi, la nostra cicala Cri Cri, non sarà con noi, ci ha lasciato, ed io, suo figlio Cri Cra, sono qui solo per dirvi di non piangerlo, ma di essere allegri, di ricordarlo così come lui voleva essere ricordato." Sembrava il discorso riguardante una cicala potente, forse il capo delle cicale. L'insetto canterino diceva di non piangere la morte di quel Cri Cri e Trentuno, per questo, era rimasto di stucco: lui che per le sue formiche voleva proprio il semplice pianto dopo la morte. E invece quelli se ne stavano, sì a piangere, ma ad ascoltare uno che diceva loro di smettere di farlo. Che diavoleria è quella della terra del cemento delle cicale? Una diavoleria, ma pur sempre bagnata di lacrime e sentimenti e di… nomi. Trentuno notò che le cicale avevano dei nomi che, seppure strambi, non erano di certo dei numeri. Che belle che erano, che gran lavoratore doveva essere la cicala scomparsa, che grande cicala. Lo chiese. Con cortesia si avvicinò ad una cicala, la più piccola tra loro e anche la più vecchia. Cercò quella che poteva essere la più innocua, non perché avesse paura, ma perché la prudenza non è mai troppa: ne aveva sentite tante su quelle cicale che il minimo che una formica potesse fare, una volta tra loro, era quello di starsene cauti e attenti e pesare ogni parola. "Che lavoro faceva Cri Cri?" chiese Trentuno alla cicala che non l'ascoltava, ma la guardava. Forse non capiva bene il suo linguaggio, era normale, quindi cerco di farsi capire gesticolando, ma quella, ad un punto, rise di gusto vedendo la formica impacciata imitare cose che non si capiva bene cosa fossero, ma lo faceva davvero con una gran de maestria tanto da far scoppiare in risate anche le altre cicale, che per l'occasione, si riunirono a guardare Trentuno: che buffa che era, che buffa e goffa. "Allora capite la mia lingua" disse Trentuno. "Ma certo, che domande. Noi cicale parliamo tutte le lingue del mondo." "Le studiamo" rispose una delle cicale che aveva appena smesso di ridere. Trentuno chiese allora come mai non avesse risposto e quella, del tutto inaspettatamente disse qualcosa del tipo: "Non ho capito cosa volevi dire." "Chiedevo se era un gran lavoratore" disse allora Trentuno, ma quelle guardavano come cascate dalle nuvole. Stettero un po' ad osservare e poi scoppiarono a ridere nuovamente. Sembravano sceme per quanto ridevano, tanto quanto sembravano belle ed ideali quando piangevano. Pensavano che quella di Trentuno fosse una barzelletta o qualcosa di simile ma la formica continuava a chiedere e lo faceva in modo cortese, nonostante dentro avesse un fuoco. "Cosa faceva durante la vita?" disse. Ma quelle ridevano a crepapelle, che spasso che era Trentuno e lui non lo sapeva, lui era così com'era e come sempre era stato. La cicala rispose: "Mangiava, rideva, piangeva, scherzava e cantava tanto che era un piacere ascoltarla.. questo è quello che faceva Cri Cri in vita." "E' per questo che la piangete? Per questo la ammirate?" "Per questo" disse la cicala, "per questo." Si chinò per guardare la formica negli occhi o per lo meno, per capire se gli occhi li avesse. "Cri Cri era la cicala canterina più famosa, qui. Una grande viaggiatrice che si spinse verso il mondo delle formiche e portò grandi storie da lì… grandi storie." Ecco cos'era, le cicale non avevano ancora capito che Trentuno fosse una formica. Chissà che storie aveva raccontato Cri Cri sul loro conto. Gli disse: "Io sono una formica", e quelli restarono impietriti perché, per studiare le lingue degli insetti, studiavano eccome, avevano tanto di quel tempo, ma a spingersi verso i loro mondi per vederli, non era cosa facile, bisognava lasciare la città di cemento delle cicale e solo Cri Cri ne aveva avuto il coraggio, senza successo del resto, ma con un grande insegnamento alle spalle che fu dottrina per tutta la società. "E' un onore" disse la cicala, "un onore avere con noi una formica… specie se in vacanza" e risero nuovamente, ma la formica non poteva di certo arrabbiarsi più di tanto contro quei giganti e calava la testa aspettando che finissero di menarla tanto per le lunghe. "Scusa" disse la cicala asciugandosi le lacrime, stavolta per le troppe risate, "ma è per via di Cri Cri e delle sue storie su di voi", ma mentre parlava, altre risate cercavano di uscire da uno sguardo portato a forza a serietà. "Che storie?" "Vuoi saperle?" "Certo" rispose la formica e la cicala cominciò a cantare. Iniziò uno splendido spettacolo musicale, non solitario, ma accompagnato da cento e più cicale che conoscevano a perfezione ogni nota della storia di Cri Cri. La cicala si era spinta fino al mondo delle formiche dopo aver sentito, un giorno, un uomo rimproverare un bambino che non voleva studiare. Cri Cri viveva, in quel tempo, nel giardino Progetto Babele Speciale Inverno 2008 accanto, dove un certo Signor Mayer non parlava bene delle cicale, non ne parlava affatto bene e Cri Cri da questa cosa rimase molto deluso, perché il canto delle cicale piaceva ai bambini, a lui e alla moglie e ad ogni innamorato del mondo. Fu proprio Cri Cri a cantare la serenata d'amore quando Mayer chiese alla sua consorte di sposarlo. Ma nonostante tutto quello, Mayer diceva al figlio: "Fai come le formiche, che lavorano sodo, e non come le cicale che cantano tutto il santo giorno." Così prese fagotto e partì per capire se anche le formiche cantassero e, quando arrivò, vide milioni di piccoli insetti scuri sudare come nessun insetto. Chiese perché, ma quelli non avevano tempo per rispondere, dovevano lavorare. Cri Cri, che era una brava cicala, per alleviare le loro fatiche, cominciò a cantare, ma quelle che all'inizio apprezzavano, erano in seguito diventate scettiche sul conto della cicala, dicevano che era buona a nulla, che nell'Inverno si sarebbe trovata male, che bisognava lavorare e non cantare: che avessero sentito il Signor Mayer rimproverare il figlio negligente… Una formica in particolare ogni giorno rimproverava Cri Cri, le diceva di smetterla con quei canti, di lavorare per mangiare, ma la cicala rispondeva "ad ognuno il proprio compito", diceva che le formiche avevano i lavoratori e i capi… ma non si erano accorti di non avere i giullari, di non avere, quindi, la libertà. Ma nulla, quella continuava a dire che bisognava lavorare perché poi… perché poi… Sempre poi, il futuro, il futuro… "Il futuro non è altro che la vita che va via, il passato è la vita andata… perché, cara formica, non vivi il tuo presente?" Quella non sentiva né canto né parole. Cri Cri si svegliava a tardo mattino perché cantava tutta la notte. Cercò la formica per intonarle una sua nuova canzone, ma nessuno l'aveva vista. Dov'era? Lavorava così tanto per il suo futuro che non poteva essere altrove se non lì, a trasportare un pezzo di qualcosa che aveva valutato commestibile. E poi la vide, non trascinare, ma trascinata. Era morta, accartocciata e tirata via da un'altra formica. Fece un balzo, Cri Cri, e arrivò fin sopra la scena. "Cosa è successo?" La formica non si fermava un attimo dal suo eterno trasportare. "Morta sul lavoro" diceva con voce atona, e continuava il suo cammino. "Dove la porti?" chiese la cicala. "Dove può servire a qualcosa: in dispensa!" Che si dica male delle formiche, le cicale ne dicono peggio, perché quando arrivò Cri Cri alla città di cemento, la storia venne cantata a tutti che rimasero quasi inorriditi da quello che avevano sentito. "La formica che tanto aveva lavorato per il suo futuro" diceva Cri Cri, "alla fine era morta schiacciata dal peso del cibo che trasportava." Che fine orrenda, che orribile spettacolo, ma tutti avevano imparato: il futuro è la vita che va via, il passato la vita andata, vivi il tuo presente. Finì il canto, lo spettacolo chiuse il sipario e le cicale fecero un inchino alla formica che rimase di sasso. "Io conoscevo la storia" disse, "ma il Signor Hambala e Dieci l'avevano raccontata diversamente… Cri Cri era morta per il freddo e le formiche…" Le cicale risero, non vollero ascoltare neanche un'altra assurdità e assicurarono che Cri Cri era viva fino al giorno prima e una lacrima uscì fuori, lieve, a ricordare ciò di cui avrebbero cantato la sera, di una cicala sognatrice e viaggiatrice. Di ritorno, la formica pensava. Sia inteso, la storia che aveva sentito da piccola cantava di una cicala e di una formica, ma niente di più ricordava e mai nient'altro avrebbe ricordato: era piccola ai tempi e troppo grande adesso, per avere chiaro quel passato e quelle parole. Verso la collinetta di cavoli e patate, dalla pianura delle rose rosse alla landa paludosa, per spingersi dall'albero di pesco fin sopra i nani di pietra, da dove si poteva scorgere l'immensa pianura d'erba, terra delle formiche, l'inizio di tutti gli inizi, la schiavitù di tutte le schiavitù. Trentuno, appena arrivata, non aveva ricevuto una grande accoglienza, intenti com'erano gli altri a lavorare. Non era stata abbracciata da nessuno, ma di certo sarebbe stata abbracciata da Dieci, almeno da lei avrebbe ricevuto un affetto quasi paterno, ma nulla, Dieci non si vedeva o… forse sì. Accartocciata su se stessa, veniva tirata via da un'altra formica: "Cosa è successo?" Trentuno arrivò nel mezzo della scena. "Morte sul lavoro!" Non c'era bisogno di chiedere dove la stessero portando: in dispensa, che domande. Chiese se poteva portarla lui, Dieci era un'amica. "La fannullona si è rimessa a lavorare" disse la formica e poi, lasciando la carcassa di Dieci in terra continuò: "Tieni pure, io ho il secondo barbecue degli Hambala da andare a ripulire." Trentuno trascinava la formica, la portava con grande sforzo tanto da sembrare una grande operaia, ma si spingeva fino alla parte opposta della fila delle operaie rientranti alla tana, che stavo sempre alla destra delle operaie uscenti. Lei, tra le rientranti, era l'unica in senso contrario, l'unica che spingeva cibo verso fuori e non in dentro, come la natura comanda, come la società delle formiche comanda, come ogni responsabilità direbbe di fare. Sbatteva tra le altre formiche senza curarsene, e più sbatteva, più Dieci ruzzolava via, ma lei ritornava a prenderla e continuava. "Dove vai" gli gridavano dietro. "Quella è la parte sbagliata" dicevano. "Ti farai male e farai male agli altri." Ammonivano, correggevano, spintonavano, ma Trentuno non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Qualcuno aveva inventato una storia e l'aveva raccontata a tutti celando la verità su Cri Cri e le cicale per paura che le formiche prendessero posizione, per paura che le formiche capissero che bisogna anche guardare lì dove nessuno guarda e per questo lui avrebbe fatto il giullare, il cantastorie, avrebbe imparato dalle cicale e sarebbe tornato ad insegnare alle formiche che… bisogna piangere i propri morti. Su una piccola collina, Trentuno ha sotterrato Dieci ricoprendola d'erba. Mai, nella storia della terra delle formiche, c'era stato un funerale, anche se così povero di folla, e da tanto non si vedeva una lacrima versata per una defunta formica, ma quella di Trentuno era una lacrima ed era sincera. Forse Trentuno stava diventando una cicala, o forse, semplicemente, ogni formica né porta una dentro l'anima. Alessandro Cascio alexcascio@inwind.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 L’urlo di sabbia di Salvatore Mulliri Non so di preciso cosa l'umanità abbia combinato con l'atmosfera, tra effetti serra, buchi nell'ozono, aumento dell'anidride carbonica e amenità del genere, però sta di fatto che ci siamo giocati le calotte polari per una buona metà. Ci dicono da qualche tempo che questo è il mondo migliore e che mai come in questo momento, tanta gente è soddisfatta della propria vita su questo bellissimo pianeta. Pare che molto presto anche quelli che al momento non possono permetterselo saranno felici. Sembra che tutti vogliano crederci. Fa aumentare i consumi e la produttività. In realtà è stato una specie di gioco di prestigio che nel giro di cinque anni ha fatto sparire quasi mezzo miliardo di persone. Oltre alle faccende nelle quali l'umanità s'impegna di più, come guerre di sterminio, pulizie etniche, pestilenze scientificamente somministrate e alle vecchie storie, ma sempre in voga, come fame, sete, malattie e terremoti, ci si è messo il pianeta che, con una vigorosa scrollata come quelle che si danno i cani bagnati, si è tolto di dosso la parte più disgraziata dell'umanità, quella che peggio si teneva aggrappata alla propria vita di stenti. I metereologi lo hanno chiamato rivolgimento climatico, i geologi dichiarano che si tratta della fine di un'era glaciale, mentre i glaciologhi sanno che presto cambieranno mestiere avendo assodato che tra un po' l'unico ghiaccio ghiaccio che ci sarà da studiare sarà quello dei freezer. Non so di preciso cosa l'umanità abbia combinato con l'atmosfera, tra effetti serra, buchi nell'ozono, aumento dell'anidride carbonica e amenità del genere, però sta di fatto che ci siamo giocati le calotte polari per una buona metà. Non sarebbe tanto male, ad esempio per gli Inuit che finalmente si sono potuti dare alle regate invernali e al giardinaggio in Groenlandia, se non fosse per il mare si è ripigliato le coste grandi bocconi. Noi nel Mediterraneo non ci possiamo certo lamentare, non abbiamo gli uragani che sterminano città indiane o spazzano via interi arcipelaghi tropicali. Certo Venezia è praticabile solo in minisub, ma i ristoranti agli ultimi piani dei palazzi, (gli unici praticabili) fanno affari d'oro e l'Olanda è la più vasta insenatura dell'Europa settentrionale. In ogni caso gli esperti del clima, quello nuovo di zecca che stiamo subendo, ci hanno assicurato che la situazione ormai si è stabilizzata e non dobbiamo più temere quelle coste che cambiano il profilo da un giorno all'altro facendo incazzare i cartografi più pedanti. Qualche cinico ecologista ha persino affermato che almeno si è risolto il problema degli abusi edilizi sulle coste. Di tutto questo non me ne fregherebbe un accidente, d'altronde ho almeno sessant'anni di vita comoda davanti a me e la situazione, a detta dei più pessimisti, non peggiorerà per almeno altri centocinquanta. Quello che mi disturba è quel metro e mezzo d'acqua in più, democraticamente distribuito su tutto il globo. Un metro e mezzo di innalzamento globale dei mari, per la Sardegna ha significato soprattutto perdere le sue spiagge migliori. Per Cagliari, in particolare, ha significato la scomparsa di quel dono incompreso che era stato il Poetto. Da bambino, ricordo quell'immensa distesa metafisica di spiaggia bianca che ti faceva stancare di correre solo a guardarla, un'infinità di sabbia finissima e abbacinante solo a tratti interrotta da piccole macchie di colore che erano gli ombrelloni. Già qualche anno dopo non era più così, l'avevano ribattezzata la spiaggia dei centomila, alludendo così alla popolosa colonia di vertebrati superiori che durante la stagione estiva la devastava secernendo abbronzanti e consumando quantità raccapriccianti di gelati e angurie. Solo il terrore di perdere la rosea prospettiva di una Rimini sarda davanti ad una veloce erosione, aveva costretto una giunta comunale ad avventurarsi in un ripascimen to con sabbie provenienti dall'antistante Golfo degli Angeli. La classica vittoria di Pirro: qualche hanno dopo il mare dimostrò che fino allora aveva solo scherzato. Dopo un lungo assedio durato cinque anni, il mediterraneo si insediò stabilmente dove prima c'erano i fenicotteri rosa e i chioschi dei gelati, arrivando a lambire la periferia della città, lasciandosi dietro i resti delle perdute battaglie contro l'innalzarsi delle acque. Argini e piloni di sopraelevate mai terminate, gridano vendetta e ostacolano il piccolo cabotaggio, l'Ospedale Marino ha raggiunto un ammirevole coerenza con il proprio nome biancheggiando tra i flutti delle mareggiate e Marina Piccola l'ex-porto turistico è diventato il nome una secca piuttosto pescosa sotto la Sella del Diavolo. Il fronte della battaglia, venutosi a trovare in quello che prima era il confine meridionale del Quartiere del Sole è stato rinominato Nuovo Poetto, senza nessuna precauzione scaramantica. Così un'altra amministrazione ha avuto la bella pensata di ripetere il ripascimento, ma in posizione meglio difendibile. Risultato: una striminzita striscia di sabbia grigiastra che a stento permette a cinquemila esseri umani di media statura di prendere il sole davanti al deprimente spettacolo di quella Atlantide postmoderna che è diventato il vecchio arenile. Altro che centomila. In ogni caso è sempre un posto decente dove passeggiare, specialmente durante la stagione invernale. Non ho un cane che mi traini in salutari corse in spiaggia, però ho la sensazione che alle celle solari del mio sub-notebook faccia piacere prendersi una bella botta di luce, mi sembra sempre che funzioni meglio, dopo. Sono il proprietario di un portale Internet dedicato alle nuove avanguardie artistiche (che si chiama appunto Avant.Art), e grazie al mio lavoro, mi trovo spesso a contatto con gli artisti, ma questo non significa che riesca a sopportarli per più di cinque minuti dal vivo (tempo necessario alla LORO firma del MIO contratto capestro), preferisco avere a che fare con le loro opere che vendo proficuamente on-line e del quale tesso lodi sperticate in rutilanti esposizioni digitali. Il fatto di essere il venditore Progetto Babele Speciale Inverno 2008 della loro creatività ha finito per sminuire ai miei occhi la loro opera e non provo più emozioni a riguardo, nessun fremito davanti ai rettangoli polimaterici cosparsi di cellule olografiche, nessun brivido di fronte ai meteoriti finemente cesellati da un laser a impulso, o davanti a una stubettatura magistrale su un'antica tela recuperata dai fondali di Amsterdam. Niente. Il vuoto assoluto. Ed è stato così per gli ultimi anni. Mi eccitavo più davanti al numero di accessi a una performance on-line o all'incrementarsi del mio conto in banca, che poi sono quasi la stessa cosa, che di fronte alla creazione di uno dei miei operatori artistici. Tutto era convertibile in Euro, Dollari o Asian e vendibile tramite Transazione Sicura. Ho venduto di tutto on-line, persino un muro di Barcellona e la carcassa di una megattera (vetrificata con un costosissimo processo nanotecnologico), ovviamente, a prezzi che avrebbero incenerito la coscienza di un bancario svizzero. Forse per questo mi piace la sand-art, perché è effimera, è realizzata, senza troppi virtuosismi e con la sabbia, il materiale più povero che si riesca ad immaginare. Senza contare la sensazione di irripetibilità proveniente da un'opera dell'intelletto umano che non si può trasferire in un'asettica galleria, magari lontana centinaia di chilometri dal mare. In una parola: la sand-art è I-N-V-E-N-D-I-B-I-L-E. O quasi. Avevo seguito la nascita della sand-art (si scrive minuscolo) con curiosità, quando era una specie di manifestazione, spesso spontanea, di gloriosa impotenza contro l'oceano che si riprendeva le spiagge del nord. Mi piaceva quella lotta, persa in partenza, mi piacevano quegli anonimi creatori armati di poco più inventiva e le proprie mani. Mi piaceva quella battaglia contro un mare famelico e insensibile. O forse mi affascinava morbosa- mente il fatto che quelle opere andassero perdute per sempre nell'arco di una notte o magari proprio mentre erano realizzate. Mi sembrava una bellissima metafora dell'umanità, o della cosiddetta immortalità dell'arte, o del niente che combatte contro il niente o del fatto che noi riusciamo a vedere significati importanti in cose che non lo sono o della vita e della morte, insomma: finalmente un brivido su per questa schiena indurita da costose poltrone svedesi. In quegli anni mi piaceva un tedesco che costruiva complicate muraglie di sabbia con su scritto un'unica parola: ZEIT che significa "tempo" e non ho mai capito se chiedesse al possente oceano ancora tempo, o che era tempo di finirla di prendersi le spiagge o che il tempo avrebbe curato le ferite causate dal mare, o che il tempo dell'umanità stava finendo ed ora erano cazzi nostri. Forse l'ultima di queste. Poi c'era una banda di neozelandesi che lavorava con una rapidità prodigiosa e costruiva complesse architetture alla Giger, di un gotico oppressivo e allucinato. Mi era simpatica anche quella furbacchiona dei media che si trovava sempre al posto giusto quando una spiaggia scompariva per sempre, facendosi immortalare dalle telecamere mentre realizzava dei labirinti di canali dal disegno vagamente maya. "Il mio sogno -diceva sempre- è che l'oceano si perda in questi labirinti e si stanchi di assediare la terra". Il servizio si concludeva invariabilmente con una malinconica ripresa delle onde che ingoiavano il labirinto e con lei che piangeva disperata. Con quelle performance si è costruita una piccola fortuna, ha persino girato un film che ha vinto a Cannes per la miglior sceneggiatura, ovviamente qualche giorno prima che anche questa città fosse evacuata, e nessuno ha pensato che fosse proprio lei a portare sfiga. Ma quelle che mi piacciono di più sono le opere assolutamente anonime quelle che scopri la mattina dopo, un po' sfatte, ma che hanno resistito tutta la notte davanti al nemico invincibile. Quelle che a volte sono disperazione pura, come l'Urlo di Munch e ti fanno pensare che una razza-specie-cultura tira fuori il suo meglio quando rischia l'estinzione, come i dinosauri ai quali spuntano le penne e si trasformano in uccelli o le linee pure dei caccia giapponesi degli ultimi anni della seconda guerra mondia le. E' anche vero che la maggior parte sono cose un po' patetiche e risibili, e qui, per fortuna, entra il ballo il mare che cancella tutto, anche dalla memoria dei critici più esigenti. Per questo durante le mie peregrinazioni nel mondo, quando mi capita di passare vicino ad una delle poche spiagge rimaste, porto sempre con me la mia fotocamera digitale. Sono ormai più di diecimila le immagini che ho raccolto in questi anni, tutte adeguatamente etichettate, catalogate e, nei casi più spettacolari, persino commentate. Ho messo su uno dei più grandi database Internet di immagini dedicate alla sand-art, ArtVsOcean, al quale mi posso collegare in tempo reale grazie alla fotocamera, posso dettare al microfono la catalogazione ed il commento, ed il gioco è fatto: l'immagine compare on-line con la posizione geografica ricavata automaticamente dal GPS ed è inserita nelle new entry del sito internet. Si chiama web-publishing da fotocamera, ho comprato software e hardware a Los Angeles, in un'asta dei beni appartenuti ad un editore di pornoweb che fu ucciso a tradimento durante uno snuff-movie prima che potesse estinguere i propri debiti. Ho messo su persino un software di intelligenza artificiale a predizione stocastica che prevede dove scompariranno le prossime spiagge e quindi dove avverrà la prossima apparizione di sandart. Così ora è il mio stesso software che permette ai sand-artisti di riunirsi al posto giusto e al momento giusto. (vedi: legge di Indeterminazione di Heisemberg). A quanto pare l'iniziativa del sito è piaciuta al popolo del web, infatti, misuro una marea di contatti giornalieri e tutti gli appaltatori di pubblicità interstiziale (ossia quel cavolo di pubblicità che ti compare su internet tra la pagina dove sei e quella dove vorresti andare), si stupiscono perché non ho ancora messo all'asta gli interstizi. Da qui il quasi di I-N-V-E-N-D-I-B-I-L-E. Questa storia risale a quando l'acqua continuava a salire, e nonostante il timore che prima o poi anche Cagliari sarebbe diventata una città di palafitte, mi piaceva andare al Nuovo Poetto anche d'inverno, quando una nebbia innaturale e spessa scaturiva dal Golfo degli Angeli avvolgendo la città sin dalla mattina presto. Un mio amico che programma giochi in realtà virtuale mi ha detto che un tempo nei giochi elettronici si usava il trucco della nebbia, quando non si voleva affaticare il processore del computer con calcoli eccessivi, così non si doveva tenere in memoria tutti gli elementi visibili di un mondo virtuale facendoli sparire nella nebbia. Questa è la mia sensazione quando mi immergo in questa nebbia: mi sembra che il mondo non sia semplicemente celato alla mia vista, sento che sparisce completamente e così la mia mente non si affatica più a doverlo considerare. Era così anche quella mattina, quando all'improvviso, nella mia bolla di esistenza, ai miei piedi, sulla sabbia della battigia comparve qualcosa di inaspettato. Ecco i miei appunti vocali di quel giorno: Martedì 12.01.2010 ore 9:30 - R.W.P. (ready for web-publishing) "..Il disegno è racchiuso in un rigido quadrato di due metri per due metri suddiviso in due parti uguali: quella più vicina all'acqua è percorsa da una successione di solchi paralleli che seguono un percorso ondulato e intervallati da forme ovali nel centro delle quali sono magistralmente posati dei sassolini bianchi (piccoli malefici occhi?). Tra un "occhio" e l'altro sono disegnate file di piccoli triangoli. Il significato mi sembra chiaro: questo è il mare dai cento occhi e dai mille denti che ci spia dalle oscurità abissali. Dove i solchi ondulati finiscono inizia la terra, ma non è una terra accogliente, è una distesa straziata che proietta tutto il suo odio contro l'invasione del mare tramite file ordinate e inclinate verso il mare di bastoncini appuntiti. La composizione nell'insieme è molto equilibrata, ma allo stesso tempo dinamica, come una stasi che può interrompersi da un Progetto Babele Speciale Inverno 2008 momento all'altro tra due forze potenti tenute a freno a malapena. Fa pensare a un lungo progetto preparatorio per ottenere il massimo dell'espressività dalla contrapposizione di questi due opposti inconciliabili. Qualcosa di simile allo Ying e allo Yang, con lo Ying che vuole azzannare alla gola lo Yang e viceversa. Ogni particolare indica cura e raffinatezza di esecuzione. C'è dietro una fortissima volontà creatrice per ottenere l'istantanea della lotta di due forze elementari dalla quale solo una può uscire vincitrice. C'è vero odio in questi quattro metri quadrati di spiaggia…" Chiamai l'autore di quest'opera "Anonimo Mediterraneo" e pubblicai un servizio che riscosse molto successo tra gli appassionati in rete di sand-art. Scrissi a ruota libera della nuova forza creatrice dell'odio, di come, sull'onda della rinascita del fenomeno New-Age la sand-art si fosse perlopiù cristallizzata in un desiderio di armonia utopistica, di come invece l'opera dell'Anonimo Mediterraneo fosse realmente rivoluzionaria con la sua ricerca di un conflitto. Parlai di fine di una lunga tregua, del superamento della pace apparente con una vera lacerazione, foriera di nuovi segni e di nuove strade. Questo è il genere di linguaggio che uso quando voglio far credere che qualcosa mi entusiasma, e non differisce per niente da quello che uso quando sono sinceramente impressionato. Posso continuare per ore, è questione di esperienza e di mestiere. Questa volta però i brividi lungo la schiena c'erano davvero. Mi aspettavo che dopo quel clamore l'autore si sarebbe fatto vivo, d'altronde ArtVsOcean era ed è tuttora un punto di riferimento su Internet degli appassionati di sand-art perciò mi aspettavo narcisisticamente che il mio articolo avrebbe portato ad una rivendicazione dell'opera. Mi sbagliavo scrissero solo millantatori alla ricerca di facile notorietà, gente già conosciuta capace di fare solo cose già viste. Del mio "Anonimo Mediterraneo" invece non c'era traccia. Era sparito nella nebbia e sembrava non avesse nessuna intenzione di uscirne. Frequentai più assiduamente la spiaggia, ma per diverse settimane non ci fu niente di nuovo, sino a che, ai primi di febbraio l'opera inimitabile dell'Anonimo ricomparve lasciandomi nuovamente di stucco: Appunti del 01.02.2010 ore 8.35 R.W.P. "...Il tema è sempre lo stesso: Lotta tra i due elementi Anche l'aggressività è la stessa, ritornano certi motivi, come le linee ondulate e i sassolini bianchi, ma esiste una sostanziale differenza: All'interno del solito quadrato la mano creatrice ha preferito incentrare la composizione sulla modellazione di una forma che sovrasta i deboli segni tracciati sulla battigia. Ho osservato a lungo questa strana forma e finalmente sono giunto a vedere la Grande Onda. Immaginate un'onda, immobile e minacciosa sospinta da forme umane schematiche, sormontata da mani artigliate e trattenuta dalla terra, come una rabbia malcelata. Un profondo canale porta l'acqua del mare dalla riva fin sotto la scultura, in una piccola pozza circolare. Se la precedente opera era stata una dichiarazione di guerra, questa è un'imboscata in piena regola. E' la terra che diventa uno tsunami per combattere il mare…" Cercai di immaginare cosa avesse potuto scatenare tanto odio in un essere umano, per quanto mi riguarda la mia natura non è portata a simili intensità di sentimenti e spesso invidio coloro che sono capaci di esprimere questa potenza nell'odio nell'amore. Osservando attentamente l'opera mi resi conto che l'ineffabile creatore aveva aggiunto l'elemento temporale trasformando la sua realizzazione in una specie di "performance" artistica sfruttando il lavoro di erosione dell'acqua. Appunti del 01.02.2010 ore 9.30 (continua) R.W.P. "...E' quasi un'ora che guardo la Grande Onda aspettando che compia la sua funzione ultima. La sua base è stata erosa dall'acqua e la sommità sta per crollare sull'acqua. Ma stranamente non c'è niente di eroico in questo atto finale. Come se tutta la rabbia di questa forma si stia per trasformare in un languido abbandono. Sembra ormai una resa davanti all'inevitabile distruzione. Così deve essere la fine dopo una lunga e sofferta vecchiaia…" Era così suggestiva la distruzione della Grande Onda che decisi di immortalare la sua fine in un filmato, misi la fotocamera in modalità "movie" regolai l'obiettivo sulle riprese "macro" e catturai la sequenza che poi sarebbe diventata così famosa per quella che fu chiamata la New Wave della sand-art. Ovviamente sul momento non avevo idea dell'importanza di quell'istante. Per mesi il video della Grande Onda fu uno dei file più scaricati dai visitatori di ArtVsOcean e ben presto le ultime spiagge divennero teatro di rappresentazioni imperniate sulla creazione di Grandi Onde, realizzate da gente comune e da artisti affermati. Sembrava che un nuovo spirito fosse nato. Nuovi movimenti fecero propria questa idea rilanciandola in inedite performances, come se si fosse trasmesso un segnale potente e trasversale lungo il mainstream della sand-art. Sicuramente fu una coincidenza, ma anche il mare smise di crescere e gli uragani diventarono meno potenti e meno frequenti. Gli strani acquazzoni di tipo tropicale che si abbattevano su Cagliari scemarono di potenza. Si cominciò a pensare seriamente che forse ci si sarebbe potuto riprendere qualche spiaggia. Danzica, Vilnius, Amsterdam, Venezia quelle non le avremo più riavute dal mare, ma magari qualcun'altra si, magari Macao o New Orleans. Nacquero cosi i progetti di beach-building finanziati persino dalla grande industria e dalle banche, come se si iniziasse a capire che la lunga stagnazione dell'economia fosse strettamente collegata alla rassegnazione di fronte all'avanzare del mare. Con questo non voglio dire tutto ciò sia stato conseguenza della Grande Onda, anzi penso che sia vero il contrario. Talvolta capita che qualcuno si innalzi dal resto dell'umanità e intuisca ciò che sta per succedere e inizi a rappresentarlo in qualche modo. E' gia successo e succederà ancora. Il mio Anonimo Mediterraneo forse ha avuto questo merito. Però c'è anche la storia della farfalla che sbatte le ali in Cina e causa un tifone dall'altra parte del mondo… Questi sono tutti ragionamenti a posteriori, in quei giorni la mia unica ossessione era di dare una faccia e un nome all'Anonimo Mediterraneo. Feci domande a tutti, consultai schedari di ogni tipo, persino quelli cartacei delle scuole d'arte della Sardegna, senza trovare il minimo indizio sull'identità di quello che ormai consideravo uno dei massimi esponenti della sand-art mondiale. Preso dalla disperazione analizzai tutto il materiale che avevo a riguardo, affittai ad una cifra esorbitante un minuto di calcoli sul Cray da centoventi gigamass dell'università di Ginevra per compiere una ricerca estesa sulla rete comparando le restituzioni tridimensionali delle opere che avevo fotografato con tutti i database artistici collegati a internet. Niente da fare. Finalmente un mio amico poliziotto mi diede un idea. Forse mi ero concentrato troppo nella parte artistica della faccenda trascurando magari altri elementi importanti per una normale indagine, per esempio: che tipo di impronte c'erano intorno alle opere? Analizzai con rinnovato interesse tutto il materiale fotografico e filmato che avevo realizzato ed ebbi finalmente qualche nuovo elemento sul quale lavorare. Il mio Anonimo aveva dei piedi piccoli, così risultava dalle uniche tracce che si allontana Progetto Babele Speciale Inverno 2008 vano dalla seconda opera. Agiva preferibilmente la mattina presto, lo si poteva dedurre dalla consistenza della sabbia modellata e dal basso degrado. Si spostava con una bicicletta in fibra di carbonio di non troppo recente costruzione e abbastanza diffusa, che aveva lasciato l'impronta di un pedale rimasta impressa sulla sabbia circostante entrambe le opere. Un altro elemento era il cartoccio di plastica ad alta degradabilità di uno snack piuttosto famoso presente nelle immediate vicinanze. Trovavo quasi incredibile che il mio sand-artista preferito dopo aver realizzato le sue sconvolgenti creazioni se le contemplasse tranquillamente sgranocchiando uno snack. Ma si sa gli artisti sono strani. O forse dovrei dire "la mia sand-artista preferita"? Quelle impronte così piccole non lasciavano spazio a troppi dubbi, molto probabilmente si trattava di una donna. Come prima cosa incaricai una società di sorveglianza di tenere d'occhio la spiaggia nelle ore più probabili, preferibilmente la prima mattinata. A dire il vero con scarsi risultati, con quella nebbia fittissima, una famiglia di Yeti poteva mettersi a ballare il minuetto davanti al naso dei miei osservatori senza essere vista. Mi proposero una sorveglianza con telecamere a infrarossi, ma decisi di rinunciare anche perché cominciavo ad avere dei sospetti. E se fosse stata tutta una montatura per attirare la mia intenzione? Se l'innaturale nebbia sulla spiaggia continuava a essere impenetrabile i miei sospetti invece si dissolsero ben presto. L'Anonimo Mediterraneo colpì ancora. Appunti del 04.03.2010 ore 8.30 R.W.P. "Questa volta è un Mandala, incentrato su una vasta composizione a spirale.Il centro della composizione è un viso maschile che emerge dalla sabbia, la bocca è aperta in un urlo silenzioso. A prima vista potrebbe essere l'immagine di qualcuno che urla una disperata richiesta d'aiuto prima di essere sommerso. La realtà è ben diversa. L'urlo si espande deformando lo spazio- tempo e ricacciando l'oceano indietro. E'un Maelstrom alla rovescia, di segni e di simboli, che si espande come un'onda d'urto altamente distruttiva. L'urlo primordiale della terra ferita rimodella l'universo purificandolo. Un urlo che potrebbe anche essere un atto d'accusa contro la civiltà tecnologia, particolare che si intuisce da una serie di composizioni geometriche rappresentanti macchine e circuiti il cui ordine è stravolto dal potente turbine antiorario di forza primitiva generata dall'urlo…" Un altro colpo da maestro. A questo punto iniziai a pensare che forse era giusto che l'Anonimo Mediterraneo restasse tale. Perché diradare questa cortina di mistero che rendeva così affascinante questo artista? Era meglio lasciare le cose come stavano e fare in modo che costui (o costei? perché continuavo a ritenerlo un uomo?) potesse operare in tutta tranquillità senza le pressioni dell'art-business che cominciava ad infettare anche il mondo della sand-art. Qualcuno già si prestava a realizzazioni a pagamento e performance prezzolate on-line, in giro già si vedevano abili intrallazzatori che avevano fiutato futuri affari nel campo della sand-art, e c'era persino chi proponeva di cospargere le opere migliori con dei polimeri trasparenti dal nome esotico che avrebbe permesso la loro conservazione indefinitamente. Preferivo immaginare il mio Anonimo Mediterraneo libero da tutto questo e che magari iniziava a girare il mondo con le sue opere lasciando il suo indelebile segno nella memoria di quei luoghi. Qualche giorno dopo, le mie elucubrazioni al riguardo furono interrotte da una visita inaspettata. Con l'aria di chi è a parte di un segreto troppo grande per non guadagnarci qualcosa venne da me il titolare dell'ufficio di investigazioni al quale avevo appena tolto l'incarico delle indagini. Era un tipetto viscido ed adulatore che dopo una serie di panegirici sul valore delle cose che facevo on-line, sottopose al mio esame un modulo di memoria contenente un'unica fotografia ad alta risoluzione. L'immagine mostrava un ragazzino dai capelli scuri, in bicicletta che pedalava vigorosamente circondato dalla nebbia fitta. Domandai solo: " E' lui?" Il tipetto viscido rispose: "Siamo sicuri al novantanove per cento" Poi mi porse altri documenti. Avevano fatto le cose per benino, con poche ore di ricerche erano riusciti a risalire a tutti i dati che riguardavano il ragazzino. Nome: Yan Mertens Età: 10 Luogo di nascita: Amsterdam Condizione attuale: Profugo olandese, orfano di entrambi i genitori deceduti durante la grande inondazione dei Paesi Bassi, attualmente ospite di uno zio materno residente a Quartu S.Elena. Frequenta la prima classe della Scuola Generica di secondo grado di Pirri con voti mediocri. In poche righe ecco il profilo del mio Anonimo Mediterraneo e quasi non riuscivo a crederci: un ragazzino di 10 anni aveva beffato il meglio degli ambienti artistici mondiali, senza contare il sottoscritto, diventando il simbolo delle avanguardie della sandart e, a rigor di logica, non poteva nemmeno essere definito mediterraneo. Chiamai immediatamente i miei avvocati, gente che riuscirebbe ad azzannare un barracuda anche quando sono di buon umore, e feci preparare uno dei loro contratti da sottoporre all'investigatore. Era un patto leonino grazie al quale il viscido individuo otteneva una notevole quantità di soldi e in cambio s'impegnava mantenere un assoluto silenzio, consegnando tutto il materiale in suo possesso, riguardo alla faccenda. Incluse le copie: mi premurai di mandare una squadra di hacker nel suo ufficio, che setacciarono i suoi hard-disk senza pietà. Se avesse mantenuto il silenzio sarebbe vissuto felice e contento. Se avesse diffuso, contribuito a diffondere, pensato o anche solo sognato di diffondere la notizia sull'identità dell'Anonimo Mediterraneo si sarebbe trovato in un mare di rogne enormi e senza un soldo per risolverle. Prima che se ne andasse gli feci conoscere in videoconferenza dal Giappone un mio cliente affezionato e al quale avevo fatto molti favori, tra i quali la vendita di un Matisse di attribuzione certa, ma di acquisizione discutibile, e che si diceva dirigesse il ramo vita-morte-infortuni della Yakuza. Sino ad ora, e sono passati ormai cinque mesi, il segreto è rimasto tale. Credo che continuerà ad essere così finché io non lo vorrò. Yan, il ragazzino, ha prodotto cose di una bellezza toccante, come la Cascata Lenta, il Cielo Rovesciato e ArtV Ocean sta andando a gonfie vele. Per quanto mi riguarda ho ceduto alle lusinghe di un'agenzia pubblicitaria e vendo la pubblicità interstiziale del sito, ovviamente selezionando accuratamente gli sponsor. Tutto il ricavato è stato messo in un conto svizzero intestato a Yan Mertens, il giorno che vorrà rivendicare la paternità delle sue opere si beccherà un bel gruzzolo, che magari gli permetterà di fare gli studi più consoni al suo talento. Mi piace sempre di più l'idea di questo ragazzino scappato da un cataclisma che combatte il suo dolore con queste opere di sabbia, ma mi piace soprattutto l'idea che stia vincendo la sua personale battaglia con il mare. Infatti, sembra che nelle ultime opere stia maturando un nuovo sentimento, non più solo odio e desiderio di vendetta, ma anche voglia di pace e armonia, di vita che può continuare, nonostante tutto. Vado sempre in spiaggia, soprattutto la mattina presto quando c'è nebbia, magari un giorno incontro Yan e mi faccio insegnare da lui qualcuna delle sue magie per fermare il mare. Salvatore Mulliri info@isolavirtuale.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 La cappella espiatoria di Gianni Caspani Passati ventidue anni non ho resistito, le barriere erette son volate via al primo alito come le morbide eliche di un soffione di prato. Son tornato nel nostro piccolo paradiso, un tardo pomeriggio di tre anni fa. Non ho molto da espiare, almeno relativamente a quella vicenda d'aver dato un supporto, diciamo così, logistico ad un anarchico venuto da Paterson, aggrappato al manico di una valigia traboccante di vendetta, per sistemare i conti con il mandante morale delle cannonate di Bava Beccaris. Non era quindi la voglia di ripercorrere i luoghi di un'altra esistenza ad avermi portato su quella spianata circondata da platani che facevano da cornice alle linee di fuga di una prospettiva un po' banale che indirizzavano lo sguardo verso il monumento un po' kitsch che, al di là delle intenzioni, non riesce ad ispirare pensieri di rimorso e di purificazione. In realtà, ci torno, tutte le volte che voglio rivedere mio nonno, a quasi trent'anni dalla sua morte. Ci sono al mondo luoghi, che agiscono come condensatori di energie soprannaturali, in cui si dischiudono varchi verso l'inconoscibile e l'arcano, quasi pentacoli per cerimonie non necessariamente esoteriche, che costituiscono solo lo strumento di appagamento dell'aspirazione all'eternità. Per intenderci, non è la cattedrale di Chartres, con il suo labirinto e la sua vergine nera. Né il priorato di Borley, infestato di mille fantasmi. Non è il ponte di Borgo a Mozzano dove Satana beffato si dovette accontentare dell'anima di un maiale. Né il bosco di Locronan con i suoi riti celtici, che riecheggia ancor oggi di echi irreali. Neppure uno degli infiniti onfali (1) che leggende popolari disseminano nei luoghi più disparati del globo, corredandoli di apparizioni e strepiti di catene, di lucori e ghigni sinistri. Si tratta, più banalmente, della cosiddetta cappella espiatoria che una città, allora piuttosto acritica nei confronti dei malesseri sociali, intimamente tradizionalista e monarchica, per malintesa riconoscenza di antichi lustri, ha voluto elevare sul luogo in cui Gaetano Bresci ha officiato la nemesi di un popolo. Non so perché quel sito fosse in grado di produrre quell'effetto di sconfinamento in una terra di nessuno, in cui la vita e la morte si fondevano in un unicum stupefacente per un soggetto come me, del tutto scevro da inclinazioni verso il trascendente e il mistico. Forse il tutto era determinato dallo spirito del nonno che si trovava ad aleggiare, oltre la sua consapevolezza e la sua determinazione, intorno a quei luoghi posti in fondo alla via in cui aveva passato gran parte della sua esistenza, così trasudanti, per lui, di sentimenti e di sensazioni assopite che lo riportavano ad affetti dismessi, come un abito non più indossato ma conservato nel baule dei ricordi di un tempo remoto. Finiva lì, al tempo della mia infanzia, il dipanarsi quotidiano dei vagabondaggi che per lui costituivano il ripercorrere lungo i viali freschi del parco i luoghi della sua giovinezza, quando andava a trovare la morosa che abitava alla cascina Frutteto, con una pistola in tasca, effimero deterrente al marasma sociale successivo alla grande guerra, e tanti progetti per il futuro nella mente e per me rappresentavano l'affaccio su tradizioni perdute verso cui avrei nutrito curiosità durante tutta la mia esistenza. Mentre mio nonno si leggeva il giornale, che allora costava venticinque lire, quasi a sottolineare la miticità dei tempi, trasformavo in cavalli alati per fantasiosi voli fanciulli verso domini senza limiti e senza barriere i cippi di pietra, che sostenevano le catene di ferro brunito che delimitavano il recinto sacro alla testimonianza della coda di paglia dei monzesi. Ed è lì, appunto, che da quasi trent'anni avviene questa celebrazione rituale, priva di implicazioni spirituali o spiritiche, quasi fosse un protrarsi delle partite a carte, intervallate soltanto da brevi commenti sul gioco o dall'affabulazione su episodi antichi, con cui intrattenevo il vecchio negli ultimi suoi anni di vita, in un rapporto vivace cui facevano da humus emozioni mai esternate. Era anche, per entrambi, un ripercorrere quelle pedalate perdute sui sentieri del parco, verso la cascata del Lambro, verso i mulini e le visite alla torretta dove viveva il vecchio Biasin con la moglie e con Till, il cane pulcioso che divideva con me i biscotti ammuffiti di cui Biasin ogni volta mi riempiva le tasche. Proprio quella torretta dove l'altro mio nonno, negli anni tardi del liberty, lavorava come cuoco del ristorante frequentato dalla borghesia cittadina e che faceva da soggetto di una vecchia cartolina di Monza, su cui comparivano due bianchi sbaffi di mosca sul prato antistante: io e la figlia del fotografo, in grembiulino, come si usava a quei tempi agghindare i rampolli perché non si sporcassero i vestiti. E' sicuramente per questa familiarità dalle radici ramificate che, cresciuto, ho sempre guardato a quella struttura falso medievale con l'occhio del proprietario espropriato, luccicante un po' di malinconia e un po' di livore. Il nonno che si sedette accanto a me sulla panchina quel giorno era un nonno su cui si erano sovrapposti con gli anni strati di polvere che lo avevano invecchiato, prosciugato, ingrigito e ingobbito, ma bastò un soffio deciso per fare emergere da una nuvola grigia la figura asciutta che pigiava un tempo sui pedali, con le mollette che stringevano i pantaloni all'altezza delle caviglie per non farli impigliare nei raggi della ruota, leggermente curvo verso di me, comodamente insediato sul seggiolino imbottito incastrato tra il manubrio e la canna, sfiorandomi i riccioli con la tesa del cappello ben calcato sulla fronte perché non volasse via lungo la discesa del parco, affrontata con gagliardia presenile. "Ti voglio raccontare una storia", mi disse, "che riguarda il nonno della nonna, che viveva alla cascina Frutteto. Qualcosa hai già sentito da piccolo, ma quello che ti racconto oggi, del lacé del re (2) sicuramente non l'hai mai sentito, anche se la parte ufficiale della storia l'avrai letta da qualche parte". E si mise a ripercorrere tracce vetuste da cui emergeva un ritrat Progetto Babele Speciale Inverno 2008 to arguto e un po' stupefacente, ma neppure irrealistico, dati i tempi, perché i potenti dell'epoca non erano in grado di essere autonomi neppure quando andavano a puttane. Il mio trisnonno forniva di latte la casa reale fin dai tempi in cui Umberto I aveva deciso di trascorrere lunghi periodi nella villa disegnata dal Piermarini per gli Asburgo e passata con l'unità d'Italia nell'appannaggio dei signori Savoia. Pa' Giuaneu era il regiù (3) della vecchia famiglia contadina insediata nella parte rurale di quella struttura tipica dell'architettura lombarda del primo ottocento, progettata dal Canonica, inserita in un vasto appezzamento di alberi da frutta, a cui deve il nome, contraddistinta da ampi archi e un porticato di collegamento con i fienili e le stalle dai soffitti a cupola, con una facciata gialla sopra la quale spicca tuttora una cuspide denominata popolarmente "campanin sensa campann" (4). Pa' Giouaneu si era investito della cura della stalla, che conduceva con quel sentimento misto di distacco e di affetto per gli animali, cui non lesinava alternativamente un bastone perentorio ma non feroce e pacche affettuose ammannite con ruvida bonomia. Questo ruspante villico, reso autorevole da un'età già cospicua e da una fama di austero patriarca, era stato un giorno avvicinato da una specie di ruffiano collocato in una qualche posizione di prestigio nell'organigramma della Versailles lombarda che, con fare di untuosa confidenza, misto ad accenni misteriosi, a suggestioni di segretezza e ad appena prospettate minacce, gli aveva commissionato l'incarico d'indubbia delicatezza di recarsi sul far della notte in una certa villa di Vedano al Lambro per accompagnare in una certa carrozza anonima, ma di grande conforto, una certa dama misteriosa fino a una certa entrata del palazzo reale. Il regiù aveva sicuramente orecchiato qualche favoleggiamento, durante le veglie invernali al caldo della stalla, infarcito di allusioni confezionate un po' per il fatto di ignorare i particolari, un po' per celare alle orecchie dei più piccoli la malizia pruriginosa che la diceria lasciava sottintendere, relativo alla tresca regale con la contessa Litta. Eugenia Litta era un gran pezzo di topa, come direbbero i toscani, così diversa dalla regina Margherita, corta di gamba, priva di sensualità, probabilmente frigida e pallida da rasentare l'emaciato. Viveva in una villa di Vedano al Lambro, confinante con la tenuta reale di Monza, ed era l'amante del re già prima delle auguste nozze: per questo motivo, Umberto I soggiornava volentieri a Monza, con la coscienza lieve per l'avallo indifferente e condiscendente della moglie, cui l'essere regina importava evidentemente più del virtuale diadema osseo che le ornava la fronte. E, come conseguenza di questi frequenti soggiorni e della polivalenza regia in fatto di amplessi, a cavallo dei due secoli non era infrequente incontrare in città un certo numero di ragazzotti e fanciulle con tratti somatici che lasciavano galoppare le fantasie verso genealogie inconfessabili, che era meglio non approfondire. Stranamente e per un cinico gioco del fato, la mal riuscita sotto il profilo estetico andò ad investire l'unica progenie, re d'Italia, imperatore d'Etiopia e latitante di Brindisi, che avrebbe avuto la necessità di giovarsi di un aspetto più aitante. Da quella prima sera in cui pa' Giuaneu se l'era vista salire in carrozza fugace, elegantina nel suo abito blu notte da cavallerizza ed emanante effluvi conturbanti sotto un folto velo che le celava interamente il viso, lasciando solo intuire un languido profilo, erano state infinite quelle spole misteriose tra le due tenute, officiate nel silenzio più totale, senza neanche un buonasera, a causa della proterva boria nobiliare della contessa e del pratico opportunismo rurale del regiù, che gli faceva interpretare il suo ruolo di automedonte dell'avvenente fantasma, con la consapevolezza che era meglio mettere da parte le buone maniere, per evitare rogne e inutili complicazioni: tanto, nessuno gli avrebbe mai rinfacciato di essere un villico maleducato. "Anch'io ti voglio raccontare una storia", gli dissi: "una cosa che non ho mai avuto occasione di dirti, tutte le volte che abbiamo parlato del re, della cascina del parco, di questa cappella espiatoria e del pa' Giuaneu". Mio nonno mi guardava con un'espressione un po' curiosa, un po' sorniona, stringendo gli occhi in due strette fessure, come gli capitava quando voleva concentrarsi su qualcosa o manifestare un attento interesse. "Nella mia situazione, non credo di potermi stupire di qualcosa", disse. "Non esserne mai sicuro", gli replicai. "Raccontami allora. E se è così delicato quello che devi dirmi, dammi almeno una sigaretta". "La nonna non vuole...", sogghignai. "Uff, la nonna..." Gli accesi ridendo la sigaretta e cominciai a raccontare. Pinin di Triante si trovava a Milano l'8 maggio 1898, mentre al Verziere suonava l'oficleide (5) dell'apoteosi del generale Fiorenzo Bava Beccaris che, dal suo quartiere di piazza Duomo, impartiva l'ordine di sparare ad alzo zero sui manifestanti contro l'aumento del prezzo del pane. Come sempre, folla insubordinata e prevenuta, con una rabbia covata da mesi sulla brace di artefatti pretesti: un contadino di Siculana ammazzato dall'esercito (ma che cazzo ve ne frega di Siculana, che neanche sapete dove sia?); repressioni e arresti a Canicattì, Montescaglioso, Santeramo; scempiati e ammazzati seminati con scientifico equilibrio geopolitico, a celebrazione della ancora recente unità nazionale, ad Ancona, Bassano, Chiaravalle, Firenze, Gallipoli, Jesi, Macerata, Matelica, Modica, Molinella, Osimo, Senigallia, Trani, Troiana, Voltri. E poi ancora Bari, Faenza, Ferrara, Napoli, Palermo, con sapiente mescolanza di rappresentanti delle categorie del dissenso: braccianti, mondine, tessili, calderai, cavatori, selciatori, scarriolanti, sindacalisti, socialisti, anarchici, nullafacenti e rilasciati da galera. E, in un crescendo di piazze militarizzate con la crème dei generali reduci dalle belle prove fornite nell'avventura coloniale, mucchietti di morti tristi a Molfetta, a Bagnocavallo, a Piacenza, a Figline Valdarno, a Sesto Fiorentino, a Pavia. Pinin di Triante respirava la morte che allagava il Verziere, preoccupato di salvarsi dai colpi, di rassettare la folla dispersa dalla furia dell'assalto e di sfuggire al setaccio maniaco operato dall'esercito per arraffare i caporioni di una rivolta di straccioni disperati a cui l'artiglieria spalancava benevola una decorosa via di fuga dall'arazzo di merda che decorava le pareti della loro esistenza spietata. Registrava tutti quei gridi e tutto quel sangue sul magnetofono della sua mente febbricitante, costruendo un reportage che avrebbe diffuso nella prossima riunione del circolo anarchico, già proiettato verso nuove rivolte e nuove ribellioni, a cui il popolo si sarebbe presentato non più impreparato, armato a sua volta di fucili carichi non solo di inutile rabbia. Mi raccontò di quelle giornate di violenza e di morti e commentò la croce di grand'ufficiale dell'ordine militare di Savoia che il re aveva, motu proprio, conferito al generale sanguinario, per gratitudine e riconoscimento della sua grandiosa impresa. "Quel figlio di puttana si è assunto la paternità del massacro", disse Pinin, "ma quella firma l'ha messa anche sulla sua condanna a morte". "E' figlio di una regina, Pinin. Magari è la stessa cosa, ma occorre più rispetto per l'istituzione". "Stavolta gliela faremo pagare sul serio. Non quelle bischerate con il coltello, come Passannante e Acciarrito"(6). "Una pallottola è troppo cara per un coglione come il re, che non ne vale il costo. E poi, Pinin, morto un re, se ne fa subito un altro e non è detto che provochi meno danni all'Italia del suo predecessore". Era indubbiamente, pur nella sua scontata banalità, una intuizione profetica di tutte le benemerenze che si sarebbe acquisita nel tempo il casato dei signori Savoia, cui il referendum del 1946 Progetto Babele Speciale Inverno 2008 avrebbe impedito di perpetuare l'occupazione delle istituzioni con personaggi connotati, al di là dei preconcetti sull'istituzione monarchica, d'infimo profilo culturale, almeno sul versante maschile della dinastia. Erano passati più di due anni da quei fatti, quando Pinin di Triante mi venne a cercare, verso il dieci di luglio, nell'abbaino che avevo adibito ad atelier da pittore dove producevo tele impressioniste di buona fattura che esaltavano il mio estro, ma non mi davano da mangiare e rifinivo i ritratti, abbozzati alla domenica sui luoghi del passeggio dei borghesi, la cui autostima sconsiderata mi garantiva una decente sussistenza. In realtà lo studio era diventato anche un luogo di transito di spiriti liberi, vagamente cospiratori, a volte coinvolti in quelle indagini cavillose e invasive con cui il potere assilla i dissenzienti, per il gusto di fargli sentire il fiato sul collo anche quando non ci sono contestazioni specifiche di fatti giuridicamente rilevanti. Venivano lì, cambiavano la società con le loro trame alquanto velleitarie, organizzavano complotti e attentati in un gioco di ruolo artificioso, ci passavano la notte quando avevano qualche motivo per starsene lontano da casa e io me ne andavo la sera lasciandoli lì, dicendogli soltanto: "Quando te ne vai tirati dietro la porta", tanto non c'erano serrature e dentro non c'era niente che valesse la pena di prendere, perché i colori me li portavo sempre dietro in una sacca sformata, insieme al cavalletto pieghevole, e i quadri finiti non me li avrebbe rubati nessuno. Transitavano per il nostro diletto anche suffragette e modelle, ragazze ai margini della società per bene, che rallegravano alquanto i truci progetti rivoluzionari e intiepidivano con i loro corpi il gelo crudo incartato nelle nebbie invernali. "Devi farci un favore, compagno", mi disse Pinin di Triante, mettendomi un braccio sulla spalla e soffiando fuori le parole con un fare cospiratorio. "Compagno di chi?" "Già, compagno no di certo, imbrattatele borghese, perso dietro i tuoi sogni artistici...Ma comunque ci dai una mano quando abbiamo bisogno e non chiedi niente e non stai con i padroni..." "Lascia perdere, Pinin, e vuotami addosso il tuo sacco. Deve essere una cosa grossa, stavolta, se fai tanti preamboli. Di solito andate, venite, senza chiedere un cazzo e mi scopate anche le modelle". "E tu ti rifai con le compagne che passano di qui". "Touché, Pinin. Racconta tutto al tuo padre spirituale". E per favorire le confidenze ci tuffammo in un assenzio pastoso dentro cui macerare patemi e progetti di mostruosa grandezza. "C'è un tale, che è venuto da Paterson..." "In quale buco del culo del mondo è questa Paterson?", lo interruppi sarcastico. "Paterson City. New Jersey. United States of America..." "Cosa blateri, Pinin? Un anarchico individualista come te, parlare in inglese come un baronetto. Via..." "Vuoi chiudere quella fogna di bocca, cazzo. Stai zitto e stammi a sentire". "Va, bene: c'è un tale che è venuto da Paterson, New Jersey, United eccetera. Cosa vuoi da me?" "Adesso è da certi parenti, poi andrà un po' in giro con una specie di fidanzata; a fine mese sarà qui a Monza e ha bisogno di un posto dove starsene fuori vista per un paio di giorni". "Cosa si porta dietro? Bombe, dinamite, cannoni?" "Credo solo una pistola, ma il rumore sarà tanto" "Non c'è un altro posto dove andare?" "Apparentemente si cercherà una sistemazione, ma in realtà dovrà chiudersi in un posto non ufficiale". "Va bene, Pinin, tanto se anche dicessi di no, me lo troverei tra i coglioni al momento opportuno". "Gli servirà qualcosa, quando starà qui?", chiesi dopo un attimo di pensamenti inespressi. "Magari una compagnia, una delle tue modelle, insomma, l'importante che sia disponibile..." "Ma quella specie di fidanzata?" "Non verrà con lui. A Monza arriverà da solo. No, con un altro compagno. Ma si sistemeranno in posti diversi. E' un bel ragazzo... Forse lo ammazzeranno subito. Se gli va bene lo arresteranno e lo ammazzeranno dopo. Comunque non lo vedrai più. Se anche riuscisse a scappare, andrà via da Monza di corsa. Ma non ce la farà." "Sembra che la cosa più importante sia trovargli una donna che lo riscaldi". "Siamo a luglio, minchione. Diciamo che non lo faccia pensare troppo nelle ore d'attesa". "Proprio una cosa da niente, Pinin. Vaffanculo te e l'anarchia..." Restammo a guardarci un attimo in silenzio, prima di scoppiarci a ridere in faccia. "Posso sapere come si chiama? Per capire, quando si presenterà, se è proprio lui." "Meglio di no: meno cose sai, meglio è per te. Comunque lo accompagnerò qui io. O qualcun altro che tu conosci. Non devi preoccuparti. Solo, evita che ci sia altra gente in giro, oltre la modella, voglio dire. E anche tu, per favore: togliti dalle balle". "Ma certo, compagno. Fate come a casa vostra. Se vuoi vado via da Monza e mi trasferisco a Paterson: si chiama così, no, quel cazzo di posto?" "Fin quando arriva lui stai dove vuoi, ma poi lasciagli spazio". "Quando arriverà di preciso?" "Non lo so. Non lo sa neppure lui, oggi. Credo dopo il 21". "Dopo il 21? Il 21 arriva il re a Monza. Cosa state combinando, Pinin?" "Reprimi i tuoi istinti di mostrarti troppo intelligente. Nessuno ti premierà e potresti rischiare grosso. Questa esibizione di meningi attive l'hai data a me e non lo dico a nessuno. Di te mi fido, anche se non sei dei nostri e so che non parleresti mai; ma qualcun altro potrebbe ritenere le tue intuizioni troppo pericolose". Gaetano Bresci venne da me la sera del 28. Era un bel ragazzo sui trent'anni, due baffetti curatissimi su un viso aperto, che ispirava naturalmente cordiale simpatia. Indossava un abito di buon taglio di fattura accurata, una camicia di tessuto non ordinario, un panciotto con tanto di catena. Dalla spalla gli pendeva la tracolla di una macchina fotografica. Unica concessione all'anarchia un foulard nero che sostituiva la cravatta. Dopo che Pinin me lo ebbe presentato come il compagno di cui ti ho parlato sentii le sue braccia forti dietro le spalle che mi abbracciavano come un vecchio amico. "Grazie", mi disse soltanto. "Ben arrivato a casa", risposi ironico e un po' sconcertato. "Sistemati come vuoi. Io me ne vado subito con Pinin. Vai pure avanti e indietro senza problemi: la porta non ha serrature. La Cosciona verrà per le nove. Non me la guastare: è la mia modella più brava, non solo per le cosce. Ah, si chiama Maddalena. Non è una puttana, anche se è di larghe vedute. Quindi falle un po' di corte e, dopo, non lasciarle i soldi sul comodino". "Devo chiederti un favore, compagno. Vorrei assistere al saggio ginnico domani sera, in via Matteo da Campione. Mi potresti accompagnare?" "Dico, Pinin, non vorrete mica cacciarmi in un qualche casino?", dissi rivolgendomi al mio amico e senza rispondere alla domanda di Gaetano. "Avevo detto a Bresci, qui, che sei un ragazzo intelligente. Vedi di non smentirmi fin dalla prima battuta. Non vorrai che lo accompagni qualcuno di noi, conosciuto da tutta la sbirraglia che ci sarà lì intorno domani sera?" "E non vorrai che sia io a finire nei guai come complice una volta celebrata la festa..." ribattei sull'incazzato. "Devi solo accompagnarmi sul posto", mi disse Bresci con serafica pacatezza, "tanto per insegnarmi la strada. Non è necessario che rimani con me. Una volta lì farò tutto da solo". "E dopo?", gli chiesi, "Se devi scappare?" "Non ci sarà tempo", sorrise rassegnato, "non è prevista una fuga. Sarà impossibile andare via di lì. Sarà già tanto se non mi accopperanno subito". Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Aveva disegnati sul viso i tratti di un destino stabilito, di cui aveva maturato una consapevolezza tragica, da guerriero acheo, anche se non rassegnata, fin dai giorni in cui aveva acquistato la Harrington & Richardson nell'armeria di Paterson e si era messo ad esercitarsi in un tiro a segno puntiglioso che gli avrebbe potuto valere un oro olimpico, proseguito con una perseveranza caparbia negli ultimi giorni sulle rive del Sillaro, dove aveva passato ore ricamate di fragilità con Teresa, ombrellaia appassionata che, inconsapevole di vivere nella storia, aveva condiviso un po' della sua con quello strano americano vestito come un damerino che parlava d'anarchia e, nelle fratte, mescolava pallottole ad artefatti riti d'amore. Il giorno dopo lo lasciai lì sul campo di marte, a gironzolare tra la folla con quell'aria da finto turista che, in una spirale sempre più stringente, convergeva verso la tribuna d'onore, già sradicato dal mondo e proteso come un cane da ferma a ipnotizzare la lepre. Mi allontanai senza neppure salutarlo e non per ignavia: solo per l'indifferenza più assoluta per quanto sarebbe successo, un atteggiamento da "né con lo stato, né con le brigate rosse", non condividendo l'ideologia violenta, ma comprendendone tutto il dramma e le angosciose ragioni. Mi risparmiai così il crudo pestaggio che, dopo, gli purificò il corpo dalle impronte delle carezze impudiche della Cosciona. "Te lo saresti mai aspettato, nonno?", chiesi alla fine della storia al nonno, rimasto impassibile a sentirmi parlare. "Pa' Giuaneu era diventato sordo come una campana e, quando il giorno dopo lo informarono della morte del re, gridandogli dentro l' orecchio più volte e a voce sempre più alta: -Hanno ammazzato il re-, rispose solo: -Oh, pucianiga- (7) . A posteriori si potrebbe dire che forse in quello stupore c'era anche un commento al tuo ruolo avuto nella storia". Dalla vicina chiesa di San Biagio giungevano i rintocchi dell'angelus. "E' ora d'andare, cosa dici?", disse mio nonno. "La cena sarà pronta". E mi parve di vedere mia nonna, in piedi davanti alla stufa, schiumare il brodo con un gesto misurato d'altri tempi. Gianni Caspani caspani.g@libero.it Note dell'autore: (1) l'onfalo (dal greco omphalòs, ombelico) nel linguaggio esoterico è il luogo dove il divino si unisce con il terrestre e dove non c'è confusione di lingue. Nell'antica Grecia era considerato omphalòs della terra il tempio di Delfi. (2) lattaio del re. (3) il termine regiù, storpiatura dialettale del termine "reggitore" indicava il patriarca delle famiglie contadine dell'800. Si trova con diverse variazioni fonetiche in tutti gli idiomi regionali. (4) campanile senza campane. (5) strumento musicale in disuso, della famiglia degli ottoni, a forma di serpente attorcigliato, che emette un suono rozzo e grottesco. (6) Il 17 novembre 1878, a Napoli, Giovanni Passannante aveva attentato alla vita di Umberto I, ferendolo solo leggermente con una coltellata; il 22 aprile 1897 ci aveva provato Pietro Acciarrito a Roma, senza neppure riuscire a ferirlo. Si trattò, in entrambi i casi, di iniziative individuali, estemporanee, caratterizzate da molta velleità ed improvvisazione, in cui la premeditazione era relativa unicamente al progetto di attentato e non coinvolgeva altri protagonisti che si potesse ricondurre a un disegno associativo. (7) Termine senza un significato preciso, forse una storpiatura di puttana, senza un'accezione triviale, come oggi si potrebbe dire con sorpresa: "Oh, cazzo". La bambina delle lacrime di Elisa Lai C'erano solo loro due. Loro, e le loro orme sul selciato umido di pioggia.Leggeri, senza meta. Le mura della città, scure e sbiadite, li osservavano silenziose dai lati della strade. La Bambina delle lacrime guardava ora la terra, ora i lampioni sfuocati in fondo alla via. Respirava il fresco profumo di pioggia e terriccio, di fiori appena sbocciati e lumache che escono silenziose dai loro nascondigli, lente e pigre. La Bambina delle lacrime ora aveva gli occhi ridenti. Il suo trucco era scivolato giù,attorno agli occhi, e li rendeva più grandi e innocenti. Il Bambino col mantello le camminava accanto, diceva sciocchezze e rideva, ma sempre distoglieva lo sguardo dal suo, come per paura.I loro passi erano corti e tranquilli, le orme sempre vicine. Le loro mani si sfioravano ogni tanto: quando ciò succedeva la Bambina sorrideva, e tornava a osservare le luci offuscate in fondo alla via, canticchiando sottovoce. La città si addormentava, pian piano. Le case chiudevano i loro occhi luminosi, al mattino aperti verso il mondo, verso il sole e il canto degli uccelli. Voli neri di pipistrelli,e dei passi. Due bambini ridenti che se n'infischiano della notte, due mani morbidamente intrecciate che si fanno beffe dei fantasmi notturni. Una Bambina dagli occhi ridenti, avvolta in un mantello nero. Elisa Lai piggia@hotmail.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 La musica dentro di Miriam Ballerini Senza guardarsi allo specchio, evitando di vedere quel fantasma pallido, scarno, tutt'occhi in cui si era trasformata. Coi capelli che le ricadevano radi fin quasi alle caviglie. Mangiata a morsi dalla follia della sua fissazione (...) Marina lo sapeva com'era iniziata: aveva trent'anni e si era presa una brutta influenza. Sola, sdraiata sul divano con quella vistosa macchia sul bracciolo sinistro, dove aveva rovesciato del succo di frutta, aveva cominciato a capire. Non era solo uno stupido raffreddore da soffiare via nel fazzoletto; era l'inquinamento, tutti quei tubi di scarico delle macchine che aumentavano di giorno in giorno, che la circondavano mentre si recava al lavoro. L'aria era il veicolo per una miriade di batteri. Minuscoli, invisibili creature che sapevano come entrarti dentro e ucciderti piano piano. Si era alzata dal suo giaciglio, avvolgendosi intorno alle spalle una calda coperta a quadretti rosa. Dalle finestre del suo appartamento al terzo piano li vedeva: ecco le macchine che si incrociavano fra loro, persone che correvano stringendosi nei cappotti; riparandosi sotto al tetto degli ombrelli da una pioggerella che arrivava a picchiarle sul davanzale, sospinta da un vento mancino. Sputando addosso al vetro il rimbalzo del suo tuffo. Frenetica aveva chiuso le persiane, tutte, così che la casa fosse completamente buia. A tentoni era tornata al divano, starnutendo. *** Viveva sola e la pazzia ben lo sa dove attecchire. Le sue radici affondano nelle persone lasciate a se stesse. Marina aveva un fratello e una sorella. Ognuno con il proprio tragitto da compiere. Anche lei ne aveva uno: segretaria, una volta alla settimana si recava in quel dancing fuori paese. Con un sorriso da rivolgere a bambini e vecchi. Questo era il perimetro dentro al quale aveva costruito la sua vita. Non voleva morire! Non voleva che un virus ottuso le si avvinghiasse addosso, abbracciandola nella sua morsa letale. Decise di non uscire più da casa. Di vivere rinchiusa, di autorecludersi. Niente visite, niente uscite, niente luce, niente aria. Ah! Che provassero a entrare, escogitando stupidi sotterfugi. Non sarebbero riusciti a rubarle la giovinezza, la pelle bianca, l'esistenza! Dopo poco dovette chiedere l'aiuto del fratello. Le occorreva qualcuno che le facesse la spesa, doveva pur nutrirsi! Quel parente stretto, il solo di cui poteva fidarsi, veniva ogni tre mesi a portarle quello che lei chiedeva: cibo in scatola. Provviste che fossero sottovuoto, niente alimenti freschi. Non l'avrebbero imbrogliata intrufolandosi nei sacchetti della spesa. La sorella, di notte, entrava di tanto in tanto per pulirle l'appartamento. Marina si accovacciava dietro al divano, lontana dai suoi fratelli. Loro malgrado potevano intro-durle in casa dei microbi sconosciuti. Loro erano ignari, non sapevano, non capivano. Lei, restando al buio, aveva visto i batteri incontrarsi e organizzare i loro sporchi piani. Passava le giornate ascoltando la musica alla radio, ballando con se stessa nel grande e asettico salone della sua fantasia. Danzando nel buio, sulle note che riempiendo l'aria, facevano indietreggiare i mostri della sua mente. Più di rado guardava la televisione, indifferente a quanto accadeva al di fuori del suo appartamento. Ogni tanto berciava da dietro la porta, richiamando i suoi vicini, che chiudessero le finestre del pianerottolo: pazzi! Incoscienti! Lo sapevano cosa stavano facendo? E, poi, tornava a danzare, con quella musica che le penetrava dentro come il più dolce placebo. Il tempo correva via, con o senza l'aiuto dei batteri. Marina compì cinquantasei anni. Erano ventisei anni che stava reclusa senza vivere, per paura di morire. Senza guardarsi allo specchio, evitando di vedere quel fantasma pallido, scarno, tutt'occhi in cui si era trasformata. Coi capelli che le ricadevano radi fin quasi alle caviglie. Mangiata a morsi dalla follia della sua fissazione e da quell'ingiustificabile adattamento nel quale si erano adagiati i suoi famigliari. E i vicini, ai quali bastava chiudere la propria porta, per dimenticarsi della vicina stramba, chiusa in una bara formato casa. Dopo ventisei anni il fratello decise di denunciare il fatto, ma non per un gesto caritatevole nei confronti della sorella, della quale si era preoccupato solo di mantenerne la pazzia; ma semplicemente perché non era più in grado di soddisfarne le pretese. Ed ecco piombare la polizia, i vigili del fuoco e le ambulanze. Marina li aveva uditi salire le scale. Quando bussarono, docile, andò ad aprire. Gli uomini fissarono l'orrore di quel volto devastato dal tempo e dall'assenza di sole. La invitarono a seguirli e lei, dopo avere spento la radio e messo a tacere la musica, scese con loro. Forse aveva aspettato per tutti quegli anni qualcuno che danzasse con lei, che sapesse guidarla altrove, con passi leggeri sulle note della musica che aveva dentro. © Miriam Ballerini miriamballerini@virgilio.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 La porta di Giuseppe Costantino Budetta "Domani il prof. Andrea Nelli ci lascia per aver raggiunto l'età pensionabile. Mancherà a tutti noi che lo amiamo e lo stimiamo anche se ci auguriamo che venga spesso ad onorarci della sua presenza e ci continui a dare i suoi indispensabili consigli (...) Tornava da pensionato a visitare il luogo avito. Aveva scelto di proposito un orario fuori mano, quando la struttura era semideserta. Fuori dal gioco, voleva evitare il dialogo con chi era rimasto in servizio ed esercitava a pieno titolo quel potere accademico sua esclusiva prerogativa pochi mesi prima. Era stato il direttore del dipartimento al culmine di una carriera universitaria folgorante. Un temuto barone della medicina con appoggi in politica e in magistratura. Aveva mandato in cattedra chi voleva ed aveva piazzato i suoi nei posti chiave dell'università partenopea e altrove. Dietro di lui una fitta ragnatela di oscure connivenze. Logico che con l'andata in pensione avesse avuto un crollo psicologico. Era scontroso e chiuso. Nessuno lo cercava più se non di rado. Non era più il centro delle accademiche aspirazioni, il punto di riferimento per vincere un concorso universitario, il faro per una carriera sicura in ateneo. Per scrupolo, qualcuno dei discepoli piazzati in cattedra gli telefonava. Parole di rito: "Professore, come sta? Come va la vita da pensionato?" Sapeva che gli ex non contano un ix. Non aveva più agganci. Dopo il suo ritiro era scoppiata la guerra baronale di successione: riunioni segrete, combutte, tentativi di agganci coi politici. Con incontenibile trepidazione rivisitava i luoghi frequentati in modo continuativo dal secondo anno di medicina. Da ragazzo imberbe ci veniva già col padre, professore di anatomia. L'aria chiusa del lungo corridoio e quella acre dei laboratori era nel suo sangue. L'ultimo giorno come da tradizione, c'era stata la gran festa di commiato con mezza università invitata: rettore, pro- rettore, presidi, direttori, oltre al personale del dipartimento. Biblioteca e aula magna trasformate l'una a deposito di bibite e pasticcini e l'altra a sala di ricevimento invitati con le guantiere colme di dolciumi, rustici, confetti; bottiglie di aranciata, coca cola e spumante poggiate alla rinfusa sulla grande cattedra. Gli invitati sedevano negli scranni riservarti agli studenti per ascoltare il discorso di rito. Al termine dell'orazione - definita dai maligni, orazione funebre - tutti si sarebbero avvicinati per salutarlo ed augurargli una lunga vita da pensionato. L'ambiente stravolto e le cataste di vecchi volumi negli scaffali laterali a muti spettatori. Il prof. Carlo Celano fece il breve discorso di encomio e di commiato in onore del barone uscente. "Domani il prof. Andrea Nelli ci lascia per aver raggiunto l'età pensionabile. Mancherà a tutti noi che lo amiamo e lo stimiamo anche se ci auguriamo che venga spesso ad onorarci della sua presenza e ci continui a dare i suoi indispensabili consigli… Il risultato della sua incessante e fervida attività lavorativa è sbalorditiva: oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche, dieci suoi allievi che hanno raggiunto la Cattedra universitaria come ordinari, ed altri sedici quella di associato. Le sue ricerche scientifiche spaziano in tutto il campo della morfologia, dall'anatomia macroscopica all'anatomia microscopica, all'istologia, all'istochimica, all'immunoistochimica, all'endocrinologia, all'embriologia ed alla ultrastruttura. Il prof. Andrea Nelli ha sempre considerato l'insegnamento una missione da compiere con impegno, serietà, zelo, passione ed umiltà. Alla sua attività didattica ed alla sua intensa attività di ricerca ha dato il meglio di sé…." Il prof. Giordana accovacciato nel suo scranno, ritenuto dagli altri un dissidente moderato, disse a bassa voce ad un collega: "Lodi auto referenziali. Si lodano tra loro." "Chi prenderà il suo posto ed il suo potere?" " Non si sa ancora. Dicono che aspettano le decisioni del Presidente della regione." "Io non li sopporto. Vado via. Questi qui non esistono come individui, esistono come branco." "Un branco di iene." "Ciao, ci vediamo dopo." "Non capisco perché ci sei venuto." "Mi hanno invitato. Ci sono venuto come te, per farmi vedere che sono presente se no pensano che sono fuori dal…branco." "Come me, per quieto vivere. Ciao." Da pensionato adesso, vedeva il dipartimento con distacco e nella vera luce: un lungo corridoio con in fondo la biblioteca e il suo ex ufficio con la porta chiusa. Nel versante sinistro i laboratori. Poteva essere un corridoio d'albergo o la corsia di un ospedale. Tutto era silenzioso, anonimo e in penombra. Una volta l'edificio era stato un convento e in alcuni punti era rimasta la vecchia struttura come il chiostro interno delimitato da un massiccio colonnato e i lunghi corridoi in semioscurità. Il dipartimento dove l'ex barone era stato il direttore occupava tutto il terzo piano dello stabile. Sul lato occidentale c'era la fila delle camere per il personale docente e non docente. Una grossa finestra per ogni stanza catturava il sole declinante nello zenit e allungava smagliature di luce sulle scrivanie, sulle mensole piene di estratti e sugli armadietti. Nella prima stanza a sinistra dell'entrata, c'era il tavolo nel cui tiretto era conservato il registro per le prenotazioni agli esami degli studenti del quinto anno. C'era una mensola di marmo, un becco bunsen per il caffè del mattino, le sedie su cui sedersi e fare quattro chiacchiere sorbendo caffè prima di iniziare la giornata lavorativa per modo di dire. Secondo la diceria degli studenti, l'unica a lavorare in quel dipartimento era la macchinetta del caffè. Lo assalirono i ricordi in quello scialbo declino della vita. La sua camera di barone della medicina era in fondo, prima della libreria, la più capiente con due finestre anziché una. Al centro una grossa scrivania e verso la finestra di fronte all'ingresso, un tavolino con tre divani riservati agli ospiti di riguardo. Due telefoni sulla massiccia scrivania di noce e nel lato opposto alle finestre, le scansie per i libri e gli estratti delle ricerche pubblicati su riviste nazionali ed internazionali. Prima del pensionamento coi Progetto Babele Speciale Inverno 2008 fondi strutturali, aveva fatto cambiare la vecchia porta con maniglie sghembe ed installare una corazzata con rifiniture in laminato ciliegio, maniglia dorata "Gardena" (design di Klaus Hartman). Entrato in dipartimento il bidello Giovanni anche lui prossimo alla pensione, lo aveva salutato calorosamente e con il dovuto rispetto: "Direttore. Che sorpresa! Prego." Gli aveva porto la mano moscia e aveva risposto sforzandosi di sorridere: "Come andiamo?" "Bene. E voi?" "Abbastanza bene." Era stato lui a farlo assumere una trentina di anni prima. Avevano trascorso in quelle stanze quasi una vita. Il bidello era davvero contento. Sembrava il vecchio cane Argo alla vista di Ulisse ritornato alla sua Itaca. Gli mancava solo la coda da scodinzolare. Subito gli aveva confidato: "Direttore, quando c'eravate voi, era un'altra cosa. Dopo che siete andato via, qui non si capisce più niente." "In che senso?" "E' una continua guerra." "Capisco." "Tutti contro tutti. Solo lei li metteva a tacere e manteneva l'ordine." "Capisco." "Direttore, ma lei capita in un orario fuori mano. C'è solo qualche assistente che fa ricerche in laboratorio. Verso le sedici anch'io vado via." "Lo so. Volete che non lo sappia? Ci ho passato una vita qui dentro." "Come mai siete venuto? Avevate appuntamento? Scusate se ve lo chiedo." "Passavo di qui per caso e sono salito su in dipartimento." "Vi preparo il caffè." "Bravo. Io mi avvio verso la biblioteca. Voglio dare uno sguardo alle riviste." Non sapeva neanche lui perché voleva andare in biblioteca. Una scusa per attraversare da solo il lungo corridoio. In fondo vide la porta chiusa del suo ufficio. Una volta un via vai di gente attraversava il vano di quella porta e lui dietro la scrivania ad impartire direttive. Rivide eventi del passato. Era stato all'apice di una cupola di potere pazientemente eretta. Aveva manovrato tutti i concorsi universitari del suo raggruppamento decidendo chi doveva vincerli. La sua volontà era stata legge. Sessantacinquenne, s'era fatta una nuova amante. Era venuta da lui dietro appuntamento. Era una bella donna, fresca sposata. L'aveva ricevuta nel suo studio e fatta accomodare sulla poltroncina riservata agli ospiti di riguardo. Aveva belle cosce, slanciata e zizze toste come piacevano a lui. Nel vedersela parata davanti, gli era salita una melliflua fiamma partita da sotto le pudende. Ciò accadeva con le donne che davvero lo attraevano. Aveva accavallato le cosce comodamente seduta di fronte a lui e aveva detto: "Professore, sono l'assistente del prof. Giardino che è mio zio da parte di mia madre. Avete parlato di me per telefono…stamattina, così mi ha detto mio zio…" "Sì, ho detto a vostro zio che potevate venire da me questo pomeriggio alle 16, cosa che avete fatto con puntualità." "Ecco, vengo a proposito del prossimo concorso ad associato…" La donna lo sguardo ammiccante, si era sporta verso di lui che le ammirava le cosce. Aveva una gonna coi bordi quattro dita sopra le ginocchia. Le calze nere velate, irresistibili. "Professore, che ne pensa? Posso presentarmi al prossimo concorso? Avrei pochi titoli in verità." "Lei è giovane perciò ha pochi titoli". Questa frase del barone poteva significare: signora, aspetti ancora alcuni anni. Maturi altri titoli e poi si faccia avanti. Poteva però essere un semplice complimento per la sua bellezza e giovinezza. La donna si chinò ancora di più verso di lui azzardandosi ad appoggiare il braccio sui calzoni con la mano in prossimità delle brache. "Professore, la ringrazio del complimento. Ho in cantiere nume rose ricerche che potrò meglio espletare quando avrò la tranquillità che solo un posto di professore di ruolo può dare…Lei lo sa…mi capisce…" Non aveva ritirato il braccio da sopra la sua coscia. Con calma le aveva detto: "Signora, facciamo così. Venga domani alla stessa ora e mi porti il suo curriculum con gli estratti delle sue pubblicazioni scientifiche." Aveva tatticamente rinviato gli amplessi. La giovane donna era bella e gli piaceva da morire. Aveva fatto breccia nel suo cuore, ma preferiva aspettare. Meglio rinviare di un giorno gli approcci sessuali. Non era più giovane e con la verga a comando. Verso le 15,30 avrebbe preso una compressa di Viagra aspettando l'arrivo della donna per le 16,00. Col Viagra non c'erano problemi. Quel pomeriggio, la donna aveva giustapposto sul tavolino il curriculum e gli altri titoli. Lui era corso a chiudere a doppio mandato la porta e si era slacciato le brache. Gli aveva fatto un immediato pompino. Il secondo giorno, il barone aveva preso un afrodisiaco più potente con l'integrazione di steroidi e vitamine. Si sentiva il formicolio ai testicoli e i muscoli col tono di un ventenne o quasi. Appena arrivata, era stata lei a chiudere a chiave la porta lanciandogli uno sguardo da complice. Lui che aveva già perso la testa, si era subito messo a frugarla sotto il vestito, passando la mano tra le cosce. Abbassando lo sguardo le aveva visto lo slip nero merlettato e la sottoveste…Le aveva aperto la camicia di seta e slacciato il reggiseno… Lei gemeva e gli baciava il lembo dell'orecchio. Le agguantò una tetta. Era turgida. Ci si attaccò come un neonato avido di latte. Prese a baciarla e a leccarla sul collo sbavando come un cane. Le succhiò il labbro come si gusta una prugna matura. Soffocò i gemiti di lei con un bacio. Le strappò via il vestito e le sfilò giù le calze. Cosce nude, pallide ginocchia, carne calda. La tirò su dalla poltrona, le tirò via le mutande e glielo ficcò dentro con la furia di un mandrillo. " Andrea" disse "Oh, Andrea!" Gli piacque che lo chiamava per nome. In mezzo alle cosce aveva una matassa intricata di peli. Le grandi labbra vulvari inumidite e lubrificate alla meglio. Se la fece in piedi, ma mica stando fermi. Scopavano per tutta la stanza. Glielo ficcava e rificcava in corpo. Ribaltavano le sedie e avevano fatto cadere la lampada. L'aveva stesa sulla scrivania mentre masse di libri rovinavano sul pavimento. Grugnì come una scrofa in calore. "Oh, Andrea!" Fu percorsa da un brivido da capo a piedi, poi da un altro, come una bestia sull'altare del sacrificio. Vedendola sfibrata, come fuori di sé, come smarrita - o forse fingeva - glielo spinse più su che potette: una furia. La donna tramortita, al colmo della goduria. Lui rinculò leggermente e glielo spinse di nuovo dentro con rinnovata forza. Dava colpi d'ariete e a lei ballava la testa come un burattino pazzo. Proruppe l'ondata di sperma. Da anni non se ne faceva una così. A momenti moriva. Il povero cuore a martellargli dentro. Quella donna meritava senz'altro di vincere il concorso. Sarebbe stata la sua amante per alcuni anni. Per lui bastavano. Alla sua età era già troppo. Ricacciò l'onda dei ricordi. Stava per poggiare la mano sulla maniglia di quella che era stata per anni la porta del suo studio privato. Un atto involontario. Come se si fosse scordato che era pensionato. Dal fondo del corridoio Giovanni il bidello lo chiamò riportandolo alla realtà: "Professore, la porta è chiusa a chiave. Quando il nuovo direttore è via chiude sempre quella porta a chiave. Venite, il caffè, sta salendo." L'ex barone lasciò scivolare la mano dalla maniglia e tornò sui suoi passi. Una voce misteriosa come se gli dicesse in un orecchio: "Su, coraggio, la vita inizia ora. Solo ora inizia la vera vita." Giuseppe Costantino Budetta giuseppe.budetta@virgilio.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 La scala dei ricordi di Gordiano Lupi La casa si trovava quasi a picco su di una scogliera e il salmastro se la stava divorando lentamente. Pensai distrattamente che i padroni avrebbero anche potuto sistemarla, dopo tutto la vista si apriva davanti a uno scenario magnifico. (...) Una vecchia storia mi viene alla mente quasi ogni notte. Forse perché sono vecchio e non mi è rimasto molto da vivere. Forse perché sono solo in questa casa sul mare. E può sembrare una favola questo ricordo. Può sembrare un sogno di un vecchio pazzo. Ma non lo è. Vi giuro che non lo è. E' una storia di tanto tempo fa, quando poco più che trentenne mi ero trovato a fare il rappresentante di prodotti industriali. Guadagnavo bene, ma i miei viaggi per la penisola mi tenevano fuori di casa anche per settimane. Forse per questo non avevo mai pensato a farmi una famiglia e conducevo un'esistenza priva di obblighi e di ritorni. Il viaggio e la scoperta erano i miei motivi di vita e il lavoro soltanto una scusa per fare ciò che volevo. Non avevo da rendere conto a nessuno e il denaro non mi mancava. E poi ero un ragazzo interessante dalla pelle abbronzata e gli occhi verdi, che sapeva di piacere alle donne e se una sera la trascorrevo da solo era perché lo volevo. Ma non è la storia delle mie avventure che mi torna alla memoria. Quelle sono state solo cose passeggere e non hanno lasciato traccia nella mia vita. Il mio incubo ricorrente è il ricordo d'un viaggio in Calabria e una notte di pioggia per strade strette e tortuose, tra scogliere affacciate sul mare e onde che salgono per parapetti malfermi. Mi trovavo a passare per Paola e cercavo un albergo, mentre il vento accompagnava furioso la corsa dell'auto e la pioggia batteva violenta sul parabrezza. Non vedevo niente, o quasi. Cercavo soltanto un posto dove passare quanto prima la notte. A un tratto vidi un cartello fuori da una casa con la scritta "Affittacamere" e mi fermai. Non era certo un gran posto. La facciata cadente avrebbe avuto bisogno d'una buona mano di intonaco e un terrazzino pericolante si affacciava sul mare. La casa si trovava quasi a picco su di una scogliera e il salmastro se la stava divorando lentamente. Pensai distrattamente che i padroni avrebbero anche potuto sistemarla, dopo tutto la vista si apriva davanti a uno scenario magnifico. Suonai alla porta e mi venne ad aprire una vecchia che indossava una vestaglia sotto la quale si intravedeva una camicia da notte. Mi accolse premurosa e mi condusse in un salone centrale arredato in stile anni cinquanta, molto trascurato: un divano verde, due poltroncine laterali dello stesso colore e un tavolino da fumo. Alle pareti quadri raffiguranti una natura morta e paesaggi marini. Dovevano essere anni che nessuno metteva mano a un restauro e a un ammodernamento della casa, sia negli esterni che negli interni. Mi registrò in un librone che a me parve grande e polveroso, poi mi condusse alla camera che mi aveva assegnato. C'era molta scelta senza dubbio, perché ero il solo cliente di quel singolare albergo sul mare. Ma lei mi portò in una stanza precisa, al piano terreno, come se fosse stata l'unica libera . Si congedò da me dandomi la buona notte ed ebbi appena il tempo di vederla imboccare la scala centrale che portava al piano superiore. Intravidi i suoi capelli bianchi e la vestaglia sparire rapidamente, poi la luce si spense e io entrai in camera. Come mi aspettavo anche qui tutto era molto essenziale e sapeva d'antico. Il letto con una coperta marrone, i comò laterali provvisti di gambe sottili, una specchiera sopra una cassapanca in legno, due tappetini polverosi con disegni finto stile orientale…Tutto faceva respirare un'aria antica, come se per la padrona il tempo si fosse fermato a quarant'anni prima. Mi addormentai con questo pensiero e mi tuffai in un sogno popolato da splendide ragazze che danzavano ritmi latini su di una spiaggia tropicale. Nel bel mezzo della notte una musica che veniva dal piano superiore mi svegliò. Era una canzone d'altri tempi, un tango argentino. Caminito, mi pare di ricordare, ma non potrei giurarci. Ed era una voce di ragazza che la cantava. Mi alzai e uscii dalla camera rapidamente. Sulla destra c'era la scala che aveva percorso la vecchia. Alzai lo sguardo e al piano superiore vidi una ragazza che cantava. Era giovane e bella, aveva capelli nerissimi e carnagione scura. Indossava un vestito da sera elegante, ma fuori moda. La gonna era ampia e sostenuta da stecche, come quelle che si usavano nei balli della buona società negli anni cinquanta. "Sarà la nipote… - mi dissi ancora assonnato - certo che strano mettersi a cantare a quest'ora della notte e poi così conciata…" La chiamai. Provai a chiederle chi fosse. Lei non rispondeva, ma sorrideva. Ed era bella quando lo faceva. Non ho mai resistito in vita mia al sorriso di una donna e non lo feci neppure quella volta. Salii rapidamente le scale, ansioso di parlare con lei e di conoscerla. Quando arrivai al piano superiore mi sentivo stanco, affaticato. Eppure avevo solo fatto una rampa di scale. La ragazza era davanti a me. Alzai una mano ad accarezzarle i capelli. Sorrise, di nuovo. Poi mi indicò lo specchio che era proprio al nostro lato. Mi voltai seguendo il suo dito proteso e avvolto in bianchissimi guanti da sera. Lo specchio. Mai uno specchio mi aveva fatto inorridire tanto. Ero io quello nello specchio. Un me stesso invecchiato di qua- rant'anni. Come sono adesso, maledizione. Ecco perché ricordo ogni notte quella scena e non sono capace di scacciarla dalla mia mente. Cominciai a balbettare e a sudare freddo. Volevo fuggire, scendere quella scala e scappare via lontano. Ero terrorizzato e immobile sulle gambe. Stanco, distrutto. Lei sorrise di nuovo e mi disse delle strane parole. "Vieni, questa storia non ti appartiene. Tu puoi uscirne quando Progetto Babele Speciale Inverno 2008 vuoi". Mi prese per mano e mi aiutò a scendere la scala. Passo dopo passo sentivo le forze che rientravano nel mio corpo. Stavo meglio e non avevo più le gambe pesanti. La paura mi stava abbandonando e un nuovo vigore affluiva nel sangue. Lei stringeva la mia mano, rassicurante. Alla fine della scala ebbi l'impulso di abbracciarla. La strinsi forte a me e le chiesi cosa fosse accaduto. Ero ancora sconvolto. Mi guardò con meraviglia. Si staccò dal mio abbraccio e disse: "Caro il mio sonnambulo, ha proprio fatto un brutto sogno. Venga con me che la riporto a letto". Era la vecchia. La padrona della casa. Com'era possibile se pochi minuti prima mi trovavo tra le braccia una splendida ragazza? "Ma lo specchio…la ragazza…la scala…", balbettai. "Vada a dormire che domani deve lavorare", mi disse, con dolcezza quasi materna, aprendo la porta della camera. Sì, probabilmente avevo sognato tutto. La vecchia sorrise e mi lasciò di nuovo solo. Quando stavo per tornarmene a letto sentii ancora quella musica argentina dalla scala. Uscii di corsa e feci in tempo a vederla. Stava salendo gli ultimi gradini e i capelli bianchi mutavano colore. La vestaglia diveniva un abito da sera. I guanti calzavano le sue mani delicate. E cantava. Sì, cantava… "Caminito, compagnero de mi vida…" Una musica da tango d'altri tempi si diffondeva per l'aria. Lo specchio laterale rifletteva un volto di ragazza dagli occhi tristi. E io non stavo sognando, sono sicuro. Perché non è stato un maledetto sogno. Anche se me ne tornai a letto e il giorno dopo pagai il conto della notte scappando da quel posto e giurando che non avrei più messo piede da quelle parti. E allora come mai adesso sono qui da solo e osservo questa scogliera battuta dai venti? Sono passati tanti anni e mi trovo ancora prigioniero di quel sogno. Salgo e scendo la scala dei miei ricordi e c'è sempre lei al piano superiore. La vedo nelle notti di tempesta della mia casa di mare. La cerco nelle sere di solitudine sul mio panorama di scogliere. Lei mi sorride silenziosa e mi dice con gli occhi che adesso sono costretto a viverla questa storia. Perché è parte della mia vita. Per sempre. Gordiano Lupi lupi@infol.it Lui e lei di Carla Montuschi Camminarono a lungo, insieme… Camminarono senza quasi mai guardarsi, percorrendo una rotta invisibile che seguiva il fluire dei loro pensieri. Osservarono l'uno l'animo dell'altra, senza passare attraverso gli occhi. Si sfiorarono, senza passare attraverso il tatto, cercarono di comprendersi senza ferirsi… Per ragioni ed esperienze differenti temevano di avvicinarsi troppo ma, al contempo, non potevano fare a meno di cercarsi. Lei imponeva a lui il suo passo, Lui assecondava con pazienza un incedere a cui, per la brevità del passo, non era abituato. Giunsero al fiume e si sedettero. L'uno al fianco dell'altra, vicini, ma con sguardi che, senza quasi mai incrociarsi, andavano lontano. Affidarono all'acqua limacciosa e sporca i loro pensieri. Il fiume portò lontano i loro pensieri… con calma… senza giudicarli… Il fiume semplicemente accolse Lei e Lui senza riflettere i loro volti… quasi complice di quel "non guardarsi"… Compresero, attraverso lo scoprirsi così affini, il motivo del bisogno di cercarsi… talvolta si sorpresero di ciò… Poi furono ancora passi, ancora strada, ancora parole. Ricordi da confrontare, emozioni da condividere, vuoti da riempire. Vissuti così differenti riposti in animi tanto simili, quali volute di fumo che ti attraversano il corpo portandosi via un po' di angoscia… lasciando, in vero, un retrogusto lievemente amaro… Fu il tempo a ricondurli alla realtà… allora i passi si diressero al capolinea di quella giornata, di quella dimensione. Lui non aveva più tempo da donare a Lei e se ne rammaricò un po'… Lei gli disse che non importava… era abituata a stare da sola… Così, sullo sfondo giusto, Lui scomparve fra la folla. Lei rimase lì ad aspettare, in mezzo alla folla… Nell'animo l'eco quieto di discorsi che ora ritornavano ad essere interiori…! Lui si voltò ma Lei era scomparsa… Lei stette a lungo ad aspettare. Vide soli e lune sorgere, per poi sparire all'orizzonte. Nel mentre i discorsi interiori si erano fatti inquieti, dettati dalla precarietà di non riuscire a trovare un senso. Passarono dalla tristezza al rancore, dalla follia al pianto irrefrenabile. Ella decise che fosse arrivato il tempo di alzarsi e di andar via dalla folla. Allontanarsi un poco da quello sfondo ove invano Lei aspettava di veder ricomparire l'immagine di Lui. I passi dolorosi e stanchi la portarono nuovamente al fiume. Ella tentò di veder se lì intorno fosse rimasta una qualche eco delle parole dette, delle parole date… ma l'unica ombra di quel che era stato, come un'allucinazione, risiedeva ormai solo nel suo cuore. Il fiume con la stessa calma di una scena precedente, risuonava della necessità di fluire. Andare avanti liberi dalla tendenza onerosa a voltarsi indietro. Lei si guardò dentro ancora una volta, incapace di trovare motivazioni a cui aggrapparsi. Pian piano l'immagine di Lui coincise con l'anima di una solitudine assai simile all'abbandono. Lei accettò questo come un dato di fatto. Le costò molto, ma lo accettò. Si alzò. Andò incontro a sé stessa. Insieme decisero di affrontare nuovamente il fluire della vita… in fondo …era abituata a stare da sola! Carla Montuschi cmontuschi@molinette.piemonte.it (...)Lei imponeva a lui il suo passo, Lui assecondava con pazienza un incedere a cui, per la brevità del passo, non era abituato.(...) Progetto Babele Speciale Inverno 2008 No more heroes di Simona Scionti Si accontentava di poco, Gozimo e diceva spesso ai conoscenti: "Il porco è porco e ha da puzzà". Solo terra bagnata, null'altro voleva. (...) I tre porcellini erano fratelli, e andavano in giro per i campi cercando il cibo. Erano piccoli ma grassi, i tre porcellini, e facevano gola ai lupi del bosco. Il fratello maggiore indossava un cappellino azzurro, era buono e mite, e aveva le guance sempre accese di rosso. Gli piaceva il vino, quello buono, che aveva il colore del rubino e gli piacevano le donne che vedeva da lontano,specie quelle con la gonna sulle ginocchia che sfrecciavano in bici attraversando il sentiero che dai campi le portava verso il paese. E le loro gonne, di stoffa leggera come il borotalco, si sollevavano in aria che pareva di vedere una farfalla, variopinta, volare di fiore in fiore. Il secondogenito, invece, indossava un cappelino grigio e gli amici lo chiamavano Gozimo, mentre in realtà il suo nome era Gustavo, ma siccome aveva un lievissimo difetto di pronunzia, le lettere c e s dalla sua bocca uscivano come g e z. A lui piaceva rotolarsi nel fango e grugnire. Si accontentava di poco, Gozimo e diceva spesso ai conoscenti: "Il porco è porco e ha da puzzà". Solo terra bagnata, null'altro voleva. Il più piccolo indossava un cappellino color verde smeraldo ed era spavaldo come pochi. Non aveva paura di niente e nessuno e sapeva come farsi rispettare, anche dai porci più vecchi e più grossi di lui. Il suo muso, quando guardava negli occhi qualcuno, era sempre il più alto e la sua fronte era sempre quella più fiera e più superba. "Io nemmeno dei lupi ho paura"- diceva sempre il terzo porcellino. "Neanche di don Ezechiele?"- gli chiedevano gli altri porci, sgranando i piccoli occhi e allungando il naso come a fiutare già la risposta del porcellino. "Don Ezechiele della minchia!"- rispondeva lui, impavido. Tutti gli altri porci avevano una paura tramenda di don Ezechiele, il lupo più famelico e più pericoloso della zona. Il lupo che con i suoi scagnozzi terrorizzava quei poveri porci, il lupo che ogni domenica mattina, dopo aver pregato davanti la statua della santissima Immacolata, si recava presso le case di quei poveri suini e li costringeva a rendergli quei pochi beni che essi conservavano. "Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Amen"- sussurrava il feroce animale, prima di incamminarsi verso le abitazioni dei porci. Amen. "No, don Ezechiele, ho da maritare una figlia, che finalmente ha trovato chi se la sposa"- supplicava Solino, il porco più vecchio del villaggio. "Solino, dammi i piccioli e fai poche storie altrimenti ti faccio scannare che tra due settimane è natale". E Solino svuotava le tasche, alzava il materasso dove nascondeva i soldi che aveva custodito per il matrimonio della figliola. E Solino aveva paura. E don Ezechiele intascava i soldi e gli dava una pacca sulla spalla tonda e rosa, dicendogli:" Bravo, così devi fare, se tu fai quello che ti dico passi il santo natale con la famiglia e nessuno ti tocca". Il porco sospirava, amaramente. Il lupo si sistemava la lupara, assestandola con un colpo sulla spalla e proseguiva il suo giro domenicale. Toc Toc. Don Ezechiele bussò alla porta dei tre porcellini. "Ghi è?"- chiese Gozimo mentre stava preparando le minestra di mele e fichi d'india per il pranzo domenicale. "Don Ezechiele sono. Apri, cosa inutile." Appena Gozimo udì la voce e le parole del lupo cominciò a tremare come una foglia. Nel giro di pochi secondi accorsero gli altri due fratelli. "Scansati, Gozimo, apro io"- esclamò il porcellino più piccolo, quello coraggioso. "Non fare minchiate"-gli disse il fratello maggiore" Quest'animale ci rovina tutti". Fu così che il porcellino aprì la porta e mentre gli altri due fratelli si tenevano stretti, in un angolino, il terzogenito si trovò muso a muso con don Ezechiele. "Baciamo le mani, don Ezechiele"- disse il porcellino al lupo, quasi sputandogli le parole in faccia e ridendo come a sfottere la bestia. "Bacia 'sta minchia"- ribattè il lupo, feroce e affamato di denaro" Datemi i tutti i soldi che avete altrimenti salsiccie diventate". "Don Ezechiele solo questi quattro spiccioli abbiamo e dobbiamo camparci fino a fine mese, non si arrabbi, qui c'è la strada che porta al paese, la prenda e si allontani" "Io, se non mi dai i piccioli, colla ti faccio diventare"- urlò il lupo fuori di se, con gli occhi spalancati e la bocca pure. Il porcellino prese quei pochi spiccioli che aveva e li mostrò a don Ezechiele dicendo:" Preferisco mangiarli che darli a un fango come te". E fu così che inghiottì il denaro. "Io t'ammazzo, porco, a te e ai tuoi fratelli"- queste furono le utlime parole della bestia che, puntandogli la lupara alla gola, non esitò a lasciare un buco sul collo del maiale; mentre gli altri due fratelli furono condotti dentro una stalla abbandonata, dai due scagnozzi di don Ezechiele, Masino e Bernardino che li squagliarono nell'acido, dentro la mangiatoia. Il porcellino pagò il suo coraggio con la vita, la sua pancia fu aperta, don Ezechiele in persona la tagliò, ne prese i pochi soldi che il porco aveva ingerito e al posto del denaro mise delle pietre e la richiuse, cucendola come la più abile delle sarte. Il porcellino, gonfio come un otre di pietre e pesante come il piombo, fu appeso sul pozzo del villaggio in modo che chiunque lo avesse visto avrebbe capito di cosa fosse capace don Ezechiele. E i porci che passavano e guardavano quella figura grottesca appesa sul pozzo, che manco il vento più violento lo muoveva, non facevano altro che pensare: " Che bel coraggio che ha avuto. Coraggio della minchia". Simona Scionti (jadrine@tiscali.it) Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Promessa in Chiave di Sol di Paolo Campana Al saggio tutta la terra è aperta perché patria di un'anima bella è il mondo intero Democrito I 1975 Un altro mondo, davvero. Gelido d'un bianco silenzio. Lenta, la carrozzella varca l'arco in pietra con all'apice la croce cristiana, l'uomo rincalza il plaid su quelle gambe immobili ormai da tempo ed il giovane, in piedi dietro di lui,alza il bavero del montone. La neve copre inviolata il piccolo cimitero, una miriade di riflessi frange su di essa un pallido sole e l'aria pungente offre un senso di vertigine ed appagante euforia mentre le ruote tagliano solchi nei quali affiorano piccoli ciotoli di ghiaia. Il custode impreca fra se - Possibile che certa gente non abbia di meglio da fare che venir qui a quest'ora - berretto calato sugli occhi e mani nelle tasche della giacca a vento li segue con lo sguardo alcuni istanti - Per far cosa poi ? Cercano un posto dove gli unici fiori sono i papaveri fra le erbacce. E in inverno, neppure quelli - Di malavoglia si avvia dietro a loro. II 1943 - 8 Settembre La cascina del padre di Piero risultava difficile a vedersi dalla strada principale. Posta in fondo ad uno stretto budello in discesa ed in gran parte nascosta da una frondosa quercia secolare era il posto giusto per chi volesse appartarsi, qualunque ne fosse la ragione. I tre giovani, raccolti intorno ad un pacchetto di Africa ed un fiasco di vino buono, festeggiavano. Dal settembre del trentanove, in verità, v'era stato ben poco da festeggiare. Se da un lato la guerra esaltava coraggio e sacrificio dei soldati italiani, dall'altro metteva a nudo l'impreparazione ed il pressapochismo di una classe politico-militare che l'aveva così fortemente voluta. Sollevandolo con la mano destra quasi fosse un premio, Domenico porse il fiasco a Francesco Bonelli, figlio del maestro Paride. “Allora… alla salute >> disse. “Salute, sì. E congratulazioni. Più la guerra ne ammazza, più il Cesco ne mette al mondo >> gli fece eco Piero accompagnado l'affermazione con una pacca sulla spalla. “Hei, piano, che è solo il primo e visto i tempi che corrono mi sa anche l'ultimo >> Proruppero in una sonora risata nell'attimo in cui dal viottolo giunse uno stridio di freni inconfondibile. La bici del rosso. Così chiamato per il colore dei capelli e per le sue idee politiche, si diceva portasse messaggi agli uomini dei GAP nascondendoli proprio nel telaio della sua vecchia bicicletta e più volte i fascisti del paese avevano tentato d'incastrarlo, ma con scarsi risultati. Giunto a rotta di collo se ne stava lì impalato a cavalcioni di quel rottame come Garibaldi sul suo cavallo. “E' finita ragazzi >> urlò. “Cosa è finita rosso?” chiese Domenico in piedi sul bordo della cascina con la sigaretta accesa all'angolo della bocca. “La guerra, la guerra è finita” Il sorriso si spense sul viso di Domenico che fissò gli amici senza aprir bocca, attonito. Scesero al volo la vecchia scala in legno cicondando il nuovo venuto e fu Piero il primo a parlare. “Non dire stronzate rosso, che non siamo in vena di scherzi” Questi lo fronteggiò con un sorriso di sufficienza. “Non sono stronzate, Badoglio ha firmato l'armistizio” li guardò uno ad uno, scandendo bene le parole “Con gli alleati capite, gli inglesi e gli americani” Rimasero muti…..anni di sofferenze furono un lampo nei loro pensieri ed ora …tutto finito, con una semplice firma su di un foglio di carta. Era assurdo, fuori da ogni logica, non poteva essere vero….anche se il cuore lo sperava. Domenico distolse lo sguardo. Il portone in legno tenuto fermo col fil di ferro, i pioli della scala mezzi marci, nel muro l'anello arrugginito dove si legavano le bestie, fissava ogni cosa…senza vederla. Negli occhi, il viso della madre morta sotto i bombardamenti solo poche settimane prima. Per nulla sconvolto dalla notizia Piero tornò ad incalzare il giovane. “E i Tedeschi, rosso, dove li metti i Tedeschi. Ce li abbiamo in casa se te lo sei dimenticato. Pensi che se ne vadano con tante scuse e tanti saluti ? Eh ?” Scuoteva la bicicletta per il manubrio e fissava il giovane con rabbia. “Bell'affare hanno fatto, se è vero quel che dici, adesso ci ammazzano tutti” “Non ammazzano proprio nessuno” sbottò l'altro sostenendone lo sguardo con altrettanto piglio e staccandone con forza la mano “Siamo gia pronti e lo vedrai anche tu. Anzi, sarebbe il caso ti unissi a noi” Piero rispose, e furono parole cariche di tristezza. “La guerra non è finita per niente amico mio, anzi, ho paura cominci proprio ora” Girata la bici, il rosso si alzò sulla sella e pedalò con forza su per la salita. Sono con voi più di quanto tu immagini - pensò Piero. “Il rosso ha ragione ragazzi” intervenne Domenico “E' ora di muoverci perdiana” Il dolore per la perdita della madre era ancora forte e la notizia dell'armistizio aveva risvegliato in lui una strana euforia. Quel rinato vigore e la sete di vendetta lo facevano credere capace di Progetto Babele Speciale Inverno 2008 qualsiasi impresa. “Aspetta rosso” gridò, ma quello non poteva sentirlo impegnato com'era nell'arrancare “Io vado con lui” disse infine rivolto agli altri due. Piero era quello del gruppo che manteneva una visione più nitida della realtà e temeva quegli eccessi da " salviamo il mondo " ma Cesco era stato sempre più influenzabile. Seguì l'amico, ebbro della nuova vita cui correvano incontro. Giunsero sulla strada non molto tempo dopo che il rosso aveva svoltato l'angolo e lo trovarono lì, in ginocchio, con un fiotto di sangue che gli scorreva dal labbro inferiore. La bici stava in un cantone, contorta in maniera innaturale come un burattino senza fili. Intorno a loro, una fila di mitra spianati. La guerra non era affatto finita. III 1975 Sul viale principale si affacciano le tombe più ricche. Impreziosite da statue, marmi e graniti rimarcano la discriminazione che i vivi fanno anche nei confronti dei morti. Oggi, per una volta, la neve uniforma ogni cosa ed anche i fiori del recente primo novembre s'incurvano e smorzano i loro colori sotto il suo peso. Andrea spinge senza fatica la carrozzella con su il corpo del nonno, sunto dagli anni e dalla malattia, sino a quando il custode si ferma davanti ad una costruzione grigia alla quale neppure la neve ha restituito un po' di luce “Ecco, questo è l'ossario comune” dice indicandone la cupola col dito “Quello che cercate è proprio qui dietro, non potete sbagliare. Io le chiamo " tombe dei senzanome " anche se a dire il vero qualcuna il nome ce l'ha ma chissà che gente era se li hanno lasciati lì in quel modo” aggiunge sorridendo fra se. Un sussulto repentino ed appena impercettibile anima gli occhi spenti di Paride Bonelli. “La vostra dovrete trovarvela da soli però, io non vi accompagno perché ho da vedere il becchino. Eh già, la gente muore anche con questo tempaccio sapete” Aggiunge voltando le spalle. IV 1943 - 11 Settembre Pioggia. Fitta e fine come una nebbiolina impregna gli abiti e penetra nelle ossa dolori difficili a smaltirsi, anche al tepore della stufa. Pioveva anche ieri quando Don Luigi ha portato a Paride notizie di suo figlio, preso dai tedeschi in un rastrellamento. Vendetta a caldo per il recente armistizio. Pizzicato in compagnia del rosso, gia sospettato di far parte dei partigiani, rischiava come minimo di finire in Germania se non peggio. Pioveva, e forse proprio la pioggia gli aveva dato il coraggio di far visita all'unica persona in grado di aiutarlo, nella speranza che tutta quell'acqua avesse lavato via anche un po' di rancore. Le cose a volte paiono progettate proprio per divenire quello che sono - pensava Paride trascinando la gamba sinistra piegata in modo innaturale a perenne ricordo della polio - un disegno a priori La palazzina requisita dalla Gestapo aveva infatti un chè di spettrale nei suoi muri ispidi e grigi, le finestre squadrate, il portone imponente ma austero. Unico tocco di colore i due stendardi con l'insegna del Reich che bordavano l'ingresso. Attraversata la strada e giunto alla porta tolse il cappello, lo battè sul fianco per scrollarne i residui di pioggia e mostrò alla guardia il documento di riconoscimento. “Lehrer ?” gli chiese questi guardando nell'ordine la gamba e la custodia in pelle che portava sottobraccio. “Maestro di musica, musik, capisci ? Geige, …violino” si affrettò a rispondere. “Ho bisogno di parlare con il tenente Maier” L'altro rimase a fissarlo come si guarda un pazzo senza la minima intenzione di farlo passare - Maestro di musica…..essere inutile alla causa “ Mi faccia salire per favore, il tenente sa chi sono, mi ha sentito suonare e so che ama la musica, non rifiuterà di incontrarmi” Dietro la guardia un largo scalone portava agli uffici del comando, sotto di loro le celle dove al momento era rinchiuso suo figlio. Un pensiero, un fremito di speranza. Non poteva arrendersi. “E' importante le dico, mi faccia passare” continuò con un tono di voce un po' sopra le righe. Il soldato gli riservò uno sguardo carico di disprezzo allontanandolo con una spinta. “Dort sind probleme Helmut ?” Il comandante stava in piedi, a metà scala. “Herr Lieutenant, dieser mann mochte sie sprechen. Er sagt, Ihn zu kennen” disse il soldato voltandosi. “Alles gute geht, marken, es zu fuhren” La guardia eseguì con un cenno congiunto di testa e mitra. Paride aveva inteso solo alcune parole - lo conosco e nessun pericolo - ma tanto gli bastava, si affrettò zoppicando verso lo scalone. “Geige” sentì mormorare alle spalle. L'ufficio del comandante, un tempo sala da pranzo con annessa libreria, era ora arredato in maniera sin troppo spartana; restavano solo una scaffalatura a parete ed un tavolo grande in noce massiccio dietro al quale, nel chiarore d'un finestrone, si stagliava la figura del tenente Klaus Maier. “Allora, maestro Bonelli, ha intenzione di assaltare il nostro comando armato del suo violino ?” Paride chinò il capo “Comandante Maier, ho portato con me il violino perché…insomma, ho composto una melodia e so che lei ama la musica…allora ho pensato” “Si tranquillizzi maestro” lo interruppe l'ufficiale con un sorriso appena accennato “Mi spieghi di cosa si tratta” “Ecco, si tratta di mio figlio” rispose Paride in un fil di voce udibile appena nel frastuono di un camion. In quei giorni l'esercito occupante pareva animato da un fervore insolito, un via vai di soldati ed ufficiali che mai prima di allora si era notato. I soliti bene informati dicevano che in quella stessa palazzina si bruciassero in gran segreto pile di documenti riservati ed a differenza di quanto volevano dare a vedere, i militari si apprestassero in realtà ad abbandonare tutto. Maier rifletteva a voce alta “Suo figlio ….” Le lunghe dita affusolate si concentrarono su di una cartellina marrone, l'aprirono e ne scorsero con discrezione alcune pagine dattiloscritte. “Suo figlio è stato arrestato da una nostra pattuglia” disse infine. Poi, inarcando un sopracciglio come colpito da qualcosa di particolare interesse, aggiunse “In compagnia di un noto sovversivo a quanto vedo” “Stava festeggiando” intervenne Paride. Muller accusò la risposta quanto uno schiaffo in pieno viso. “Festeggiava? Bene! Sono contento che di questi tempi qualcuno trovi ancora di chè festeggiare” Posate entrambe le mani sulla scrivania, le dita aperte a ventaglio, riservò all'uomo uno sguardo di ghiaccio. “E cosa festeggiava…l'armistizio con gli angloamericani ?” Paride credette di svenire ed un brivido ridestò ogni suo infausto pensiero - Non pensarci - ripetè a se stesso. Quel colloquio era l'unica speranza, guai a darsi per vinto. “Tenente Maier” continuò “Mio figlio…. sta per divenire padre ecco. Insomma, festeggiava la gioia più grande nella vita di un uomo” Malgrado i buoni propositi sentiva crescere l'ansia, il battito del cuore impazzito, la pressione alle stelle, la testa gonfia e pesante. Combinazione il cui risultato furono un insieme di frasi supplicanti in un balbettio incerto, preludio del tracollo che solo l'intervento dell'ufficiale ebbe il potere d'evitare. “Basta!” sbottò Maier “Anch'io ho famiglia” Si voltò verso la finestra e con un dolore quasi fisico aggiunse sottovoce “Almeno….l'avevo”. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Un istante, lo spazio d'un pensiero. “In ogni caso, la mia famiglia ora è l'esercito. E se c'è una cosa che ho imparato nell'esercitò è la dignità. La invito a comportarsi in tal senso maestro Bonelli” concluse restando girato di spalle. “Le chiedo perdono” rispose il vecchio. Maier tacque. La mente vagante chilometri, anni. Rivoli ininterrotti di pioggia si rincorrevano sui vetri. Fiotti di lacrime al di là delle quali tutto appariva distorto da una lente deformante, contorni indefiniti di un mondo da potersi immaginare migliore. " Le chiedo perdono " Quell'uomo, raccolto tutto il suo coraggio, veniva a chieder grazia per il figlio. Il bene più prezioso. Accettava di svilirsi e prostrarsi per questo, avrebbe osato qualsiasi cosa pur di salvarlo. E di questo sentimento….chiedeva perdono. “Molte cose sono cambiate negli ultimi tempi” riprese il tenente “E dopo quanto è successo i nostri popoli sono più distanti. Non siamo più fratelli maestro Bonelli, e forse non lo siamo mai stati, siamo stranieri……in un paese ostile” Il tono monocorde, amareggiato, valicava lo sdegno del tradimento, l'amara considerazione di qualcosa in cui, a differenza di altri, credeva. “Non posso fare nulla per lei. Mi spiace” Concluse con voce dura e spigolosa, distante. Come non ne avesse colto il senso, Paride si concentrò sulla custodia in pelle con una padronanza figlia e schiava del proprio terrore. “Le ho portato un dono, guardi” Aperta la chiusura sollevò delicatamente il coperchio. “Il quarto elemento della mia famiglia” Klaus Maier ora lo osservava, minuto e storpio, illuminarsi nella sinuosa perfezione dello strumento. “E poi è antico, guardi” ne ostentò le grazie reggendolo per il manico in legno d'acero “Cassa in abete rosso e tastiera in avorio. Non d'ebano, badi bene…. d'avorio” rimarcò. Accarezzò le quattro corde simmetricamente tese dalla cordiera sul ponticello “Ho composto una melodia….la storia di un esule che in terra straniera trova finalmente una casa” Quindi, con improvvisa padronanza di se aggiunse “Voglio farle una promessa” L'altro continuava a fissarlo senza tradire emozione alcuna “La suonerò per lei solo, lo prometto, e sarà sotto cieli di pace” Con un gesto della mano destra l'ufficiale lo interruppe e si avvicinò, impeccabile nell'uniforme perfettamente stirata e le mostrine tirate a lucido. Il viso era freddo. Duro. Come gli inverni di guerra. E le parole ferirono, infausta sentenza. “Maestro Bonelli……torni da sua moglie” V 1975 Fa freddo, un freddo intenso malgrado siano quasi le dieci del mattino, quest'area del cimitero è perennemente all'ombra ed una patina di ghiaccio ricopre ancora tutto quanto. La carrozzella avanza, incrinando appena lo strato nevoso con uno scricchiolio sinistro. Buona parte delle lapidi non sono che pezzi di pietra, alcuni a forma di croce, sui quali riesce difficile a volte leggere un nome. Senza contare che alcune sono rotte, coricate e sepolte dalla neve, od addirittura mancanti. Andrea Bonelli passa in rassegna le più riconoscibili, ne pulisce l'incisione, poi prosegue oltre. In silenzio. Paride, il capo chino e lo sguardo fisso in grembo, sembra non avvertire il gelo che attanaglia corpo ed anima trasformando ogni respiro in una nuvola densa. Passano i minuti, rimane un'ultima fila in fondo dove si scorge una lapide più grande delle altre. Il giovane si avvicina, il fazzoletto usato sino a quel momento, bagnato e sporco, è ormai ghiacciato ed inservibile. Toglie il guanto dalla mano destra e con il palmo scosta la patina di neve che ricopre parzialmente una serie di lettere. Poi, fissa negli occhi il vecchio sulla sedia a rotelle. “E' qui nonno, lo abbiamo trovato” VI 1943 - 11 Settembre Ogni cosa si era fatta pesante ed inutile, anche il solo respirare. La tenacia che per tutta la vita gli aveva permesso di superare ogni ostacolo, anche la polio, ora pareva averlo abbandonato. Gli studi, la famiglia, ogni attimo di lotta per vivere quell'esistenza che sin da piccolo lo aveva osteggiato, nulla aveva più senso. Era uscito dal comando svuotato d'ogni essenza, il mondo vorticava intorno a lui in un affanno di cui non faceva ormai più parte. Aveva perso. Perso suo figlio. Giunto a casa era rimasto in piedi, muto, davanti alla tavola. La minestra con le rape, il vino rosso con cui lui e Francesco brindavano quasi fosse champagne francese, la stufa in ghisa vicino alla quale sua moglie sedeva ad ascoltarli parlare del tempo, di politica…..della vita. Si coricò così com'era, chiuse gli occhi e la spossatezza lo calò in un sonno agitato. Rivide ogni momento passato, poi se stesso in un sudario di morte ed intorno a lui i suoi cari. Fremeva una strana agitazione, sentì dei rumori ed un pianto, la voce di sua moglie, poi un dolore forte. Una voce lo chiamava - Papà - il dolore aumentò. Papà sono io - diventò quasi insopportabile. Una figura dai contorni indefiniti incombeva su di lui, l'angelo della morte leggeva la sua condanna. Papà. Aprì gli occhi. VII 1975 Il vecchio alza lo sguardo e scorge quelle poche lettere incise nella pietra annerita dal tempo Klaus Maier 1914 - 1945 Trent'anni. Aveva trent'anni il tenente Maier quando è stato ucciso da quell'esercito che riteneva la sua famiglia, fucilato insieme ai civili che si era rifiutato di massacrare. Paride non aveva saputo più nulla di lui sino a che non ne aveva letto sul quaderno autobiografico d'un caporale alpino. Tolto il plaid, apre lentamente la custodia che porta in grembo. Al suo interno il violino ed un biglietto. " Alcune promesse, sono impossibili da mantenere " Parole dal passato. Mi ha liberato un ufficiale papà - gli aveva detto quel figlio risorto come per incanto dall'insieme dei suoi deliri - ha detto di darti questo ma… non capisco…. Quel messaggio che posto a mo' di sordina fra il ponticello e le corde ha reso muto lo strumento sino ad oggi, dinanzi a quella tomba, dove può infine restituirgli la voce. Una folata improvvisa fa volar via il biglietto e lo abbandona, aperto, ai piedi della lapide. Le poche righe vergate in calligrafia elegante risaltano come perle d'onice sul candore della neve. Paride Bonelli, maestro di musica, apre il viso in un sorriso. La mano destra impugna l'archetto in crine di cavallo mentre la sinistra regola virtualmente la parte di corda da far vibrare ed il mento si appoggia, come un'amante a lungo atteso, al corpo del violino. “Sai Andrea “ dice infine rivolto al nipote “Si dice che Paganini indebolisse di proposito le corde del suo violino per far si che si rompessero durante l'esibizione. A quel punto continuava a suonare il brano su quelle rimanenti in modo da impressionare l'uditorio” La "voce" quasi umana del vibrato riempie il vuoto di una melodia, la storia di un uomo che in terra straniera aveva trovato una casa e la pace. Paolo Campana campana.Paolo@virgilio.it Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Settembre di Valeria Francese Certe vite come queste hanno una sola certezza: sanno di non poter uscire. Concedono piccoli atti di divergenza apparenti ma che poi rientrano subito dopo, ricordando che le uscite assolute non sono di questo mondo.(...) Stasera sono a telefono e Mia mi sta lasciando, mi sta dicendo addio. Sono afferrato da una voce affilata e da una stringa di codici elettrici via etere. "Cerca di capire, le cose non vanno più tra di noi." Certe vite somigliano a dei movimenti impacciati, fra piccole ed improponibili intenzioni incerte. Forse è colpa dei pensieri che non sanno decidersi per alcuna direzione, quelli che si fanno rincorrere, promettendo paradisi di comprensione che invece non sono mai esistiti. Magari è colpa di certe tinte del mondo, quelle che ingannano sulle esistenze di sfondi e primi piani, tutti mescolati dentro colori zoppicanti, che si compiacciono della loro indecisione cromatica. Nasce il problema del nome, in vite come queste, un nome da dare ai pensieri viziati, ai colori esitanti, a certi prati che i cani vedono gialli e gli uomini verdi. Decidersi per l'esatta sequenza e gerarchia di tinte, cose, numeri e amori è un gesto non consentito. Certe vite come queste hanno una sola certezza: sanno di non poter uscire. Concedono piccoli atti di divergenza apparenti ma che poi rientrano subito dopo, ricordando che le uscite assolute non sono di questo mondo. Richiede buon occhio, non c'è che dire, una vita come questa, un occhio sbilenco che sappia abituarsi al gesto dell'uscita apparente e del rientro immediato. Che sappia gestire, in eguale misura, certe tensioni volitive e tutte le necessarie inversioni di marcia, in salti concavi contenuti nel loro stesso affondo. Stasera che ci sto pensando a questa vita che non può uscire, c'è un'aria densa di un settembre strizzato dentro l'umido, in cui certe suggestioni sono destinate a vivere per poco tempo, ingaggiate da tocchi mai compiuti, come quello di ultime luci estive o prime carezze autunnali. Ed io, arroccato nella mia posizione marginale, sono condannato a stare tutta la notte ad udire come ci si impone l' onorabilità, quell' ultima che resta, quando tutto è diventato esposto o rientrante, quando una donna ti sta lasciando e la cosa più facile sembrerebbe soffrire, ma solo se fosse una vita normale, dai pensieri ordinati. Mentre la voce di Mia mi giunge affannata, forse timorosa che qualcuno o qualcosa non le lasci il tempo di dire ciò che preme dentro la sua gola, osservo il fluttuare liquido del liquore che mi accoglie nel vetro del bicchiere: sono ondine che non reclamano alcun tipo di assalto, morbidamente ramate che si ninnano con un dondolio pacato. Ecco, a pensarci un attimo, immagino di catturavi Mia con tutte le sue rinunce, nell'oscillazione fra gli estremi del bicchiere; la vedrei nuotare come una sirena ubriaca, ligia al volere dell'alcool, sotto un nudo galleggiamento per inerzia. "Era da tanto tempo che volevo dirtelo, sono confusa, mi sembra di non amarti più." L'ho conosciuta in un supermercato della periferia della città. Al nostro primo incontro non le ho letto versi d'amore nè bigliettini della fortuna vomitati da insopportabili cialde cinesi; lei era in piedi, appoggiata su un'anca come una dea su un piedritto di marmo, con certe ondulazioni bionde che le incorniciavano un viso leggero, dentro un impermeabile fuori moda. Bella, era bella da sembrare finta. L'evidente miopia però, le restituiva una lettura incerta, mentre aguzzava lo sguardo sull'etichetta di una salsa in scatola. "Senza conservanti?" Ogni testo che avrei potuto scrivere o leg Sheila3 di Salvatore Romano (Particolare) gere si rimpiccioliva tutto lì, dentro un'etichetta che lei voleva che leggessi, dentro un' incantevole, situazione normale. E' un'insegnante di francese, Mia, i cui sogni hanno accenti stranieri come la sua pronuncia. Una di quelle donne incerottate dai pensieri e convinzioni di altri tempi. Certe rughe tipiche del passato verranno anche a Mia, ne sono sicuro, quando di lei inutilmente avrò provato a stendere con infinita pazienza i pensieri ondulati, quelli che le generano troppe domande ogni giorno della sua vita, ad ogni sorpasso ed ad ogni inizio, tenera e sempre fragile, convinta di dover apparire determinata, quando è solo spaventata. Tutta la ingoierà, Mia, la polvere delle cose che si deteriorano nel tempo, pur di non mostrarla agli altri, la scioglierà come zucchero pregiato dentro l'abitudinario the delle cinque. E tutto di lei apparirà perfetto, senza una sola crepa che mostri la sua bella incertezza. Ed ha incontrato me, che invece non temo e adoro la polvere sui mobili come ciò che rende più autentica la mia epoca. "Vedi, ci ho pensato tanto. Quando due persone non hanno più niente da dirsi... sento che non ci capiamo". La voce di Mia, quella che non si è interrotta un solo istante, buca nei miei ricordi e fa bolle di sapone dentro il mio whisky. Quante volte l'ho trovata a scarabocchiare lampi di pensieri sui suoi fogli azzurri, con quelle matite laccate da bambina che le piacciono tanto. Beh, io i pensieri degli altri non ho mai voluto saperli; le cose normali, quelle senza pensiero, sono quelle in cui avviene l'incontro, l'attimo ed ogni evento: le etichette di salse, ad esempio. Con lei volevo leggere gli annunci pubblicitari sui cartelloni in strada, le marche delle auto, le stringhe banali dei loghi dei capi firmati. Volevo fare della nostra unione un credo di semplicità, che all'alba si sveglia solo per il piacere di riaddormentarsi quando gli altri non possono farlo. La nostra storia era una specie di rimedio al dolore, diciamo così. Avremmo fatto sempre quello che agli altri appare una stranezza, ma il nostro sarebbe stato un delicato controsenso ad una direzione troppo affollata. Avremmo rassicurato le famiglie di Progetto Babele Speciale Inverno 2008 questo condominio e la vecchia signora greca del primo piano che il mare, con tutti i suoi spasmi, non salirà mai oltre le mura del nostro stabile, per poi sghignazzare insieme sotto le lenzuola, nella notte che russa, scorgendo da lontano la bandiera nera dei pirati che si avvicina, e senza averne paura, perché sono nostri amici. Noi non avremmo avuto paura delle cose che temono gli altri e così avremmo preso accordi anche con la polvere e l'avremmo mascherata da brillantina per capelli, in modo che per noi, solo per noi, il passare del tempo sarebbe stato solo una goffa messa in scena. Ma Mia non voleva tutto questo. Lei era come tutti quelli che preferiscono aver paura dei pirati per non aver paura degli attacchi più intimi, quelli più inconfessabili. Lei era deliziata da tutte le sue piccole e umane inquietudini, da certe abitudini che davano ritmo al suo vivere, che la facevano sentire in ordine con le cose. Anche quel ripetere ad alta voce, seduta al tavolo della cucina al buio, la lezione per la scuola il giorno dopo, era forse il ripristino di certe forme di obbedienza che rassicurano molto le persone più fragili, che trovano pace solo quando sanno di aver fatto tutto, ma proprio tutto quello che è in loro potere fare. Alla cattiva coscienza della propria indolenza lei non sarebbe sopravvissuta, l'avrebbe condannata ad un rilascio d'ogni concentrazione, alla rinuncia al controllo di azioni e pensieri. Con l'accento straniero di certe manie infantili avrebbe continuato a ripetere le sue lezioni serali, ottenendo in cambio la sterile convinzione della propria ispezione di fronte a qualunque imprevisto. Che ora prendesse tutto questo coraggio, no, non me lo aspettavo. Cosa aveva previsto per il dopo, mi chiedo, per certe mattine inutili come parentesi e certe notti che hanno l'alito caldo di presenze ammuffite di ricordi? Che avesse un altro? Un tipo con i sensi spenti e allergico alla polvere, un raccordo tra la mia impudenza e la sua correttezza, qualcuno che sarebbe rimasto con lei in cucina la sera, a farsi insegnare la pronuncia francese? Lei che voleva sapere e capire tutto, che cosa aveva progettato per quell'ultimo discorso? No, noi non ci capiamo perché non c'è una sola ragione al mondo per capire quello che non chiede d'essere capito, ma solo vissuto. Così sempre brava a scambiare il mio rispetto per indifferenza, il mio amare la sua bella solitudine per un ordinario abbandono. Alla fine, so amarla con una semplicità che a lei spaventa, o forse, con il tempo, ha finito per annoiarla. Eravamo immobili e silenziosi in una specie di statico inseguimento che non è mai stato nemmeno un partire. Eravamo finiti dentro la stessa conformità a mappe tutte vuote che generano il consenso a non andare da nessuna parte: allora sembra ci sia un accordo perfetto, ma lo è perché la sua genesi è abortita da sempre, lo è perché, quello che si decide insieme è semplicemente di non partire. "Sai, ci vuole coraggio in queste cose.. dobbiamo ammettercelo." Dentro una specie di coraggio..dice. Ma forse è meglio chiamarlo inquietudine a finire la nostra storia (il suo) o ostinazione a continuarla (il mio). Entriamo così in collisione, forniti delle stesse dinamiche di forza, destinate ad annullarsi reciprocamente. Non siamo coraggiosi, dunque. Eppure, io so, in qualche modo, ma un modo strano ed inconcludente, che noi due ci amiamo. Così senza apparenti motivazioni, ma solo perché sentiamo di volerlo, al di là della sua solitudine che scaccia e della mia che amo. La mia terrazza, intanto, precipita sul golfo, stasera. Sembra che fugga dalla scatola chiusa del mio soggiorno, insinuandosi su certe mura imbrattate di noia e scaffali di libri boccheggianti, correndo assieme alla polvere che rotola con lei, in una specie di gara a chi per prima raggiunge l'uscita. Quando finalmente vince, si allarga come un sorriso sul mare e resta fuori, fuori dalla cecità di tinte che io non vedo e che solo lei può inventare. Ma stasera che si declina la fine di un amore, la mia terrazza crollerà nel mare. E' un peso su queste mattonel le azzurre di mosaico orientale: un labirinto di direzioni e forme portato dietro a fatica che non s'accorge che la sua zavorra spacca tutte le travi possibili. E resta in bilico fra la volontà di resistere alla forza gravitazionale ed il suo peso da carcassa di morto. Stasera, un elemento minimo che s'è mostrato più durevole della sua arrogante muratura, l'ha sconfitta: un filo del telefono che ha accorciato le distanze dal fondo, ma pur sempre a distanza, rendendo me così lontanamente vicino dalla mia disfatta, dal mio precipitare in acqua. "Come sempre, non dici niente, resti zitto, che dovrei pensare? Mi stai ascoltando o no? Sai cosa non ho mai sopportato di te?" Mi muovo nervosamente nella stanza a piedi nudi, per sentire correre lungo il mio corpo la stabilità apparente. E' così che la incontro sopra il tavolo, racchiusa in una cornice. La vedo sorridere dentro una foto in bianco e nero che le leviga il viso, puro, senza una sola ruga d'espressione. Finalmente un corpo, oltre che una voce. Una foto recente, tutto sommato. Ecco tutto l'accento straniero di una donna che non ama la polvere: è racchiuso nel viso che resta leggero, in certe promesse di profondità che quegli occhi regalano, indistintamente, a tutti. E' ormai certo che qualcosa s'è perso mentre scattavo quella foto, in quel preciso istante in cui io ho fermato il mondo sulla sua immagine, qualcosa è accaduto dietro di me, intorno a me, fra di noi, qualcosa che ha trovato una via di fuga oltre la foto scattata. Una mano che sorregge una tempia piena di capelli, è nel grandangolo che io l'ho racchiusa, eppure chi, chi può dirmi che lei non sorridesse ad un altro dietro di me? E' sempre stato il problema di ogni guardiano, questo: se il nemico è alle spalle, egli non potrà vederlo. O al massimo anche se il guardiano per qualche caso del destino, o perché abbia intuito una presenza o un silenzio interrotto, si voltasse prudentemente, il nemico potrebbe comunque essere così veloce da aggirarlo e ritrovarsi sempre fuori dal suo raggio di visione. Diventerebbe invisibile. Già, una bella questione per un guardiano. "E le bugie? Vogliamo parlare delle bugie? Tu sei un bugiardo." Un tempo, noi ci fidavamo l'uno dell'altra, senza concessioni di dubbi. Non potrei dire che il tradimento non avvenisse solo per rispetto ed amore. A noi era piuttosto una questione di pigrizia che ci faceva scegliere per il noto, per la marca di cui il miope ha la fortuna di conoscere già l'etichetta. Il fatto è che chi dice di non tradire per amore, dice una bugia, è questa l'ipocrisia che non ci apparteneva, eravamo praticamente traditori per non finire con l'essere bugiardi. Ma una sera è accaduto che Mia non ricordasse più la strada di casa e fu questo il suo primo tradimento, la sua prima verità da non tradire in nessun modo. Una pioggia incessante."Vieni a prendermi." Una voce oppressa sotto fili d'acqua duri come acciaio. E' così che l'ho ritrovata, innaffiata sotto il temporale, a pochi metri da casa. Abbiamo camminato insieme sotto un ombrello largo, dritti verso l'ultima meta, come il ritorno senza pensieri di due prigionieri evasi. Fu una serata strana, sotto un cielo vischioso, sotto un ombrello a riflessi rossi, mentre lei s'era persa o aveva fatto finta di farlo per comunicarmi, in qualche modo, e sempre senza parole, che quella non era più per lei la strada di casa. Che la verità del tradimento non è mai una bugia. Sta arrivando la fine e questi restano ricordi. Saranno insignificanti, saranno tutti deformati dalle mie convinzioni, ma sono ricordi di settembre. Solo che adesso non c'è più tempo, non c'è più modo di farli gracchiare, dovranno tacere ed assistere all'impatto, come spettatori di un non ritorno. C'è l'assalto della fine, il nemico che giunge, quello che avrei dovuto bloccare all'entrata di tutte le soglie. Proprio come immaginavo: egli era alle mie spalle ed io, intento ad aspettarmi che i pirati giungessero dalla linea estrema del mare, ero pronto ad accoglierli solo perché, Progetto Babele Speciale Inverno 2008 potendoli vedere, avevo scoperto il modo per vincerli: non aver- ne paura. Ora capisco, ora mi sembra di capire, il perché non avessi cura di quel che guardavo: semplicemente perché lo stavo a guardare. Ma non avevo considerato il nemico alle spalle, quello che non si conosce e non si vede, quell'angoscia che sopraggiunge quanto più non sai com'è fatta la morte di cui morirai. Non conoscevo quello sguardo in cui forse mi sarei specchiato prima di morire, non avevo idea di che alito avesse, come ultimo odore da sentire, non sapevo se mi sarebbe piaciuto o no morire di quella morte. Ma una morte sconosciuta è proprio l'esito coerente di una di quelle vita che scoprono di non avere uscite possibili, è una morte non scelta. Ha un grado di inclinazione allarmante la mia terrazza, intanto: sento l'umido dell'acqua che sale sulle pareti, spruzza i miei gerani con schizzi seducenti, ed io resto attaccato a quel telefono perché è l'unico modo per restare vicino a lei, la mia carnefice che adoro, averla ancora nel mio udito, nel mio fumo di sigaro. "Aspetto una tua parola." E' cosi che termina l'ultima sua voce. Sarà lei a conservare i sigilli delle soglie, sarà lei a guardare oltre l'etichetta della salsa. È guarita dalla sua miopia, non c'è che dire e lo ha fatto accecando il mondo che le era intorno, accecandolo con la pretesa di ridurre tutto ad un pensiero ordinato contro il mio pensiero viziato. E va bene, mi sento sconfitto, una suonata per requiem mi sarebbe accordata senza problemi da qualunque settembre che meriti questo nome e tutto sarebbe perfetto, rientrerei dalla stessa uscita, con estrema consapevolezza che non importa di che colore siano i prati, ma a chi appartengono gli occhi che li stanno a guardare. "Mia, facciamo come vuoi. Facciamo quello che credi sia giusto". Siamo quasi in fondo al mare, toccando la cresta dell'onda inquieta, io sopra la fredda mattonella che tende già verso l'acqua, ancora a telefono, ma senza resistenze, ormai. "Non ci sentiamo più allora, Mia." Suonano alla porta, improvvisamente. Un campanello? Chi è dietro la porta? Sarà la vecchia signora greca del mio pianerottolo con le pantofoline rosa ed i calzettoni ricciuti sulle caviglie ad avvertirmi che cadiamo tutti in acqua? Più o meno simile a tante altre volte in cui mi si è presentata così, davanti la porta a dirmi: "Giovanotto, qua ci allaghiamo." Peccato portarmela dietro, la signora greca, questa volta non potrei evitare di farle bagnare i piedini, le sue gonne gitane inzuppate da un oceano meno mitico.. siamo ben oltre il taglio di una tubatura, è l'emergere di una vita acquitrinosa dal sottosuolo: qui è cesura d'ogni credo, è ferita del mondo accecato. Si ci allagheremo, mia cara signora. Vengo ad aprire con un certo sorriso, almeno per farle vedere come si può morire con dignità. "Mi senti o no, allora, è questa la tua ultima risposta? Non ci sentiamo più? Mai più?" Il filo del telefono è esteso, avanzando nel corridoio al buio, con i piedi nudi che s'incollano al pavimento, mi porto dietro anche lei, allungando le sue braccia e le sue gambe, estendendo il suo cuore rattrappito, nella speranza di un annodamento più facile, senza possibilità di strappi. Eccomi alla maniglia della porta. Chi diavolo è? Il pirata ha deciso di entrare con meno invadenza? Oppure il violino di settembre vuole farmi ascoltare l'ultimo pezzo di un repertorio scontato? Conosco già quelle involuzioni del suono che fanno gomitolo su se stesse, solo per far vedere di quanto sappiano essere audaci. Ma non s'accorgono che diventano monotone, quando l'unica cosa da ascoltare sarebbe solo il meno banale dei silenzi. "Si ti sento, ho dovuto aprire la porta " "E allora rispondi, dimmi qualcosa" "Non mi sembra che tu mi stia dando altre possibilità ed io non te le chiederò". E Mia è sul pianerottolo. Ritagliata nel buio, dentro la luce fioca di una lampada a muro, con uno sguardo basso e senza espressioni. Emerge a fatica nella coltre settembrina. Con un cappello largo. Io sto parlando a telefono con Mia che adesso è sul pianerottolo di casa mia! Se Mia è qui, e se io sto parlando a telefono con lei, è più che evidente che il mio sequestro è avvenuto senza complicazioni, in qualche modo l'ho acciuffata, o qui o lì, non importa…un contrattacco inaspettato, l'ultimo avvitamento dello sguardo di ogni buon guardiano. Nel frattempo, le faccio segno di entrare. Solo il tempo di finire o non finire questa telefonata con lei che in qualche modo è rimasta intrappolata nel filo, in questo filo nel quale si racchiude la nostra vita, certi ricordi e certe illusioni di realtà. Solo il tempo di capire l'esatta sequenza delle mie prossime mosse e delle sue, e di quelle che farà la terrazza, per ora solo lambita, ma ancora in attesa. Mi sento sciogliere dentro l'ultimo respiro del sigaro, mi dileguerò nel mare come un decomposizione di frammenti e resterò così, sul fondo, per millenni, vedrò passare le stagioni, mutare i corsi degli eventi, vedrò nascere nuovi gerani e perderò l'unica donna che avrò mai amato in vita mia? Forse ora è il caso di compiere un ennesimo contrattacco. Fingere che alle spalle non ci sia nessuno per non impegnare i sensi verso luoghi inutili, concentrare le risorse verso ciò che è di fronte con un corpo, per ristabilire le giuste combinazioni. Nervosamente si stringe le mani, si siede sul divano con le gambe unite, resta sotto un cappello largo che le nasconde il viso arrossito dal pianto. Ha una gonna di lanetta rosa ed un gol- fino bianco, lei e non un'altra. Lei qui, sul mio divano, è semplicemente dolce. In attesa di tante cose, ma troppo timida per chiedermele, eppure so cosa vuole, che finisca questa interminabile telefonata con lei, che raddrizzi la terrazza, che innaffi i gerani con acqua meno salata e che cominci a dirle delle cose, a parlare come un uomo che ama, e non come un amante che non sa essere uomo. E forse potrebbe accettare tutta la polvere che c'è in questa casa, giocare insieme come farebbero bambini che ancora non hanno imparato il mestiere della distinzione, andare a scuola come un'insegnante impreparata solo per scoprire il gusto dell'improvvisazione. Questa sera era solo all'inizio simile ad una di quelle vite distratte ma adesso è una sera che vuole riprender fiato, in cui gonne greche si sono adagiate come manti a coprire tutte le ferite. "Questa conversazione è diventata ridicola. Mi chiedi di dirti cosa? Che sono un uomo disperato? Vuoi sentirtelo dire? Vuoi avere la certezza di aver mirato al cuore e aver fatto colpo?" "Quello che voglio è un'espressione!" E' strozzato nel telefono il suo strillo. Mia è inviperita, ferita nel- l'orgoglio insoddisfatta della mia reazione indifferente, innamorata ancora, ora lo comprendo da certi suoni morbidi, assetata di un atto di resistenza. Me, me che vuole, non le mie parole, non le mie rese di fronte ai pirati. Mi siedo accanto a Mia, stando attento a non farle vibrare il filo del telefono sul golfino bianco, di poco le scosto una falda del cappello e con un dito le traccio il profilo delle sue labbra. Ci amiamo da sempre, da quando eravamo incapaci di comprendere il significato della parola amore, da prima ancora che le venisse la passione per le matite laccate ed i pensieri incomprensibi li. Da prima che si perdesse a pochi metri da casa. Da prima che lei decidesse che il mio amore fosse un semplice ed ordinario abbandono. "Io ti amo." Era questa l'espressione che voleva? L'ho detto a Mia a telefono e l'ho detto a Mia sul divano, si gliel'ho detto, finalmente, che l'amo. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Il telefono mi rimanda indietro, adesso, un vuoto silenzio. Il mio divano è rimasto vuoto. Sono rimasto solo. Non c'è filo che imprigioni le confessioni, non c'è foto che nasconda segreti, non c'è terrazza che voglia precipitare. Suonano alla porta. Di nuovo. Ora immagino chi possa essere. E' di nuovo lei, ancora e per la prima volta, per sempre, lei. In realtà gli arrivi sono sempre di chi non c'è. E Mia non c'è mai stata, né al telefono, né qui sul mio divano. Non ha mai indossato golfini bianchi, lei ama le camicie dai colli maschili ed il suo accento francese in realtà è l'intonazione che sembra abbiano tutti quelli che per nostra incapacità non ci fermiamo ad ascoltare: è un'inflessione ripiegata a riccio sul proprio disagio. Forse Mia è colei che non è mai venuta, che ha sognato di veleggiare sulla linea dell'orizzonte di questo mare ed essere temuta e rispettata, ed io dovrei farle ostacolo per quel poco che serve a fare di una storia d'amore una storia da pirati. Non ci sono particolari momenti importanti nella vita di un uomo, se non certe serate come questa, in cui si pensa a quel che si perde e certe volte si perde quel che si pensa, in cui un resoconto diventa un cortometraggio che confeziona i movimenti, in cui un desiderio o una paura diventano i mostri che fanno crollare una terrazza. Per un poco credo che lei sia qui, ma la lezione è sempre quella e non muta: gli arrivi sono di chi non c'è, e resta un cappello sullo spigolo di quella foto, come indossato su un capo. Un cappello venuto dal mare, nero ed improvviso come la bandiera dei pirati che vengono in pace. E sta suonando la mia sveglia, dopo una serata che sono stato a pensarci, a certe vite di settembre. Valeria Francese valeriafrancese@hotmail.com Soddisfatti o redenti di Marcello Falco L'uomo in cravatta assunse un'espressionemortificata. "Oh! È vero, non mi sono ancora presentato. Che maleducato!" Tese la mano verso Fulvio. "Mi presento: sono il Diavolo."(...) Fulvio se ne stava in piedi davanti al loculo di Arturo Russo già da un paio di minuti quando un uomo lo avvicinò. "Buongiorno" salutò l'uomo. "Buongiorno a lei." Fulvio rispose senza distogliere lo sguardo dalla targhetta dorata su cui era inciso il nome del defunto. "Il signor Grimaldi, suppongo." Fulvio si voltò verso l'uomo. Non lo riconobbe, ma non ne fu sorpreso: essere riconosciuto da perfetti sconosciuti era il prezzo che si doveva pagare per la celebrità. Lo sconosciuto indossava un elegante completo grigio sopra una sgargiante cravatta rossa e teneva in mano una cartelletta sul dorso della quale era possibile leggere una specie di slogan: 'Soddisfatti o Redenti'. L'uomo, che aveva tutto l'aspetto di un venditore di automobili, sorrideva affabilmente. "Lei è il signor Fulvio Grimaldi, giusto?" "In persona! Prego, mi dica." "Sono venuto per il nostro appuntamento. Spero di non essere in ritardo." "Credo che lei si stia sbagliando" disse Fulvio. "Nessuno sbaglio" ribatté lo sconosciuto. Estrasse un foglio dalla cartelletta e lo mostrò a Fulvio. "Ecco, vede? Qui dice: 'Appuntamento con Fulvio Grimaldi: ore 9:30 AM di mercoledì 14 giugno 2006, davanti alle spoglie mortali di Arturo Russo. Cimitero di Catania'." "Guardi" insisté Fulvio, "deve esserci un errore. Io non avevo alcun appuntamento: mi trovo qui per puro caso. E poi, mi scusi, si può sapere lei chi è?" L'uomo in cravatta assunse un'espressionemortificata. "Oh! È vero, non mi sono ancora presentato. Che maleducato!" Tese la mano verso Fulvio. "Mi presento: sono il Diavolo." Sbigottito, Fulvio guardò lo sconosciuto senza dire niente. "Vede" aggiunse l'uomo dalla cravatta rossa, "a parziale discolpa della mia maleducazione c'è il fatto che, giù all'inferno, ho iniziato a frequentare il master in 'Immagine e Comunicazione' solo da poco e ancora non sono arrivato alle buone maniere. Finora ho lavorato sul look e, come può notare, i risultati si vedono." Lo sconosciuto ammiccò e sorrise maliziosamente. "Se mi fossi presentato col vecchio look, a quest'ora lei starebbe urlando o fuggendo o tutte e due le cose insieme." "Il diavolo?!" disse Fulvio. Senza smettere di sorridere, l'uomo abbassò la mano che aveva inutilmente teso verso Fulvio. "In persona!" Fulvio ebbe una intuizione. "Ho capito: lei mi ha riconosciuto!" disse. "Deve aver visto la mia foto da qualche parte, magari in uno dei miei libri, mi ha riconosciuto e ha pensato di farmi uno scherzo." Donna con ali a punta di Salvatore Romano "Oh, no! No, no! Le assicuro che..." "Molto bravo, complimenti" lo interruppe Fulvio. "Sono sinceramente ammirato. Mi è piaciuta soprattutto la cartelletta col mio nome e l'orario dell'appuntamento: un vero colpo da maestro. Però adesso mi deve dire come ha fatto a trovare una stampante al cimitero. Lavora nei paraggi, vero?" "Signor Grimaldi" disse serio lo sconosciuto. "Le assicuro che questo non è uno scherzo." "Suvvia, adesso può anche smettere di recitare. Ormai l'ho smascherata." "Reazione da manuale!" "Prego?" "Dicevo che la sua è una reazione da manuale." "In che senso?" "Vede" spiegò lo sconosciuto, "uno degli inconvenienti del nuovo look è quello dell'incredulità..." "Ancora con questa storia?" lo interruppe spazientito. "La prego signor Grimaldi, mi lasci spiegare." Fulvio decise di stare allo scherzo. Incrociò le braccia al petto e disse: "E va bene, sentiamo un po'." "L'incredulità" riprese lo sconosciuto, "è l'inconveniente principale del nuovo look. Tuttavia è un ben misero prezzo da pagare se si considerano i vantaggi." "E sarebbero?" "Be'... lei è ancora qui ad ascoltarmi, no? Non sta scappando, intendo." "Ah già, che stupido!" si schernì Fulvio. "Se avessi visto il suo vero aspetto a quest'ora sarei fuggito, vero?" "Esatto!" lo sconosciuto non colse il sarcasmo. "Non può immaginare quanto sia seccante dover continuamente riapparire davanti al fuggiasco mentre questo scappa da una parte all'altra come un coniglio impazzito." L'uomo scosse la testa. "Ormai ho una certa età, sa?" "Chiaro, chiaro!" rispose Fulvio, annuendo e trattenendo a malapena una risata. "Dunque, Progetto Babele Speciale Inverno 2008 stava dicendo..." "Stavo dicendo che l'incredulità è un inconveniente che si presenta quasi sempre. Tuttavia, la strategia per vincere lo scetticismo dei clienti è quella di rivelare loro una serie di fatti che nessun'altro, a parte loro stessi, può conoscere." "E se non dovesse bastare neanche questo?" chiese Fulvio. "Informazioni riservate si possano reperire con delle banali tecniche di investigazione, non le pare?" "Mi creda" disse lo sconosciuto, ostentando sicurezza e tornando a sorridere, "il genere di dettagli a cui mi sto riferendo non si possono ottenere neanche ingaggiando il tenente Colombo. Sto parlando dei segreti più intimi dell'animo umano. Dei segreti più inconfessabili che ogni uomo serba nei recessi del proprio cuore. E poi..." "E poi?" "Be', se poi il cliente non volesse proprio convincersi, posso sempre mostrarmi con le corna, la coda, le zampe caprine e le ali di pipistrello, non le pare?" Fulvio rise di gusto. "Quindi" riprese, "immagino che adesso mi rivelerà qualcosa che nessun'altro, a parte me, può sapere, giusto?" "Esattamente" rispose lo sconosciuto. "Per convincerla che questo non è uno scherzo e che io sono davvero il Diavolo, le dirò per quale motivo lei oggi si trova qui al cimitero davanti i resti mortali del povero Arturo Russo." Fulvio si fece serio. Lo sconosciuto continuò: "Un paio di giorni fa, scorrendo i fogli del quotidiano locale, lei ha letto il nome di Arturo Russo nella pagina dei necrologi ed è stato sopraffatto da un senso di colpa che da vent'anni cova dentro come brace sotto la cenere." "Non so di cosa stia parlando" si difese Fulvio. "Ah no?" ribatté lo sconosciuto in tono di sfida. "Vogliamo allora parlare del sogno ricorrente che l'ha tormentata negli ultimi vent'anni?" Fulvio irrigidì i muscoli del volto. "La prego di correggermi se sbaglio." L'uomo dalla cravatta rossa stava adesso sorridendo malignamente. "Da vent'anni a questa parte, di tanto in tanto, lei fa lo stesso sogno: è ritornato all'ultimo anno di liceo, quando ha rischiato di non essereammesso agli esami di stato. È l'ultimo giorno di scuola e la sua situazione è parecchio... 'delicata'. Per non perdere l'anno, deve assolutamente consegnare degli elaborati di storia dell'arte. "Nel sogno, così come nella realtà, lei non ha svolto quegli elaborati, ma non ricorda il perché. Sa solo che avrebbe dovuto svolgerli e che non l'ha fatto. Rivive la stessa angoscia che ha provato quell'ultimo giorno di scuola mentre cercava di inventare qualche scusa per convincere la docente a non presentarla con 'due'. "Poi, improvvisamente, si rende conto che sta sognando. 'Ehi' dice a se stesso, 'ma questo è un sogno! Non devo più preoccuparmi della professoressa Finocchiaro, ormai mi sono diplomato.' Oppure: '... ormai mi sono laureato.' Od ancora: '... ormai sono un ricercatore universitario, ... ormai sono io stesso un docente, ... ormai sono uno scrittore affermato, ... ormai, ormai, ormai.' Il finale è sempre differente perché il sogno la perseguita da vent'anni." "Questo non prova nulla" si difese Fulvio. "Vado raccontando questo aneddoto ogni volta che mi ritrovo con gli amici. La butto sempre sullo scherzo. Lei può aver sentito questa storia da chiunque." "Vogliamo allora parlare di ciò che non ha mai raccontato agli amici?" lo sfidò lo sconosciuto. "Vogliamo parlare del suo amico Arturo Russo e di come è riuscito a farsi ammettere agli esami pur non avendo mai preparato quei 'maledetti elaborati di storia dell'arte?'" Fulvio non rispose al ché lo sconosciuto cominciò a rievocare fatti risalenti a parecchi anni prima. Arturo Russo e Fulvio erano amici. Lo erano diventati nel corso dell'ultimo anno di liceo: l'anno scolastico 1985/86. I due ragazzi frequentavano sezioni differenti della scuola e fino all'anno precedente si conoscevano solo di vista. Quell'anno erano diventati amici poiché, avendo compiuto diciotto anni lo stesso mese, avevano entrambi cominciato ad abusare del 'superpotere' di giustificare le proprie assenze senza dover prima passare dai genitori. Dopo i primi maldestri tentativi di 'abuso di maggiore età', i due giovani avevano cominciato a sincronizzare le assenze strategiche in modo tale da avere sempre l'uno la compagnia dell'altro. In genere, le assenze servivano per evitare qualche prova scritta o qualche interrogazione, tuttavia era sufficiente anche una bella giornata perché i due amici si trovassero d'accordo sul fatto che non ci si poteva privare di un cielo così azzurro stando dietro ad un triste banco ad ascoltare noiosissime lezioni di matematica, fisica o... storia dell'arte. Gli effetti del comportamento dei due giovani, tuttavia, non tardarono ad avere ripercussioni sul loro rendimento scolastico: le pagelle del primo quadrimestre ebbero ben poche sufficienze. Sia i genitori di Fulvio che quelli di Arturo ripresero severamente i propri figli minacciando di togliere loro le macchine (il bene più prezioso per un diciottenne) e i due giovani, cedendo all'infame ricatto, cominciarono a darsi una regolata. Le assenze si ridussero drasticamente, senza tuttavia annullarsi del tutto (un'assenza ogni due settimane, si sa, è per un diciottenne una dose fisiologica al di sotto della quale non è salutare scendere), e i rendimenti cominciarono a migliorare. Per Fulvio, tuttavia, c'era un ostacolo insormontabile: la professoressa Finocchiaro. Ovvero, l'odiata docente di storia dell'arte. A scuola, la condotta di Fulvio non era mai stata ineccepibile. Per i compagni era un leader ma per gli insegnanti era un 'elemento perturbatore'. In pratica, era lui a fare il bello o il cattivo tempo in classe. Se decideva che una lezione non 's'aveva da fare' allora non si faceva: si metteva a tormentare i docenti con raffiche di battute insulse e, aiutato dalle risa dei compagni, rendeva impossibile il regolare svolgimento delle lezioni. I richiami non servivano a nulla: lui continuava imperterrito, sprezzante dei provvedimenti disciplinari che venivano presi nei suoi confronti. Durante le lezioni di storia dell'arte, però, Fulvio doveva scontrarsi con la lingua biforcuta della professoressa Finocchiaro. A differenza degli altri docenti, l'insegnante di storia dell'arte non si sottraeva 'mai' allo scontro. Anzi, iniziava a duellare con lo studente a suon di battute e provocazioni e ne usciva sempre vincitrice. La stoccata finale era quasi sempre bruciante e decretava l'inappellabile sconfitta di Fulvio che, mal celando il proprio rancore, non poteva fare altro che rimanere in silenzio e permettere il regolare proseguimento della lezione. Le uniche meschine ritorsioni che Fulvio riusciva ad opporre alla Finocchiaro consistevano nel non studiare storia dell'arte e nel- l'adoperarsi affinché anche Arturo, che aveva la stessa docente, facesse altrettanto. Arturo, che non era mai stato un'aquila, non sospettò mai che Fulvio avesse indegni secondi fini e si fece convincere a non 'perdere tempo' con la storia dell'arte quando l'amico gli fece notare che la disciplina non figurava tra le possibili materie d'esame per il liceo classico. L'amara sorpresa per i due alunni venne ad un mese dallo scrutinio per l'ammissione agli esami. Un bidello entrò in classe con una circolare che portava cattive notizie: gli alunni di terza liceo che avessero concluso l'anno scolastico 'anche' con una sola grave insufficienza - vale a dire 'due' oppure 'tre' - non sarebbero stati ammessi agli esami di stato. Fu un duro colpo per Fulvio e Arturo. La professoressa Finocchiaro, tuttavia, si dimostrò più accomodante di quanto Fulvio avesse mai osato sperare: propose agli alunni ribelli di preparare tre elaborati scritti, uno per ognuna delle tre parti del programma svolte durante l'anno, e chiese loro di consegnarli entro l'ultimo giorno di scuola. Se i due ragazzi avessero ottemperato a quest'obbligo, avrebbe dato loro 'sei' e tutto si sarebbe sistemato. In pratica, la professoressa li aveva graziati. Quel mese scivolò via in fretta per Fulvio. Nelle prime due settimane, la pigrizia ebbe la meglio su tutto. Ogni scusa era buona Progetto Babele Speciale Inverno 2008 per rimandare il lavoro: 'Un mese è lungo, c'è ancora tempo', 'Ho materie più importanti da studiare', 'Domani, cascasse il mondo, inizio a lavorare' e 'Che giornatona! Ma come si fa a stare a casa con un tempo così?'. Col passare del tempo, però, Fulvio cominciò a percepire l'offerta della professoressa come una sorta di rivincita nei suoi confronti. Più si avvicinava la data ultima, utile per consegnare gli elaborati, più Fulvio si convinceva che la docente voleva sottoporlo all'umiliazione suprema. Se lui avesse consegnato l'elaborato, allora sarebbe stata la disfatta. La professoressa avrebbe vinto su tutti i fronti e lui, questo, non poteva tollerarlo. Così, decise che non avrebbe consegnato alcun elaborato. Alla fine, ne era sicuro, la professoressa non avrebbe avuto il coraggio di precludergli gli esami e tutte le umiliazioni subite, tutte le battaglie perse in quegli anni, sarebbero state cancellate da un'unica, semplice frase, scritta accanto al suo nome nella bacheca della scuola: 'ammesso a sostenere gli esami di stato'. Quella frase avrebbe decretato la sua vittoria finale. La sicurezza che la Finocchiaro avrebbe alla fine ceduto si dissolse la mattina di sabato 14 giugno 1986: l'ultimo giorno di scuola. Fulvio, in preda all'angoscia, decise di andare a scuola a piedi per schiarirsi le idee. Durante il tragitto arrivò a maledire il proprio orgoglio: per una stupida diatriba con la docente stava seriamente rischiando di non essere ammesso agli esami. Una miriade di scuse, una più inverosimile e patetica dell'altra, gli turbinarono nella mente. L'obiettivo che voleva perseguire era convincere la professoressa a non presentarlo con 'due' agli scrutini che si sarebbero tenuti quel pomeriggio. Doveva assolutamente convincere la docente ad ammetterlo sulla fiducia; in cambio, si sarebbe impegnato a fargli avere gli elaborati entro un paio di giorni. La disperazione era arrivata al punto che avrebbe anche accettato di strisciare come un verme ai piedi dell'odiata professoressa, pur di ottenere l'ammissione. A complicare le cose, poi, ci si era messo anche il rimorso per aver convinto Arturo a fare come lui. Per colpa sua, anche l'amico stava rischiando di non essere ammesso agli esami. Dopo averlo ascoltato per una ventina di minuti, Fulvio si era ormai persuaso di avere davanti il diavolo in persona. In un paio di occasioni, mentre lo sconosciuto rievocava fatti avvenuti vent'anni prima, Fulvio vide brillargli negli occhi una luce malvagia: sembrava che dietro le pupille di quell'essere ardessero dei tizzoni di brace incandescenti. Senza accorgersene, aveva anche mosso alcuni passi all'indietro e aveva finito per poggiare le spalle sulla targa del loculo dove, solo il giorno prima, erano state inumate le spoglie mortali del vecchio amico. "Cosa vuole da me?" chiese spaventato. Il diavolo tornò una volta ancora a sembrare un venditore d'automobili. "La ringrazio per la domanda" rispose. L'aura di malvagità che solo poco prima l'aveva avvolto come un sudario, era scomparsa. "Sono venuto a trovarla per chiudere la pratica che ho aperto su di lei esattamente venti anni fa." "Non so di cosa stia parlando" si difese Fulvio. "Io non ho mai chiesto nulla. Se sta insinuando che io abbia venduto l'anima al diavolo in cambio di qualcosa, allora sta facendo un colossale errore. Glielo ripeto: non ho mai chiesto nulla." "Assolutamente!" concordò il diavolo. "Ha perfettamente ragione: lei non è mai venuto a patti col diavolo, cioè con me. Non mi ha mai venduto l'anima." "E allora cosa vuole? Non capisco." Il diavolo sorrise affabilmente. "Come vedrà è tutto molto semplice: sono venuto all'appuntamento per sottoporle la nostra speciale polizza 'Soddisfatti o Redenti'." "Cos'è, una specie di patto col diavolo?" "Sì, una specie." "E cosa le fa pensare che io voglia dannare la mia anima? Forse lei non è ben informato, ma io sono un famoso scrittore. Nella vita ho raggiunto tutti i traguardi che mi sono prefisso. Inoltre ho una bellissima moglie e due bambini meravigliosi. Sto bene così, non ho bisogno di nulla. Non sono il vostro uomo." "Ed è qui che si sbaglia" rispose il diavolo. "Lei è il nostro uomo e lo è già da vent'anni." "Non capisco." "Vede" spiegò il diavolo, "Il fatto è che la sua anima 'è già dannata'." "Ma che sta dicendo?!" "Sto dicendo che, allo stato attuale, la sua anima è destinata a bruciare all'inferno per l'eternità." "Che vuol dire: allo stato attuale?" "Vuol dire che lei è ancora in tempo per salvare la sua anima: sono venuto a trovarla per offrirle la redenzione." "La redenzione?!" Fulvio era sbigottito. "Lei, 'il diavolo', mi sta offrendo la redenzione?" "Più precisamente" puntualizzò il diavolo, "le sto offrendo di sottoscrivere la nostra speciale polizza 'Soddisfatti o Redenti'." "Oh mio Dio! E di che si tratta?" "La prego, signor Grimaldi!" esclamo indignato il diavolo. "Moderi i termini. Si ricordi chi ha davanti." "Oh, chiedo scusa... è che mi pare tutto così pazzesco." Era esasperato. "Quello che non capisco è come io possa essere già dannato 'in vita' non avendo mai stretto un patto col diavolo. Senza contare il fatto che non ho mai commesso alcun peccato capitale." "Be'..." si accinse a spiegare il diavolo, "è vero, sì, che lei non mi ha mai venduto l'anima. Ma, come le spiegherò a breve, è proprio questa la novità della speciale polizza che sono venuto a proporle. "Invece, per quanto riguarda il fatto che lei crede di non aver 'mai' commesso alcun peccato capitale... qui, purtroppo, sono costretto a smentirla." "Perché, cosa avrei fatto?" "Lei ha fatto tante cose e ognuna di queste ha avuto - e continua ad avere - delle ripercussioni" "Non potrebbe essere meno criptico?" "Vede" iniziò a spiegare il diavolo, "ogni sua azione, per quanto all'apparenza insignificante come, ad esempio, un semplice gesto della mano, incide sempre sul destino dell'intera umanità." "Sta per caso riferendosi a quella fesseria che ogni mio starnuto potrebbe col tempo provocare un uragano ai tropici?" "In un certo senso, sì" rispose il diavolo. "Solo che non è una fesseria. Si chiama 'effetto butterfly' ed è tutto vero nonostante lei l'abbia menzionato sostituendo il poetico 'battito d'ali di una farfalla' con un più prosaico starnuto. È proprio così che funziona l'universo. Non l'ho deciso io ma il mio ex principale." Sorridendo in maniera beffarda, il diavolo rivolse sottecchi uno sguardo al cielo. "Lei sa a chi mi sto riferendo, vero?" "Voglio sperare" protestò Fulvio, "che lei non stia insinuando che io debba considerarmi colpevole per i disastri naturali che potrebbero essere stati provocati dai miei starnuti." "No, questo no!" lo rassicurò il diavolo. "Sebbene non possiamo escludere che quello che lei ha appena detto possa corrispondere a verità, in tal caso lei non ne avrebbe alcuna colpa. Per come la vedo io, la colpa sarebbe di chi ha progettato una natura così capricciosa." E rivolse una volta ancora lo sguardo in cielo. "Tuttavia lei sta trascurando un aspetto importante della faccenda." "Quale?" "Quello dei presupposti." "Cioè?" "Se il gesto che, in maniera del tutto imponderabile, ha cagionato la morte di uno o più individui - così, tanto per fare un esempio -, dovesse scaturire da un intento peccaminoso, allora non si potrebbe più negare la responsabilità di chi ha compiuto il gesto." "Quindi" polemizzò Fulvio, "se non ho capito male, lei sta dicendo che, se io starnutissi con l'intento 'peccaminoso' di provocare un non meglio precisato disastro, e questo, in maniera del tutto imperscrutabile, venisse effettivamente a causarsi, allora nesarei responsabile. È così?" "Be'... l'esempio dello 'starnuto peccaminoso' non è proprio dei più calzanti" rispose il diavolo, "tuttavia la faccenda, per quanto controversa, sta proprio in questi termini." "E quale sarebbe un esempio calzante?" Il diavolo sorrise malignamente. "Un esempio calzante, caro il mio signor Grimaldi, sarebbe il 'furto' del compito svolto dall'amico." Fulvio ammutolì. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Vent'anni prima, la mattina dell'ultimo giorno di scuola, Fulvio era arrivato in leggero ritardo. Camminando lentamente, come se stesse cercando di ritardare la propria esecuzione, si era accorto che una decina di metri dinnanzi a sé la Panda di Arturo era parcheggiata al lato del marciapiede che costeggiava la scuola. L'amico era arrivato puntuale. Procedendo sul marciapiede, Fulvio oltrepassò l'automobile del- l'amico scorgendo qualcosa con la coda dell'occhio. Si voltò. All'altezza dello sportello del conducente, parzialmente nascosti dal bordo del marciapiede, vide dei fogli di carta. Si avvicinò ai fogli, si chinò e li raccolse. Erano dei fogli scritti fittamente a penna. Leggendone il contenuto si accorse che erano gli elaborati di storia dell'arte di Arturo. L'amico doveva averli persi scendendo dall'automobile. Fulvio ricordò che l'amico era solito andare a scuola portando con sé solo uno o due libri per volta. Qualsiasi altra cosa fosse stata necessaria - quaderni, elaborati e quant'altro - la infilava senza troppi riguardi tra le pagine dei libri che portava a mano. Anche quella mattina doveva aver fatto lo stesso. Probabilmente aveva inserito gli elaborati di storia dell'arte tra le pagine di qualche libro e, scendendo dalla macchina, i fogli erano scivolati per terra senza che se ne accorgesse. Scoprire che l'amico aveva svolto il compito assegnato dalla professoressa Finocchiaro fu un duro colpo per Fulvio. Non tanto perché il vigliacco, senza dirgli nulla, aveva ceduto al ricatto della schifosa, piuttosto perché la sua situazione si sarebbe ulteriormente aggravata. Infatti, se prima poteva ancora sperare che il preside avrebbe sconsigliato la professoressa di sbarrare la strada a due suoi studenti, adesso, che era rimasto solo lui, la sua sorte era inappellabilmente segnata. In quel momento avrebbe tanto voluto piangere. Poi, all'improvviso, un'idea riaccese le sue speranze. Scorse velocemente i fogli di quello che appariva essere un buon lavoro, per vedere in quale pagina Arturo avesse scritto il proprio nome. Incredibile! Il fesso - e traditore - non aveva scritto il proprio nome da nessuna parte. Fulvio pensò in fretta. Storia dell'arte era una materia orale: non erano previsti, né erano mai stati svolti, compiti scritti. Di conseguenza, la professoressa Finocchiaro non era in grado di distinguere le calligrafie di nessuno dei suoi studenti. Lui avrebbe potuto consegnare alla prof gli elaborati di Arturo spacciandoli per suoi. A meno di una qualche sfortunata circostanza, la professoressa non avrebbe avuto alcuna ragione di sospettare che l'autore degli elaborati non fosse lui. Ad Arturo avrebbe raccontato di essere stato colto dal panico e di essersi vigliaccamente messo a lavorare agli elaborati. Arturo, avendo egli stesso lavorato segretamente, si sarebbe bevuto l'intera storia e avrebbe protestato solo nei confronti della sorte avversa che gli aveva fatto perdere gli elaborati. Il cuore di Fulvio cominciò a battere all'impazzata. Il caso gli aveva consegnato nelle mani la salvezza. Il tempo però stringeva: Arturo non avrebbe tardato ad accorgersi di aver perso gli elaborati. Chissà, forse in quello stesso momento li stava già cercando. Magari stava già tornando sui suoi passi fino alla Panda. Doveva agire in fretta. Da un momento all'altro, l'amico poteva spuntare da dietro l'angolo alla ricerca del lavoro perduto. Se lo avesse visto col suo compito in mano, ne avrebbe preteso la restituzione. Ormai Fulvio considerava quegli elaborati come fossero suoi. Era una questione di sopravvivenza. Si sentiva come un leone che sottrae la preda ad un predatore più debole. Sopravvivenza. Cominciò a correre sul marciapiede per raggiungere l'angolo opposto a quello da cui Arturo sarebbe apparso da un momento all'altro. Doveva allontanarsi il più possibile dal luogo del delitto. Sarebbe entrato a scuola facendo il giro largo dell'isolato. Poco prima di svoltare l'angolo, volle guardare un istante dietro di se per essere sicuro di averla scampata. Dall'altro lato dell'isolato, ad una sessantina di metri di distanza, Arturo aveva appena svoltato l'angolo. Non sembrava averlo visto: probabilmente stava già vagando con lo sguardo sul marciapiede alla vana ricerca del proprio compito. Fulvio era salvo. Ancora una volta il diavolo era tornato a sembrare un venditore d'automobili. "Veniamo adesso alla polizza 'Soddisfatti o Redenti'. "Come le dicevo, che lei decida di sottoscrivere o meno la polizza, oggi dovrò chiudere la pratica che ho aperto vent'anni fa. "La caratteristica principale della polizza 'Soddisfatti o Redenti' è che non richiede alcuna autorizzazione da parte del cliente. Per aprire una pratica è sufficiente trovare la persona adatta. Dopodiché iniziano vent'anni di benefici." "Di che benefici sta parlando?" chiese Fulvio. "Be'... questo dipende dalla persona" rispose il diavolo. "Nel suo caso, ad esempio, i benefici sono stati quelli di farla sempre essere al posto giusto nel momento giusto." "Tutto quello che ho avuto" scattò Fulvio, "l'ho sempre ottenuto contando solo sulle mie forze. " "Sì, è vero" riprese il diavolo. "Ma anche, e soprattutto, perché si è sempre trovato al posto giusto nel momento giusto. "Le basterà fare mente locale, ripensare agli episodi più importanti della sua vita, quelli che le hanno dato il successo, i soldi e l'amore, per rendersi conto che le sto dicendo la verità. Lei, signor Grimaldi, ha avuto quello che ha avuto perché 'è stato fortunato'." Fulvio riconobbe che era vero. Era un uomo di successo, tuttavia sapeva di aver avuto la fortuna di conoscere le persone giuste nel momento più opportuno; di essere stato al posto giusto nell'esatto momento in cui c'era bisogno di lui. Era consapevole del ruolo fondamentale che la fortuna aveva avuto nella sua vita. "Adesso, però" continuò il diavolo, "i venti anni di benefici sono scaduti ed è arrivato per lei il momento di decidere se sottoscrivere o meno la polizza che le offro." "Di che si tratta?" chiese rassegnato Fulvio. "Come le dicevo, allo stato attuale la sua anima è dannata. Tuttavia, poiché i benefici che le sono stati concessi negli ultimi vent'anni non sono derivati da un suo manifesto atto di libero arbitrio, ecco che, per quanto possa sembrarle grottesco, io, il diavolo, sono venuto ad offrirle la redenzione." "Be', mi sembra il minimo" commentò Fulvio. "Solo che mi piacerebbe sapere dov'è la fregatura." "Nessuna fregatura, signor Grimaldi. Ciò che le propongo è la genuina e totale redenzione della sua anima." "E lei cosa ci guadagnerebbe?" "Be', se lei accettasse la redenzione, nulla. È ovvio, no?" "E allora perché mai si sarebbe dato così tanto da fare con me in questi venti anni?" "Perché lei potrebbe sempre decidere di dichiararsi soddisfatto del mio operato e rifiutare la redenzione. Non a caso la polizza che le sto offrendo si chiama 'Soddisfatti o Redenti'." "C'è qualcosa che continua a sfuggirmi." "Chieda pure. Sono a sua completa disposizione." "Non capisco cosa le fa pensare che io possa rifiutare la redenzione." "Me lo fa pensare la statistica, signor Grimaldi. Nessuno di coloro a cui è stata offerta la polizza 'Soddisfatti o Redenti' prima di lei, ha accettato di redimersi. Tutti, nessuno escluso, si sono dichiarati soddisfatti dei miei servigi, confermando la dannazione eterna della loro anima." "Ma è pazzesco!" "Mi creda... non lo è!" "Ah si?" sbottò Fulvio. "E allora sa cosa le dico? Io voglio la redenzione." "D'accordo" rispose il diavolo senza fare una piega. Aprì la carpetta che teneva in mano, estrasse la polizza e riprese. "Come vede, la polizza 'Soddisfatti o Redenti' è composta da due moduli a ricalco: uno rosso ed uno azzurro. Quello rosso va firmato dai clienti che si dichiarano soddisfatti del mio operato, mentre quello azzurro va firmato dai clienti che vogliono la redenzione. In tutto ciò, mi creda, ogni riferimento alla politica è puramente casuale." Il diavolo porse a Fulvio il modulo azzurro. "Gli dia un'occhiata" disse, "e poi apponga la sua rispettabile firma in calce al modulo." Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Fulvio si sentì confuso. Se c'era una cosa per la quale era negato, era il linguaggio burocratico. Il modulo che aveva preso dalle mani del diavolo era fittamente riempito di clausole e articoletti; non era per nulla rassicurante. "Cosa sono tutte queste clausole?" "Posso farle un veloce riassunto... se si fida." "Mi fido." "In soldoni, tutte quelle clausole dicono che, nel momento in cui lei accetterà la redenzione, tutti i benefici che le sono stati concessi in questi ultimi venti anni verranno revocati con effetto retroattivo immediato." "Cioè?" "Cioè, mio caro signor Grimaldi, la sua vita, così come si è abituato a conoscerla da vent'anni a questa parte, verrà immediatamente cancellata. Successo, soldi, fama, amore... tutto svanirà in un batter di ciglia. La sua vita sarà immediatamente riconvertita in quella che, si presume, lei avrebbe avuto se, il giorno in cui trovò per terra il compito dell'amico, lo avesse restituito al legittimo proprietario." Fulvio venne improvvisamente abbandonato dalle forze. Le gambe gli si fecero molli e non stramazzò al suolo solo grazie al sostegno precario che la parete dei loculi gli aveva provvidenzialmente fornito. Il modulo azzurro scivolò via dalle sue dita e, volteggiando mollemente, si adagiò per terra a metà strada tra sé e il suo diabolico interlocutore. Il diavolo continuò implacabile: "La riconversione della sua esistenza sarà istantanea e, cosa più importante, dopo che avrà firmato il modulo lei sarà morto." "Morto?!" "Purtroppo sì, signor Grimaldi. Vede, ad essere condizionata dalla scelta che lei ha liberamente fatto vent'anni fa, non è stata la sua sola esistenza." "Arturo..." balbettò Fulvio. "Esatto!" disse il diavolo. "Vedo che sta cominciando a capire. Il furto che lei ha perpetrato al suo amico, ha innescato una reazione a catena di eventi che hanno trascinato il pover'uomo in un inarrestabile vortice di dolore e sofferenza culminato nella morte. "Redimersi, caro il mio signor Grimaldi, nel suo caso non significa solo pentirsi delle proprie azioni riprovevoli, ma anche accettarne sulla propria persona tutte le conseguenze nefaste. Se lei deciderà di redimersi, si caricherà sulle spalle tutte le sofferenze che, a causa del suo gesto, hanno oppresso l'esistenza del suo povero e defunto amico." Fulvio era atterrito. "A meno che..." aggiunse il diavolo. "Cosa?" riuscì a balbettare Fulvio. "Be', se lei si dichiarasse soddisfatto del mio operato, allora tutto rimarrebbe così com'è. Fama, ricchezza, amore... tutto come prima. Lei continuerebbe ad essere il Fulvio Grimaldi di sempre: il trentottenne scrittore di successo, marito felice e padre adorato." "Ma la mia anima?" "Dannata... come d'altronde lo è stata negli ultimi vent'anni. Gliel'ho detto: tutto rimarrà 'esattamente' come prima." "E se io mi rifiutassi di sottoscrivere la polizza?" "In tal caso varrà il principio del 'silenzio assenso' e lei sarà automaticamente redento." Fulvio era in trappola. "Ho bisogno di pensarci su" temporeggiò. "Purtroppo" disse il diavolo, "temo che non ce ne sia più il tempo, signor Grimaldi. Che lei decida o meno di sottoscrivere la polizza, la sua pratica si chiuderà automaticamente a vent'anni esatti dal momento in cui è stata aperta. Vale a dire nell'istante in cui lei ha consegnato il compito del suo amico spacciandolo per il proprio: cosa che è avvenuta esattamente il 14 giugno del 1986 alle ore dieci e quindici." Il diavolo consultò l'esclusivo 'Swatch Necronomicon' che aveva al polso. "Adesso sono le dieci e dieci" disse. "Le rimangono solo cinque minuti, dopo di ché la pratica sarà considerata chiusa. Se per allora non avrà ancora preso alcuna decisione, varrà il 'silenzio assenso' e lei sarà redento." "Maledizione!" sbottò Fulvio sentendo l'ira montargli dentro. "Tutto questo non è giusto. Non è leale. Non ho avuto alcuna possibilità di scelta. Non sono un esperto di religione ma, sono sicuro che questa cosa non è regolare. Non può esserlo." "Signor Grimaldi!" lo richiamò il diavolo. "Innanzi tutto stia calmo ed eviti di parlare di 'lealtà' poiché, come hanno dimostrato le vicende della sua vita, non ne ha alcun titolo. Mi permetto di ricordarle che neanche il suo amico ha mai avuto la possibilità di scegliere: è stato lei a scegliere per lui. "E poi, suvvia signor Grimaldi, le sarà già capitato di ricevere un servizio non richiesto, no? Pensi a quello che fanno normalmente le compagnie telefoniche. Non vorrà per caso farmi credere che non le è mai successo; sono cose che accadono in continuazione. La colpa non è di chi trova le scappatoie, ma di chi fa leggi troppo vaghe." "Non è la stessa cosa" disse Fulvio. "Qui c'è in ballo la mia anima, non una bolletta salata. Non è Giusto." "Non è giusto?!" disse il diavolo. "Se proprio vuole sapere cosa veramente non è giusto, glielo dico io, caro il mio signor Grimaldi. Non è giusto che un assassino, ladro e corruttore, uno che ha dedicato l'intera esistenza al male, possa con un 'sincero pentimento sul letto di morte' salvare la propria anima. 'Questo' non è giusto. Lei non può nemmeno immaginare quante anime potenzialmente dannate mi sono state estorte con questo subdolo sotterfugio. "La polizza 'Soddisfatti o Redenti', invece, è 'estremamente' onesta. È stata elaborata direttamente dai nostri esperti di 'marketing demoniaco' e, le assicuro, è quanto di più leale io abbia mai offerto ad un comune mortale." Con un eloquente cenno della testa il diavolo invitò Fulvio a guardare il modulo azzurro che giaceva ai suoi piedi. "Mi permetto infine di farle notare che la redenzione è ad un solo passo. Firmi il modulo azzurro, oppure non faccia nulla, e la sua anima sarà salva. Ma..." Il diavolo sbirciò nuovamente l'orologio da polso, "tenga presente che le rimangono soltanto cinquanta secondi." "Va bene, accetto!" esclamò Fulvio. "Mi dichiaro soddisfatto. Presto, mi faccia firmare il modulo rosso." Il diavolo porse a Fulvio il modulo rosso, insieme con la carpetta ed una penna. "Metta la sua firma in calce, e avremo concluso." Sul modulo rosso c'era una sola frase: "Io sottoscritto Fulvio Grimaldi mi dichiaro soddisfatto dell'operato del diavolo e accetto di cedergli in compenso la mia anima". Fulvio firmò il modulo. "In fondo ho solo trentotto anni e godo di ottima salute" si giustificò. "Ho ancora tempo e le assicuro che, prima o poi, riuscirò a trovare una scappatoia." Quindi restituì il modulo firmato. "Bravo, signor Grimaldi! È questo lo spirito giusto" si congratulò il diavolo, prendendo il modulo dalle mani di Fulvio. Quindi riprese soddisfatto: "È stato un vero piacere fare affari con lei." Fulvio non aveva avuto lo stesso piacere ma preferì non dire nulla. "Ora, però, la devo lasciare" continuò il diavolo. "Vede, da quando ho sostituito il vecchio contratto di 'Patto col Diavolo' con la polizza 'Soddisfatti o Redenti', non riesco più ad avere un attimo di respiro. Si immagini che fra un minuto esatto, ho un appuntamento con un altro cliente dall'altra parte del mondo." "Sbruffone" pensò Fulvio. "Buona giornata e... arrivederci." Detto questo, il diavolo si allontanò camminando e, senza far uso di effetti speciali, sparì svoltando dietro un angolo. "Ho solo trentotto anni e godo di ottima salute" pensò Fulvio. "Troverò una scappatoia." Diede un ultimo sguardo alla targhetta dorata su cui era inciso il nome del vecchio amico, si mise le mani in tasca e andò via ignorando che quella stessa mattina, alle dieci e ventisei, lo attendeva ancora un ultimo appuntamento: quello con la morte. Uscì dai cancelli del cimitero alle dieci e venticinque, con la sgradevole sensazione di aver preso una fregatura. "Chiunque abbia avuto successo" stava pensando, "non può non aver avuto un pizzico di fortuna nella vita, no? E poi, quando mai si è sentito il diavolo fare proposte oneste?" Alle dieci e ventisei in punto, soprappensiero, Fulvio attraversò la strada per raggiungere la propria 'Mercedes'. Marcello Falco (falco.phd@tiscali.it) Progetto Babele Speciale Inverno 2008 Umani di Gianluigi Lancellotti Uno scarpone mi scuote. Faccio finta di niente, rimango accovacciato, la testa appoggiata allo zaino, ma quello insiste. "Devi andare là fuori e farlo smettere." (...) Trincea. Notte. Butta acqua fredda e sporca. Avrei preferito una bella nevicata. Invece il fango ci sta inghiottendo, un poco alla volta. Cerco riparo tra gli obici da 450, l'unico posto ancora asciutto dentro questa trincea. Mi rannicchio in un angolo, il bavero rialzato, con un solo chiodo fisso, dormire. Respiro a fondo l'odore acre della polvere da sparo, almeno copre il fetore della carne in putrefazione che appesta l'aria; brandelli d'uomo lasciati marcire nella terra di nessuno. Finalmente lo sento arrivare questo benedetto sonno, ma è fatto di bocche spalancate, cadaveri riversi, corpi smembrati, e…un urlo lontano che si avvicina sempre di più, eccolo: mi segue, mi rincorre, mi acchiappa. Apro gli occhi, cazzo no, mi ha svegliato un'altra volta. E' quello là, quello ancora vivo, dev'essere nascosto da qualche parte, buttato in uno di quei crateri, incapace di muoversi, ma gli è rimasto un gran fiato, tutto il fiato di questo mondo, e manda il suo grido straziante, disumano, a intervalli regolari. Scommetto che nessuno riesce più a dormire qua dentro. Tra un po' mi verranno a cercare, ne sono sicuro; anzi sono già qua; sento parlottare, "…gira a sinistra, subito dietro le bombe da mortaio." Intuisco tra un passo e l'altro. Uno scarpone mi scuote. Faccio finta di niente, rimango accovacciato, la testa appoggiata allo zaino, ma quello insiste. "Devi andare là fuori e farlo smettere." E' Franzoni il nostro sergente, lo riconosco dalla voce. Con lui ho confidenza, ne abbiamo fatte di offensive insieme. "Affanculo," rispondo "vacci tu." "Nessuno riesce più a chiudere occhio qua dentro." "Scolatevi un altro po' di grappa." Ringhio. Non risponde, gira sui tacchi e se ne va piegato in due. Forse l'ho sfangata. Questa volta mi ci metto d'impegno, sono quasi addormentato quando di nuovo un piede mi scuote. "Che cazzo…" mi giro rabbioso. "Il capitano ti vuole a rapporto, immediatamente." M'intima Franzoni. "Brutto stronzo." Sussurro tra i denti tirandomi su. "Se continui così finisci davanti alla corte marziale." Fa lui "E tu con una pallottola nella schiena." Contraccambio io. Rimane zitto, so che mi teme. Così mentre percorriamo la trincea tutti curvi gli rincaro la dose "Questa me la paghi bastardo, domani guardati alle spalle." "Se sarai ancora vivo." Ghigna. Mi trovo nel bunker ufficiali, ritto davanti al capitano, anzi non proprio davanti, ma tutto spostato da una parte, di sbieco, accanto alla stufa. Il capitano non s'infuria, non mi ordina di mettermi sull'attenti al centro della stanza. Brutto segno. "Senta Grimaldi, lo sa perché l'ho fatta chiamare vero?" "No." Affermo deciso. Un'impercettibile contrazione gli attraversa il volto; Bonivar si chiama, capitano Bonivar, ma riprende subito il controllo, fa finta Ad occhi chiusi di Salvatore Romano di niente, in un altro frangente mi avrebbe spedito a pulire latrine, invece adesso sorride tutto compiaciuto; giuro, al posto di quel sorriso mille volte meglio le latrine. "Deve andare là fuori a chiudere la bocca a quel disgraziato. Domani voglio una truppa pronta al combattimento e non dei rammolliti morti di sonno." "Signor capitano, è… è… un suicidio" balbetto mentre sposto il peso da un piede all'altro, la testa china, a fissare il pavimento "ho la licenza pronta… sa dopo sei mesi filati …già firmata dal colonnello, ancora tre giorni…poi finalmente… mia moglie e mio figlio…, capisce." Mi sorreggo al mio moschetto 91 perché il parlare in quel modo mi ha fatto venire su un gran magone, e sento le gambe molli. Il capitano si alza paonazzo in volto "Della sua licenza me ne strafotto, lei deve andare là fuori e far smettere quel disgraziato, è un ordine, ha capito! Se rifiuta la deferisco alla corte marziale! La faccio giustiziare!. E la smetta di appoggiarsi al fucile, qui sul- l'attenti, davanti a me!" "Sì signor capitano! Agli ordini signor capitano! Certo signor capitano!" Scandisco chiaro e forte scattando come un automa. Lo so, lo conosco questo bastardo dai baffetti impomatati, mi farebbe fucilare così su due piedi come se niente fosse, è già capitato, ma giuro una pallottola nella schiena non gliela toglie nessuno, neanche a lui. "E si porti quella recluta che le sta sempre appiccicata al culo… Minghetti, si ecco Minghetti." "Signor Capitano posso benissimo farcela da solo…" protesto. "Bastaaaa….!!! I miei ordini non si discutono! Lei deve solo ubbidire e basta, ha capito!!!?." "Sì signor capitano! Certo signor capitano! Agli ordini signor capitano!" Ripeto tutto impettito battendo i tacchi. Progetto Babele Speciale Inverno 2008 "E adesso vada, e se tornate che quello là fuori è ancora vivo vi accoppo con le mie mani, qui sul posto!" "Si signor capitano! Agli ordini signor capitano!… Affanculo signor capitano." Biascico sulla soglia poco prima di uscire. So che ha sentito e che adesso sarà viola dalla rabbia, ma ormai cosa può fare contro un morto che cammina?. Mi portano Minghetti, è pallido e trema, non ha ancora diciannove anni, ed io che ne ho ventitré ma con due anni di guerra in più sulle spalle sembro già suo padre. Tremo anch'io, ma riesco a controllarmi che se capisce che ho paura quanto lui ci mettiamo tutti e due a piangere come bambini. "Siamo fregati, vero?" Chiede tutto rigido, la faccia tirata che sembra un teschio. "Non è detto." Ma la mia voce suona poco convincente anche a me. "Quel bastardo perché non la smette?" Domanda continuando a scrutarmi. Anche nella penombra, non c'è niente da fare, la faccia da morto vivente non si cancella, così lo prendo per il bavero e lo scuoto di brutto, con cattiveria. "Adesso basta! Abbiamo una missione da compiere! Dobbiamo pensare solo a quello, hai capito!?" "Certo…certo… ho ..capito." Mi fa lui balbettando sorpreso dalla mia reazione. "Gli austriaci là fuori, sono precisi, non fanno mai niente per caso." Così dicendo sollevo la manica e pulisco il vetro dell'orologio da polso, un cronometro automatico Longiness che spacca il secondo, l'ho preso ad un ufficiale austriaco, uno di quelli a cui ho risparmiato un sacco di sofferenze. Controllo i lampi di luce lattiginosa dei riflettori che, sopra le nostre teste, si diffrangono nel pulviscolo di questa pioggerella maligna; hanno un loro ordine, anche se a prima vista non si direbbe. "Prepariamoci!" Lo avverto e intanto tiro su manate di fango e comincio a cospargere Minghetti. "Ma che fai? Non ho già abbastanza freddo." Protesta. "Affanculo il freddo, dobbiamo mimetizzarci." E non gli risparmio nemmeno la faccia. Quello sputa e bestemmia. "Adesso anche a me." Gli ordino. Sembra provarci gusto, mi tira certe manate che sputo terra e sassi anch'io. Bene comincia a reagire, è meglio un fante incazzato che uno paralizzato dalla paura. Poi lo afferro per le spalle fissandolo dritto negli occhi "Non possiamo commettere errori, quando dico "fuori" usciamo dalla trincea, avremo venti secondi per strisciare nel buio, tu dietro, poi immobili per un minuto, di nuovo quindici secondi di oscurità per avanzare, poi due minuti fermi, altri venticinque secondi di buio, un altro minuto fermi e via da capo. Capito." "Certo." "Ripeti." "Usciamo, venti secondi, buio, avanziamo; poi un minuto, luce, fermi; quindici secondi, buio avanziamo; due minuti, luce, fermi; venticinque secondi, buio, avanziamo; un minuto, luce, fermi, e via da capo…" "Bravo!" Lo incoraggio con una gran manata sulla spalla. "Sei pronto?" "Pronto." Risponde mettendosi il fucile a tracolla. Sbuffo sconsolato, è così che queste reclute si fanno ammazzare come tante mosche; li vedo sempre correre dalla parte sbagliata, accasciarsi uno sull'altro, a gruppi, come greggi impazzite. "I fucili li lasciamo qua, e anche l'elmetto." "Ma andiamo disarmati?" Mi guarda sgomento. "L'elmo e il fucile è la prima cosa che notano, e poi ci sarebbero solo d'impiccio. Basta la pistola." "Ma io la pistola non ce l'ho." "Cazzo" Impreco, è vero non è in dotazione, ma noi anziani ce ne siamo procurata subito una, è la prima cosa che abbiamo fatto, che nel corpo a corpo è l'arma migliore e se ti trovi segato in due e magari respiri ancora ti puoi sempre tirare una revolverata, che poi a dire il vero dove dobbiamo andare non serve neanche la pistola serve; mi slaccio la fondina di tela e gliela passo, "Tieni," gli dico "a me basta questa." e gli mostro la baionetta. Così almeno con una pistola al fianco si sente più sicuro. Controllo il puntino fosforescente dei secondi che scorre uno scatto dopo l'altro verso il nulla che ci attende. "Ora." Sussurro rauco. E siamo fuori, striscio sul ventre dandoci di gomiti e ginocchia, che adesso questo fango quasi lo amo e vorrei che mi inghiottisse facendomi sparire; conto mentalmente, poi mi fermo, immobile, giusto in tempo per vedere la luce del fascio riflessa a pochi centimetri dal mio naso. Fermo così per un minuto. Il freddo adesso mi è arrivato fin dentro le ossa. Dev'essere così la morte, un torpore gelido che ti cancella il corpo e la mente. Minghetti batte i denti subito dietro; è terribile questa sensazione, battiamo entrambi i denti e non sappiamo se per il freddo o la paura. Buio, scatto di nuovo in avanti, aggiro le buche d'obice, seguendo la direzione delle urla, ormai non ci manca molto. Tra poco lo raggiungo, ma proprio quando comincio a pensare che potremo anche farcela dalla nostra trincea arriva un gran tramestio e poi un "basta, non ne posso più" seguito da una serie di spari. Subito i riflettori cominciano a muoversi freneticamente, come impazziti. Dalla trincea austriaca parte una raffica di mitraglia, a cui risponde la nostra. I bengala vengono lanciati uno dietro l'altro; adesso qua nella terra di nessuno sembra pieno giorno, anzi un assolato pomeriggio estivo. Giro la testa appiattito più che posso; Minghetti si trova dietro, ad una ventina di metri, accanto ad una fossa, è impossibile che non ci vedano "buttati dentro" gli urlo con la voce strozzata. Non se lo fa ripetere due volte, scivola via e scompare. Io invece sono completamente allo scoperto, in una posizione infelice, indietro non posso tornare, che di schiena sono un bersaglio ancora più facile ed il riparo più vicino si trova ad almeno una decina di metri davanti a me. Comincio a strisciare il più velocemente possibile, ma sento partire una raffica di mitraglia, vedo i traccianti volare bassi e sollevare alti schizzi di fango leggermente spostati sulla mia sinistra, un soffio agghiacciante mi sfiora facendomi cambiare direzione. Individuo un nuovo riparo, ma un'altra raffica mi sbarra la strada, via a destra, subito un muro d'acqua e fango mi riempie gli occhi e la bocca, sputo bestemmiando, mezzo accecato; si stanno divertendo un mondo quei bastardi, stanno giocando come fa il gatto col topo, e dalla mia trincea neanche uno sparo di copertura, tanto inutile sprecare colpi, ormai sanno che sono spacciato. Mi tiro su quattro zampe e comincio a gattonare via sparato come un razzo, che così magari li farò crepare dal ridere, ma se riesco a raggiungere quella buca che sembra così vicina li frego. E via zigzagando, ma ogni volta vedo i traccianti partire e sfiorarmi d'incanto. Scommetto che adesso gli austriaci staranno Progetto Babele Speciale Inverno 2008 sghignazzando dandosi gran manate sulle spalle, e questo pensiero mi fa incazzare, anzi di più, salire il sangue agli occhi, non voglio diventare il loro pagliaccio per poi essere comunque ammazzato come un cane, e poi basta, se questa è la mia ora, così sia. Mi fermo alzandomi sulle ginocchia, spalanco il cappotto, apro la giacca, e mostro la camicia bianca che così non possono sbagliare "Dai sparate bastardi, sparate beccamorti che non siete altro, sparate qua, è così facile, anche un ragazzino ci riuscirebbe." Urlo. Cala un silenzio irreale, il riflettore puntato negli occhi, aspetto il colpo che mi butterà a terra, ma non succede niente. Percepisco la paura montarmi dai piedi e conquistarmi un poco alla volta, "Bastardi figli di puttana," comincio a piangere "sparate, e sparate, muovetevi!" Poi odo una voce provenire dalla trincea austriaca " itglian…" S'inceppa ma si riprende subito "Italiano, vai muoviti, farlo star zitto, noi dormire, capito, italiano noi voler dormire, vai, muoviti." "Italiano, vai muoviti." Mi dice un'altra voce. "Presto, altrimenti questa volta noi mirare giusto.". Certo hanno capito cosa sono venuto a fare qua, hanno visto che sono disarmato, che sono senza fucile e senza elmetto, ed hanno capito. Mi tiro su in piedi, pregando dalla felicità, intanto quello lancia un altro dei suoi urli strazianti. Individuo la fossa dove s'è rifugiato. Gli austriaci mi regalano un altro paio di bengala che illuminano la scena a giorno e puntano i riflettori davanti a me; mai vista tanta premura neppure da parte dei miei. Avanzo barcollando e inciampando con le gambe che mi reggono a stento, poi mi calo nel cratere di una granata da cinquecento. Lui è là coricato su un fianco, sembra ondeggiare, ma è solo l'effetto della luce dei bengala, lo zaino sotto la testa e tiene le braccia strette intorno al ventre. I bengala si spengono, sparisce; ci vuole un attimo prima che mi abitui alla penombra dentro la fossa. Mi avvicino strisciando, gli passo una mano sulla fronte, scotta come un forno, lui ha un sussulto "Non avere paura," gli dico "sono vento a portarti via, a portarti in salvo." Si gira e intravedo una specie di sorriso "Finalmente."Sussurra con un filo di voce. Ha gli occhi chiari, un naso sottile, il mento ben squadrato, neanche diciannove anni, sembra anche bello: penso a sua madre e tiro un gran bestemmione, ma certe cose è bene non pensarle, non devo pensare. Mi metto dietro a lui, seduto, allargo le gambe e appoggio la testa sulla mia coscia carezzandogli i capelli imbrattati di fango, poi lo giro lentamente. Si lamenta, ma non urla più, il pastrano è intatto, ancora abbottonato, ha solamente una grossa macchia sul davanti, ci metto su una mano, è inzuppato di roba scura: sangue. Apro con precauzione un bottone, lui emette un flebile gemito "Cos'ho?" Mi chiede "non riesco a muovere le gambe." "Niente, un graffio vedrai che appena arriviamo al campo i medici ti rimettono in piedi, e poi un mese a casa, in licenza premio." "Sì." Afferma passandomi una mano intrisa di sangue sulla guancia. Infilo le dita sotto il pastrano, le sento sprofondare tra le budella tiepide, è aperto da cima a fondo. Si tratta di una di quelle maledette schegge oblique e ti s'infilano senza nemmeno sgualcirti il pastrano. Mi era capitata una cosa del genere appena arrivato, durante un'offensiva, non stavamo neanche correndo, ci eravamo fermati un attimo, io e il mio compagno, cercando di capire da che parte cadevano le granate quando mi dice "cazzo mi sto pisciando addosso" mi giro e ai suoi piedi effettivamente vedo allargarsi una gran chiazza, ma rossa, allora gli apro subito il pastrano e le sue interiora esplodono fuori come tanti palloncini; adesso non farei più un errore del genere. Riallaccio il bottone; è spacciato, morto, non c'è più niente da fare e poi da solo non riuscirei mai a trascinarlo fuori da qui. "Adesso ce ne andiamo," gli sussurro sfiorandogli l'orecchio con le labbra "tieniti pronto, ti prendo per la testa e cerco di tirarti su, sentirai un po' male, ma vedrai non è niente." "Sì" mi fa "Andiamo, portami via, non voglio morire qua." "Certo, ci penso io." Lo rassicuro Non uso la baionetta è troppo grande, poco precisa, se ne accorgerebbe. Dalle fasce avvolte intorno alle caviglie estraggo un coltellino affilato come un rasoio. Lo afferro per il mento, poi fingendo di trascinarlo via lontano da qui gli piego la testa; così anche con questa penombra mi viene tutto più facile. Provo a tirare un po' più forte come se volessi sollevarlo, mentre cerco l'angolazione migliore; con un colpo deciso gli infilo la lama dritta nel collo recidendogli di netto la vena jugulare. Sento la sua bocca spalancarsi all'istante mentre esala un lungo rantolo, gli occhi girati, pieni di stupore, fissi su di me. Ma lo spavento dura poco, rimangono congelati in quella posizione, le pupille che cominciano a dilatarsi mentre la sua testa si affloscia un poco alla volta tra le mie braccia. Negli ultimi spasmi il cuore pompa disperatamente lanciando lunghi schizzi sul terreno, ma lui è già incosciente, con il cervello svuotato. Tengo la sua testa tra le braccia e la cullo finché non sono terminate anche le ultime contrazioni. Poi lo ricompongo con cura, dal taschino interno del pastrano estraggo il suo tesserino di riconoscimento. Massimo si chiama. Gli carezzo la fronte, "Massimo, Massimo che non voleva morire, domani ti porteremo via da qui." sussurro continuando a cullarlo. Per la prima volta sento una grande calma, un'indifferenza assoluta verso il mondo, la guerra, la morte, tutto quanto. Mi alzo in piedi, esco dal cratere, se gli austriaci mi vogliono sparare, sparino pure. Gli austriaci non sparano, anzi con i riflettori continuano a farmi strada. Raggiungo Minghetti. "Dai Minghetti esci da lì, torniamo alla nostra trincea." "Sicuro?" mi fa lui con la testa appena fuori dalla fossa. "Sicuro." Gli dico. Esce e mi abbraccia, sento che mi vuole bene, come ad un padre, e lo abbraccio anch'io mentre dai suoi occhi scendono grossi goccioloni. "Andiamo," gli dico "dai coraggio." E mentre c'incamminiamo vien su un gran magone anche a me, comincio a scuotere la testa incredulo; gli austriaci ci stanno lasciando andare, non riesco a crederci, ci stanno proprio lasciando andare, sembra impossibile. Fisso Minghetti "Però in fondo… in fondo…dentro di noi…" "Dentro di noi… cosa?" chiede Minghetti con due occhi che sembrano fanali. "quanto siamo umani." mi scappa "Hai ragione," risponde lui dandomi delle gran manate sulla schiena "finalmente riusciremo a dormire.". Gianluigi Lancellotti gianluigi.lancellotti@unipd.it