Piume di Azzurra D'Agostino Quando si svegliò quella mattina il cielo riposava zitto come un sasso sul fondo del fiume. Neanche un frullo d’ala tra le piante, nessun volo di falco o di rondine, nessun trillo di passero rompeva quel silenzio perfetto. L’aria restava muta e svaligiata nell’insondabile esattezza del suo azzurro. Fausto fece alcuni passi nell’aia a testa insù, per controllare meglio. A vista d’orizzonte, nulla. Tra gli alberi del bosco intorno alla fattoria, nulla. Persino il gallo quella mattina aveva saltato il suo canto. Tutto ciò gli parve molto strano. Salì sul trattore, già carico dal giorno prima di covoni di fieno, e si diresse verso la tenuta dei Brumini. Per strada, ogni tanto dava un occhio in alto per controllare: anche lungo la via nessun segno di vita a popolare le nuvole. Scosse la testa impensierito. Il trattore sobbalzava e il sedile a molle lo faceva saltellare come un pupazzo nella scatola magica. Il lungo viale in selciato che portava alla tenuta, col grande cancello d’ingresso sempre aperto, rigava i campi gialli del luglio inoltrato. Quando arrivò nel cortile principale, tra il casolare e la stalla, a motore spento tese gli orecchi: tutt’intorno si sgolavano i grilli e le cicale, ma nemmeno un singolo fischio di rondone. - Oh! Bene bene! È quanto ti avevo chiesto? Il Brumini spuntò da dentro la stalla con gli stivali di gomma incrostati di fango e guano, la camicia fuori che tirava sulla pancia formando una serie di “8” ad ogni bottone. - Sì, quel che c’è rimasto dopo il passaggio del Brusco! - Ma quel Brusco diobonino quante ne ha di bestie? Ogni volta ci si litiga la biada! Fausto alzò le spalle e aprì le mani, come a dire “che vuoi farci”. Non gli piaceva parlare degli affari degli altri. Meglio sempre tacere che alimentare malanimi da niente (che poi andava a finire come quella volta, che i fratelli Cerri s’erano accoltellati per delle voci non vere). E poi era uno che non amava sprecarsi in chiacchiere. - Vieni dentro che ti do un bicchiere - No, via, Brumini, che dopo che ho finito qui ho ancora tutta la legna da mettere dentro… - Dai dai che un bicchiere non ha mai ammazzato nessuno E il Brumini si diresse nella cucina direttamente affacciata sull’aia, tagliando il discorso senza aspettare replica; Fausto lo seguì lasciando le chiavi sul trattore, con lo sportello della cabina di guida ancora aperto. Dentro era semibuio, l’aria umida e fresca come una cantina; da una trave nell’ombra del sottoscala pendevano due prosciutti che spandevano profumo di sale e grasso. Il Brumini prese dalla madia una forma di pecorino avvolta in un canovaccio e una pagnotta di pane; sul tavolo di legno rigato stava già un fiasco impagliato; Fausto prese dall’acquaio due bicchieri, di quelli piccoli da osteria, ed entrambi si misero a sedere. Stella, la cagna da caccia (bravissima al cinghiale), ticchettò con le unghie sul cotto impolverato e si andò ad accucciare accanto al tavolo, fissandoli. - Quando si va a cinghiale? , disse Fausto indicando la cagna col mento - Eh, boia, da quando son caduto l’anca non mi regge più bene. A far tutti quei chilometri non mi sento mica tanto. Il Brumini versò il vino poi tagliò con un coltello a serramanico che teneva in tasca due grossi pezzi di pane e due fette di formaggio. - Senti mo’ questo qui, che lavoro! Fausto mise il formaggio sulla spessa fetta di pane bianco senza sale e disse, mentre masticava: - L’ha fatto la Dora? - La Dora, sì - A fare il formaggio è brava, proprio. Ma anche le bestie son buone, si vede. È che te le tratti bene, lo so. Son tornato da poco nella bassa, vedessi… - Mi immagino - Le bestie laggiù il sole non lo vedono neanche dipinto. Ce ne saranno delle batterie da cinquanta, sessanta a capannone. Fan tutto lì dentro: mangiare, bere, mungere e via. - Eh - E poi grosse! Gli fan le punture - Sì, lo sapevo. Ma di quella roba lì non mi fido mica… - Però diventano il doppio. E carne morbida, pure. Ci fai tre volte il ricavo di adesso. Dovresti pensarci. Ci sto provando anche io e vedessi che roba - Io le mie bestie ci mando il Glauco a pascolarle e va bene così E il Brumini bevve di un sorso il suo bicchiere e si alzò strascicando la sedia. Quello segnava che il benvenuto era finito, e anche Fausto si alzò, mentre la cagna ora odorava per terra in cerca di qualche briciola. Fausto gli lanciò la sua crosta del formaggio e uscirono. Il sole adesso picchiava più forte e nell’aria aperta i due uomini strizzarono gli occhi abbacinati. Fausto salì nella cabina del trattore a prendere il cappello di paglia, mentre il Brumini (che il suo non se lo era tolto neanche in casa) si dirigeva verso il deposito del fieno sul retro. La stagione stava per finire e c’erano le ultime cose da sbrigare prima che iniziassero le piogge che già da metà agosto bagnavano le montagne. Con le consegne quell’anno era arrivato lungo: un ritardo dovuto al fatto che aveva perso un sacco di tempo dietro a una malattia che gli aveva devastato prima i girasoli e dopo la vigna. Per mesi aveva girato per i campi assieme al Tecnico, un perito agrario esperto di parassiti e malattie delle piante, provando tutte le misture che il Tecnico gli proponeva. A calci chimici avevano infine sfrattato la morìa, ma il costo era stato alto e Fausto ci aveva perso le notti. Ma il Tecnico l’aveva avuta vinta. Come l’altro Tecnico, quello esperto di allevamenti, che anni prima gli aveva dato una mano con dei problemi alle vacche, e che gli aveva fornito alcuni suggerimenti su come migliorare la produzione e ridurre i costi. Era semplice, bastava ispirarsi alle produzioni in grande scala e far crescere un po’ la fattoria: ampliare la stalla, cambiare i mangimi… e con qualche dose di estrogeni e antibiotici (non senza un po’ di rischio) avrebbe avuto la carne più morbida della zona. E abbondante. Poteva permettersi anche qualche bestia in più. Rinnovare, questa era la parola d’ordine. I due Tecnici sembravano dischi rotti: “Bisogna rinnovare!”, dicevano a ogni controllo. E Fausto rinnovava. Ampliamenti, mungitrici, mangiatoie, iniezioni, miscele, impasti, pannelli, catene, isterectomie, incubatrici… ora la sua stalla era un capannone all’avanguardia al pari di quelli della bassa. I Tecnici venivano e andavano controllando tutto, facendo persino le analisi del sangue agli animali, e la macellazione avveniva con dei modi nuovi, e i lavoranti indossavano la cuffia verde come quella delle sale operatorie degli ospedali. Nel giro di qualche anno, era riuscito a triplicare la produzione e le vendite. Aveva un bel da dire, il Brumini, con quel sopracciglio alzato a condanna ogni volta che affrontavano il discorso; per essere competitivi bisognava stare al passo coi tempi, c’era poco da fare. E infatti il Brumini non andava per buone acque. L’anno prima aveva perso metà raccolto, per aver rifiutato l’elicottero con la medicina; e i vitelli gli nascevano sempre con lo stesso ritmo, e qualcuno moriva. Le vacche non ingrassavano abbastanza, e con il pascolo all’aperto spendeva troppo. Insomma si spezzava la schiena per niente. Era una gara persa in partenza. Del resto il Brumini aveva i suoi anni, si poteva anche capire; non aveva la testa per apprezzare il progresso. Ma lui, Fausto, coi suoi tre figli giovani, era aperto alle novità, non voleva restare fermo al forcone. Pensava fosse inutile. Come quelli che rifiutano l’aereo dicendo che se fossimo nati per volare avremmo le ali. Ma i suoi figli l’aereo l’avevano preso e gli avevano detto che era meglio che stare nel divano di casa. C’era pure la signorina a portarti le bibite, e lo schermo al plasma. Pensava tutte queste cose mentre il rimorchio si alzava a scaricare i covoni, il Brumini e il Glauco a sudare nei vapori della paglia, la faccia coperta da un fazzoletto come i banditi e la scena che si ripeteva uguale anno dopo anno. Povero Brumini, si disse Fausto, qualcosa gli sfuggiva, eppure lui non sembrava curarsene, col suo piglio severo e poco ciarliero da vecchio di una volta; amava le sue bestie e ci parlava, con quei suoni gutturali che ormai nessuno faceva più. Isolato nella sua piccola tenuta di montagna, il lavatoio ancora davanti casa, poche macchine e una miseria che non importava a nessuno. Accettava le verità oscure e paradossali della natura senza bisogno d’altro, così come gli era facile riprodurre il fischio del merlo: qualcosa che impari da bambino e che ti sembra di aver sempre saputo. Nient’altro, non voleva sentire ragioni, anche se ci perdeva. Peggio per lui, si disse Fausto, pensando felice alle sue vacche grasse legate in fila là nel capannone; io di fame non ci crepo sicuro. Ci vollero un paio d’ore per finire il lavoro. Spostarono i covoni scaricati dal trattore in tre, poggiandoli sul nastro trasportatore che li portava nella parte alta del fienile. Qui a forza di carriole e forconi li sistemarono ordinatamente creando un sottotetto di paglia odorosa. Quando ebbero terminato, sudati e sporchi di polvere, il Brumini lo invitò di nuovo dentro, ma questa volta Fausto fu irremovibile: doveva mettere via dei quintali di legna e voleva farlo prima di mezzogiorno, quando a casa sua era pronto da mangiare. Era già mezzo dentro la cabina del trattore, quando distrattamente guardò insù, ricordandosi della strana sensazione della prima mattina: niente. Nessun migratore, rapace, o stagionale; nessun segno di piumaggio e tra i rami dei cipressi del viale nemmeno la traccia di un nido. La campagna stava silenziosa nel solleone. Passò un nugolo di moscerini e poi un’ape, unici segni di esseri volanti. - Brumini - disse a un tratto con aria interrogativa. Questi si voltò e lo guardò coi suoi luminosi e tristi occhi grigi tra la pelle cotta, alzando il mento per annuire. - …nulla nulla, ci si vede. - Ci si vede, saluta la Carla. - Presenterò. Passo la settimana prossima. E Fausto accese il motore che scoppiettando coprì quel silenzio inumano che pervadeva i tappeti di luce sopra le loro teste e sopra i tetti; un silenzio che faceva spavento a sentirlo. Doveva essere simile a quello, andare al cimitero; solamente il brucare inesorabile dei vermi e dei lombrichi, e tutto il resto, di dentro e di fuori, perso in una mutezza inabitabile. - Hai visto come guardava per aria? - disse il Brumini a Glauco, il suo lavorante, dopo aver alzato un’unica volta il braccio in segno di saluto. - Per me cercava le tortorelle - aggiunse quasi innervosito; poi scosse la testa come rassegnato e si diresse verso l’uscio, dove la Stella si stirava le zampe sbadigliando e scodinzolandogli in segno di bentornato. In pochi passi i due uomini scomparvero nell’ombra della casa. Il fresco di dentro li percorse come una doccia. Si sedettero al tavolo, su cui ancora stavano i bicchieri, il fiasco di vino, il pane e il formaggio. Il Brumini pensò che la Dora da un po’ era strana, forse non stava bene; non era da lei lasciare il mangiare fuori posto. Ché poi il formaggio sudava. Scosse di nuovo la testa e si alzò a dare una sciacquata a uno dei due bicchieri. Poi si versarono il vino e restarono in silenzio a guardare fuori dalla porta aperta. Oltre la soglia la luce accecante della tarda mattina confondeva l’aria e la polvere e l’odore dell’estate si mescolava a quello intenso della casa, e tutto stava pieno e composto nella sua immobilità. - Certo che è strana, sta cosa - disse a un tratto Glauco. - Strano, strano, e che cos’è che non è strano? - rispose il Brumini seccamente, già alzandosi dalla sua sedia di legno e paglia intrecciata. - Ma cosa vuoi pretendere? È così che va. Dai, andiamo, ché è già tardi per le bestie. Finché non finiamo non si mangia. E uscì senza voltarsi indietro. L’aia stava sola senza nemmeno un’ombra. Nessuna ala sfiorava il cielo sopra le tegole di arenaria, e nemmeno sui palazzi delle lontane città, sui campi distesi, sui frutteti, sui castagneti assetati. Era l’ora degli spiriti, ma anche i demoni si erano ritratti. Nessuno più poteva davvero dimorare in quella terra e in quel cielo deserti. Armi femminili di Chiara Vozza Lui ha estratto il caricatore. Lei si irrigidisce – muscoli della mascella contratti, la lingua ritratta preme contro i molari superiori. Ecco. Adesso arriva. Ecco... TRA-ATRACK! Ha tirato indietro il carrello proiettile in canna espulso carrello rientrato. Adesso può procedere. Scovolini, lubrificante spray, panno ruvido, panno morbido, è tutto già ordinatamente disposto sul tavolo. Anche il fazzoletto di carta ripiegato che accoglie il proiettile espulso. Non sia mai che debba rotolare sotto il tavolo o chissà dove. Un proiettile sfuggito è l'insegna del suo disprezzo. Non potrebbe sopportarlo. Accuratamente disposto sul fazzoletto deve stare, in attesa di inserirlo nel caricatore. Dopo aver rimesso il colpo in canna (tra-atrack!). Poi, estrarrà di nuovo e inserirà il proiettile in attesa nell'alloggiamento di nuovo vacante: così, potrà contare su un colpo in più rispetto alla capienza del bifilare. Caricatore bifilare, proiettili calibro 9 lungo, impugnatura massiccia, bilanciamento perfetto della canna a patto di avere mano polso avambraccio da non sentire il peso, e spalla da assorbire il rinculo: gli piace, il suo cannone. Una roba da uomini veri. Ma, prima di rimetterlo operativo, manutenzione. Manutenzione ordinaria stasera, per lo smontaggio dovrà passare una settimana (lei potrebbe verificare il calendario regolandosi sullo smontaggio – manutenzione periodica). Seduto al tavolo il suo maschio, a torso nudo, lo guarda: i muscoli rilassati sottolineano la naturalezza della forma fisica, non ha bisogno di contrarli per evidenziarne la struttura potente su cui si modella la carne ancora tonica, tesa. Non se ne è mai particolarmente curato per la verità, ginnastica quotidiana quanto basta per tenere il fiato e assicurarsi la rispondenza del corpo alle intenzioni, il resto è dono di natura. Eppure è cambiato. Più massiccio, più in carne. Mentre guarda il suo maschio intento al rito serale – tutte le sere, tutte le maledette sere che dio manda in terra – una fitta di tenerezza perduta le trafigge il ventre. La prima volta che lo ha guardato, corpo perfetto disperato. Qualcosa di asciutto, di prosciugato, come una fame, una sete, qualcosa di mai interamente saziato. Così le era apparso, la prima volta che lo aveva visto nudo, un giovane lupo esasperato dalla fame, e pronto a tutto per soddisfarla. Allora, subito, lo aveva voluto senza riserve. Gli aveva donato la sua carne più indifesa, il suo sguardo più segreto, la sua voce più roca. E anche, gli aveva donato quello che lui apprezzava soprattutto: la preferenza della femmina più desiderata, più corteggiata, più ambita. Quella che non si dava a chiunque, si era data a lui. Adesso, si sta prendendo cura della canna, all'interno. Lo scovolino va su-e-giù, con circospezione all'inizio, poi comincia a ruotare mentre il su-e-giù accelera – guizzano appena i muscoli dell'avambraccio mentre il su-e-giù diventa più veloce, più sicuro. In quel momento, lei sente il suo nuovo sorriso segreto salirle alle labbra, quello che è comparso d'un tratto nell'ultimo periodo e si affaccia sempre più di frequente sulla sua bocca. Quel sorriso che a lui ha tenuto nascosto, non era il momento, non ancora. Adesso, sta lucidando la canna all'esterno, il pugno chiuso attorno al panno è solido ma senza stringere, il movimento concentrato, dalla base alla bocca e ritorno. Tra poco saggerà il carrello. Senza portarlo fino in fondo, lo farà scorrere dolcemente per verificarlo, così, un po' avanti-indietro, ma piano. Cristo. Fa che le sue dita non incontrino il minimo sospetto di resistenza, fa che possano scorrere morbide senza intoppi (sono così sensibili le sue dita, mani così forti ma dita così delicate, la sua carne più umida e segreta le conosce bene). Cristo. No. Ha sentito qualcosa. Aventi-indietro, di nuovo, avanti-indietro. Aggrotta leggermente le sopracciglia. Sdraiata sul letto con indosso l'ultima camicia da notte che lui le ha regalato, i suoi occhi si stringono di riflesso. Lui sente qualcosa del cambiamento negli occhi di lei, alza la testa, incrocia lo sguardo: “Cazzo, possibile che devi farti tirare il culo così ogni volta? Le armi vanno curate, lo sai, e ringrazia che ci sono io a farlo, fosse per te”, ma poi aggiunge sorridendo macho: “Dai che ho quasi finito, ancora un momento e sono da te piccola”. Perché lei intanto ha mosso leggermente le gambe nella camicia impalpabile, le cosce che si allargano senza ostentazione. A lui è sempre piaciuta la sua “raffinatezza”, così la chiama. Vengono dalla stessa periferia di degrado, ma “tu non sei mai stata come le altre pupa, tu non hai bisogno di sbatterla in faccia come una che si liquida con poco, a te basta un movimento delle palpebre per metterlo sull'attenti”. Già. Lei non è una che si può liquidare con poco. E neanche con molto. Se le sono fatte insieme le prima banche, quando lui era ancora un giovane lupo affamato. Se la sono giocata insieme con quelli che comandavano la piazza, quando c'è stato bisogno di aprirsi la giacca per non farsi ricacciare in fondo, o peggio – certo, lei mezzo passo indietro, lasciava a lui la ribalta e lui se la cavava a meraviglia, un vero mattatore, ma era un gioco delle parti e quelli che contavano nel giro lo avevano capito presto, di chi era la regia. Avvicina il cannone all'orecchio: un raschio? uno stridìo? un pigolìo? ma che minchia ha sentito? Adesso sta smanettando col lubrificante e la punta dello scovolo. E' andata? Verificare, verificare sempre – TRA-ATRACK! Lei sente le vertebre cervicali che le mordono il collo nello sforzo della gola per impedirsi l'urlo. L'ingiuria la furia. Lo guarda lo guata lo sguarda. Il lupo affamato è diventato un leone sazio. Soddisfatto. Tronfio. Pesante. A lei non sono mai piaciuti i leoni. Meno ancora le piacciono i mafiosi coi quali se la va facendo adesso. Ci ha provato una volta sola a incontrarli con lei, e gli è bastato. Poi, appuntamenti dissimulati, incontri che c'erano e non c'erano, niente-di-importante piccola. Ma lei non ci era arrivata facendosi toccare le cosce nei night alle camicie da notte che costavano quanto, dalle parti dove erano cresciuti loro, bastava a una famiglia per campare un mese (la prima volta che lo aveva raggiunto a letto indossando quel simbolo del loro trionfo che lui le aveva appena regalato, gli aveva impedito di sfilargliela, “no, strappamela di dosso, voglio sentire che la riduci in stracci con le tue mani”, e davanti alla sua esitazione di ragazzo troppo a lungo povero “strappala, e giurami che non dimenticheremo mai come facciamo i soldi, giurami che non dimenticheremo mai che li prendiamo per il piacere di prenderli non di averli”). Così, ci aveva messo poco a capire cosa stava accadendo, e una sera: “Ti sei messo a fare il magnaccia, tesoro?”, gli aveva detto accarezzandogli i capelli. Lui aveva esibito la durezza minacciosa e sbrigativa che usava sempre quando si sentiva in difficoltà: “Non dire cazzata. Tu e la tua mentalità da randa di strada. Questo è il giro grosso ragazza, qua si parla di commercio internazionale, di investimenti da far inchinare le banche, di finanza”. “Hai ragione amore mio, io la finanza non la capisco. Ma il commercio sì. Bè, quello internazionale magari non lo conosco, ma se si chiama commercio sempre di comprare e vendere si tratta, no? E tu allora, cos'è che compri e vendi adesso?” “Tutto. Tutto quello che gira e tutto quello che i fessi imbottiti di soldi sono disposti a pagare, armi e ristoranti di lusso, complessi residenziali e cocaina, tutto”. “Donne, anche?”. Esasperazione di minaccia: “Sì, anche donne, e allora?” “Allora è come dicevo io, no? Ti sei messo a fare il magnaccia, tesoro”. Nello sguardo che le aveva dedicato c'era tristezza autentica, una tristezza che era già rimpianto. Perché lei non era una che si poteva liquidare con poco, e neanche con molto. Gli sarebbe toccato liquidarla e basta. La sua pupa speciale. Ma la femmina che aveva fatto gonfiare il petto d'orgoglio al lupo affamato stava diventando una bomba a tempo per il leone tronfio. Sì, con tristezza autentica che era già un addio l'aveva guardata, e le aveva sfiorato i capelli. Dimenticandosi che, tra loro due, era lei quella più intelligente. Un tempo non lo avrebbe fatto questo errore. La manutenzione è andata finalmente, ora c'è solo da inserire il caricatore, e scarrellare di nuovo per mettere il colpo in canna... Ecco: TRA-ATRACK! Lui vede il sorriso sulle sue labbra prima della rivoltella nella sua mano, è il sorriso sconosciuto che gli gela la faccia, della rivoltella si accorge solo quando sente la detonazione e l'impatto, che lo fa rimbalzare sullo schienale della sedia (piccola, elegante, non fa tanta scena la sua rivoltella, ma l'impatto del calibro 38 si sente eccome). Si accascia lentamente mentre il sangue gli invade il petto, lentamente scivola sul pavimento. Lei si alza dal letto, si avvicina, lo sovrasta, il suo maschio che sta morendo, e, lentamente, si strappa di dosso la camicia da notte che costa l'umiliazione delle donne comprate e vendute, e lascia cadere i brandelli sul petto di lui che subito li risucchia nel sangue. Il suo ultimo sguardo che si appanna è come all'inizio, ammirazione, orgoglio: quale altra pupa sarebbe stata capace di fotterli, lui e il suo cannone, prima che loro fottessero lei? La donna sblocca il tamburo del revolver e lo apre con un movimento del polso, per estrarre il bossolo e inserire un nuovo proiettile: CLOC. Sobrio. Essenziale. Nessuna esibizione di pericolosità. Lui aveva insistito tante volte perché si decidesse a scegliere un'automatica, vuoi mettere la potenza di fuoco, e se una calibro 9 era troppo pesante poteva prendersi una 7-e-65, ma lei aveva resistito, vuoi mettere il piacere del calcio di legno levigato, arrotondato, l'equilibrio di linee tra la canna corta e la sua mano? E poi non lo aveva mai sopportato, lo scarrellamento. Resurrezione di Angelo Scotto Quando aprii gli occhi, capii di essermi cacciato in un guaio. Ero seduto con la schiena appoggiata alla ringhiera di una scala che portava in un sotterraneo, una gamba piegata e l’altra distesa, un po’ come Adamo quando ricevette la scintilla della vita dal barbuto Signore nella Creazione di Michelangelo. E il paragone poteva anche continuare, perché come Adamo ero nudo, e come Adamo la mia vita era appena cominciata. O meglio, ricominciata. Che fossi nudo, l’avevo capito dalla sensazione di freddo sulla pelle, nonostante non ci fosse che una brezza leggerissima. Mi passai una mano sullo stomaco, sull’inguine e sulle gambe per accertarmi che l’intuizione fosse giusta. Non potevo vedere bene il mio corpo, perché era notte fonda, e non c’erano lampioni vicino a me, tranne uno che era però rotto. Una sfortuna, visto che un po’ a distanza ce n’erano altri che invece funzionavano benissimo, e rischiaravano con il loro neon gli alti edifici del cimitero. Sino all’istante prima di aprire gli occhi ero morto. Non potrei offrire una prova di questa affermazione, ma così stanno le cose. Di fatto, sono risorto. Gli argomenti a favore non mancano: innanzitutto, mi ero ritrovato nel cimitero, per di più nel settore dove venivano sepolti i defunti più recenti, come ben testimoniano le strutture in costruzione che intravidi poco lontano. Poteva essere uno di quei rari casi di risveglio da uno stato di morte apparente? Ma io non mi ero svegliato. Avevo aperto gli occhi acquistando totale coscienza in quel preciso momento, non avevo recuperato i sensi un po’ alla volta, né mi ero chiesto “dove mi trovo?” in preda allo smarrimento. Ero tornato in vita, ed ero consapevole di ciò sin dal primo istante. Del resto, se fosse stata morte apparente mi sarei dovuto risvegliare disteso nell’obitorio, o addirittura all’interno del loculo – e in tal caso avrei fatto meglio a non risvegliarmi, tanto a quel punto ero spacciato – e avrei avuto qualche vestito addosso. E invece no, ero seduto e senza abiti. Certo, visto che mi avevano fatto risorgere fuori dalla tomba avrebbero potuto farmi tornare in vita in qualche altro posto, e magari con una dotazione che andasse oltre il corpo, ma c’è poco da fare: le cose erano andate in quel modo. Forse tutto questo non basta a rendere credibile l’idea di una resurrezione. In effetti si tratta di un evento così straordinario che riesce difficile prenderlo per vero. I seguaci del paranormale hanno un grande difetto, lo dicevo sempre quando ero vivo la prima volta: di fronte ad un fenomeno di cui la scienza non sa dare spiegazioni, essi dicono “è inspiegabile!” e quindi vi allacciano le loro strampalate teorie; non occorre essere geni per capire che se una cosa non ha spiegazioni ora non vuol dire che non possa essere spiegata in futuro, con gli sviluppi della conoscenza. Eppure adesso mi trovo io in una situazione che può essere senza dubbio definita paranormale, e se una spiegazione razionale c’è temo che sia ad un livello di conoscenza così alto che la nostra scienza non solo non l’ha ancora raggiunto, ma nemmeno prevede di raggiungerlo in tempi brevi, laddove per brevi intendo secoli e millenni. Di fronte a qualcosa del genere la tentazione è di sminuire tutto, negare il problema alla radice, far partire tutto da un errore, da una percezione sbagliata. Sia chiaro che questo metodo non mi sembra affatto sbagliato, io l’ho usato spesso e probabilmente lo userei anche ora in altre questioni; con tutti i problemi e le preoccupazioni che ci sono nella vita, figuriamoci se si può perdere tempo anche appresso a storie bizzarre ed inspiegabili, meglio ridurle a sciocchezze e andiamo avanti. Però adesso io non lo posso fare, perché sono al centro della storia. Non posso ridurre tutto ad uno scherzo della mente, anche se in teoria potrebbe anche essere questa la risposta. Sono morto e sono tornato in vita, e se qualcuno vuole impiegare un po’ del suo tempo ad ascoltarmi non mi chieda spiegazioni più precise, perché non le posso dare. So delle cose che per me confermano quello che sto dicendo, ma per gli altri non sarebbero che chiacchiere in più, strutture di sicurezza di un edificio a cui mancano le fondamenta. Mi immagino qualcuno che si fa avanti e con il sorriso con le labbra dice che non importa, meglio di niente, ascoltiamo queste cose, lascia che siamo noi a giudicare la loro credibilità. Apro la bocca e so già che nulla di ciò che uscirà dalle mie labbra sarà considerato vero, a priori, una consapevolezza che in altre situazioni mi farebbe perdere la calma e reagire male, ma non adesso: non ho nulla da perdere, ma non posso perdere nulla. Nessuno mi lega, ma sono come in una gabbia, e faccio quel che mi è concesso di fare. Quindi parlo, e racconto la circostanza che ai miei occhi dimostra la mia resurrezione. Ricordo il momento della mia morte. Suona il citofono. Abbandono a malincuore Naomi Klein e vado a rispondere. “Sono Enzo” “Che vuoi?” “Posso salire? Devo parlarti” Perché non so dire di no? Sono giorni che mi assilla con questa storia. Ma gli apro il portone. Tempo tre minuti e bussa alla porta di casa. “Io non ce la faccio più” mi dice mentre preparo un caffé. Sarei tentato di dirgli “Nemmeno io” ma mi trattengo. “Se Elena mi lascia io la ammazzo” continua. “Messa così è un po’ brutale” “Ma mi devi credere, io non vivo senza di lei” “Ci credo, ci credo. Ma se dovesse lasciarti, non faresti meglio ad ammazzarti tu? Almeno rovini la vita ad una sola persona invece che a due” “Senti, io ho bisogno di parlare, ci sto male cazzo, non fare lo stronzo” “Scusa tanto, eh, ma tu parli di ammazzarla e sarei io lo stronzo? Che poi, a rigor di logica, se non vivi senza di lei ucciderla non mi sembra il modo migliore per risolvere il problema” “Tu non capisci” “Già, sarò scemo” Segue una pausa, in cui il caffé inizia ad uscire. Caffé “Zapatista”, costa un occhio ma è da provare, se non altro per sentirsi sovversivi maneggiando una cuccuma. “Quanto zucchero?” “Due cucchiaini. Non troppo zucchero in ogni cucchiaino” “Sei così pignolo anche con Elena? Ora capisco perché ti vuole lasciare” “Ti ho già detto di non fare...” “... lo stronzo, lo so. Ma se permetti tu sei venuto qui a casa mia per parlare con me, non il contrario, quindi dico quello che voglio, e se non ti va bene quella è la porta, chiaro?” Porgo la tazzina ad Enzo, che la prende e deglutisce. “Ti credevo un amico” “Penso di esserlo. Ma non per questo devo sempre acconsentire a tutto quello che dici, soprattutto quando è del tutto sballato” “Dico cose sballate, secondo te?” “Fai cose sballate, e di conseguenza le dici anche. Poi magari sbaglierò io, ma sino a prova contraria quello che sta male sei tu” “Mica l’ho deciso io di stare male, lo sai” “Però contribuisci” “Allora vedi che dici che sono io a sbagliare?” “E certo che lo dico! Se Elena ti vuole lasciare è anche colpa tua” “Ma è più colpa sua! Lo sai meglio di me come sono andate le cose” Mi manca l’università. Ma mi sono laureato e non ho trovato un cazzo, quindi eccomi di nuovo in questa città, a vivere in casa dei miei, in attesa di un posto promesso che chissà quando si libererà, tra i rimpianti di scelte avventate e i problemi di conoscenti di un tempo trasformatisi in ottimi lavoratori e pessime persone. Non mi stupisco di essere diventato molto più intollerante ai questuanti. “Ok, allora ripetimi come sono andate le cose, così chiariamo la situazione” “Elena non si è comportata bene, lo sai. Una volta ho sgobbato sino alle undici di sera per finire un lavoro, torno a casa distrutto e chi vedo nel bar all’angolo? Lei con un altro!” “Udite udite” “Come sarebbe a dire udite udite?” “Sarebbe a dire che era un amico, non un amante... era Gigi, per la madonna! Si conoscono dalle elementari!” “Ma ti pare bello che alle undici di sera si trovasse con un altro uomo mentre io lavoravo? Che poi mica è stata la prima volta che si è vista con altri” “Altri amici” “Ma sempre altri” “Ma te sei di coccio, fattelo dire! Sai cosa vuol dire “amico”? Avrebbe potuto uscire anche con me, volendo!” “Con te?” chiede lui guardandomi con occhi ridotti a spilli. “Si fa per dire, non è uscita con me, tranquillo...” “E vedi di non dirlo... insomma, avevo dei buoni motivi per arrabbiarmi con lei” “Non avevi dei buoni motivi per darle quello schiaffo” sbotto io, arrivando al punto. “È stata una reazione spontanea!” “E secondo te questo sminuisce la cosa? Io nemmeno capisco perché Elena ci stia riflettendo ancora, se lasciarti o meno!” “Ma insomma, tu da che parte stai?” grida Enzo esasperato. “Dalla mia” urlo pure io, e lì per lì non realizzo che la frase potrebbe essere interpretata nella maniera sbagliata. Enzo comunque sembra afflosciarsi quando alzo la voce. Non ha nemmeno bevuto tutto il suo caffé. Si alza senza dire una parola. Lo prendo per un braccio. “Devi imparare a controllarti. Cerca di essere più tollerante. Secondo me Elena ti lascerà, ma non vuol dire che è finito tutto. Se davvero non vivi senza di lei, trattala con più fiducia, e vedrai che tornerà” Cerco di confortarlo così, e lo accompagno alla porta. Gli chiamo pure l’ascensore. Quando lo vedo entrare, chiudo la porta con un sospiro di sollievo. Non riesco a fare due metri che sento suonare alla porta. “Ma che rompicoglioni!” esclamo, troppo seccato per preoccuparmi di non farmi sentire. Apro la porta e inizio a dire “Insomma che vuoi ancora?” ma non faccio in tempo ad arrivare al “che”: Enzo mi sferra un pugno che mi rompe gli occhiali. Cado all’indietro, sbatto la testa. Un dolore acuto, ma non così tanto da svenire. Forse sarebbe stato meglio. La lente destra è andata in frantumi, piccoli pezzi mi squarciano il volto e si infilano negli occhi, il sangue mi annebbia. Ho sempre avuto il terrore di perdere la vista, ora ho due terrori in pochi secondi. Cerco di alzarmi ma Enzo mi sferra un calcio nello stomaco, mi raggomitolo come un lombrico. Mi dà un altro calcio, un altro ancora. Boccheggio. Nella mente migliaia di pensieri sconvolti come una mandria di animali chiusi in un recinto in fiamme, così caotici e confusionari da diventare quasi fisici, al punto che a malapena sento quello che mi urla dietro, riesco appena a sentire uno “stronzo!” digrignato. Ora mi prende a pugni sulle spalle, sui fianchi, sulla testa. Mi copro il capo con le braccia, e non so come ma riesco a vedere i suoi piedi a pochi centimetri dai miei: una riflessione fulminea, ruoto sul parquet e gli faccio lo sgambetto con entrambe le gambe, cade pesantemente a terra. Non ho la forza di alzarmi, ma orientandomi a tentoni striscio verso il salone, lì a fianco del caminetto c’è il telefono più vicino. Chiamare aiuto, chiamare i miei, chiamare qualcuno. Enzo non mi raggiunge subito, è talmente infuriato da aver quasi perso la coordinazione del suo corpo, lo sento che mentre si rialza si aggroviglia su sé stesso e cade di nuovo. Mi conforta, magari riesco a risollevarmi prima che mi raggiunga. Ma quando arrivo al tavolo del salone, al telefono, alla salvezza, un colpo tra le scapole mi tramortisce: Enzo si è rialzato, ma non è corso subito da me, prima è andato al caminetto e ha preso l’attizzatoio, quello con cui mi ha colpito e con cui mi colpisce ancora, più volte, sino al colpo definitivo che spegne la luce. Beh, non è un bel modo di morire. Ma esiste un bel modo? Sembrerà strano, ma non provo odio o desiderio di vendetta nei confronti del mio assassino. Non credo sia virtù, semplicemente ho cose decisamente più importanti a cui pensare in questo momento. Credo che non ci sia bisogno di spiegare il motivo. Quello che è successo dopo l’uccisione, l’ho già detto. Ho aperto gli occhi, ero nel cimitero, sapevo tutto. Ma quest’ultima cosa non è vera, non sapevo tutto, anzi, a pensarci bene sapevo solo il minimo. Sapevo di essere tornato dalla morte. Bella notizia, eh. Presa così, da sola, è un impiccio più che altro. Se qualcuno mi credesse, come prima cosa mi chiederebbe cosa c’è dopo la morte. La domanda definitiva. Sono convinto che tutte le religioni siano nate da qua, dal quesito che pone tutti gli altri. Curioso che ogni religione ci parli dell’inizio, del Dio che crea, ma tutto in funzione del problema della fine. Se potessi rispondere a questa domanda sarei il padrone del mondo, anche gli uomini più potenti verrebbero da me a chiedere lumi, e forse potrei dettare nuove regole di comportamento che tutti accetterebbero. Disgraziatamente, non posso rispondere. Non mi ricordo cosa c’è dopo la morte. Tiratemi pure i pomodori marci, ma non imploratemi di fare uno sforzo di memoria: non è che ho dimenticato, la memoria – se di memoria si può parlare per l’aldilà – è stata cancellata, resettata, formattata. So che tra l’istante in cui i miei organi vitali avevano smesso di funzionare e quello in cui ho riaperto gli occhi c’è stato qualcosa, ma non so cosa. Non posso definirlo un vuoto, al massimo un pieno, se mi si passa il gioco di parole: è come un blocco oscuro di cui non so nulla, ma la sua presenza in sé non mi turba, almeno finché non inizio a pormi delle domande. Ma di questo ne parlerò dopo. Ho detto anche che ero nudo. È stato un brivido di freddo a farmi porre la prima domanda: e adesso che faccio? Sapevo di essere risorto, ma tutto il resto era sospeso nella nebbia del dubbio. Ad esempio: i ricordi e la personalità erano indubbiamente gli stessi che avevo prima della morte, ma il corpo? La prima domanda di una lunga serie, ma almeno a questa era facile rispondere: mi alzai e corsi verso il più vicino lampione funzionante, in modo da potermi controllare. Sicuramente l’altezza era quella giusta, e quando fui sotto la luce verificai che anche il resto corrispondeva: avevo la stessa pancia, lo stesso petto, le stesse gambe. Il pene era della stesse lunghezza, avevo pure gli stessi nei. Indubbiamente, era il mio corpo. Non c’erano specchi nei paraggi, ma a quel punto era logico supporre che anche il volto fosse rimasto uguale, e con una carezza sulla guancia verificai che avevo anche la barba di tre giorni, esattamente come nel giorno della morte. Con questo potevo escludere la possibilità di una reincarnazione dell’anima in un altro corpo – idea assurda, d’accordo, ma nella mia situazione nessuna assurdità può essere esclusa, temo – e devo ammettere che questa conclusione mi aveva instillato uno strano senso di sollievo e tranquillità, del tutto immotivato se ci si riflette razionalmente, ma evidentemente non seguivo molto la logica in quel frangente. Comunque, sta di fatto che sapendo di essere nel mio corpo e non in altri mi sentii più leggero, al punto che per la prima volta dal ritorno mi posi la domanda su come era possibile che io fossi risorto. Non avevo una spiegazione da darmi, ma il primo pensiero che mi venne in mente fu il ricordo di un sogno che avevo fatto molti anni fa, dopo la morte di mio nonno. Avevo sognato che ero in casa mia, in cucina, e c’era la tavola apparecchiata per cena – tovaglia rosa, trama a quadri, zuppa indefinita nei piatti, crostini di pane che galleggiavano – tutti eravamo seduti intorno, e c’era anche mio nonno. “Ma com’è possibile?” dissi io “Il nonno è morto”. E mio padre sorridendo rispose: “Non lo sai? Dopo un po’ di tempo i morti ritornano in vita”. Era solo un sogno, naturalmente, e abbastanza insensato, anche se ora lo trovo calzante a dir poco. Ma so bene che non è questa la spiegazione, visto che sino a prova contraria non si hanno notizie di morti che ritornano, né pochi né tanti. Ma il ricordo del sogno suscitò un nuovo dubbio, più terra terra: quanto tempo era passato tra la morte e la resurrezione? La questione è importante, fondamentale oserei dire. Per quanto ne sapevo, potevano essere passati pochi giorni così come dieci anni, se non di più. Forse il ricordo di me era ancora fresco e sanguinante nei miei parenti ed amici, o forse ormai erano scomparsi i primi e lontani i secondi, chi poteva dirlo? Dovevo cercare di capire la data in cui ero tornato a vivere, ma appena pensai questo realizzai anche come fosse difficile mettere in pratica tale proposito: ero chiuso in un cimitero di notte, e quindi sarebbe stato un problema già uscire, per di più ero nudo, quindi diventava difficoltoso anche raggiungere le zone abitate: come fare a trovare un punto di riferimento temporale? Probabilmente nei cassonetti e nei cestini c’erano molti fogli di giornali recenti, riciclati dopo la lettura come involucro dei fiori per i cari estinti, ma mettersi a frugare al buio nei rifiuti non era un’idea molto allettante. In quella situazione, l’unica era uscire dal cimitero. Non potendo contare su indicatori precisi, dovevo cercare di osservarmi intorno e dedurre dallo scenario cittadino quanto tempo era passato. Nel cimitero non potevo riuscirci, in più di vent’anni l’ho sempre visto uguale, sempre come ora. Dovevo uscire, e purtroppo non dalla porta principale, dove sarebbe stato facilissimo incappare nei custodi, e non era il caso. Ma sapevo come uscire senza dare nell’occhio, perché già una volta, in passato, ero entrato in un cimitero di notte. SCENARIO: aula della classe quarta della sezione D PERSONAGGI: Io, Fabio, Massimo (mi fossi chiamato Quinto, sarebbe stato da ridere) Fabio: Il 2 novembre cade di sabato quest’anno Io: Ponte Massimo: Ponte Fabio: Già, ponte. Risate Massimo: Perché non venite a casa mia? Passiamo la mattinata a giocare a Metal Gear Solid Fabio: Eh, magari, io devo andare con i miei al cimitero. Due palle... Io: I miei non ci vanno mai il 2 novembre, dicono che c’è troppa ressa. Andiamo sempre qualche giorno dopo o qualche giorno prima, tanto l’importante è fare la visita Fabio: I tuoi sono furbi Risate Massimo: Però sul serio, uno va al cimitero e vorrebbe un po’ di raccoglimento, se ci vanno tutti insieme sai che casino Io: L’ideale sarebbe andarci di notte Fabio: Io avrei paura ad andarci di notte Io: Perché? Sempre tombe sono, non è che cambia molto Fabio: Ma sai, è comunque il cimitero, l’atmosfera mi farebbe impressione... e poi in tutti i casi non si può Massimo: Non si può per modo di dire, non credo che ci siano così tanti guardiani Io: Tutto sta ad entrare senza farsi vedere, poi si può girare indisturbati, penso Fabio: Ma perché entrare in un cimitero di notte? Massimo: A forza di parlarne mi sta venendo voglia di provarci davvero Io: Si può fare, no? Così per curiosità Alla fine lo abbiamo fatto sul serio. Non è stato difficile entrare, una parte della cinta muraria dava sulla strada che portava alla tangenziale, e quella parte del cimitero, che io conoscevo bene perché ci passavamo sempre per andare a visitare i nostri morti, non aveva altre protezioni da eventuali intrusi. Così superare il muro ed introdurci nel camposanto non fu niente di che, non certo un’impresa su cui spendere parole. Il giorno dopo anche Fabio disse che in fondo si aspettava qualcosa di più da quell’incursione notturna. Chi si poteva spaventare per i lumicini delle tombe che brillavano nell’oscurità? Roba da quattro soldi. Di quella notte rimase solo una certa fama nella scuola e un set fotografico – ovviamente anonimo – che girò molto su internet. E la sensazione, che Massimo mi confidò solo molto tempo dopo, stupendosi che anche io l’avessi provata, che qualcuno ci stesse osservando. Ebbi qualche difficoltà a trovare il muro che separava il cimitero dal mondo esterno: erano passati anni dal nostro blitz notturno, e mi trovavo in una delle zone nuove, dove non ero mai stato primo. Così dovetti vagare un bel po’ tra le tombe, con la paura di essere scoperto da qualche custode, prima di riuscire ad orientarmi e a raggiungere il luogo giusto. Scalare non fu un problema, il lato interno del muro aveva un bel numero di crepe e di sporgenze di pietra su cui era facile arrampicarsi. Tuttavia non scavalcai subito il muro, dovevo prima controllare che non passassero automobili. Ne passò una, era una Punto, il che mi fece ben sperare di non essere risorto in un lontano futuro, anche se non era sufficiente a delimitare meglio il periodo. Aspettai ancora qualche minuto, ma non si vedevano altre auto, e nel silenzio della notte non si sentivano nemmeno rumori che ne preannunciassero l’arrivo, così mi decisi a scendere dall’altro lato della strada. Dannazione alla nudità, però! Anche se non si vedeva nessuno nel raggio di un chilometro c’era sempre il rischio che qualcheduno arrivasse all’improvviso, e un eventuale incontro non sarebbe stato piacevole né per me né per lui. Per questo mi guardai intorno cercando riparo, e lo trovai dall’altro lato della strada, dove a fianco del cancello di ingresso di una officina c’erano due grossi bidoni: corsi là, e mi nascosi dietro, l’odore non era il massimo ma era sopportabile, visto che erano vuoti. Appena mi fui accovacciato dietro ai bidoni osservai i manifesti che erano appesi ai muri che davano sulla strada: erano pubblicità di una concessionaria di automobili, ma a lato di uno si intravedeva ancora il bordo di un poster precedente che riconoscevo, essendo un manifesto elettorale. Finalmente un segnale concreto: le elezioni per il sindaco si erano tenute due settimane prima della mia morte, e anche alla luce dei lampioni si vedeva bene che il poster elettorale non era stato coperto da molto. Dunque potevo dirmi ragionevolmente sicuro che la mia resurrezione si era verificata poco dopo la mia morte, quasi sicuramente dopo il funerale. Per un po’ queste conclusioni mi fecero sentire bene: poter scartare l’idea di essere stato proiettato in qualche periodo remoto, in cui ero una entità inesistente mi dava un sollievo che potete immaginare. Ma se siete in grado di immaginarlo facilmente è perché siete vivi, avete una famiglia, una rete di relazioni sociali, e siete in grado di immaginare come sarebbe la vostra vita se improvvisamente vi trovaste in un altro tempo in cui non conoscete nessuno e anzi nemmeno dovreste esistere, a rigor di logica. Il solo pensiero del vuoto pauroso in cui verreste a trovarvi vi fa saggiare con mano la pienezza della vostra vita attuale. Quella che io non ho più. Me ne resi conto lentamente, ma fu un duro colpo: se ero tornato poco dopo la mia morte, allora i miei genitori (a meno di improbabili infarti da lutto) erano ancora vivi, e lo stesso dicasi per gli altri miei parenti ed i miei amici. Sarei dovuto tornare da loro, ma come avrebbero reagito? Difficilmente mi avrebbero considerato un impostore, e se anche lo avessero fatto penso che sarebbe basta qualche analisi a dimostrare che ero proprio io. Più probabile una prima reazione di gioia senza domande, abbracci, lagrime e grida del tipo “è un miracolo!”; ma poi? Avrei dovuto spiegare loro che ero risorto, e forse mi avrebbero creduto. Anche gli amici, magari con qualche difficoltà in più. Ma tutti gli altri? Una notizia così si diffonde subito: ragazzo ucciso torna in vita. Tra l’altro, nel mio caso ci sarebbero anche un bel po’ di prove documentate: il mio omicidio, prevedibilmente finito nelle pagine di cronaca locale e anche nazionale (ora che ci penso, sono curioso di leggere le notizie della mia morte sul giornale, devo fare un salto in biblioteca); il funerale, che avrà richiamato un certo numero di persone; e ora il mio innegabile ritorno. Altro che tutti quei casi misteriosi di persone in coma che secernono oli miracolosi, o di giornalisti che sostengono di essere stati rapiti dagli alieni: ho tutte le prove in pugno per dimostrare che non sono un truffatore. Ma a che servirebbe? Non mi crederebbero lo stesso. Magari nella mia città sì, poi allargandosi alla provincia, all’Italia, al continente e al mondo aumenterebbero sempre di più gli scettici e quelli convinti che si tratti di una grande montatura. Naturale, del resto, no? Anche io reagirei così se mi trovassi dall’altro lato dell’evento. Ma se mi credono? Scienziati da tutto il mondo verrebbero a studiarmi; teologi ed esponenti di parecchie religioni vorrebbero parlare con me; pellegrini, di sicuro, a frotte, magari torme di malati, affetti dai morbi peggiori, di quelli la cui sola vista provoca turbamento, cercherebbero il contatto con me. Non avrei più una vita privata, sarei travolto da questa ondata di estranei, senza nemmeno potermi difendere: se ho avuto la fortuna di risorgere, non posso certo arrogarmi il diritto di impedire a loro di esaminarmi per trovare delle risposte ai loro dubbi, ai loro problemi, alle loro paure. Arriverei al colmo del paradosso: tornando in vita, morirei, perché non esisterei più per quello che sono, ma solo in quanto risorto. E in questo infausto destino sarebbe coinvolta anche la mia famiglia. Tra l’altro, sono davvero sicuro che mi accetterebbero? Sono miei parenti, certo, ma sono anche individui: l’idea di vivere con una persona tornata dalla morte sarebbe accettabile? Io stesso l’accetto solo perché ho sperimentato il ritorno, anche se non lo capisco, come un dato di fatto, ma per gli altri anche la sola idea può essere insopportabile. Riflettevo su tutto questo, e sempre più sentivo l’angoscia montare dentro di me: già riuscivo a fatica ad accettare di essere al centro dell’attenzione di milioni di persone, ma il pensiero di coinvolgere anche quelli a cui voglio bene era decisamente intollerabile. Avevano sofferto già abbastanza a causa mia, sia per la mia morte che per la mia condotta precedente; non potevo far loro altro male, non volevo. Meglio allora non farmi vedere da loro: il lutto era triste, ma poteva essere elaborato e superato, e almeno aveva il pregio di restare nel comodo alveo dell’ordinarietà. Quindi dovevo cambiare vita, lasciare la mia città e andare altrove, in un posto dove nessuno mi conoscesse, assumere un nuovo nome e ricominciare da zero, un po’ alla Mattia Pascal. Con la differenza che il buon Mattia aveva con sé una somma consistente vinta a Montecarlo, e io non avevo nemmeno un paio di mutande. Avrei dovuto trovare dei vestiti da qualche parte, magari rubarli da quei raccoglitori che mettono vicino alle chiese, dove le anime buone lasciano gli abiti usati per i poveri, e i poveri nottetempo cercano di rubarli, rimangono intrappolati nell’astruso meccanismo di apertura e muoiono soffocati. Oppure avrei potuto aggredire qualcuno per strada, così oltre ai vestiti avrei ricavato anche un po’ di soldi, quanto basta per comprare un biglietto del treno ed arrivare in un’altra città. Avrei dovuto pensare anche ai documenti, ed ecco un nuovo problema: non conoscevo nessuno che sapesse falsificare i documenti, era un ambiente che non avevo mai frequentato. Non avevo nemmeno idea di dove andare, a chi rivolgermi: sicuramente a persone o gruppi impegnate in attività illegali, il che significava che avrei dovuto entrare in quel genere di lavori – e del resto cos’altro avrei potuto fare, senza soldi e senza identità? Uno scenario non certo allettante: non potevo definirmi un bravo cittadino, ma comunque mai mi ero immischiato con bande criminali o simili. Avrei dovuto farlo adesso? E a prescindere dai miei scrupoli etici, anche il riuscire ad arrivare a tanto, e a ottenere nuovi documenti e nuova identità, senza farmi scoprire prima era oggettivamente difficile, almeno per me. Ma non c’era altra strada, se non quella di dichiararmi urbi et orbi un risorto, e diventare un fenomeno da baraccone, costretto ad ascoltare domande a cui non sarei stato in grado di rispondere. Sono le stesse domande che mi pongo ora: perché sono risorto? Cerco di individuare tutte le possibili risposte, di selezionare le più probabili per via logica. Non è un granché, visto che in questa storia è proprio la logica ad essere stata bandita prima di ogni altra cosa, ma non sono in grado di fare altro. Escludiamo l’idea che accada a molti, e tutti scompaiono creandosi un’altra vita come ho pensato di fare anche io. Se anche fosse vero, non risponderebbe all’interrogativo principale. Escludiamo anche la possibilità della pazzia: potrebbe anche essere, ma ovviamente se sono pazzo non posso saperlo. Chiarito questo, la prima possibilità è che sia arrivato il giorno del giudizio. Ma se così fosse tutti dovrebbero risorgere, e dovrebbero succedere grandi sconvolgimenti, e invece non mi pare che ci siano altri nella mia condizione, e la vita della città, e suppongo anche del mondo, va avanti come sempre. Tendo a scartare questa ipotesi. La seconda opzione è che io sia tornato in vita per compiere una missione affidatami nelle alte sfere. In tal caso, i papaveri dell’Empireo devono essere incappati in qualche disguido burocratico perché quello che mi manca, disgraziatamente, è proprio la missione, per non parlare della conoscenza stessa dell’aldilà, che dovrei avere – perché so di essere stato da qualche parte, anche se non mi ricordo dove – ma non ho. A pensarci bene, è questa la disgrazia peggiore della mia già disgraziata situazione. Prima di morire dicevo sempre che se avessi visto un fantasma sarei stato la persona più felice del mondo, perché almeno avrei saputo cosa c’è dopo la morte, e mi sarei regolato di conseguenza. Ora sono morto, sono tornato e continuo a non sapere cosa c’è dopo. Se nel Guinness dei primati c’è una sezione dedicata alla sfortuna, mi prenoto di corsa (ma essendo sfortunato non posso dimostrare niente, quindi nemmeno posso entrare nel catalogo dei record). È un problema perché, come se non bastassero tutte le incertezze sul futuro che questa condizione di risorto mi crea, adesso ho anche un bel carico di questioni teologiche che non so come affrontare. E già, perché se almeno questa resurrezione fosse utile per mettere dei paletti nell’intrico delle religioni potrei avere qualcosa con cui consolarmi, e magari potrei inventarmi un lavoro come teologo. E invece no, non mi aiuta in alcun modo. Stando alle mie scarse conoscenze in materia di religione soltanto nel cristianesimo è contemplata la resurrezione, non nella forma in cui sono risorto io ma insomma, qualcuno che si è alzato dalla tomba c’è. Però in quello che mi è successo c’è ben poco di cristiano, non dovrebbe funzionare così. La prova definitiva che la Sacra Romana Chiesa sbaglia? Purtroppo no, perché resta il fatto che sono un caso isolato, e se ora sono qui ci potrebbe benissimo essere un motivo che non confligge con la dottrina, del resto se il Signore è onnipotente può ben fare quello che vuole, no? Anche se di solito l’onnipotenza divina viene relegata in secondo piano, perché altrimenti non si può spiegare più niente e ogni religione perde senso, quindi meglio accettare il dogma che Dio è onnipotente però sceglie di limitare la propria onnipotenza, per qualche disegno non ben specificato. Comunque, tornando al discorso di partenza, l’idea della missione è viziata dal non sapere in cosa consisterebbe. Magari devo incontrare qualcuno che mi spiegherà cosa fare, ma per il momento non ho ancora visto nessuno, e l’idea mi sembra sinceramente strana: non facevano prima a dirmelo subito? Perché dovrei ricevere informazioni da altri? Forse non sono ancora pronto per la missione che mi è stata affidata, e ho bisogno di una crescita interiore in stile X?yóu Jì, ma questo vorrebbe dire che ero predestinato sin dalla nascita a questo scopo. Se fosse così, potrei smettere di preoccuparmi, ma purtroppo non ci sono elementi a favore di questa possibilità, se non il fatto di poterla ipotizzare. E poi, se dovessi ricevere istruzioni su quel che devo fare, perché togliermi la memoria di ciò che mi è successo nell’aldilà, pur lasciandomi la consapevolezza di esserci passato? Non ha il minimo senso. Magari sono stato io stesso a scegliere di tornare dall’aldilà. Può darsi che ci sia questa possibilità, e che la usino in pochissimi perché da morti si trovano meglio, mentre io ovviamente sarei tra gli stupidi che non si accontentano e si cacciano nei guai. Ma anche questa idea non mi convince, perché conoscendomi se avessi deciso di tornare prima mi sarei informato sui modi. E sarò cretino, ma non al punto da accettare le condizioni in cui mi trovo adesso. A questo punto resta l’ultima possibilità: il mio ritorno è una punizione. Le modalità sembrano suggerire proprio questo: se torno in vita, non mi ricordo niente, non ho speranze di riprendere la mia esistenza precedente alla morte e in più sono dilaniato da dubbi e incertezze, al punto che ho più paura di vivere che di morire, al contrario di quasi tutti gli esseri umani, non può essere che una punizione. [A proposito: ma ora che sono risorto, posso morire di nuovo? Ecco un’altra domanda, come se non ne avessi già abbastanza per la testa. Ho un corpo fisico, provo delle sensazioni. Se mi do un pizzicotto sento dolore, se tiro un pugno ad una parete sento ancor più dolore, quindi in teoria posso anche sperimentare un dolore mortale. Posso morire di nuovo, a quanto pare. Ma poi risorgerei ancora? E ancora e ancora e ancora? Cos’è, l’eterno ritorno in formato speciale?] Una punizione. Ma per quale motivo? Nella mia vita avrò commesso molti errori e molti peccati – ma non sapendo quale sia la divinità che ho offeso, e i suoi criteri di giudizio, chissà quali sono davvero questi errori – però non credo di essermi comportato peggio di tanti altri che non mi pare abbiano subito la mia stessa sorte. O forse ho violato un tabù, senza accorgermene. Però se non l’ho fatto apposta mi sembra una reazione eccessiva, e nemmeno tanto utile, visto che non so quale sia questo tabù, quindi volendo potrei ripetere di nuovo l’errore. O forse la punizione è per qualcosa che ho fatto dopo la morte. È più probabile. Se si era ribellato a Dio Lucifero, che era un angelo e quindi si suppone avesse un po’ più di cervello degli individui comuni, figuriamoci se non può ribellarsi una mente infinitamente più stupida quale è la mia. Vattelapesca il motivo, ce ne sarà stato uno (l’ultima ribellione senza motivo è stata quando a quindici anni ho preso un vaso cinese dal salotto di casa e l’ho messo di nascosto nella busta della roba vecchia da bruciare nel falò del 9 dicembre), e sicuramente doveva essere un motivo idiota: può esistere un motivo intelligente per ribellarsi alla divinità? Può anche darsi che non sia stata una ribellione, ma un errore di altro tipo: anche nell’oltretomba forse si può sbagliare, e figuriamoci se non sbagliavo qualche cosa. Mi riesce un po’ difficile immaginarlo, ma se ragiono in termini generali l’idea di aver fatto qualcosa che non dovevo fare dopo la morte mi sembra la più credibile. Spiega la punizione, e la forma della punizione. Sì, più ci penso e più mi convinco che deve essere andata così. Muoio. Finisco nell’aldilà, qualsiasi esso sia. Qui combino il patatrac. Le alte sfere per punirmi mi fanno risorgere nudo e senza memorie utili, condannandomi quindi ad una seconda vita decisamente precaria e difficile, oltre che lacerata da inquietanti interrogativi. Non fa una grinza. Al 90% è andata così. Cazzo, però. È mai possibile finire così? Essere cacciati dal paradiso, o dall’inferno o da quello che è? E tra l’altro subito, nemmeno qualche millennio di eternità, pochi giorni. A meno che non abbiano voluto fare proprio i bastardi facendomi tornare indietro nel tempo, a pochi giorni dalla mia morte, apposta per confondermi di più le idee. È un’ipotesi balzana, ma come si fa ad escluderla, già la mia resurrezione dimostra che non ci vanno per il sottile, chiunque essi siano. Uso il plurale perché non riesco a immaginarmi una divinità singola che gioca così con la vita delle sue creature, preferisco immaginare un consesso di numi, una sorta di consiglio di amministrazione divino impegnato in un perpetuo brainstorming (e chissà che figata deve essere un brainstorming di onniscienti!): quando si è in gruppo è più facile decidere cose terribili senza battere ciglio, crogiolandosi nella comoda convinzione che il proprio parere negativo sarebbe stato comunque inutile di fronte alla compattezza altrui. Quale megadirettore, per quanto stronzo, licenzierebbe un padre o una madre di famiglia? Ma un consiglio di dirigenti lo farebbe a cuor leggero, ognuno di loro potrebbe affrontare il neodisoccupato dicendo “Non se la prenda con me, è stata una decisione del consiglio”. Allo stesso modo un gruppo di divinità può mandare un defunto allo sbaraglio per punirlo di qualche insignificante meschinità, perché sono troppo modesto per credere di aver fatto qualcosa di seriamente intollerabile per lorsignori. D’accordo, sto sragionando. Utilizzo criteri di giudizio umani per valutare l’operato di dei, o comunque di creature superiori, e non ha senso. Me lo dicevano anche nella prima vita, quando sciorinavo i miei ragionamenti logici sulle contraddizioni della dottrina cattolica mi rispondevano immancabilmente che la fede poteva sussumere questi contrasti e risolverli. Certo, non lo nego: ma io non avevo la fede per crederci (e ora che potrei avere fede, non so in cosa credere), avevo solo la mia razionalità, e nemmeno tanta, ma quanto basta per ritenere assurde le cose in cui mi si chiedeva di credere. Che dovevo fare? Che dovrei fare ora? Rinnegare me stesso? No. No. Ha un bel suono. No. “Sapete dire solo no”, parola di insegnante, di ingegnere, di politico. Giudizio negativo quanto mai esplicito. Ebbene, è vero. Non l’ho rivendicato quand’ero in mezzo ai cortei, o tra i miei immusoniti compagni di liceo, o nell’angolo di una discussione, ma lo faccio adesso, e scusatemi se uso il plurale ma è vero, sappiamo dire solo no (non a caso dico “è vero” e non “sì”). Ma è un no che viene dal cervello, non dalla pancia. Il cervello è una rovina, è una macchina che semina dubbi e uccide gli istinti, anche quelli che se soddisfatti ci darebbero gioia. Ma purtroppo è quello che abbiamo, e allora lo rivendichiamo. E diciamo no. A cosa servirebbe il cervello se dovessimo dire sì? Per accettare quanto detto dagli altri non occorre certo il pensiero. Meglio rifiutare. Mi fa sentire meglio. Le divinità possono togliermi la memoria, possono togliermi il futuro, possono vanificare tutto il mio passato. Forse potrebbero anche togliermi la logica, ma hanno deciso di non farlo. E se volevano punirmi, hanno sbagliato a non farlo, perché in questo dibattito interno, in questo tentativo di razionalizzare l’assurdità del ritorno dalla morte, io affogo la mia paura. Faccio filosofia da quattro soldi, ma è la mia filosofia. Questa non me l’hanno tolta, questa uso. La notte della mia resurrezione sta volgendo al termine. Sono ancora nudo, ma troverò dei vestiti. Male che vada, aspetterò che passi un’auto della polizia e mi farò vedere, finisco dentro per oltraggio al pudore ma almeno mi daranno qualcosa da indossare. Però mi chiederanno le generalità, e allora sì che inizierà un bel casino. Pazienza. Comunque vivo in un paese civile, più o meno, non sarò condannato a morte. E se anche fosse, penso che la sopporterei bene. Canto, e mi incammino verso l’ingresso del cimitero, osservando i cipressi che svettano alti e quasi festosi. Dickens di Franco Ricciardiello Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un'epoca di saggezza, era un'epoca di follia, era un tempo di fede, era un tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l'inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta. Chiusi la copertina e rimisi il libro senza fare rumore nella borsa di Eugenia. Mi guardai alle spalle: Eugenia era ancora addormentata ai piedi del divano ad angolo, la testa appoggiata sulle braccia e le ginocchia raccolte verso il ventre. Oltre alla carta di identità e una confezione di Prozac con metà blister schiacciati, avevo trovato nella sua borsa A Tale of two Cities, il romanzo di Dickens sulla rivoluzione francese. Le primissime, fulminanti righe della prima pagina mi avevano colpito. Appoggiai i polpastrelli contro il cristallo freddo della finestra: la tormenta premeva a scatti furiosi contro le imposte, fischiava un urlo inconsapevole sulle tegole appena sotto il davanzale della mansarda. Pensai al senzatetto giù in strada, raggomitolato sotto la sua trapunta bucata davanti alla chiesa, che aveva attirato l’attenzione di Eugenia al nostro arrivo dopo la cena improvvisa al ristorante maghrebino. Nel sottofondo stereofonico della mia mansarda, Henri Salvador cantava con discrezione la malinconia della pioggia di novembre, accompagnato da pochi accordi di chitarra; qualche piano più sotto in via Po la tormenta non trascinava neve, ma una sottile materia ghiacciata che aveva la consistenza del sale fino e ruotava in mulinelli furiosi della durata di secondi. Per un momento, pensai che quella neve secca e quasi asciutta esistesse al solo scopo di rivelare alla luce dei lampioni i movimenti del vento. Sopra l’orizzonte buio dei tetti dell’isolato di fronte, le lontane luci artificiali non sembravano disturbate dalla tormenta. Era quasi mezzanotte. Eugenia dormiva ignara, la testa appoggiata sul braccio contro il cuscino del divano. Raggiunsi senza fare rumore la mia camera da letto, mi alzai in punta di piedi e raccolsi una scatola di latta da sopra l’armadio. Ne estrassi un oggetto avvolto in un panno infeltrito; controllai che Eugenia non si fosse svegliata, poi svolsi la pezza e bilanciai nel palmo della mano una 7.65. Annusai il buon odore di olio minerale dell’otturatore, contai sei colpi dalla scatola di cartone. Inserii il caricatore e tornai in soggiorno. Raccolsi dal pianoforte il pacchetto regalo confezionato da Eugenia quel pomeriggio stesso e lo posai sul tavolo accanto all’arma da fuoco. Lo scartai senza fare rumore con gesti quasi rituali, e levai con le unghie il nastro adesivo alla luce calda delle grosse candele di altezza e dimensioni irregolari al profumo di uvaspina, raccolte in un vassoio al centro del tavolo. Mi ritrovai tra le mani il CD di Marin Marais, ancora sigillato. Eugenia sospirò nel sonno e aggiustò le gambe; forse stava sognando. Ricordai il momento in cui l’avevo conosciuta, poche ore prima, nel negozio di musica dove lavorava. * * * Di solito per i miei acquisti scelgo negozi del centro storico, ma mi trovavo in periferia per un ultimo appuntamento di lavoro prima delle vacanze di fine anno e dovevo ancora comprare il regalo di natale per papà. Era già buio. Fuori dall’ingresso del superstore di musica c’era un tamil con una sciarpa sul mento e la bocca. — Ciao, — disse senza convinzione, e mi allungò una rosa rossa scurita dal freddo. — Per tua moglie. Il marciapiede era affollato di gente che passeggiava con la sciarpa avvolta intorno al collo. Mi ritrovai con il fiore in mano perché non mi andava di rivelare a un immigrato che non c’era nessuna moglie. Entrai frettolosamente nel superstore; l’impatto con il riscaldamento eccessivo mi stordì. Per fortuna ero il solo cliente nel reparto musica classica: la scelta del regalo di natale per papà è un rito da officiare in solitudine. Con la rosa nella sinistra, schiumante di rancore perché era un mese esatto che mia moglie si era convertita all’induismo e trasferita a vivere a Chennai, passai in rassegna l’espositore della musica strumentale alla ricerca di qualcosa che potesse piacere a papà. Arcangelo Corelli. Tomaso Albinoni. Marin Marais. Ero indeciso. In quel momento una commessa mi sfiorò passandomi accanto; portava un cartellino con il nome « EUGENIA » e il logo del negozio appeso al collo con un nastro rosso. Osservò con un sorriso malinconico la rosa nuda nella mia mano. — Albinoni. Marais. Corelli, — dissi roteando il fiore tra le dita come una bacchetta magica. — Quale regalerebbe a suo padre? — A mio padre regalerei Frank Zappa, — rispose lei, e proseguì verso la cassa. La seguii al banco del computer. — Da ventidue anni regalo a mio padre solo musica composta tra il Seicento e il Settecento — dissi, e ripetei: — Albinoni, Marais o Corelli? — Cosa fa suo padre? — domandò mentre si levava i capelli dagli occhi. — Il magistrato. — Allora Marais, decisamente. — E perché Marais? Perché non Pergolesi? Henry Purcell? Respighi? E ha qualcosa contro Baldassarre Galuppi, per caso? — Marin Marais, — confermò lei. Per sottolineare che era il suo consiglio definitivo, posò un fascio di carta regalo sul piano della cassa, accanto alla tastiera. — Ascolti il suono di quel basso di viola a sette corde, è uno strumento originale del XVII secolo. E se non ricordo male quel CD è una registrazione dal vivo il 29 gennaio di un anno che non ricordo. Controllai la custodia del CD, l’esecutore suonava davvero un basso di viola Barak Norman costruito a Londra nel 1697. — Ritiene che le onde sonore siano più nitide il 29 gennaio? — domandai. Alzò il viso per guardarmi come se mi vedesse per la prima volta. Indossava un dolcevita nero e una minigonna di lana gialla e rosa. — Non saprei, — rispose come se la mia domanda fosse seria. — Però è il giorno del mio compleanno. — Registrato il 29 gennaio e il 1 febbraio 2003 nella Collegiale del castello di Cardona, — lessi. Posai il CD vicino alla sua mano. — Conosce la data di registrazione di tutta la musica che vendete qui nel reparto? — Se è un regalo lo incarto. — Per favore. Ha anche un bigliettino di auguri? Mentre lei sigillava con gesti esperti il CD in una busta di carta azzurro e oro, estrassi la stilografica dal taschino e scrissi sul biglietto bordato di vischio. “Per Eugenia — viene a cena con me stasera?” Quando mi consegnò il CD le allungai la rosa insieme al bigliettino. — Oops, — disse appena letto il messaggio. — Ma stasera è la vigilia di natale. — Che disdetta. Cena in famiglia? — No, intendevo dire: non c’è giorno più triste di natale. Se fumassi mi divertirei a bucare le palle colorate sugli alberi con una sigaretta accesa. — Quando nessuno mi vede io spezzo la testa dei pastori nel presepe con uno schiaccianoci. Comunque, c’è qualcosa più triste del giorno di natale: per esempio, passare il giorno di natale insieme a gente che si diverte. Da quel momento fu come se non fosse la prima volta che ci incontravamo. Accettò di uscire a cena con me, il che non mi sorprese perché prima di lei avevo fatto conoscenza con tante altre donne nello stesso modo semplice e sbrigativo. Una volta fatta l’abitudine, è come recitare un copione già pronto. Signore, stasera si recita a soggetto. * * * La tormenta batté con insistenza sui vetri. Eugenia riaprì gli occhi e si accorse subito che non ero più seduto accanto a lei. Vide la luce riflessa nei vetri della mansarda e il moto browniano della neve polverizzata, ogni particella di materia illuminata per una frazione di secondo dalla fiamma delle candele, sospesa nel buio assurdo del cielo. Nascosi senza fretta la pistola nel cassetto del tavolo. — Il regalo di tuo padre, — Eugenia sorrise perché vide il CD di Marin Marais nelle mie mani. Aveva ragione, era il regalo per papà; ma mentre osservavo la tormenta fuori dalla finestra avevo deciso che avrei cambiato regalo. Tornai a sedere sul parquet fra le sue gambe e il mio bicchiere di Laphroaig senza ghiaccio. Eugenia si strinse nel dolcevita di lana come se avesse freddo e mi sorrise con grazia. — Da tempo non passavo un natale meno squallido, — disse. — Grazie. Peccato solo che non hai uno schiaccianoci e un presepe. Cercai di portarmi più vicino a lei, compressa nell’angolo retto dei cuscini. Mi prese il bicchiere dalle mani per annusare l’aroma torbato del liquore, ma senza bere. La sua istintiva confidenza mi stuzzicava. — Non hai bisogno di dimostrare di essere un vero uomo, — disse. Incrociò le caviglie e mi restituì il whisky. — Ti rivelo un segreto: è più facile che una donna ami un uomo per la sua sofferenza che per la sua forza. Posai la mano aperta sul suo ginocchio, sentii il calore della pelle sotto la consistenza di nylon dei collant. Ricordai il momento in cui avevo visto per la prima volta le sue gambe, mentre si inginocchiava davanti al senzatetto sdraiato sotto una trapunta logora, davanti al portone della chiesa, a pochi metri dall’entrata di casa mia. * * * Era successo forse meno di un’ora prima, appena arrivati con i piedi gelati dal ristorante, ancora avvolti dall’aroma di menta selvatica e zucchero del tè marocchino; mentre io infilavo le chiavi nel portone di casa, il senzatetto sotto la coperta mi riconobbe, o forse aveva semplicemente imparato a distinguere il suono metallico delle mie chiavi sull’ottone della serratura. Aprì gli occhi e emise un lamento che conoscevo bene. Eugenia ebbe una reazione sorpresa, come se si fosse resa conto che non si trattava di un involto di stracci abbandonato davanti all’entrata della chiesa. Si avvicinò al clochard semicongelato, si inginocchiò a fatica sui tacchi alti per scostare dal volto dell’uomo un lembo della trapunta incrostata di nero. La tormenta non era ancora arrivata, ma si sentiva già nell'aria come un presagio statistico, un’annunciazione o una crisi coniugale. L’uomo non guardava Eugenia, teneva come al solito gli occhi fissi nei miei. Sollevò una mano e tese il palmo, io entrai nel portone senza guardarlo. Eugenia mi raggiunse dopo un minuto. — Hai riconosciuto quell'uomo? — domandò mentre mi seguiva nell’ascensore. — Si è stabilito davanti al portone di casa da parecchi mesi, — risposi evasivo. Mi domandai per quale ragione dovessi conoscerlo. — Ma l’hai riconosciuto? Sai chi è? Ricambiai stupito il suo sguardo, con l’impressione di essermi lasciato sfuggire qualche particolare di importanza fondamentale. La cabina dell’ascensore si fermò al piano. * * * Un nuovo colpo d’aria si insinuò dagli angoli della finestra e agitò per un secondo la fiamma verticale delle candele. Rabbrividii e sollevai la mano dal ginocchio di Eugenia, stupito della mancanza di tensione erotica in quel gesto. Addebitai la colpa a quello che stavo per fare. Come ogni volta che mi trovavo nella stessa situazione con una donna, mi domandai se il segreto del desiderio di un uomo non risieda piuttosto in qualche atout estetico in autonomia dal corpo femminile, come per esempio il conflitto diagonale dell’orlo di una gonna con la curva delle gambe. — Tieni sempre un libro di Dickens nella borsa? — domandai a voce bassa. Era il momento di metterla con le spalle al muro. — Solo quando prevedo di dovermi difendere, — rispose enigmaticamente Eugenia dopo un attimo di smarrimento. — Difendere da chi? — Da chi fruga nelle borse delle ragazze al primo appuntamento. — Allora è per difenderti che hai mentito sulla tua data di nascita? Ho visto i tuoi documenti nella borsa. — “Mentire” è una parola impegnativa. Diciamo che ho applicato una tecnica di autodifesa femminile meno letale del kung fu. Pensai con tenerezza che anche lei aveva un lato debole. Doveva dimostrare di essere forte, soprattutto a se stessa. Mi domandai cosa le ricordasse il 29 gennaio che mi aveva indicato come data di nascita: probabilmente il compleanno di un uomo che si era convertito al buddismo e trasferito a vivere a Dharamsala. — Non pensavo fossi il tipo da frugare nella borsa. Sei un ossessivo-compulsivo? Un cleptomane? O solo un feticista dei presepi? Chiusi gli occhi e sorrisi. Mi resi conto di stare bene; mi sentivo distaccato e felice, soddisfatto della serata. Mi sembrò di sentire l'odore di olio minerale che filtrava dal cassetto dove avevo riposto la 7.65. Mi piaceva quella donna disillusa e divertente. Mi sentivo a mio agio in quella notte di luce e tormenta: una notte che, lo sapevo, avrei ricordato a lungo nella mia vita. * * * Qualche ora più tardi, mentre Eugenia dormiva esausta sotto il piumone del mio letto, vestita solo di un paio di orecchini turchese, scivolai fuori e mi infilai pantaloni e maglione nel freddo intenso della notte di natale. La tormenta era passata. Osservai dalla finestra i portici deserti, poi lacerai in silenzio la plastica del CD di Marin Marais e lo misi a volume bassissimo. Sentivo il profumo di Eugenia sulla pelle. Presi l’arma dal cassetto; era ancora scheggiata sul calcio e graffiata di fianco all’otturatore come quando l'avevo trovata dietro il pneumatico di una 127 a diversi metri di distanza dall’auto di papà. L’assassino doveva averla lasciata cadere sull’asfalto mentre si allontanava prima che arrivasse la polizia. Papà era venuto a prendermi come ogni giorno all’uscita dal liceo; il commando di due uomini in motocicletta con casco integrale si era avvicinato un attimo prima che suonasse la campanella di fine lezione, e gli aveva sparato attraverso il finestrino aperto per fumare. Quando ero uscito insieme ai compagni di classe, si sentivano già le sirene della polizia e i genitori mi guardavano con occhi sbarrati come fossi un extraterrestre. Il sangue di papà aveva spruzzato il volante, il sedile, il cruscotto, le buste di cartone dei dischi; il mozzicone di sigaretta non aveva ancora finito di bruciare sull’asfalto, accanto al pneumatico. Ricordo che stringevo al ventre i libri di scuola per difendermi, e che mi allontanai come uno zombi per cercare di fermare mamma prima che vedesse quella scena da macelleria. Il diario mi cadde di mano, mi curvai per raccoglierlo e vidi l’arma accanto alla ruota della 127 parcheggiata. Era ancora calda. Non avevo mai consegnato la pistola agli inquirenti che indagavano sul caso. L’avevo conservata come una reliquia. * * * Le candele erano completamente consumate. Nel buio assoluto, ascoltai un’allemande e poi una suite di danze: courante, sarabande, sarabande à l’espagnol. Il suono del basso di viola era doloroso, funereo, un lamento simile a una voce umana. Ripensai ai dischi di musica rinascimentale con le buste di cartone spruzzate di sangue, sul sedile accanto al cadavere di papà. “The Age of Baroque”. “Il Barocco italiano”. “Invito al Barocco”. A partite da quel giorno, ogni anno a natale per venti anni di seguito avevo comprato musica del Seicento da regalare a lui. Ascoltai le suites di danze di Marin Marais nel silenzio di una notte di pieno inverno; quando la musica finì, presi la 7.65 che era ancora nel cassetto. Estrassi il caricatore, controllai che il grilletto e il percussore funzionassero azionando a vuoto. Sentii lo scatto metallico secco, la vibrazione nel palmo. Rimisi a posto le munizioni e il colpo in canna. Mi affacciai in punta di piedi alla soglia della camera da letto, per ascoltare al buio il respiro quieto di Eugenia. Quando una donna prova una violenta estasi sessuale al primo appuntamento con un uomo, è quasi certo che la loro relazione sarà di breve durata: per questo mi ero impegnato per dare il meglio di me stesso quella notte di natale. Perché era l'inverno della disperazione, e qualunque cosa facessimo eravamo incamminati nella direzione opposta. * * * Più tardi, mancavano forse due ore all’alba, infilai il cappotto con le mani in tasca e l’arma stretta in pugno e scesi in strada. Non c’era nessuno in circolazione, i portici erano deserti, ma da sotto la coperta l’uomo mi guardava con un sorriso come se mi aspettasse insonne. Aveva sempre saputo chi fossi, fino da quando si era stabilito con i suoi fogli di cartone sotto i portici davanti alla chiesa. Mi riempii i polmoni dell’aria ghiacciata e calpestai il velo di neve secca. Si avvolse le spalle nella trapunta per mettersi a sedere in modo che nella caduta il suo corpo rimanesse nascosto sotto la coperta, così da dare l’impressione di dormire. Rialzai il bavero del cappotto, mi inginocchiai davanti a lui come un buon samaritano. Gli afferrai il braccio: non stava tremando per il freddo, non sorrideva. Si sentiva pronto anche lui. Entrambi sapevamo che quello era il regalo di natale per papà. Scrutai i suoi lineamenti nascosti da una barba disordinata. — Ma l’hai riconosciuto? — mi aveva domandato Eugenia in ascensore. — C’era la sua foto su tutti i giornali quando l’hanno rilasciato, due mesi fa. È l’uomo che ha ucciso quel giudice che indagava sul terrorismo. Ma io non leggo mai i giornali. Infilai la mano sotto l’husky lacero dell’uomo, con la pistola all’interno della manica del cappotto. Quando sentì la canna contro il cuore ebbe un sussulto, come se avesse riconosciuto attraverso la stoffa l’arma con cui venti anni prima aveva sparato a papà. Levai la sicura con l’unghia del pollice. Era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia. Ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo. Immaginai l’esplosione sorda contro la tempia di papà, il frattale di sangue schizzato a raggiera sul parabrezza, il volante, i dischi di musica barocca sul sedile accanto. * * * Quando tornai in casa, Eugenia mi aspettava in soggiorno; si era infilata il girocollo nero e aveva acceso i moccoli di candela mezzi liquefatti; mi sembrò che osservasse ipnotizzata la fiamma, sorreggendo il mento sulle mani a coppa, poi mi accorsi che aveva appoggiato sul tavolo A Tale of two Cities aperto alla prima pagina. Il romanzo di Dickens ambientato durante la rivoluzione francese. Era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, come i nostri anni di piombo. Pensai all’uomo davanti al portone della chiesa, alle sue illusioni di venti anni prima. Era una stagione di luce, era una stagione buia. Una stagione in cui si poteva anche pensare che uccidere un magistrato inquirente davanti alla scuola del figlio potesse affrettare l’inevitabile dissoluzione del capitalismo. L’estasi erotica dura due, forse tre settimane; la passione qualche mese; l’amore al massimo tre anni. Passai alle spalle di Eugenia per leggere Dickens insieme a lei. Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era un tempo di fede, era un tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta. Il mattino sorse troppo presto, dopo una notte di parole a bassa voce davanti alle candele di uvaspina che andavano lentamente in fumo. Quando accompagnai Eugenia alla fermata dell’autobus era ancora buio. Raccontini su un gran brutto futuro di Alessandra Daniele Trevis mollò una gomitata al collega. – Siamo nella Palestina del primo secolo d.C., piantala di fischiettare canzoni che non sono ancora state scritte! Sidney grugnì: – Ma cos'è che avevano già scritto in quest'epoca di merda? - La Bibbia - Che faccio, fischietto la Bibbia? Con un’altra gomitata Trevis zittì il collega, poi gli indicò un uomo di spalle davanti a loro. - Eccolo! – bisbigliò – L’abbiamo trovato! E’ solo, prendiamolo! I due si avventarono sull’uomo armati d’un paio di siringhe. Lo stordirono, e lo trascinarono via. Quando si risvegliò era legato a bordo del TimeRunner, veicolo sperimentale della NASA per il viaggio nel tempo, ideato – e poi rubato – dal dottor Horatio J. Trevis, e dal collega, Sidney. - Qualsiasi cosa stiate cercando di farmi, sarà inutile. In verità, vi dico… Trevis si voltò di scatto dai comandi, e gli puntò un dito contro. - Non ci provare! Non sperare di fregarci con le tue cazzate! L’uomo sospirò, appoggiandosi allo schienale per quanto glielo consentivano le cinghie. – Avete intenzione di uccidermi? - Ti piacerebbe, vero? – ghignò Trevis. – Faremo molto di più – fece una pausa a effetto – noi ti cancelleremo dalla Storia. – Si girò verso il collega – Sidney, spiega al... signore.. dove lo stiamo portando. - Be’, in realtà non sappiamo esattamente dove…- cominciò Sidney. Un’occhiataccia di Trevis gli fece correggere il tiro. – Ti stiamo portando nel futuro, ma non nel futuro dal quale noi proveniamo. Quello già non esiste più, perché lo abbiamo cambiato togliendoti dal passato dal quale derivava. Ciò che troveremo sarà un mondo futuro diverso, sviluppatosi senza Cristianesimo, quindi probabilmente migliore... - Sicuramente migliore! – lo corresse Trevis. - …Sicuramente migliore di quello che abbiamo lasciato. Laggiù, dopo aver controllato, potremmo anche lasciarti andare, perché in una società ad alto sviluppo culturale e scientifico non potrai fare più alcun danno. L’uomo scosse la testa, con un mezzo sorriso. - Siamo arrivati! – annunciò Trevis trionfante. –Adesso vedrai. - Non è possibile… non è possibile! – ripeteva Trevis sconvolto, aggirandosi per la cattedrale. – Non siamo riusciti a cambiare niente! – Strinse i pugni e urlò: – Come diavolo ha fatto? Stavolta fu Sidney a tirargli una gomitata per zittirlo. - Calmati, o ci scopriranno. - Lo abbiamo portato via! – continuò Trevis, rauco. – E’ ancora di là, legato nella cabina del TimeR, come cris… come ha fatto a impedirci di cambiare la Storia? - Beh, magari è davvero… - Non dirlo! – tornò a urlare Trevis. – Non pensarlo nemmeno! – Crollò a sedere su una panca. – E’tutto uguale, tutto assolutamente uguale a come l’avevamo lasciato... - Non proprio tutto – disse il collega, indicando l’imponente mosaico sulla volta. – Quando siamo partiti il Cristo Pantocrator lassù aveva i capelli!… – ridacchiò allibito. Trevis alzò la testa, come folgorato. Poi afferrò Sidney e lo ritrascinò nel TimeR nascosto in sagrestia. - Che succede? – chiese tranquillo l’uomo che li aspettava legato. - Si riparte! - E dove si va?… - A prelevare anche il tuo complice – ringhiò Trevis. – Il pelato che ha preso il tuo posto e il tuo nome! L’uomo sorrise – Fatelo pure. Un terzo lo sostituirà. E poi, se sarà necessario, un quarto, un quinto, un sesto… - Quanti siete? – chiese Sidney, basito. - Centinaia… migliaia… non potete fermarci tutti. Ci prepariamo da anni, tutti per interpretare lo stesso ruolo. Altri hanno già provato a fermarci, molti di noi sono stati uccisi. Ma alla fine almeno uno di noi ce la farà. – Tornò ad appoggiarsi allo schienale. – E potrebbe anche essere uno che non ha la mia pazienza – aggiunse con uno strano sorriso. PERSISTENZA Il primo Sovrintendente di Tisra e lo sconosciuto stavano seduti davanti a due bicchieri di glab liscio. Tra di loro galleggiava l’ologramma di un sistema stellare. - Tre mega crediti. Ti auguro che la tua informazione li valga. - Non basterebbero tutti i megac del tuo disgraziato pianeta a pagarmela quanto vale. - Perché “disgraziato”? - Interessa ai terrestri. Il sovrintendente trasalì. - Provamelo. Lo sconosciuto allungò le sottili propaggini sulla piastra incastonata al centro del tavolino, e subito l’ologramma si modificò disegnando il tracciato di una rotta interstellare, affiancato da una colonna di calcoli esplicativi. - Sacro Jestra! – mormorò il Sovrintendente. – I terrestri!.. Cosa vorrebbero fare di Tisra?... - Quello che hanno fatto del loro pianeta madre – rispose lo sconosciuto, scolando il suo glab. – “Fottimadre” è un tipico insulto terrestre. Il primo Sovrintendente poggiò i tre megac sul tavolino. Lo sconosciuto li intascò rapidamente, e sparì. - Com’è andata?... - chiese Hela, speranzosa. - Bene! – rispose Hen, rientrando nella sua navicella in orbita attorno a Tisra – Il Sovrintendente l’ha bevuta e m’ha pagato! – Fece rotolare i megac sotto gli occhi prismatici della sorella. - E’ bizzarro, basta nominare i terrestri per suscitare il panico – ridacchiò lei – ma i terrestri non esistono! - Beh, non più – precisò il fratello. – Per fortuna si sono autodistrutti completamente ancora prima di mettere piede fuori dal loro sistema solare. Però le onde elettromagnetiche delle loro passate trasmissioni radiotelevisive continuano a propagarsi nella galassia. Da quelle tutti hanno imparato a conoscerli come una minaccia orrenda, ed è nata la leggenda di una loro misteriosa… persistenza. - Ma come hai fatto a convincere il tisriano che i terrestri puntassero proprio sul suo sistema stellare? Hen sorrise. S’avvicinò all’olopiastra incastonata sul muro e l’attivò sfiorandola con la propaggine sinistra. - Vedi questo? Sembra il tracciato stilizzato di una complicata rotta interstellare - Da dove viene? - Dalla terra. Compare in moltissime delle vecchie trasmissioni televisive terrestri, insieme ad altri undici simili. Li chiamavano Zodiaco. Uniscono una serie di stelle raffigurate come apparivano allora viste dalla terra. Questo tracciato in particolare è lo “Scorpione”, e qui in fondo comprende anche Thal, la stella di Tisra. - Quindi forse i terrestri progettavano davvero di conquistarla!.. – commentò Hela, stupita. - A me importa solo che lo abbia creduto il Sovrintendente. – Hen sorrise indicando i megac luccicanti. Hela notò l’evanescente sagoma di un insettoide sovrapposta al tracciato interstellare. - Cos’è? - Lo Scorpione, la forma di vita terrestre dalla quale questa rotta prendeva nome – rispose Hen. – Era una bestiaccia tremenda, perciò i terrestri l’adoravano, e davano il suo nome a molte cose. Poteva uccidere con una sola puntura della sua coda avvelenata… La navicella sussultò, le luci si spensero. - Che succede?! L’ologramma della rotta Scorpione venne bruscamente sostituito da uno del volto corrusco del Sovrintendente di Tisra. - Spie dei terrestri, vi abbiamo immobilizzato, preparatevi a essere distrutti! - Ma no! Noi non abbiamo niente a che fare con loro! – urlò Hen nel buio. - Come fate allora a conoscere i loro piani? - Abbiamo soltanto elaborato i dati ricavati dalle loro trasmissioni radiotelevisive! - Abbiamo mentito!... – aggiunse Hela. L’ologramma del tisriano si contorse in uno strano ghigno. - Siete venuti a estorcere denaro grazie a una minaccia. Non importa se siate davvero spie dei terrestri, dobbiamo comunque distruggervi. Avete i loro stessi metodi. Un solo colpo a fusione centrò la navicella - Li avete anche voi – pensò Hen, prima di svanire disintegrato in lampo luminoso come una stella.