Wu Ming 1 NEW ITALIAN EPIC Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro Datta: cosa abbiamo donato? Amico mio, sangue che scuote il mio cuore La terribile audacia di un momento di resa che una vita di cautela non potrà cancellare. Per questo, per questo solo siamo esistiti, e non sarà nei nostri necrologi né nei ricordi drappeggiati dal benevolo ragno né sotto i sigilli spezzati dal secco notaio nelle nostre stanze vuote. - T.S. Eliot, The Waste Land Nel pomeriggio dell'11 settembre 2001 lavoravamo a casa di Wu Ming 2. Tiravamo la volata finale, ultimo rettilineo prima di giungere al traguardo del nostro romanzo 54. La consegna era fissata a novembre. In quei giorni curavamo ancora le ferite di Genova, venti e ventun luglio. Ferite soltanto metaforiche, per grazia del cielo, ma a centinaia di persone era toccata peggior sorte: teste avvolte nelle bende, braccia steccate, piedi ingessati, cateteri. E un ragazzo era morto. Genova. Solo chi è stato in quelle strade può capire. Credevamo di aver fatto il pieno, almeno per il momento, di "eventi-chiave", "punti di svolta" e altri dispositivi per la riproduzione di frasi fatte. E invece... Un SMS, non ricordo spedito da chi, fratello di milioni di SMS che in quei minuti attraversarono l'etere, arrivò sui cellulari di tutti e cinque. Diceva soltanto: "Accendi la TV". Nelle settimane successive terminammo il romanzo. Lo consegnammo all'editore pochi giorni pri­ma dell'inizio della guerra all'Afghanistan. Per ultima cosa, scrivemmo una sorta di premessa, quasi una poesia: Non c'è nessun «dopoguerra». Gli stolti chiamavano «pace» il semplice allontanarsi del fronte. Gli stolti difendevano la pace sostenendo il braccio armato del denaro. Oltre la prima duna gli scontri proseguivano. Zanne di animali chimerici affondate nelle carni, il Cielo pieno d'acciaio e fumi, intere culture estirpate dalla Terra. Gli stolti combattevano i nemici di oggi foraggiando quelli di domani. Gli stolti gonfiavano il petto, parlavano di «libertà», «democrazia», «qui da noi», mangiando i frutti di razzie e saccheggi. Difendevano la civiltà da ombre cinesi di dinosauri. Difendevano il pianeta da simulacri di asteroidi. Difendevano l'ombra cinese di una civiltà. Difendevano un simulacro di pianeta. Dopo la caduta del Muro e la prima guerra del Golfo, in Occidente molte persone (soprattutto opin­ion-makers) parlavano di "nuovo ordine mondiale". Ordine, chiarezza. La Guerra Fredda finita, la democrazia vittoriosa e qualcuno si spinse fino a dichiarare conclusa la Storia. L'Homo Liberalis era il modello definitivo di essere umano. Si trattava, in parti eguali, di rozza propaganda, allucinazione collettiva e mania di grandeur. Gli anni Novanta non furono soltanto "il decennio più avido della storia" (secondo la definizione di Joseph Stiglitz), ma anche il più illuso, megalomane, autoindulgente e barocco. La celebrazione chi­assosa del potere e dello "stile di vita occidentale" toccò livelli mai raggiunti prima, roba da far sembrare frugali le feste di Versailles durante l'Ancien Régime. Arte e letteratura non ebbero bisogno di saltare sul carrozzone dell'autocompiacimento, perché c'era­no salite già da un pezzo, ma ebbero nuovi incentivi per crogiolarsi nell'illusione, o forse nella rassegnazione. Nulla di nuovo poteva più darsi sotto il cielo, e in molti si convinsero che l'unica cosa da fare era scaldarsi al sole tiepido del già-creato. Di conseguenza: orgia di citazioni, strizzate d'occhio, parodie, pastiches, remakes, revival ironici, trash, distacco, postmodernismi da quattro soldi. L'11 Settembre polverizzò tutte le statuette di vetro, e molta gente sente il contraccolpo soltanto ora, sette anni più tardi. Lo stesso contraccolpo che descrivemmo in forma allegorica nella premessa a 54. Il compiersi di un ciclo storico. 54 uscì nella primavera del 2002. Quasi in contemporanea giunse in libreria - pubblicato dal nostro stesso editore - Black Flag di Valerio Evangelisti, che all'epoca non conoscevamo di persona. Black Flag è il secondo capitolo del Ciclo del Metallo, epopea della nascita del capitalismo industriale, che l'autore rappresenta come manifestazione di Ogun, divinità yoruba dei metalli, delle miniere, delle lame, della macellazione. Aprendo il romanzo, scoprimmo che il primo capitolo era al tempo stesso un trompe-l'oeil e un'alle­goria molto simile alla nostra. In exergo una frase di George W. Bush sul bisogno di rispondere al terrore, poi l'apertura: le torri in fiamme, cadaveri, persone che vagano per strada coperte di polvere di cemento e amianto. Qualcuno si chiede: "Perché tutto questo?", qualcuno altro dice: "Nulla sarà più come prima". Solo che non è l'11 Settembre 2001. E' l'attacco a Panama da parte degli Stati Uniti, 20 dicembre 1989. Zanne di animali chimerici affondate nelle carni, il Cielo pieno d'acciaio e fumi. Cinque anni dopo le uscite di 54 e Black Flag, facemmo una nuova scoperta leggendo Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo. Il romanzo di De Cataldo racconta gli anni di Mani Pulite e Tangentopoli, della fine della "Prima Repubblica" e delle stragi di mafia, fino alla "discesa in campo" di Berlusconi. Da poco era uscito anche il nostro Manituana, che narra la guerra d'indipendenza americana dal punto di vista degli indiani Mohawk che la combatterono al fianco dell'Impero britannico, contro i ribelli "continentali". Due libri in apparenza irrelati: diversi per stile e struttura, diversi gli eventi narrati, diverso il perio­do storico, diversa l'area geografica, diverso tutto. Eppure notavamo echi, rimandi, somiglianze. Un comune vibrare. Di che poteva trattarsi? Ci volle un po', ma alla fine capimmo. Entrambi i romanzi girano intorno al buco lasciato da una doppia morte: la scomparsa di due lead­er, anzi, due demiurghi, due che hanno creato mondi. In Manituana si tratta di Sir William Johnson, sovrintendente agli affari indiani del Nordamerica, e Hendrick, capo irochese fautore della cooper­azione coi bianchi. In Nelle mani giuste i due non hanno nome, tutt'al più antonomasie: il "Vecchio", grande manovratore di servizi segreti e strategie parallele, e "Il Fondatore", capitano d'industria e fondatore di un impero aziendale. Gli eredi dei demiurghi non sono all'altezza, cercano alleanze impossibili e si scoprono deboli, ina­datti. La situazione sfugge di mano, trappole si chiudono e, mentre i maschi falliscono, una donna forte (una vedova: Molly/Maia) apre una via di fuga per pochi. Nel frattempo, il vecchio mondo è finito. A un livello profondo, i due romanzi raccontano la stessa storia. Nel corso degli anni, esperienze simili - repentine "illuminazioni" che innescavano letture compara­te - ci sono state riferite da diversi colleghi. Intanto abbiamo letto, recensito e discusso tra noi molti libri, che pian piano hanno fatto massa, e intorno a quella massa si è creato un "campo di forze". Sotto la produzione di molti autori italiani degli ultimi dieci-quindici anni vi è un giacimento di im­magini e riferimenti condivisi. Dalle trasformazioni che avvengono là in basso (si pensi a materia organica sepolta e compressa che pian piano diventa idrocarburo) dipende il futuro della narrativa italiana. Per lungo tempo si è trattato soltanto di impressioni, intuizioni, poi il discorso ha preso a strutturar­si. E' toccato a me tirare le prime somme in cerca di una sintesi provvisoria, e l'ho fatto preparando il mio intervento per Up Close & Personal, workshop sulla letteratura italiana che si è svolto alla McGill University di Montréal nel marzo 2008. In quel contesto è stata usata per la prima volta l'e­spressione "nuova narrazione epica italiana" o, in breve, "New Italian Epic". Grazie alla discussione, ho potuto stringere viti e aggiungere esempi. Nei giorni successivi ho parla­to del "New Italian Epic" in altre due università nordamericane: al Middlebury College di Middle­bury, Vermont, e al Massachusetts Institute of Technology di Cambdrige, Massachusetts. Riat­traversato l'Atlantico, ho discusso a fondo coi miei compari di collettivo e messo gli appunti a dis­posizione di altri colleghi, che hanno espresso i loro pareri. Ho pubblicato sul nostro sito ufficiale l'audio della conferenza di Middlebury, e raccolto impressioni da chi l'ha ascoltata. Nello scrivere il presente saggio ho tenuto conto di tutto questo. La nebulosa Nelle lettere italiane sta accadendo qualcosa. Parlo del convergere in un'unica - ancorché vasta - nebulosa narrativa di parecchi scrittori, molti dei quali sono in viaggio almeno dai primi anni No­vanta. In genere scrivono romanzi, ma non disdegnano puntate nella saggistica e in altri reami, e a volte producono "oggetti narrativi non-identificati". Diversi loro libri sono divenuti best-seller e/o long-seller in Italia e altri paesi. Non formano una generazione in senso anagrafico, perché hanno età diverse, ma sono una generazione letteraria: condividono segmenti di poetiche, brandelli di mappe mentali e un desiderio feroce che ogni volta li riporta agli archivi, o per strada, o dove archivi e strada coincidono. Se un'espressione discutibile e discutenda come "New Italian Epic" ha un merito, è quello di pro­durre una sorta di campo elettrostatico e attirare a sé opere in apparenza difformi, ma che hanno affinità profonde. Ho scritto "opere", non "autori", perchè il New Italian Epic riguarda più le prime dei secondi. Difatti, ciascuno di questi autori ha scritto - e scrive - anche libri che non rientrano nel­la definizione. Chi sono questi scrittori, da dove vengono? Alcuni, come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli e Massimo Carlotto hanno lavorato sul poliziesco in modo tutto sommato "tradizionale", per poi sorprendere con romanzi storici "mutanti" (La presa di Macallè, L'ottava vibrazione, Cristiani di Allah). E una continua oscillazione tra le polarità del thriller, del picaresco e dell'epopea storica ha caratterizzato anche il lavoro narrativo di Pino Cacuc­ci (Tina, Puerto Escondido, In ogni caso nessun rimorso, Oltretorrente). Altri, come Giuseppe Genna e Giancarlo De Cataldo, hanno masticato il crime novel con in testa l'epica antica e cavalleresca, per poi - rispettivamente - affrontare narrazioni maestose e indefinibili (Dies irae, Hitler) ed estinguere la spy-story in un esperimento di prosa poetica (Nelle mani giuste). Nel mentre, Evangelisti ibridava in modo selvaggio i generi "acquisiti" della paraletteratura, al con­tempo producendo un ciclo epico che non distingue tra fiaba soprannaturale, romanzo storico e analisi delle origini del capitalismo. Ancora: Helena Janeczek, Marco Philopat, Roberto Saviano e Babsi Jones hanno prodotto "oggetti narrativi non-identificati", libri che sono indifferentemente narrativa, saggistica e altro: prosa poeti­ca che è giornalismo che è memoriale che è romanzo. Libri come Lezioni di tenebra, Cibo, I viaggi di Mel, Gomorra e Sappiano le mie parole di sangue. Andrebbero letti uno dopo l'altro, non importa in che ordine, per sentire i riverberi che giustificano il raggruppamento. La definizione nasconde un gioco di parole, anzi, un acrostico: le iniziali di "Unidentified Narrative Object" formano la parola "UNO"; ciascuno di questi oggetti è uno, irriducibile a categorie pre-esistenti. Non si trascina forse da due anni il dibattito di lana caprina sullo statuto di Gomorra? Romanzo o reportage? Narrativa o giornalismo? Poi accade che proprio due giornalisti, Alessandro Zaccuri e Giovanni Maria Bellu, scrivano romanzi in cui si "documentano" vite alternative di Giacomo Leopardi (Il signor Figlio) e Juan Perón (L'uomo che volle essere Perón). Che dire poi di Luigi Guarnieri, il cui arco di produzione va da un "romanzo non-fiction" su Lom­broso (L'atlante criminale) a un grande affresco sulla repressione del brigantaggio (I sentieri del cielo)? E Antonio Scurati, che in Una storia romantica riprende la tradizione del romanzo alla Fogazzaro, portandole in dote un curriculum di romanzi "ibridi" e saggi di teoria estetica e letter­aria? Vengono in mente altri nomi: il Bruno Arpaia de L'angelo della storia, il Girolamo De Michele di Scirocco, il Luigi Balocchi di Il diavolo custode e poi Kai Zen, Flavio Santi, Simone Sarasso, Letizia Muratori, Chiara Parazzolo, Vittorio Giacopini e tanti ancora. Alcuni veterani, altri appena esordienti; certi non hanno ancora raggiunto la nebulosa ma si stanno avvicinando, i loro libri si stanno trasformando, e intanto laggiù in fondo premono i posteri. Eccoli, dal centro della nebulosa già ripartono, volano in ordine sparso, le traiettorie divergono, s'in­crociano, divergono... In che senso "epico"? L'uso dell'aggettivo "epico", in questo contesto, non ha nulla a che vedere con il "teatro epico" del Novecento o con la denotazione di "oggettività" che il termine ha assunto in certa teoria letteraria. Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all'interno di con­flitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell'intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso. Spesso il racconto fonde elementi storici e leggendari, quando non sconfina nel soprannaturale. Molti di questi libri sono romanzi storici, o almeno hanno sembianze di romanzo storico, perché prendono da quel genere conven­zioni, stilemi e stratagemmi. Tale accezione di "epico" si ritrova in libri come Q, Manituana, Oltretorrente, Il re di Girgenti, L'ot­tava vibrazione, Antracite, Noi saremo tutto, L'angelo della storia, La banda Bellini, Stella del mat­tino, Sappiano le mie parole di sangue e molti altri. Libri che fanno i conti con la turbolenta storia d'Italia, o con l'ambivalente rapporto tra Europa e America, e a volte si spingono anche più in là. Inoltre, queste narrazioni sono epiche perché grandi, ambiziose, "a lunga gittata", "di ampio respiro" e tutte le espressioni che vengono in mente. Sono epiche le dimensioni dei problemi da risolvere per scrivere questi libri, compito che di solito richiede diversi anni, e ancor più quando l'opera è desti­nata a trascendere misura e confini della forma-romanzo, come nel caso di narrazioni transmediali, che proseguono in diversi contesti. La tradizione Ho detto che molti di questi libri sono o sembrano romanzi storici. L'Italia, paese ricco di storia e storie, è stata terreno fertile per questa forma di narrazione, sviluppando una tradizione a cui il New Italian Epic rende omaggio. Ovvio ma inevitabile citare il romanzo proto-nazionale, quello che posò le fondamenta stesse dello scrivere romanzi in lingua italiana: I promessi sposi. Da quell'avvio, l'Italia ha avuto grandi romanzi storici, libri che definiscono la loro epoca, come I vicerè di Federico De Roberto, Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, Il mulino del Po di Riccardo Bac­chelli, Metello di Vasco Pratolini, Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Artemisia di Anna Banti etc. [1] Gli scrittori menzionati sopra hanno ben presente questa tradizione e dialogano con essa. Basti ri­cordare il personaggio-manifesto dei romanzi di Girolamo De Michele, Cristiano, reduce della lot­ta armata che in carcere studia e chiosa ossessivamente I promessi sposi. E il Pirandello de I vecchi e i giovani torna con insistenza nelle pagine del Camilleri più "storico". Ed echi di Pratolini si sentono nei nostri Asce di guerra e 54. Tuttavia, in un mondo di flussi, mercati e comunicazioni transnazionali è non soltanto possibile, ma addirittura inevitabile essere eredi di più tradizioni e avere altre influenze oltre a quelle nazionali. Molti degli autori elencati hanno tratto grande ispirazione da quei romanzieri latino-americani che negli ultimi trent'anni hanno realizzato una sintesi di "realismo magico", detective story, romanzo d'avventura e biografia narrativa di personaggi storici; autori come Paco Ignacio Taibo II°, Daniel Chavarria, Rolo Diez, Miguel Bonasso e altri. Come è innegabile – ed esplicitamente riconosciuto - il grande ascendente del James Ellroy di American Tabloid e My Dark Places. Accade in Italia Detto questo, il New Italian Epic accade in Italia. Precisazione che suona ovvia, eppure non lo è. In nessun altro contesto si sarebbe verificato lo stesso incontro di reagenti, la stessa confluenza di energie. Gli stimoli avrebbero avuto risposte diverse. Durante il cinquantennio della guerra fredda l'Italia visse una situazione del tutto peculiare, in quanto nazione di importanza strategica, terreno dei più importanti giochi geopolitici. Già culla del fascismo e potenza dell'Asse, teatro di uno dei due grandi sbarchi alleati in Europa e quindi simbolo della vittoria, l'Italia confinava a nord-est con un paese socialista e "non-allineato" (la Jugoslavia) e si allungava nel Mediterraneo verso Nord-Africa e mondo arabo (nel quale aveva un ruolo-guida l'Egitto di Nasser). Era dunque un estremo avamposto, cuneo della NATO in territorio ostile. Al contempo, però, l'Italia era terreno instabile, avendo dentro i confini il partito comunista più grande dell'Occidente (già forza trainante della guerra partigiana) e un movimento operaio molto più forte dei suoi omologhi europei. Tutto questo fece dell'Italia un perenne "vigilato speciale". Da qui il "Fattore K" [2] e la lunga sequela di legislature tenute insieme solo dalla conventio ad exclu­dendum, sempre interrotte da crisi, col continuo ricorso a elezioni anticipate, mentre ferveva l'attiv­ità di organizzazioni occulte, si tentavano colpi di stato, si ordivano trame, si praticava la strategia della tensione. Come fu peculiare la nostra esperienza della guerra fredda, così è stato anomalo il modo in cui ne abbiamo vissuto la fine. Crollato il Muro di Berlino, nel giro di tre anni i partiti che avevano gover­nato in base al "fattore K" caddero e andarono in pezzi, in balìa della forza d'inerzia, passeggeri di un omnibus che frena all'improvviso. Non caddero perché corrotti o per l'azione della magistratura "rossa", come vogliono agiografie e "leggende nere", ma perché non avevano più una funzione da svolgere. Così, mentre l'intellighenzia del resto del mondo discuteva della boutade di Fukuyama che voleva la storia umana giunta al termine, e mentre il postmodernismo si riduceva a maniera e si avviava al­l'implosione, da noi si liberavano energie [3]. Anche in letteratura. Non a caso tutte le opere che hanno preannunciato, anticipato e delineato il New Italian Epic sono posteriori al 1993. In un primo momento, le energie si espressero in un ritorno ai generi "paraletterari": principalmente giallo e noir, ma anche fantastico e horror. Venne ripresa la tradizione del crime novel come critica della società, del giallo come – per dirla con Loriano Macchiavelli - "virus nel corpo sano della let­teratura, autorizzato a parlare male della società in cui si sviluppava". Sul finire del decennio, tuttavia, si iniziò ad andare oltre. L'11 Settembre squillò la tromba quando diversi romanzi-spartiacque erano già usciti o al termine di stesura. Nel cruciale anno 2002, oltre ai titoli ricordati, uscì anche Romanzo criminale di De Cataldo. Accade in letteratura ...o comunque a partire dalla letteratura. L'immaginario di chi scrive è senz'altro multimediale, e spesso le narrazioni proseguono altrove, si riversano nei territori di cinema, tv, teatro, fumetti, videogame e giochi di ruolo, ma l'epicentro rimane letterario. Di più: l'epicentro è nello specifico letterario, nel vantaggio che la letteratura ha sulle altre arti, e del quale si parla troppo poco. In letteratura le immagini non sono già date. A differenza di quel che accade nel cinema o in tv, le immagini non pre-esistono alla fruizione. Bisogna, per l'appunto, immaginarle. Mentre allo spetta­tore viene chiesto di guardare (spectare) qualcosa che già c'è, al lettore viene chiesto di raccogliere (legere) gli stimoli che riceve e creare qualcosa che non c'è ancora. Mentre lo spettatore trova le im­magini (i volti, gli edifici, il colore del cielo) al proprio esterno, il lettore le trova dentro di sé. La letteratura è un'arte maieutica e leggere è sempre un atto di partecipazione e co-creazione. E' il motivo per cui, a proposito del rapporto autore-lettore, si è parlato di "telepatia" [4]. Tra uno scrittore e un lettore, se tutto fila liscio, si stabilisce una relazione molto stretta. Tra uno scrittore e molti lettori si stabilisce un vincolo comunitario. Tra più scrittori e molti, moltissimi lettori può sta­bilirsi qualcosa che somiglia a una forza storica e in realtà è un'onda telepatica. Nella Francia del XIX° secolo lo strabordante successo di romanzi d'appendice in cui si descrivevano le condizioni di vita dei poveri (su tutti I misteri di Parigi di Eugène Sue) evocò immagini che riempirono le teste di tutti, si imposero nel discorso pubblico e sottoposero la classe politica a una forte pressione. Gli scrittori del New Italian Epic hanno una grande fiducia nel potere maieutico e telepatico della parola, e nella sua capacità di stabilire legami (legere). Caratteristiche principali del New Italian Epic Cercherò di individuare e descrivere i tratti distintivi di questa narrativa. Fatta eccezione per la pri­ma, che è una condicio sine qua non, nessuna delle caratteristiche che sto per elencare è comune a tutti i libri analizzati, ma ciascuno di quei titoli ne condivide con altri più della metà. Il fine di questa catalogazione (per forza di cose indicativa) è fissare alcune peculiarità di queste opere rispetto a quelle di altri filoni e tendenze del presente o passato prossimo. 1. Don't keep it cool-and-dry . Il New Italian Epic è sorto dopo il lavoro sui "generi", è nato dalla loro forzatura, ma non vale a de­scriverlo il vecchio termine "contaminazione". "Contaminazione" alludeva a condizioni primarie di "purezza" o comunque nitore, a confini visibili e ben tracciati, quindi alla possibilità di riconoscere le provenienze, calcolare le percentuali per ottenere aggregati omogenei, saper sempre riconoscere cosa c'è nella miscela [5]. Oggi c'è uno scarto, si è andati oltre, la maggior parte degli autori non si pone neppure più il proble­ma. "Contaminazione"? Tra cosa e cos'altro, di grazia? E' quasi impossibile ricostruire a posteriori cosa sia effettivamente entrato nelle miscele di romanzi come L'anno luce e Dies irae di Genna, o di UNO come Gomorra di Saviano (tant'è che su questo punto ci si continua ad accapigliare, e proba­bilmente si andrà avanti a lungo). Bene, ma cosa intendo dire quando affermo che "gli autori non si pongono più il problema"? Intendo dire che utilizzano tutto quanto pensano sia giusto e serio utilizzare. Giusto e serio. I due aggettivi non sono scelti a caso. Le opere del New Italian Epic non mancano di humour, ma rigettano il tono distaccato e gelidamente ironico da pastiche postmodernista. In queste narrazioni c'è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d’occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del "non prendersi sul serio" come unica linea di condotta. Va da sé che per "serio" non s'intende "serioso". Si può essere seri e al tempo stesso leggiadri, si può essere seri e ridere. L'importante è recuperare un'etica del narrare dopo anni di gioco forzoso. L'importante è riacquistare, come si diceva al paragrafo precedente, fiducia nella parola e nella pos­sibilità di "riattivarla", ricaricarla di significato dopo il logorìo di tòpoi e clichés. Nelle Postille al Nome della Rosa (cfr. la nota 3 in calce a questo testo), Umberto Eco diede una definizione del postmodernismo divenuta celeberrima. Paragonò l'autore postmoderno a un amante che vorrebbe dire all'amata: "Ti amo disperatamente", ma sa di non poterlo dire perché è una frase da romanzo rosa, da libro di Liala, e allora enuncia: "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente." Negli anni successivi, l'abuso di quest'atteggiamento portò a una stagflazione della parola e a una sovrabbondanza di "meta-fiction": raccontare del proprio raccontare per non dover raccontare d'al­tro. Oggi la via d'uscita è sostituire la premessa e spostare l'accento su quel che importa davvero: "Nonostante Liala, ti amo disperatamente". Il cliché è evocato e subito messo da parte, la dichiarazione d'amore inizia a ricaricarsi di senso. Ardore civile, collera, dolore per la morte del padre, amour fou ed empatia con chi soffre sono i sentimenti che animano le pagine di libri come Gomorra, Sappiano le mie parole di sangue, Dies irae, Medium, La presa di Macallè etc. Ciò avviene in assenza di strizzate d'occhio, senza alibi né scappatoie, con piena rivendicazione di quelle tonalità emotive. Altro esempio: Maruzza Musumeci di Camilleri (2007) narra la leggenda di un amore che non pun­ta all'osmosi e al somigliarsi, anzi, si fa forte di divergenze e incompatibilità. L'autore siciliano de­scrive il matrimonio (con figli) tra una sirena e un contadino talassofobico, sullo sfondo della grande emigrazione in America, dell'avvento del fascismo e dello scoppio della seconda guerra mondiale. Camilleri crede fino in fondo in quello che scrive e nelle scelte che compie, il suo non è un recupero freddo e ironico della fiaba, non è un esercizio basato su sfiducia e disincanto. L'uso dei riferimenti omerici non è distaccato, bensì partecipe e commosso. Sia chiaro: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno è un intento, non neces­sariamente un esito. Può darsi che un libro risulti "freddo" nonostante la passione investita dall'au­tore e a dispetto di tutti i tentativi di scaldare la materia. Può darsi che l'autore non abbia trovato il modo di trasmettere la passione al lettore. L'importante è che il tentativo si veda, che lo scarto (e dunque la passione) possa percepirsi. L'importante è che, nonostante l'insuccesso del risultato tes­tuale, si riconosca un'etica interna al lavoro narrativo. E' già un bel passo avanti. Quel che conta è che l'ironia perenne, il disincanto e l'alibi non siano teorizzati, e non vengano poi invocati per tap­pare i buchi. *** 2. "Sguardo obliquo", azzardo del punto di vista. La tematica dello "sguardo obliquo" è, nel New Italian Epic, quella dove più si realizza la fusione di etica e stile. Nel corpus del New Italian Epic si riscontra un'intensa esplorazione di punti di vista inattesi e in­consueti, compresi quelli di animali, oggetti, luoghi e addirittura flussi immateriali. Si può dire che vengano presi a riferimento - in contesti differenti e con diverse scelte espressive - esperimenti già tentati da Italo Calvino nei racconti cosmicomici o in Palomar. Ma procediamo con ordine. Quasi tutti questi libri sono affollati di personaggi e nomi. A volte, come accade nei nostri romanzi, una singola opera conta più di un centinaio di personaggi, e il punto di vista continua a slittare dal­l'uno all'altro grazie al vecchio espediente del "discorso libero indiretto", vecchio ma ancora in gra­do di sorprendere se usato al momento giusto e con la giusta intensità [6]. Tutto normale, non fosse che su queste fondamenta si erigono strani edifici. Cominciamo dal rapporto tra punto di vista e storia. Da quale "postazione" gli autori del NIE scel­gono di guardare - e quindi mostrare al lettore – il divenire storico? Quasi sempre dalla meno prevedibile. Nel Ciclo del Metallo di Evangelisti (1998-2003) la nascita del capitalismo industriale viene vista con gli occhi di Pantera, stregone del culto afro-cubano noto come "Palo Mayombe". La trilogia è una "indagine sulla disumanizzazione, la commistione tra carne e metallo, la pulsione di morte che porta il capitale a porsi come nemico assoluto di tutto ciò che è vivente. Lo stesso Freud descrisse la pulsione di morte come - citiamo a memoria - 'nostalgia del mondo inorganico'.[7]" Lo sguardo dai margini, il punto di vista inconsueto di Pantera, è quello che meglio riesce ad ab­bracciare la tendenza. Sulla forza storica che sta investendo il mondo, lo stregone ha idee più chiare degli stessi marxisti e socialisti che gli capita di incontrare. Questo perché la magia nera gli con­sente di andare alla radice del male, di percepire "le forze oscure che stanno dietro il capitalismo.[8]" Pantera non può aver letto Das Kapital ma "legge" direttamente il capitale alla luce della teolo­gia yoruba. Solo che "non può far niente per fermarne l'avanzata. Questione di rapporti di forza. Può soltanto produrre spiazzamenti locali e temporanei, impedire che i giochi si chiudano per tutti e dappertutto, mantenere vive le resistenze [9]." In 54, l'Italia degli anni Cinquanta è descritta da un televisore di marca americana, un McGuffin Electric Deluxe rubato in una base americana, non funzionante ma dotato di coscienza. Animismo della tecnica. McGuffin viene continuamente rivenduto, passa di casa in casa e lentamente risale la penisola, da Napoli a Bologna. Lo schermo spento è la sua retina, la vita quotidiana si riflette sul vetro e lui la commenta: questo è un paese di barbari, voglio tornare a casa. Nello stesso romanzo c'è un altro punto di vista bizzarro, quello di un locale pubblico, per essere precisi il bar Aurora, a Bologna. Il bar Aurora è un ritrovo di comunisti, partigiani, vecchi an­tifascisti a suo tempo mandati al confino, ma anche giovani che passano prima di andare a ballare, gente che viene solo per giocare la schedina, varia umanità. Nei capitoli del bar c'è la prima persona plurale, un "noi narrante", ma il punto di vista non corrisponde a quello di nessun avventore. E' il bar stesso che parla, quel "noi" è la sua voce collettiva, la media algebrica dei punti di vista di tutti quelli che lo frequentano. Mutatis mutandis, ho ritrovato qualcosa del genere nel punto di vista "sovraccarico" di Gomorra, che tanto contribuisce all'impatto del libro. Chi è l'io narrante di Gomorra? Di chi è il suo sguardo? Sempre dell'autore? Estrapolo dalla mia recensione di due anni fa il brano in cui trattavo quest'aspetto: [...] E' sempre "Roberto Saviano" a raccontare, ma "Roberto Saviano" è una sintesi, flusso immagi­nativo che rimbalza da un cervello all'altro, prende in prestito il punto di vista di un molteplice [...] "Io" raccoglie e fonde le parole e i sentimenti di una comunità, tante persone hanno plasmato - da campi opposti, nel bene e nel male - la materia narrata. Quella di Gomorra è una voce collettiva che cerca di "carburare lo stomaco dell'anima", è il coro un po' sgangherato di chi, nella terra in cui il capitale esercita un dominio senza mediazioni, àncora a una "radice a fittone" il coraggio di guardare in faccia quel potere. [...] Si badi bene, non intendo dire che Saviano non ha vissuto tutte le storie che racconta. Le ha vissute tutte, e ciascuna ha lasciato un livido tondo sul petto... Ma un'attenta lettura del testo perme­tte di distinguere diversi gradi di prossimità. A volte Saviano è dentro la storia fin dall'inizio e la conduce alla fine, protagonista intelligibile del viaggio iniziatico. "Io" è l'autore e testimone oculare, senz'ombra di dubbio. Altre volte Saviano si immedesima e dà dell'io a qualcun altro di cui non svela il nome (amico, gior­nalista, poliziotto, magistrato). Altre volte ancora s'inserisce a metà o alla fine di una storia per darle un urto, inclinarla o rovesciar­la, spingerla contro il lettore. [...] Ha importanza, a fronte di ciò, sapere se davvero Saviano ha parlato con Tizio o con Caio, con don Ciro o col pastore, con Mariano il fan di Kalashnikov o con Pasquale il sarto deluso? No, non ha importanza. Può darsi che certe frasi non siano state dette proprio a lui, ma a qualcuno che gliele ha riferite. Saviano, però, le ha ruminate tra le orecchie tanto a lungo da conoscerne ogni intima risonanza. E' come se le le avesse sentite direttamente. Di più: come se le avesse raccolte in un con­fessionale [10]. Dopo i punti di vista obliqui, "di sintesi" e/o di oggetti inanimati, un esempio ancora più estremo. Il romanzo di Giuseppe Genna Grande madre rossa (2004) inizia così: Lo sguardo è a diecimiladuecento metri sopra Milano, dentro il cielo. E' azzurro gelido e rarefatto qui. Lo sguardo è verso l'alto, vede la semisfera di ozono e cobalto, in uscita dal pianeta. La barriera lu­minosa dell'atmosfera impedisce alle stelle di trapassare. C'è l'assoluto astro del sole sulla destra, bianchissimo. Lo sguardo ruota libero, circolare, nel puro vuoto azzurro. Pace. Lo sguardo punta ora verso il basso. Verso il pianeta. Esiste la barriera delle nuvole: livide. Lo sguardo accelera. Lo sguardo... di chi? Di nessuno, di niente. E' uno sguardo disincarnato, una non-entità. E' lo sguardo di uno sguardo. Cala giù in picchiata verso Milano, raggiunge il tetto di un edificio, lo penetra, cade a piombo at­traverso tutti i piani, fora l'ultimo pavimento, raggiunge le fondamenta, tocca un ordigno esplosivo potentissimo e si dissolve al momento dello scoppio, mentre è ridotto a polvere il Palazzo di Gius­tizia. Nel proseguimento del libro, di quello sguardo non vi è più traccia e menzione, i personaggi ignorano che sia esistito. Unico testimone della sua apparizione e discesa, il lettore. Che potrebbe anche aver avuto un'allucinazione [11]. Quando, una sera d'ottobre del 1976, il comico americano Steve Martin esordì come ospite-condut­tore di Saturday Night Live, entrò in scena tra gli applausi e attaccò: "Grazie! E' bello essere qui." Poi indugiò, si spostò di mezzo passo più a sinistra e disse: "No, è bello essere qui." Succede anche in questi libri: lo spostamento del punto di vista rende l'epica "eccentrica", in senso letterale. A volte basta mezzo passo, a volte si percorrono anni-luce. L'eroe epico, quando c'è, non è al centro di tutto ma influisce sull'azione in modo sghembo. Quando non c'è, la sua funzione viene svolta dalla moltitudine, da cose e luoghi, dal contesto e dal tempo [12]. *** 3. Complessità narrativa, attitudine popular. Il New Italian Epic è complesso e popolare al tempo stesso, o almeno è alla ricerca di tale connubio. Queste narrazioni richiedono un notevole lavoro cognitivo da parte del lettore, eppure in molti casi hanno successo di pubblico e vendite. Com'è possibile? I motivi sono due. Il primo è che il pubblico è più intelligente di quanto siano disposti a riconoscere, da una parte, un'industria editoriale che per sua natura tende ad abbassare e "livellare" la proposta e, dall'altra, gli intellettuali che demonizzano la popular culture [13]. Il secondo è che la complessità narrativa non è ricercata a scapito della leggibilità. La fatica del let­tore è ricompensata con modi soddisfacenti di risolvere problemi narratologici e scaricare la ten­sione. Da parte dell'autore c'è spesso il tentativo di usare in modo creativo e non meccanico gli stratagemmi narrativi della genre fiction: anticipazioni, agnizioni, colpi di scena, deus ex machina, McGuffin, diversivi ("red herrings"), finali di capitolo sospesi ("cliffhangers") etc. A questo proposito, cito un Taibo II° d'annata: Si trattava (e si tratta) di accettare determinati codici di genere per poi violarli, violentarli, portarli al limite... e nel contempo sfruttare le risorse del romanzo d’avventura (gli elementi comuni alla letter­atura d’azione: mistero, complessità dell’intreccio, peripezie, forte presenza aneddotica) [...] [lo scrittore] si siede alla tastiera e non lo dice a voce alta, ma sotto sotto pensa che non ne può più di esperimenti, che bisogna raccontare storie, un sacco di storie e che la sperimentazione, negli ultimi anni diventata fine a sé stessa, deve mettersi al servizio della trama: rammendo invisibile nella cuci­tura [...] Perché sa che, in tempi come questi, il mestiere di un narratore consiste nel raccontare molto e, en passant, inventare miti, creare utopie, ergere architetture narrative estremamente ardite, ricreare personaggi al limite della verosimiglianza [14]. *** 4. Storie alternative, ucronie potenziali. L'ucronia ("non-tempo") è un sottogenere nato nella fanta­scienza, evoluzione dei romanzi su macchine del tempo e paradossi temporali. Nel corso degli anni l'ucronia ha oltrepassato i confini della "paraletteratura", e vi hanno fatto ricorso scrittori non "di genere" come Philip Roth (Il complotto contro l'America), Michael Chabon (Il sindacato dei poliziotti Yiddish) e altri. Una narrazione "ucronica" parte dalla classica domanda "what if": cosa sarebbe accaduto se il man­cato prodursi di un evento (es. la sconfitta di Napoleone a Waterloo, l'attacco a Pearl Harbor, la controffensiva di Stalingrado) avesse prodotto un diverso corso della storia? L'esempio più comune di romanzo ucronico è L'uomo nell'alto castello di Philip K. Dick, che si svolge negli anni Ottanta del XX° secolo, ma in un continuum temporale in cui i nazisti hanno vinto la seconda guerra mon­diale. Premessa molto simile a quella di Fatherland di Robert Harris. In realtà il termina "ucronia" è impreciso e dà adito a equivoci. Con questo significato è molto fre­quente in francese e in italiano, mentre in inglese lo si usa – forse con maggiore rispetto dell'eti­mologia – per storie ambientate in un'epoca mitica e imprecisata, senza segnali che permettano di collocarla prima o dopo il continuum storico in cui viviamo. Secondo quest'accezione, la trilogia del Signore degli Anelli si svolge in un'ucronia, un "non-tempo". Per definire romanzi come Fatherland, l'inglese ricorre invece all'espressione "alternate history fiction". Alcuni dei libri che definiscono o affiancano il New Italian Epic fanno "storia alternativa" in modo esplicito. Havana Glam di Wu Ming 5 (2001) si svolge negli anni Settanta di un continuum paralle­lo in cui David Bowie è un simpatizzante comunista. Il signor figlio di Alessandro Zaccuri (2007) immagina la vita di Giacomo Leopardi a Londra dopo il 1837, anno in cui simulò la propria morte per infezione da colera. Tuttavia, diverse delle opere che ho preso in esame hanno premesse ucroniche implicite: non fanno ipotesi "controfattuali" su come apparirebbe il mondo prodotto da una biforcazione del tempo, ma riflettono sulla possibilità stessa di una tale biforcazione, raccontando momenti in cui molti sviluppi erano possibili e la storia avrebbe potuto imboccare altre vie. Il "what if" è potenziale, non attuale. Il lettore deve avere l'impressione che in ogni istante molte cose possano accadere, dimenticare che "la fine è nota", o comunque vedere il continuum con nuovi occhi (e qui torna il discorso sullo sguardo). "What if potenziale". L'esistenza nella valle del Mohawk, prima della rivoluzione americana, di una comunità mista anglo-"irochirlandese" è un'ucronia implicita, possibilità nascosta – non importa quanto remota – di una biforcazione del nostro continuum. "Vedere il continuum con nuovi occhi". Il romanzo Medium di Giuseppe Genna (2007) parte dal racconto - dettagliato e fedele alla realtà - della morte del padre dell'autore. Dal secondo capitolo, la narrazione comincia a divergere, a biforcarsi. E se il viaggio di Vito Genna in Germania Est nell'82 non fosse stato una semplice gita organizzata dal PCI? Se i riferimenti ai paesi d'oltrecortina nei lib­ri del "fanta-archeologo" Peter Kolosimo (autore popolarissimo negli anni Settanta) fossero stati segnali in codice? Il libro, partito col piede cronachistico e realistico, culmina in descrizioni del fu­turo della Specie e del pianeta, "rapporti di visualizzazione" prodotti da un circolo di medium al servizio del governo di Honecker. Immaginando un mondo parallelo in cui suo padre aveva un'altra vita, e chiedendosi come avrebbe elaborato il lutto in un caso simile, Genna omaggia il genitore qui, oggi, nel nostro piano di realtà, e in questo modo elabora il lutto [15]. Wu Ming 2 è qui, accanto a me, e chiede la parola: "Potrebbe essere interessante, sempre per vedere le radici 'sociali' delle scelte 'artistiche', suggerire come l'invasione delle ucronie sia probabilmente un prodotto dell'invasione di gioco e simulazione (videogiochi, modelli scientifici, mappe digitali...). Dove per 'gioco' si intende la capacità di speri­mentare con l'ambiente come forma di problem-solving, mentre per 'simulazione' l'abilità di inter­pretare e costruire modelli di processi reali." *** 5. Sovversione "nascosta" di linguaggio e stile. Molti di questi libri sono sperimentali anche dal punto di vista stilistico e linguistico, ma la sperimentazione non si nota se si leggono le pagine in fretta o distrattamente. Sovente si tratta di una sperimentazione dissimulata che mira a sovvertire dall'interno il registro linguistico comunemente usato nella genre fiction. Di primo acchito lo stile appare semplice e piano, senza picchi né sprofondamenti, eppure rallentan­do la velocità di lettura si percepisce qualcosa di strano, una serie di riverberi che pro­ducono un effetto cumulativo. Se si presta attenzione al susseguirsi di parole e frasi, gradualmente ci si accorge di un "formicolìo", un insieme di piccoli interventi che alterano sintassi, suoni e signi­ficati. Un esempio di intervento "nascosto" è l'estirpazione da un testo di un aggettivo indefinito (ad es. "tutto", "tutta", "tutti"), o degli avverbi con desinenza in "-mente", o addirittura delle particelle pronominali ("mi", "ti", "vi" etc.) anche dove irrinunciabili, come nei verbi riflessivi. Una recen­sione inglese del nostro romanzo Q soffermava sulla "tendenza a togliere i verbi nelle descrizioni di combattimenti, nel tentativo abbastanza riuscito di rendere la confusione e la velocità dell'azione.[16]" Un altro esempio di intervento è il "sovraccarico" di una parola fino a smuoverla dal proprio alveo semantico e investirla di nuove connotazioni. Hitler di Giuseppe Genna (2008) è un romanzo biografico sul führer, che in realtà è spesso assente dalle pagine e, quando appare, viene descritto come un povero idiota. Tra urti e sussulti seguiamo a intermittenza la parabola, dal concepimento alla morte... e oltre, poiché vediamo cosa accade all'ani­ma dopo che il corpo è morto nel bunker. Lungo il libro, l'autore ripete ad nauseam il verbo "esorbitare", che significa eccedere, superare i limiti, ma in senso più stretto significa "uscire dal­l'orbita". Ogni volta che si compie una svolta nella vita di Hitler (e sono tantissime), ogni volta che Hitler - grazie all'idiozia, piaggeria e inettitudine altrui - riesce a ottenere un risultato e salire su un nuovo plateau, Genna scrive: "Hitler esorbita"; "Il nome di Adolf Hitler è pronto a esorbitare"; Hitler stesso lo pensa: "Io esorbito"; e anche Eva Braun "vorrebbe esorbitare"; e anche i sogni di celebrità di Leni Riefenstahl, anche quelli "esorbitano"; e l'esorbitare di Hitler è anche preventivo, "contro la russia marxista che potrebbe esorbitare", e così via. L'uso del verbo è talmente insistito che, terminata la lettura, diviene impossibile leggerlo altrove senza pensare a Hitler. Chi ha letto il libro, che lo abbia apprezzato o meno, collegherà per sempre "esorbitare" al nazismo, all'Imbianchi­no, alla Shoah [17]. Un intervento che sta nell'intersezione di sperimentazione "nascosta" e lavoro sul punto di vista (cfr. il punto 2) lo troviamo nel romanzo La vita in comune di Letizia Muratori (2007), epopea trenten­nale di una famiglia allargata italo-eritrea a cavallo di quattro nazioni e due continenti. Mandando a capo il verbo dichiarativo ("disse", "rispose" etc.), Muratori inserisce un lieve ritardo nell'at­tribuzione delle battute di dialogo. Ogni volta, per un millisecondo, la frase esclamata rimane flut­tuante, a metà tra discorso diretto libero e discorso diretto legato. - Ah, ecco, sei tornato, bene. Mi disse Isayas, in piedi davanti alla reception. - Preparati che ce ne andiamo, hanno telefonato. E' tutto risolto. Concluse. E chiese al filippino di preparargli il conto. - E' già stato saldato, tutto. Rispose. - Chi l'ha saldato? Non è possibile. Lo aggredì Isayas. Altro esempio di intervento è l'improvvisa rinuncia alla discrezione, con l'inserimento di una figura retorica vistosa, o più figure retoriche vistose in sequenza, come quando un mulinello diviene trom­ba d'aria e per pochi minuti sconvolge la quiete di una giornata placida. Si pensi alle allitterazioni nel già citato Nelle mani giuste di De Cataldo, "finto" sequel di Romanzo criminale: dopo pochi capitoli, appena addentro il libro, il lettore ha già capito che l'autore sta usando la lingua in modo strano, ma tutto è ancora camuffato nel registro medio. Poi arriva la pagina 35 e chi legge si trova sotto una pioggia di cluster bombs lessicali, grandinata di allitterazioni come "omuncoli ossequiosi ostacolati" e "orridi orifizi ornati". Dura due minuti, poi finisce, e nulla del genere si ripete fino alla fine del libro. In compenso esplodono molti altri ordigni [18]. Cionondimeno, la maggior parte delle persone a cui ho chiesto di definire la lingua usata da De Cataldo in questo romanzo ha usato aggettivi come "semplice", "chiara", "diretta". Sperimentazione dissimulata, cucitura invisibile. 6. Oggetti narrativi non identificati. I libri del New Italian Epic, durante la loro genesi, possono avere uno sviluppo "aberrante" e nascere con sembianza di "mostri". Oppure, cambiando metafora: il New Italian Epic a volte abbandona l'orbita del romanzo ed entra nell'atmosfera da direzioni impredicibili, "Ehi, cos'è quello? E' un uccello? No, è un aereo! No, un momento... E' Superman!". Assolutamente no. E' un oggetto narrativo non-identificato. Fiction e non-fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura e scienza, mitologia e pochade. Negli ultimi quindici anni molti autori italiani hanno scritto libri che non possono essere etichettati o incasellati in alcun modo, perché contengono quasi tutto. Come dicevo sopra (cfr. il punto 1), "contaminazione" è un termine inadatto a descrivere queste opere. Non è soltanto un'ibridazione "endo-letteraria", entro i generi della letteratura, bensì l'utilizzo di qualunque cosa possa servire allo scopo. E non è nemmeno un semplice proseguire la tradizione della "letteratura di non-fiction", opere come Se questo è un uomo o Cristo si è fermato a Eboli. Quei libri non erano "mostri", non erano prodotti di un'aberrazione. Oggi dobbiamo registrare l'inservibilità delle definizioni consolidate. Inclusa, come si diceva, quella di "postmoderno", perché qui l'uso di diversi stilemi, registri e linguaggi non è filtrato dall'ironia fredda nei confronti di quei materiali. Non sono operazioni narratologiche, ma tentativi di raccon­tare storie nel modo che si ritiene più giusto. Un tentativo non molto riuscito di "ibridazione eso-letteraria" fu il nostro Asce di guerra (2000) scritto insieme a Vitaliano Ravagli [19], a cui lavorammo senza porci alcun problema di distinzione tra narrativa, memorialistica e saggistica. Capita spesso: gli UNO sono esperimenti dall'esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all'in­forme, all'indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos'altro. Ma è neces­sario che gli esperimenti si facciano, non che riescano sempre. Anche un fallimento insegna, anche un fallimento può essere interessante. E' il caso di Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones (2007), nella definizione dell'autrice un "quasi-romanzo". Si svolge in Kosovo dal 1999 in poi, con alcune puntate all'indietro, nel Medioevo e su altri piani temporali. E' un'opera all'incrocio tra divul­gazione storica, romanzo agit-prop e prosa poetica di controinformazione, con innumerevoli citazioni e allusioni ad Amleto. Il tema è la pulizia etnica nei Balcani, non da parte dei Serbi, ma contro di loro [20]. Un oggetto narrativo che non è stato un fallimento è Gomorra. Sul lavoro di Saviano ha avuto un'in­dubbia influenza la scrittrice Helena Janeczek, non soltanto perché è stata l'editor del libro, ma an­che perché coi suoi seminali Lezioni di tenebra (1997) e Cibo (2002) ha esplorato cifre, tonalità e sconfinamenti di cui l'autore di Gomorra ha saputo far tesoro. Cibo, ad esempio, passa repentina­mente dalla narrativa (racconti sul mangiare e sui disturbi alimentari fatti da diversi personaggi alla loro massaggiatrice) alla saggistica (una lunga trattazione su encefalite spongiforme bovina e Sin­drome di Creutzfeldt-Jakob). *** 7. Comunità e transmedialità. Ogni libro del New Italian Epic è potenzialmente avvolto da una nube quantica di omaggi, spin-off e narrazioni "laterali": racconti scritti da lettori (fan fiction), fumetti, disegni e illustrazioni, canzoni, siti web, addirittura giochi in rete o da tavolo ispirati ai libri, giochi di ruolo coi personaggi dei libri e altri contributi "dal basso" alla natura aperta e cangiante dell'­opera, e al mondo che vive in essa. Questa letteratura tende - a volte in modo implicito, altre volte dichiaratamente - alla transmedialità, a esorbitare dai contorni del libro per proseguire il viaggio in altre forme, grazie a comunità di persone che interagiscono e creano insieme. Gli scrittori incorag­giano queste "riappropriazioni", e spesso vi partecipano in prima persona. Talvolta i progetti sono pensati direttamente come transmediali, superano già i contorni del libro, proseguono in rete (mani­tuana.com, slmpds.net) o escono abbinati a cd con colonna sonora (Cristiani di Allah) etc. Gli esem­pi sono numerosi, soprattutto intorno ad autori come Valerio Evangelisti, noi Wu Ming, Mas­simo Carlotto. Per quanto ci riguarda, dobbiamo molto del nostro approccio alle intuizioni di Ste­fano Tassinari, scrittore, giornalista e organizzatore culturale che da anni propone o sperimenta in prima persona ogni possibile connubio tra letteratura, musica e teatro. In uno scritto del 2007, io e Wu Ming 2 stabilivamo un parallelo con la natura "disseminata" della mitologia greca, la quale ha un carattere plurale e policentrico. La versione più celebre di ciascun episodio coesiste e s'incro­cia con tante versioni alternative, sviluppatesi ciascuna in una delle molte comunità del mondo gre­co, cantate e tramandate dagli aedi locali. Aedi che non sono una casta chiusa, a differenza di quan­to avviene nelle civiltà più a Oriente: i rapsodi greci non sono detentori esclusivi della facoltà di raccontare e tramandare, né selezionatori - autorizzati da un potere centrale - delle versioni "uffi­ciali" di ciascuna storia. La civiltà che si riorganizza dopo il crollo del mondo miceneo è (letteral­mente) un arcipelago di città-stato, il potere è frammentato e non può garantire l'unitarietà del sapere né condensare l'immaginario a proprio uso e consumo. Le storie iniziano a cambiare e di­vergere, a diramarsi e intrecciarsi. [...] quasi ogni personaggio dei miti greci (e sono migliaia) si muove in un grande gioco di rimandi. Inoltre, dall'Iliade partiva un grande ciclo epico oggi perduto: oltre all'Odissea esistevano altri nòstoi (poemi sui ritorni degli eroi da Troia). Dèi dell'Olimpo e re­duci di Ilio erano protagonisti di tanti altri episodi, che con ogni probabilità incrociavano e perturba­vano altre storie. Già così, i dizionari di mitologia classica sono vorticosi ipertesti, ed è forse la più importante eredità lasciataci dagli aedi: un precedente che aiuta ad allontanare e capire meglio l'odierno transmedia storytelling alimentato dalla Rete. Lo scrittore Giuseppe Genna incita spesso i suoi colleghi - almeno quelli che sente più vicini alla sua sensibilità - a considerare le loro narrazioni nòstoi di un grande ciclo epico potenziale, unico e molteplice, coerente e divagante [21]. § L'una o l'altra di queste caratteristiche, in isolamento o variamente ricombinate, si riscontrano anche in opere molto distanti dal campo elettrico del New Italian Epic, ma in assenza della prima (cioè sono opere ancora dentro il postmoderno) e/o di più della metà delle altre: sganciano la lingua dalla narrazione, non hanno un approccio "popolare" o adottano punti di vista meno obliqui. A, B e C Che cos'è un'allegoria? La risposta più antica, ma anche la più triviale, dice che l'allegoria è un es­pediente retorico. La parola deriva dall'accostamento di due termini greci, allos (altro) ed egorein (parlare in pubblico). "Parlare d'altro", o "un altro parlare". Dire una cosa per dirne un'altra. Rac­contare una storia che in realtà è un'altra storia, perché i personaggi e le loro azioni sostituiscono al­tri personaggi e azioni, oppure personificano astrazioni, concetti, virtù morali. La Giustizia è una signora bendata che sorregge una bilancia; il peccatore da non abbandonare a se stesso è una pecora smarrita; se la pecora smarrita si ravvede, diventa un figliol prodigo che torna a casa; la formica rappresenta lavoro, frugalità e risparmio, mentre la cicala rappresenta ozio, sperpero e incoscienza etc. Siamo al più basso e comprensibile livello di definizione dell'allegoria: c'è una relazione binaria tra ciascuna immagine e ciascun significato, corrispondenza biunivoca e precisa. E' l'allegoria "a chi­ave". Trovando quest'ultima, si apre la porta. Una forma comune di allegoria a chiave è quella storica: si raccontano fatti di un'altra epoca allu­dendo a quanto avviene nel presente. Il film 300 mostra Spartani e Persiani, mostra Leonida che combatte alle Termopili, ma parla dello "Scontro di civiltà" di oggi, parla della "War on Terror" di George W. Bush. L'allegoria storica è un insieme di corrispondenze tra il passato descritto nell'­opera e il presente in cui l'opera è stata creata. Le allegorie a chiave sono piatte, rigide, destinate a invecchiare male. Presto o tardi, i posteri perderanno cognizione del contesto, delle allusioni, dei riferimenti, e l'opera cesserà di parlare al loro tempo, poiché troppo legata al proprio. Svaniti con le ultime corrispondenze biunivoche gli ul­timi echi di poetica e forza espressiva, non resterà che un modesto valore di reperto, di coccio d'an­fora confuso tra i sassi. Un'opera che aspiri a durare nel tempo non deve fondarsi esclusivamente su allegorie di questo tipo. Esempio: mentre lavoravamo a 54, ci imbattemmo (appunto) in un film del 1954, di quelli che negli USA chiamano "Swords & Sandals" e da noi "peplum". Si intitolava Attila, diretto da tale Pietro Francisci. Nella parte del capo degli Unni, il sempre esuberante Anthony Quinn. Un film ridicolo, allegoria piatta se mai ve ne è stata una. Dev'essersi trattato di una produzione vaticana "in camuffa", perché la propaganda clericale era grassa e unta: i barbari altro non erano che gli atei co­munisti (a un certo punto uno degli Unni chiedeva a un altro: "Quanti eserciti ha il Papa?", celebre domanda retorica di Josif Stalin); il decadente impero romano era l'America materialista e corrotta nei costumi (Valentiniano si disperava più per la morte del suo leopardo che per l'imminente caduta di Ravenna); infine, papa Leone I era il deus ex machina che giungeva alla fine (apparizione incredi­bilmente simile a quelle del Presidente Megagalattico nei film di Fantozzi), convinceva Atti­la a essere buono e salvava Roma. Questa allegoria è trasparente per noi che conosciamo la storia e la retorica, e abbiamo fatto in tem­po a vedere la guerra fredda. Uno spettatore più giovane e meno smaliziato vedrà soltanto un me­lenso polpettone. Tuttavia, non tutte le allegorie storiche sono "a chiave" (intenzionali, esplicite, coerenti, "biuni­voche"). In senso lato, qualunque opera narrativa ambientata in un'epoca passata è un'allegoria stori­ca, che l'autore la intendesse o meno come tale. Quando evochiamo il passato, lo facciamo dal presente, perché il presente è dove ci troviamo, dunque esiste sempre un confronto tra "adesso" e "allora", consapevole o inconscio, nitido o confuso. In senso ancor più lato, moltissime opere narrative si svolgono nel passato, poiché i loro autori scrivono al passato (in genere, in italiano si alternano passato remoto e imperfetto) collocando la storia in un tempo già trascorso. Persino le storie ambientate nel futuro, come quelle di fantascienza, sono scritte al passato. Il futuro non è che un velo, poiché esse si sono già svolte: "Come un gioiello scintillante, la città giaceva nel cuore del deserto [22]." Portando il discorso alla sua inevitabile conseguenza, si può dire che tutte le opere narrative siano ambientate nel passato. Anche quando il tempo verbale è il presente, si tratta di una forma di pre­sente storico: il lettore legge di cose già pensate, già scritte, già oggettivate nel libro che ha in mano. Dunque tutte le narrazioni sono allegorie del presente, per quanto indefinite. La loro indetermi­natezza non è assenza: le allegorie sono "bombe a tempo", letture potenziali che passano all'atto quando il tempo giunge. La definizione dell'allegoria come "espediente retorico" si mostra del tutto inadeguata, e infatti Walter Benjamin, nel suo L'origine del dramma barocco tedesco (1928), de­scrisse l'allegoria come una serie di rimbalzi imprevedibili, triangolazione fra quello che si vede nell'opera, le intenzioni di chi l'ha creata e i significati che l'opera assume a prescindere dalle inten­zioni. Questo livello dell'allegoria è privo di una "chiave" da trovare una volta per tutte. E' l'allegoria metastorica. Si può descriverla come il rimbalzare di una palla in una stanza a tre pareti mobili, ma anche come un continuo saltare su tre piani temporali: - Il tempo rappresentato nell'opera (che è sempre un passato, anche quando l'ambientazione è con­temporanea); - Il presente in cui l'opera è stata scritta (che, anch'esso, è già divenuto passato); - Il presente in cui l'opera viene fruita, in qualunque momento questo accada: stasera o la prossima settimana, nel 2050 o tra diecimila anni. Le opere che continuano a risuonare in questo presente sono chiamate "classici". Il loro segreto sta nella ricchezza dell'allegoria metastorica, la stessa che possiamo trovare in miti e leggende. La sto­ria di Robin Hood è sopravvissuta ed è ri-narrata a ogni generazione perché la sua allegoria profon­da continua ad "attivarsi" nel presente, a interrogare il tempo in cui vive chi la legge o ascol­ta. Superfluo dire che un livello allegorico profondo e vitale non è garanzia di sopravvivenza nel tem­po, né tantomeno di accesso alla definizione di "classico". E' una condizione necessaria ma non suf­ficiente. E' questione di evoluzione del gusto e della mentalità, e anche di fortuna: i processi selet­tivi che formano un "canone" sono in gran parte arbitrari. Non è uno sviluppo preconizzabile, e oc­corrono molti anni o addirittura secoli per capire di che pasta sia fatta un'opera. Non sto cercando di capire se i libri italiani di cui ho parlato dureranno a lungo. Il mio intento è dif­ferente: voglio trovare l'allegoritmo del New Italian Epic. Allegoritmo. Chi legge conoscerà la parola "algoritmo". Un algoritmo è un insieme di regole e pro­cedure da seguire in un determinato ordine per risolvere un problema o ottenere un risultato. E' un termine usato in matematica e nella programmazione informatica. "Allegoritmo" è un neologismo che ho preso in prestito da Alex Galloway e McKenzie Wark, i cui scritti sui videogiochi e la gamer culture mi sono stati di ispirazione [23], ma l'utilizzo che ne faccio in questo testo è diverso. Videogame. Ogni gioco ha un algoritmo e il giocatore deve apprenderlo, se vuole risolvere i proble­mi, affinare le proprie capacità e salire i livelli della pagoda come Bruce Lee in Game of Death. Ma ogni gioco è un'allegoria: è composto di immagini in movimento che rappresentano qualcos'altro (procedure matematiche, codice binario, il linguaggio che la macchina parla a se stessa). Il gioca­tore può apprendere l'algoritmo del gioco soltanto interagendo con le immagini, cioè con l'allegoria. Al fine di trovare l'algoritmo e seguirlo passo dopo passo, deve comprendere e padroneggiare l'alle­goritmo. Decrittare l'allegoria, scoprirne i segreti. Non soltanto i videogame, ma anche i romanzi e le altre narrazioni hanno un allegoritmo. L'alle­goritmo è un sentiero nel fitto del testo, sentiero che si apre e chiude, si sposta e cambia percorso, perché il testo intorno è come la foresta di Birnam nel Macbeth: si muove, avanza, e ciò che rimane fermo resta indietro. E' quel che accade all'allegoria pedissequa, l'allegoria "a chiave": resta indietro e invecchia, diventa ridicola. Tutto deve muoversi dentro e insieme al testo. Qualora, tra intrichi mobili di segni e simboli, vedessimo aprirsi improvviso il sentiero (l'allegoritmo!), dovremmo infi­larlo senza indugi, perché è questione di attimi, sta già per chiudersi. E se fossimo in grado di seguirlo, ci porterebbe all'allegoria profonda. L'allegoria di cui parlava Benjamin, quella metastori­ca, ciò che diverse narrazioni hanno in comune sotto le apparenze, e sotto i livelli più vicini alla su­perficie. Come lo sguardo senza soggetto descritto da Genna, dobbiamo penetrare gli strati uno dopo l'altro, fino a toccare la bomba. Cos'hanno in comune un romanzo storico come Q e un oggetto narrativo non-identificato come Gomorra? Le ricerche sul DNA hanno reso possibile stabilire parentele tra specie animali che zoologi e pale­ontologi non avevano immaginato, o distanziare tra loro specie animali che zoologi e paleontologi consideravano molto vicine. Il DNA ha provato oltre ogni ragionevole dubbio che due specie erano in realtà una sola: una pantera nera non è che un leopardo nato senza chiazze gialle. Forse, chissà, possiamo fare la stessa cosa coi libri e le narrazioni. Questo è un primo tentativo. Presto o tardi Torniamo al breve testo allegorico che apre 54. Sospetto che in quei versi, scritti in un momento di iper-lucido stordimento, possa celarsi una "guida" criptata a un'allegoria più profonda, quella che accomuna i libri del New Italian Epic. Al fondo, tutti i libri che ho citato dicono che qualunque "ritorno all'ordine" è illusorio. In primis, perché non è un ritorno ad alcunché: "i bei tempi non ci sono mai stati" (Jack Beaure­gard), ogni società ha vagheggiato presunti stati di equilibrio antecedenti, prima che il cielo precipi­tasse sulla terra e si imponesse il caos. Demagoghi di ogni sorta hanno sfruttato quei miti per pren­dere e mantenere il potere. In secundis, perché non può mai verificarsi un congelamento né tantomeno un rallentamento della storia. Se abbiamo la sensazione che rallenti qui da noi, è perché sta accelerando da un'altra parte. Oltre la prima duna, gli scontri proseguono. I ritorni all'ordine sono illusioni e non c'è nessun "dopoguerra". La vera guerra non finisce, non ha un "dopo". La vera guerra è il conflitto senza fine tra noi, la specie umana, e la nostro tendenza al­l'auto-annichilimento. Al fondo, tutti i libri che ho menzionato tentano di dire che noi – noialtri, noi Occidente – non pos­siamo continuare a vivere com'eravamo abituati, spingendo il pattume (materiale e spirituale) sotto il tappeto finché il tappeto non si innalza a perdita d'occhio. Ci rifiutiamo di ammettere che andiamo incontro all'estinzione come specie. Certamente non nei prossimi giorni, e nemmeno nei prossimi anni, ma avverrà, avverrà in un futuro che è intollerabile immaginare, perché sarà senza di noi. E' doloroso pensare che tutto quanto abbiamo costruito nelle nostre vite e – ancor più importante – in secoli di civiltà alla fine ammonterà a niente perché tutto diviene polvere, tutto si dissipa, presto o tardi. E' accaduto ad altre civiltà, accadrà anche alla nostra. Altre specie umane si sono estinte prima di noi, verrà anche il nostro momento. Funziona così, è parte del tutto, la danza del mondo. Non siamo immortali, e nemmeno il pianeta lo è. Tra cinque miliardi di anni la nostra stella madre si espanderà, diverrà una "gigante rossa", inghiottirà i pianeti più vicini per poi ridursi a "nana bian­ca". Per quella data, la Terra sarà già da molto tempo essiccata, priva di vita e di atmosfera. E' probabile che la nostra specie si estingua molto prima: finora l'intera avventura dell'Homo Sapi­ens copre appena duecentomila anni. Moltiplichiamo questo segmento per venticinquemila e otter­remo la distanza che ci separa dalla fase di "gigante rossa". I nostri remotissimi posteri, se esister­anno e avranno trovato il modo di lasciare il pianeta e perpetuarsi altrove, potrebbero non somigliar­ci per niente. La distanza tra loro e noi sarà la stessa che adesso ci separa dai primi organ­ismi monocellulari. E certo, molto o poco prima di questa serie di eventi potrebbe colpirci un aster­oide. Questo per dire che la fine della nostra civiltà e della specie è scritta in cielo. Letteralmente. Non è questione di "se", ma di "quando". Non siamo eterni, ma più precari che mai, aggrappati a un granello di polvere che rotea nell'infinito vuoto. Se ce ne rendessimo conto, se accettassimo la cosa, vivremmo la vita con meno tracotanza. Sì, tracotanza. Tracotanza e ristrettezza di vedute sono quello che non possiamo più accettare. Non possiamo accettare che la specie stia facendo di tutto per accelerare il processo di estinzione e ren­derlo il più doloroso - e il meno dignitoso – possibile. Si usa dire che, a causa nostra, "il pianeta è in pericolo", ma ha ragione il comico americano George Carlin: "Il pianeta sta bene. E' la gente che è fottuta." Il pianeta ha ancora miliardi di anni di fronte a sé, e a un certo punto proseguirà il cammino senza di noi. Certo, possiamo fare grossi danni e las­ciare molte scorie, ma nulla che il pianeta non possa un giorno inglobare e integrare nei propri siste­mi. Ciò che chiamiamo "non biodegradabile" è in realtà materiale i cui tempi di degradazione sono lunghissimi, incalcolabili, ma la Terra ha tempo ed energie per corrodere, sciogliere, scindere, as­sorbire. E i danni? Gli ecosistemi che abbiamo rovinato? Le specie che abbiamo annientato? Sono problemi nostri, non del pianeta. Verso la fine del Permiano, duecentocinquanta milioni di anni fa, si estinse il 95% delle specie viventi. Ci volle un po', ma la vita ripartì più forte e complessa di pri­ma. La Terra se la caverà, e finirà solo quando lo deciderà il sole. Noi siamo in pericolo. Noi siamo dispensabili. Eppure l'antropocentrismo è vivo e vegeto, e lotta contro di noi. Scoperte scientifiche, prove ogget­tive, crisi del Soggetto, crolli di vecchie ideologie... Nulla pare aver distolto il genere umano dal­l'assurda idea di essere al centro dell'universo, la Specie Eletta - anzi, per molti non siamo nemmeno una specie, trascendiamo le tassonomie, siamo gli unici esseri dotati di anima, unici interlocutori di Dio. Per questo fatichiamo a capire quanto davvero siamo in pericolo, e temiamo di prefigurare un piane­ta senza umani, visualizzazione che invece ci renderebbe più consci del pericolo e pungolerebbe ad affrontare il problema. Il fatto che non abbiamo più un'idea dell'avvenire non aiuta: viviamo schiacciati nell'assenza di prospettive e persino la fantascienza - passata da quel dì la sbornia prometeica e progressista - ha in gran parte rinunciato a narrare la "storia futura" e ambienta i suoi plot in non-tempi, epoche remote o addirittura in un futuro talmente prossimo da essere già presente. Perciò è tanto importante la questione del punto di vista obliquo, e diverrà sempre più importante – come aveva intuito Calvino – la "resa" letteraria di sguardi extra-umani, non-umani, non-identifica­bili. Questi esperimenti ci aiutano a uscire da noi stessi. Anche solo di mezzo passo, come Steve Martin a Saturday Night Live. E' chiaro, noi siamo umani, le nostre percezioni sono umane, il nostro sguardo è umano, il nostro linguaggio è umano. Siamo anthropoi, non possiamo adottare davvero un punto di vista non-antropocentrico. Ma possiamo usare il linguaggio per simularlo. Possiamo lavorare per ottenere un effetto. Quell'effetto non è semplice "straniamento": è lo sforzo supremo di produrre un pensiero ecocentrico. E' simultaneamente un vedere il mondo da fuori e un vedersi da fuori come parte del mondo e del continuum. E' un massaggio ai neuroni-specchio. E' a partire da questo che troveremo l'allegoritmo comune della nuova epica, il sentiero nel fitto dei testi, la lista di istruzioni da seguire per cogliere l'allegoria profonda [24]. Per troppo tempo l'arte e la letteratura hanno vissuto nella fantasmagoria, condividendo le peri­colose illusioni dello specismo, dell'antropocentrismo, del primato occidentale, della rinuncia al fu­turo che riempie la terra di scorie. Oggi arte e letteratura non possono limitarsi a suonare allarmi tar­divi: devono aiutarci a immaginare vie d'uscita. Devono curare il nostro sguardo, rafforzare la nos­tra capacità di visualizzare. Non c'è avventura più impegnativa: lottare per estinguerci con dignità e il più tardi possibile, magari avendo passato il testimone a un'altra specie, che proseguirà la danza anche per conto nostro, chissà dove, chissà per quanto, e chissà se verremo ricordati. E' bello non avere risposte a queste domande. E' bello – ed epico – formulare le domande. E' questa la vera guer­ra, quella che, finché saremo sul pianeta, non avrà un "dopo". A conti fatti, l'impulso che sta alla base di tutti i libri di cui ho parlato può leggersi in questa frase: "Gli stolti chiamavano pace il semplice allontanarsi del fronte". Non fingiamo che il fronte di questa guerra sia lontano. Non chiamiamo questa finzione "pace". Noi non siamo in pace. La letteratura non deve, non deve mai, non deve mai credersi in pace. Accade in Italia, non a caso. Paese delle mille emergenze, poco interessato al futuro, già oltre l'orlo di catastrofi indiscusse (nel senso che non se ne discute). Paese campione di polvere sotto il tappeto e liquami alle caviglie, Bengodi degli stakeholder descritti da Saviano. Confusamente, brancaleonescamente, il New Italian Epic si è formato e adesso si trasforma sotto i nostri occhi, mentre immagina, racconta, propone. Ed è instabile, oscillante, reazione ancora in cor­so. Un giorno lo supereremo, qualcuno magari lo rinnegherà, ma adesso dobbiamo starci dentro, perché c'è molto lavoro da fare: spingere ogni tendenza al suo sviluppo, accompagnare ogni potenza all'atto, continuare a dividere ciò che è unito, continuare a unire ciò che è diviso. Stiamo costruendo il futuro anteriore - quando, sicuri di aver fatto il possibile, potremo dire che ne sarà valsa la pena e passeremo oltre. Dono. Compassione. Autocontrollo. Shantih shantih shantih 19 Marzo – 20 aprile 2008 NOTE 1. Inutile fingere di non vedere l'elefante nel tinello: è di trent'anni fa l'uscita de Il nome della rosa di Umberto Eco, che però inaugurava una stagione differente, trattandosi di un libro tongue-in-cheek, manifesto del postmodernismo europeo, fascinosa parodia multi-livello dello scrivere ro­manzi storici, anzi, romanzi tout court. Eco lo spiega nelle Postille al Nome della rosa (1983): egli non ha scritto un romanzo storico; ha finto di scriverlo, perché l'unico approccio auspicabile al ro­manzo è un approccio ironico, che tramite la citazione e il pastiche preservi il distacco e permetta di criticare quel che si scrive nel momento stesso in cui lo si scrive, perché non bisogna fidarsi dei testi né di chi li scrive e nemmeno di chi li legge. Il nome della rosa non è un romanzo storico, ma una riflessione sul romanzo storico, sui tòpoi, sull'intertestualità, riflessione scritta in modo da far capire che, se avesse voluto, Eco sarebbe stato in grado di scrivere un romanzo bellissimo. Il nome della rosa è proprio quel romanzo bellissimo, quello che Eco non ha scritto davvero. Per questo ride, o meglio, sogghigna: lo diverte il lettore ingenuo e non ancora "postmoderno", il quale crede di aver letto un romanzo storico che invece non c'è, e lo divertono il successo, il chiacchiericcio, il "caso" editoriale, il metalinguaggio, le sovrainterpretazioni di alcune sue decisioni prese per caso o per gio­co, le Postille stesse, tutto quanto. Negli anni a venire, scimmiottatori, epigoni e semplici paraculi hanno portato questo atteggiamento all'estremo, ne hanno fatto, per usare un'espressione di Roland Barthes, una cinica "fisica dell'alibi", un perenne e de-responsabilizzante trovarsi altrove rispetto alle decisioni prese: "Ero ironico", "Non volevo dire questo", "Sarei un ingenuo se pensassi che...". E il pastiche è divenuto, per dirla con Fredric Jameson, "parodia vacua" e confusa, parodia non si sa nemmeno più di cosa, priva di qualunque valenza critica. Di tutti i romanzi di Eco, il mio preferito è La misteriosa fiamma della regina Loana, libro dove si scherza, sì, ma in modo mortalmente serio. E' un libro dove c'è dolore, saudade per quel piccolo Brasile in cui si trasforma l'infanzia man mano che si allontana , autentica paura di morire, vuoto che inghiotte. L'Eco di oggi, quello che ci ha dato questo romanzo, è un autore che ha superato il pastiche e il postmoderno, e lo ha fatto proprio con il libro che, al lettore ingenuo di oggidì (non più ignaro di teoria, ma troppo saturo di teoria orecchiata qui e là), appare in superficie come il più pas­tichato e postmoderno di tutti. 2. Per i più giovani: il "Fattore K" (iniziale di "Komunismo") era quello che, al momento di formare coalizioni di governo, impediva di tener conto della volontà di un terzo degli elettori, ovvero quelli che votavano PCI, partito che non poteva in alcun modo essere ammesso al governo. 3. Non tutte positive, come si è visto. 4. "Guardate: c'è un tavolo coperto da una tovaglia rossa. Sulla tovaglia c'è una gabbietta grande come un piccolo acquario. Nella gabbietta c'è un coniglio bianco col naso rosa e occhi bordati di rosa. Tra le zampe anteriori tiene un fondo di carota e lo mastica con soddisfazione. Sulla sua schiena, nettamente tracciato con inchiostro blu, c'è il numero '8'. Stiamo vedendo la stessa cosa? Per esserne sicuri dovremmo incontrarci e comparare i nostri appunti, ma penso di sì. Certo, ci saranno inevitabili differenze: alcuni vedranno una tovaglia rosso mattone, altri la vedranno scarlat­ta [...] Per i daltonici: la tovaglia rossa è grigio scuro, come la cenere di sigaro [...] e, benvenuto, la mia tovaglia è la tua tovaglia." (Stephen King, On Writing, 2001) 5. Esempio: "nell'opera X c'è un po' di mystery [nulla è più riconoscibile degli elementi di mystery], un po' di fantascienza [la fantascienza ha tratti inequivocabili, la riconosceresti ovunque], un "pizzi­co" di commedia [la quantità che puoi raccogliere con due sole dita, al massimo tre]" etc. Oppure: "Nell'opera Y ci sono gli schemi tipici del giallo ma c'è una lingua alta e iper-letteraria e il sottotesto apparenta la poetica a quella dell'esistenzialismo." 6. Discorso libero indiretto: adottare il punto di vista del personaggio pur continuando a scrivere in terza persona. Far sentire la sua voce senza virgolettarla. Ad esempio, l'uso del discorso libero indi­retto in Romanzo criminale di De Cataldo è uno dei segreti della sua "presa": trascorriamo ore del nostro tempo, anzi, intere giornate, dietro gli occhi e sulla lingua di questo o quel criminale o poliziotto, sballottati di qua e di là per oltre seicento pagine fitte. Anche qui, la bravura dell'autore sta tutta nel non far vedere il lungo lavoro di aggiustamento della lingua. E infatti diversi recensori e commentatori on line, immancabili all'appuntamento, hanno parlato di una lingua "semplice", "me­dia" etc. 7. Dalla breve recensione apparsa su Nandropausa #2, giugno 2002, www.wumingfoundation.com 8. "Un grappolo di affermazioni apodittiche a proposito di Antracite", apparso su www.miserabili.­com e su Nandropausa n.5, 03/12/2003, www.wumingfoundation.com 9. Ibidem. La più compiuta trattazione del "Ciclo del metallo" si trova in: Luca Somigli, Valerio Evangelisti, Edizioni Cadmo, Fiesole 2007. 10. Recensione di Gomorra apparsa su Nandropausa n.10, 21/06/2006, www.wumingfoundation.­com 11. Punto di vista "obliquo" è, a pensarci bene, anche quello di un autore italiano che scriva in ital­iano storie che non si svolgono in Italia, con personaggi la cui lingua non è, non dovrebbe essere l'i­taliano. In quel caso, il testo può essere visto come traduzione di un "originale" inesistente. I di­aloghi di Q sono scritti in italiano, ma nel loro piano di realtà avvengono in vari dialetti tedeschi, oltreché in latino. I dialoghi di Manituana sono scritti in italiano, ma nel loro piano di realtà avven­gono in inglese e mohawk. Sempre in Manituana, il gergo parlato dai "Mohock" londinesi è uno slang italiano inventato da noi, ma va visto come traduzione a briglia sciolta dello slang parlato dal sottomondo criminale di Soho e dintorni nella seconda metà del XVIII° secolo. 12. Gianni Biondillo, autore che finora ha lavorato su detective stories più appartenenti al "canone" ma ha al suo attivo anche saggi sul rapporto tra scrittori e città, mette in atto nei suoi gialli interes­santi "fughe" (nell'accezione resa popolare da Houdini) dalle manette e dai legacci di sottogenere. Ed è proprio la sperimentazione col punto di vista a permettergli di relegare ai margini della storia il suo personaggio seriale (l'ispettore Ferraro), o di farlo addirittura uscire dal quadro, come accade nel libro Il giovane sbirro (2007): "Ferraro è presente-assente, agisce al centro di alcune storie, risolve casi, ma altre storie si limita ad attraversarle, certi casi non solo non li risolve ma nemmeno ci indaga sopra, perché non ne è a conoscenza. Di alcune vicende narrate ne Il giovane sbirro, il 'protagonista' rimarrà sempre al­l'oscuro, vedi 'Il signore delle mosche', 'La gita' e 'Rosso denso e vischioso'. Ne 'La gita', addirit­tura, di Ferraro sentiamo solo la voce, per pochi istanti. Tutto il racconto si svolge senza di lui. Biondillo è andato anche più in là, si è permesso di scrivere un libro (Per sempre giovane, 2006) che è parte del 'ciclo di Ferraro', ma Ferraro non vi compare mai, né viene menzionato se non di sfuggi­ta, a rischio che il lettore nemmeno lo riconosca." (Recensione a firma Wu Ming 1, apparsa su Nan­dropausa n. 12, 02/07/2007, www.wumingfoundation.com). Nei romanzi di Biondillo troviamo anche l'animismo della tecnica di cui sopra: uno dei personaggi è il distributore di caffè del commissariato di polizia di Quarto Oggiaro, Milano. 13. Cfr. Steven Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono intelligenti, Strade blu Mondadori, Milano 2006. 14. Paco Ignacio Taibo II°, "Verso una nuova letteratura poliziesca d'avventura?", in Te li do io i Tropici, Tropea, Milano 2000. 15. Quest'uso del what if è a metà tra l'ucronia potenziale e quella che Gianni Rodari, nel suo Gram­matica della fantasia (Einaudi, Torino 1973), chiamò "ipotesi fantastica": "Che cosa succederebbe se la città di Reggio Emilia si mettesse a volare? [...] Che cosa succed­erebbe se improvvisamente Milano si trovasse circondata dal mare? [...] Che cosa succederebbe se la Sicilia perdesse i bottoni? [...] Che cosa succederebbe se in tutto il mondo, da un polo all'altro, da un momento all'altro, sparisse il denaro?" 16. Recensione apparsa sul sito www.threemonkeysonline.com, ottobre 2004. E a proposito delle scene di battaglia in Q, nessuno si è soffermato su una frase come " Polvere di sangue e sudore chi­ude la gola", che pure ha una collocazione vistosa (Prima parte, Cap. 1, terza riga). Leggetela bene: è priva di senso. In origine la frase era: "Polvere, sangue e sudore chiudono la gola", poi Wu Ming 3 propose di incidentarla, e tutti convenimmo che nella versione "sbagliata" funzionava meglio. 17. E non è finita qui, perché a un livello ancor più occulto, esoterico, questa "uscita dall'orbita" è in risonanza con almeno altri due riferimenti "astrali", quelli nascosti nelle parole "desiderare" ("sidera" in latino sono le stelle, "de" è il prefisso dell'allontanamento, ergo "essere lontani dalle stelle", non avere doni da esse, ergo essere mancanti di qualcosa) e "disastro" (dis-astrum, cioè qualcosa che va storto con la tua buona stella). Ogni volta che Hitler, guidato dal proprio desiderio, esce dalla vecchia orbita e ne occupa una nuova, avvicina l'umanità al disastro, quello per eccellen­za. 18. Per una trattazione più approfondita delle figure retoriche nel libro di De Cataldo, cfr. Nan­dropausa n. 12, 02/07/2007, www.wumingfoundation.com 19. Cfr. la premessa e la post-fazione alla riedizione del 2005, Einaudi Stile Libero. 20. Cfr. la doppia recensione (botta-e-risposta tra WM1 e WM2) apparsa su Nandropausa n.13, 13/12/2007, www.wumingfoundation.com 21. Wu Ming 1 e Wu Ming 2, "Mitologia, epica e creazione pop al tempo della Rete", 29/12/2007, www.carmillaonline.com 22. E' l'incipit del romanzo La città e le stelle di Arthur C. Clarke [1956], Urania Collezione n.14, Mondadori, Milano 2004. 23. Cfr. McKenzie Wark, Gamer Theory, Harvard University Press, Cambridge 2007; Alexander R. Galloway, Gaming: Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. 24. Le riflessioni appena fatte mi sono state ispirate dalla lettura del libro di Alan Weisman Il mon­do senza di noi (Einaudi, Torino 2008), saggio di divulgazione scientifica che contiene passaggi di autentica, frastornante, commovente poesia, e di cui varrà la pena occuparsi. § Questo testo è rilasciato con licenza Creative Commons "Attribuzione - Non Commerciale - Con­dividi allo stesso modo 2.5". Se ne consente la riproduzione, diffusione, esposizione al pubblico e rappresentazione, purché non a fini commerciali o di lucro, e a condizione che siano citati l'autore e il contesto di provenienza. E' consentito trarre opere derivate, per le quali varranno le condizioni di cui sopra. "Neorealismo" ed epica. Una risposta ai critici letterari (e agli altri) di Girolamo De Michele Salamanca 1486. Cristoforo Colombo, davanti al Real Consejo, «presenta la hipótesis de que es posible "buscar el Levante por el Poniente"», suscitando lo scandalo dei dotti. Non solo non esiste alcuna possibilità di raggiungere il Cipango, ma la stessa grande navigazione è un assurdo: a fronte delle misure di Eratostene (peraltro sottovalutate da Colombo) non esistono più i grandi navigatori di un tempo. La navigazione è possibile solo all'interno del conosciuto, ogni mappa essendo già stata disegnata dai cartografi accademici. Colombo parte lo stesso, e torna con evidenze empiriche che dimostrano che la navigazione dalle Canarie al Cipango è fattibile. I dotti reagiscono con livore. Alcuni rifiutano persino di discuterne «¡es una tontería!», dichiarano sdegnati. Altri meditano, e dopo ampie consultazioni stabiliscono una linea di condotta: «América existe, es verdad, pero es malo que exista»; la sua scoperta non rappresenta «alguna novedad» rispetto a quanto già si sapeva. E comunque, se a dettare le rotte non sono più i cartografi ufficiali, ma personaggi come questo Cristóbal Cólon, «¿donde iremos a parar?». Così, sintetizzando, Milo Temesvar raccontava, nel suo classico (anche se mai tradotto) The Pathmos Sellers la situazione culturale del suo tempo [1]. Solo del suo tempo? Italia, 2008. Alcuni scrittori, al di fuori dei salotti accademici, tentano una diversa navigazione. Provano a tracciare una rotta che colleghi alcune opere della narrativa italiana dell'ultimo decennio: cercano l'allegoritmo della narrativa italiana contemporanea. È una proposta. Con un lessico d'altri tempi, la si chiamerebbe inchiesta e conricerca: termini che sfuggono ai dotti se-dicenti critici marxisti, di quelli che, cantava il poeta, Marx l'hanno letto nei libri di famiglia. Nel "realismo" e nell' "epica" vengono identificati gli anelli deboli della catena da far saltare, e in Gomorra (libro o film, o entrambi) l'oggetto narrativo su cui esercitare accorti distinguo. Tormentato dai dubbi, Andrea Cortellessa osserva, con l'acume che gli è proprio: « Se però qualcosa in comune c'è fra "realismo" ed "epica" è che sono connotati attribuiti alla narrativa soprattutto nel secolo del realismo senza "nei" e dell'epica borghese di Hegel. Tutto questo new non sarà un ritorno al buon vecchio Ottocento? E non sa ancora di postmoderno questo tentativo di aggirare la modernità?» [2]. A garantirgli sonni tranquilli interviene Romano Luperini: «Un semplice restauro di forme desuete sarebbe solo un artificio rassicurante: di quelli che da sempre richiede l'industria culturale. Se parliamo di "ritorno alla realtà" è perché si affacciano nuove realtà che non possono essere rappresentate con strumenti legati a momenti storici così diversi dal nostro». Degno di nota è che il gesto stilistico di Cortellessa e Luperini anticipi l'esplicita rivendicazione di un approccio "neo-realistico" da parte di Giancarlo De Cataldo e Massimo Carlotto [3]. E poiché di neorealismo si parla, sarà bene specificare che «un film come Gomorra, del resto, non ha nulla della carica volontaristicamente ideologica, e della struttura di racconto talora semplificata, di tanto neorealismo». Cortellessa è un curioso individuo, con strani riflessi condizionati: legge "Dio" e gli scatta il frame mnemonico "Provvidenza manzoniana" [4], legge "epica" e gli scatta il frame "Estetica di Hegel". Sembra che il "buon vecchio Ottocento" gli sfugga dal subconscio non appena l'ego razionale si assopisce e non riesce a censurare quei piccoli segreti sporchi che ciascuno di noi cerca di nascondere a se stesso. E così – atto mancato o falso movimento? – dimentica che il termine "epica" connota la narrativa anche ai tempi, tutt'altro che buoni e vecchi, di un certo Walter Benjamin, che sul teatro epico di Brecht ha scritto un saggio [5] nel quale sono già teorizzati alcuni dei caratteri che oggi emergono nel romanzo e nel cinema del NIE. Benjamin fa questo effetto: se l’hai letto per davvero, ti spunta fuori anche se non te ne accorgi; se l'hai sleggiucchiato solo per poterne parlare in società, non lo riconosci in chi cerca di pensare (non a Benjamin, ma) come Benjamin. La presa di posizione di un lettore collettivo co-interessato, la dilatazione epica degli eventi storici, il carattere anti-tragico agevolato dalla narrazione di lungo periodo, lo stupore in luogo dell'immedesimazione e la rappresentazione di situazioni (ciò che Brecht chiamava "straniamento"), l'attenzione al gesto, il ruolo attivo dello spettatore sono tanti piccoli concetti che Benjamin e Bertolt Brecht hanno messo in salvo nello zainetto delle cose da portare nel Terzo Millennio: uno zainetto che, assieme a quello di Calvino, i narratori italiani hanno trovato e aperto. Ed hanno cominciato ad usare quegli strumenti. Epperò, ammonisce Luperini, «ogni generazione deve trovare le forme in cui dire la propria realtà: non quella di sessant'anni fa!» Il NIE è nuovo realismo, cioè neorealismo, e il neorealismo è storia, è – riproposto oggi - «vuota convenzione». E Gomorra di Matteo Garrone, incalza Cortellessa, «convince soprattutto per la netta soluzione di continuità con la tradizione del realismo». Sarà... però qualcosa non mi torna. Più di qualcosa, a dire il vero. Da autore di opere "neo-epiche" col duplice vizio di prendere le parole sul serio e di sospettare sempre di loro, ho provato a prendere sul serio l'accusa di neorealismo [6]. Risfogliandomi, ça va sans dire, i due capitoli di Gilles Deleuze sul cinema neorealista, [7] che dicono sulla letteratura neorealista molto più di qualunque schematizzazione critico-letteraria. Che cos'è il neorealismo? Qualcosa di più dell'impasto di populismo, miseria e melò, della «bella Lucia Bosé in veste da contadinella nei campi della ciociaria» e delle «cosce oniriche» di Silvana Mangano, ma senza una sana coscienza di classe marxiana descritto da Natalia Aspesi [8].anna_magn.jpg Il neorealismo ha a che fare – sostiene Deleuze – con una nuova forma di realtà dispersiva, ellittica, errabonda, che opera per blocchi, con legami deliberatamente deboli ed eventi fluttuanti: «il reale non è più rappresentato o riprodotto, ma "mostrato". Invece di mostrare un reale già decifrato, il neorealismo mostrava un reale ancora da decifrare, ambiguo; è il motivo per cui il piano-sequenza tende a rappresentare il montaggio di rappresentazioni». È il motivo per cui, per mostrare con un esempio come criteri formali si rovescino in elementi contenutistici, la corsa di Anna Magnani in Roma città aperta dietro il camion nazista è arte [clicca sull'immagine per vederla], il suo remake di Martina Stella dietro la macchina di Stefano Accorsi in L'ultimo bacio no. Di più: il neorealismo ha espresso, prima della Nouvelle Vague e del cinema americano del dopoguerra, gli elementi di svolta che rovesciano la crisi del cinema basato sull'immagine-azione nel cinema dell'immagine-movimento. Si tratta di cinque caratteristiche fondamentali, la cui presenza nel neorealismo dà ragione della potenza di essere insita in questa forma cinematografica, e legittima l'uso del termine "neorealismo" per designare una forma narrativa (filmica o letteraria) che risponda a queste caratteristiche, indipendentemente dalle forme e i mezzi che adotta. 1. Situazione dispersiva. La nuova immagine cinematografica non rinvia a una situazione sintetizzata o compiuta, ma a un insieme di personaggi legati da interferenze deboli, che possono mutare statuto e diventare da secondari principali, o viceversa. Deleuze indica il cinema di Robert Altman, e in particolare Nashville, come punto di arrivo di questa immagine: non ha avuto il tempo di aggiungere Short Cuts (America oggi), e con lui i racconti di Raymond Carver, che ancora qualcuno si ostina a considerare minimalista. Il punto di partenza è, com'è ovvio, la rappresentazione urbana dell'Italia di Rossellini e De Sica durante e dopo la guerra. 2. Relazioni volutamente deboli. In luogo di un universo in cui gli eventi si prolungano l'uno nell’altro e gli spazi sono saldamente raccordati, la nuova immagine fa della forma ellittica non un modo di raccontare, ma la sostanza stessa del racconto: «i concatenamenti, i raccordi e i legami sono deliberatamente deboli. Il caso diventa il solo filo conduttore». Quintet di Altman e Taxi Driver di Martin Scorsese portano negli anni Settanta quella potenza dell'accidentale esplorata da Visconti in Ossessione. 3. Uso della forma-passeggiata. La camminata continua, l'andata-e-ritorno, il bisogno interiore o esteriore di una fuga. L'attraversamento dell'America in Easy Rider o di Roma in Ladri di biciclette, la fuga in A bout de souffle: e come non pensare, anticipando l'argomentazione, a quella moderna Anabasi che è l'intero ciclo russo di Mario Rigoni Stern (ma anche La storia di Tönle)? 4. Uso dei clichés. «Ci si chiede cosa permette di mantenere un carattere d'insieme in questo mondo senza totalità né relazioni. La risposta è semplice: ciò che costituisce l'insieme sono i cliché [...], gli stereotipi correnti di un'epoca o di un momento, slogan sonori e visivi che Dos Passos chiama "attualità"». Il cliché è veicolo d'una proiezione dell'interiorità sul mondo, e dell'interiorizzazione soggettiva di una condizione sociale. C'è tutto un mondo di criteri formali dietro le facce sconosciute degli attori non-professionisti di De Sica, ma anche dietro la scelta di attori comici e cantanti (Totò, Franchi e Ingrassia, Modugno) in Pasolini (Che cosa sono le nuvole?) [9]: un mondo che fa propria l'idea (di origine romantica) di una sola identica miseria, interiore ed esteriore. E della possibilità di esprimere l'una attraverso l'altra, e viceversa. 5. Denuncia di un complotto. In un mondo caotico e attraversato da relazioni instabili, la circolazione dei cliché dall'interno all'esterno, dal fuori al dentro prende la forma di un "grande complotto" acentrico: non un'organizzazione che «rimanderebbe a luoghi distinti ed azioni assegnabili attraverso le quali si individuano i criminali», ma a «un potere occulto che si confonde con i suoi effetti, i suoi mezzi». Come La conversazione di Francis Ford Coppola; o come i due romanzi-emblema del NIE: Q e Romanzo criminale. Le radici neorealistiche di questo ambiente sono ad esempio presenti nella rappresentazione tanto delle reti partigiane quanto delle milizie nazi-fasciste in Beppe Fenoglio, o nell'assente presenza dei combattenti russi nel Sergente nella neve. Notevole che Deleuze, nel derivare questo tratto dal neorealismo, lo ponga in esplicita opposizione col cinema nero del realismo americano: quel noir che critici come La Porta e Berardinelli continuano a credere in atto nei romanzi che recensiscono, fermandosi alla quarta di copertina, come "romanzi di genere" dai quali trasparirebbe un desiderio di internazionalismo - «gli scrittori italiani non vogliono essere scrittori italiani» [10]. Guardando alla luce di questi tratti Gomorra di Garrone non è difficile riconoscervi all'opera, oltre a buona parte dei tratti caratterizzanti il NIE (come hanno dimostrato Gervasini e De Cataldo), tutte e cinque queste categorie. Certo, attraverso nuove forme espressive e nuovi strumenti, come l'uso della camera a mano: un mezzo le cui potenzialità, dopo Lars von Trier (e Soderbergh), sono oggi all'acme. Un mezzo che è stato ideato per primo da Antonioni, per il piano-sequenza finale di Professione: reporter che portava a perfezione quel movimento di macchina interno-esterno che è stato una delle cifre stilistiche dell'epica di John Ford. Michelangelo Antonioni: il regista che ha portato a un punto di non-ritorno (come il suo corrispondente Rothko nella pittura) il valore relativo, se non l'indiscernibilità, tra la dimensione esteriore e quella interiore, all'interno della situazione filmica, «come se il reale e l’immaginario si rincorressero l'un l'altro, si riflettessero l'uno nell'altro attorno a un punto d'indiscernibilità». E dunque di cinema neorealista si tratta, sia dal punto di vista contenutistico che dal punto di vista estetico-formale. Con buona pace delle risibili critiche a Saviano ieri [11], e a Paolo Sorrentino oggi, sull'aver "sporcato" la ricostruzione realistica con inserzioni di fantasia. Bene: se adesso apro un paio di testi esemplari del neorealismo letterario italiano, trovo sin dagli incipit le caratteristiche che Deleuze rinviene nel cinema, e alle quali attribuisce il titolo di neorealismo. E che oggi ritrovo nella narrativa che cerchiamo di leggere come New Italian Epic. Le prime pagine di Cronaca di poveri amanti (1947) di Vasco Pratolini mostrano in atto quelle caratteristiche neorealistiche sopra elencate. Quel prendere per mano il lettore e portarlo all'interno di una scena creata scomponendo la "realtà" e ricomponendola per gesti, oggetti, suoni il cui unico legame è una semplice successione temporale; quel piano-sequenza nel quale si prepara già l'inserzione di elementi lessicali fiorentini; quel punto di vista spiazzante, che è ora il canto del gallo, ora la ronda della polizia, ora il gesto del superstizioso fattore: il microcosmo di via del Corno disomogeneo, granulare, dalle relazioni ora dense ora ambigue o flebili è già tutto qui, prima ancora che compaia quel basco comunista che ha permesso a tanta critica distratta di sminuire come ideologico il neorealismo di Pratolini. Ed è già pronta la peculiare mimesi linguistica dello scrittore fiorentino, che si muove in una lingua "maggiore" (il toscano) trattandola come una lingua dialettale, cioè minore: un toscano in divenire, sul punto di transitare dal gergo all'italiano. Rigoni_Stern.jpgDiversamente da Pratolini, Mario Rigoni Stern (mi sia permesso di dire: fino a pochi giorni fa il più grande scrittore italiano vivente) usa i dialetti come cliché linguistici. Il reggimento alpino in Russia è una piccola babele nella quale l'italiano si ricompone a posteriori come lingua media (media anche tra un lessico medio-ordinario e un lessico ricercato-tradizionale): e c'è voluto Marco Paolini per renderne tutte le sfumature [clicca sull'immagine per vedere un estratto]. Ho già detto come il topos dell'Anabasi ridiventi attuale nel ciclo russo. Ma anche in un piccolo gioiello narrativo come il racconto In un villaggio sepolto nella Balka [12] - una piccola anabasi privata [13] - è introdotto, eccentricamente, da un mulinare di neve che scandisce, nella sua ingovernabilità, un tempo del ritorno e delle pause lento come il tempo scandito da una candela (quella di una poesia di Boris Pasternak, alla quale s'è ispirato Rigoni Stern). E in questa sospesa lentezza tutto è già preparato per l’inatteso rovesciamento delle relazioni tra il soldato italiano Marco e il vecchio russo, in questo mulinare della neve che avvolge tutto e ricostruisce nella tormenta un mondo unificato dal silenzio, un orizzonte nel quale il tempo sospeso sarà ricomposto collegando eventi lontanissimi nello spazio e nel tempo, attraverso una semplice frase: «Mi, Marco, son to pare». In cosa sono neorealisti e al tempo stesso epici Pratolini [a sinistra] e Rigoni Stern? Nella narrazione di un reale che non "sta là fuori", che viene scomposto e ricomposto a partire da elementi che pure esistono – nulla appare invano, nel neorealismo. Nella composizione e scomposizione delle relazioni; nel continuo passare da una dimensione interiore, sentimentale o della memoria, ad una dimensione esteriore, storica. In una accurata mimesi linguistica che nasconde sotto il tappeto della lingua apparentemente media i propri giochi linguistici. E in cosa il NIE è neorealista? Nell'assunzione etica di un reale che non è mai "naturale" né "naturalistico"; nel versare la complessità narrativa in un’attitudine popolare; nel gioco tra caso e necessità; nel proporre, sottotraccia, una lingua in divenire, correlativo oggettivo di un'identità in divenire. Restiamo su quest'ultimo punto (e pazienza se la mimesi linguistica del NIE viene negata da certa critica: hanno da fare i critici, mica possono leggere tutti i libri di cui parlano!). Nel NIE compaiono spesso figure della marginalità, della devianza, dell'universo migrante. Come i proletari fiorentini di Pratolini, come gli alpini di Russia e i montanari della piana d'Asiago di Rigoni Stern, il NIE mette in vibrazione il mondo dal punto di vista degli ultimi. La precarizzazione è la cifra esistenziale di molta parte del NIE: sul piano del contenuto. Intendiamoci, conoscere Edward Said (e possibilmente non solo lui, nella più che ventennale produzione degli studi postcoloniali) è oggi quasi imprescindibile: ma alcuni autori del NIE i migranti li conoscono non solo per averne letto, ma per averci lottato assieme, per trovarseli accanto sui luoghi di lavoro, nelle strade delle periferie: e si vede, nei loro romanzi. Sul piano dell'espressione, il NIE opera, sia rispetto ai generi che rispetto alla lingua, secondo quello che Naoki Sakai, uno dei più interessanti studiosi postcoloniali, chiama vivere in traduzione [14]. All'interno dell'apparente lingua media (ciò che Sakai chiama «indirizzo linguistico omolinguale») in cui i diversi idioletti del mondo sono forzatamente tradotti (così come il capitale traduce nel codice del valore di scambio ogni diversità e ogni differenza), gli autori del NIE cercano di far vibrare cliché linguistici, dialetti, slang, gerghi. La critica accademica vi vede solo "sfondamenti" nel linguaggio della televisione e dei media, laddove si tentano esperimenti di traduzione eterolinguistica della lingua comune, si prova a passare dall'Uno ai molti, dalla lingua del potere a quello delle moltitudini delle periferie, delle fabbriche, dei barconi. Di dar voce a quel gigantesco Pequod che è l'Italia. Per far questo, e per riconoscerlo, nulla di più alieno da noi della riproposizione – questa sì, reazionaria e regressiva – dell'intellettuale separato, a parte, relegato, ai margini: il narratore è migrante e clandestino perché siamo tutti migranti e clandestini. Solo: alcuni lo sanno, altri no. Hic Rodhus, hic salta. NOTE 1. Milo Temesvar, The Pathmos Sellers, Rutgers-Newark, N.J., Seven Types Press, 1961. A scanso di equivoci, sarà bene precisare che quella di Temesvar è una metafora. Il dibattito di Salamanca non verteva, con buona pace di qualche sprovveduta critica, sul fatto che la terra fosse tonda anziché piatta, ma sulla effettiva distanza del Giappone rispetto alle Canarie secondo i divergenti calcoli di Eratostene e Posidonio. 2. Andrea Cortellessa, Scrittori con i piedi per terra. Dialogo sul neo-neorealismo dopo il trionfo di “Gomorra” a Cannes, “La Stampa”, 30 maggio 2008 [qui] 3. Giancarlo De Cataldo, Raccontare l'Italia senza paura di sporcarsi le mani, “Repubblica”, 8 giugno 2008; Massimo Carlotto, Legalità d'evasione, "il Manifesto", 13 giugno 2008 [qui]. 4. Andrea Cortellessa, Ammaniti, l’ovvio dei popoli, “La Stampa, 20 novembre 2006 [qui] 5. Walter Benjamin, Che cos’è il teatro epico? , in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, pp. 125-135. 6. Termine che per altro avevo proposto di adottare quasi cinque anni fa [qui] 7. Gilles Deleuze, La crise de l’image-action, in Cinéma 1. L’image-mouvement, Minuit, Paris, 1983, pp. 266-290; Au-delà de l’image-mouvement, in Cinéma 2. L’image-temps, Minuit, Paris, 1985, pp. 7-37. Le citazioni che seguono sono tradotte da questi due testi. 8. Natalia Aspesi, Quel bianco e nero populista e un po’ melò non è mai stato la voce del dissenso, “Repubblica”, 8 giugno 2008. 9. Su YouTube: 1; 2; 3. 10. Alfonso Berardinelli, in Francesco Borgonovo, La rinascita dell’epica? «È soltanto autopromozione», “Libero”, 1 giugno 2008. 11. Filippo La Porta, in Francesco Borgonovo, «Cari scrittori, non raccontate balle», “Libero”, 4 gennaio 2008. 12. In Storie dell’altipiano, Meridiano Mondadori, Milano, 2003, pp. 837-853. 13. Diremo, col “trotzkista patafisico” Cordelli, (Destra eccentrica, “Corriere della sera”, 4 giugno 2008) che anche Rigoni Stern regredisce nella destra eccentrica col suo far scivolare i valori comuni nel fatto individuale? O seppelliremo il critico con una sonora risata? 14. Vedi la mia recensione a Sandro Mezzadra, La condizione postcoloniale qui. IN ROTTA VERSO LA SUPERNOVA La specificità letteraria del cambiamento: New Italian Epic, Connettivismo e tempi che corrono di Giovanni De Matteo, Fernando Fazzari e Domenico Mastrapasqua (*) Viviamo tempi cupi. Anche se forse "i bei tempi non ci sono mai stati" (cosa che Nessuno riusciva a mettersi in testa quando Jack Beauregard cercava di spiegarglielo), la sensazione del peggioramento è acuita dall'accelerazione degli eventi. Perché viviamo sì tempi bui, ma si tratta anche di tempi veloci, sempre più veloci. La rincorsa degli eventi viaggia ormai su ritmi tanto elevati da sfuggire quasi alla nostra percezione. Con i sensi annebbiati e confusi, la comprensione si fa vaga, difficoltosa. Per reazione istintiva, emerge l'impressione ingannevole di essere invece cristallizzati in un fotogramma immobile. E qualcuno vorrebbe magari darcela ancora a bere, insieme alla favola della fine della storia. Niente di più sbagliato. Niente di più rischioso: il film rischia di terminare prima che allo spettatore sia concesso di cogliere la chiave giusta per leggerne l'epilogo e, a quel punto, sarà troppo tardi per azzardare anche solo un tentativo di risposta all'estinzione. I continui progressi della rete hanno trasformato in realtà il sogno nudo del cyberspazio, il suo tempo sempre più reale ci lascia ormai sfiorare la simultaneità e, con essa, l'ubiquità. Ma il potenziale sovvertimento relativistico delle vecchie categorie annega nel rumore di fondo dell'informazione diluita, del commento eterodiretto, della critica addomesticata. Come nuova frontiera globale, l'infosfera risulta aperta all'innovazione, alla sperimentazione, sedotta dall'audacia creativa, ma resta al centro delle brame dell'ancien régime che si sforza di applicarvi le stesse regole del mondo-lento. Tutto quello che esula dallo schema è tagliato fuori dal circuito, oggi come ai "bei tempi" che ci piacerebbe ricordare. La differenza è che al giorno d'oggi l'accessibilità ai circuiti alternativi garantisce un'esposizione senza precedenti. Di conseguenza, risulta agevolata l'aggregazione di nuclei di pensiero attorno alle intuizioni seminali lanciate alla deriva nell'oceano elettronico e, con essa, è facilitata l'emersione di nuove forme forti. È un esperimento di darwinismo culturale, parafrasando William Gibson, fatto scorrere con il dito premuto sul tasto dell'avanti veloce. Nuove forme si aggregano, molte scompaiono nel volgere di qualche iterazione, altre sopravvivono. Se non si tratta di forme vincenti, dalla fucina di strategie evolutive a nostra disposizione possiamo quantomeno confidare di estrarre quelle più adatte ai tempi e su quelle lavorare per successivi affinamenti. Ed eccoci tornati al tema del tempo. Il tempo reale della rete sempre più pervasiva, che presto potrebbe diventare davvero ubiqua. Il tempo modulabile della relatività einsteniana. Entità che Sant'Agostino sapeva bene cosa fosse, pur ammettendo di non saperlo spiegare; che la scienza ha messo in relazione all'evoluzione (in biologia) o al decadimento entropico (in fisica), ma sempre al mutamento; entità trasmutata nell'idealismo romantico da genius seculi in Zeitgeist e quindi confluita nell'accezione comune. Ogni lavoro, come ogni uomo, è figlio del suo tempo. Ne esprime i caratteri, magari anche involontariamente; ne riproduce i difetti, magari cercando di trascenderli; e talvolta coglie nella sensibilità di quell'epoca i semi che produrranno frutti marci o maturi in quella successiva. Il nostro Zeitgeist, lo spirito dei nostri tempi, riflette la frenesia, la velocità, l'accelerazione che regolano quest'epoca. E, siccome il cambiamento gioca un ruolo centrale nella letteratura, attraversiamo anche tempi particolarmente "favorevoli" alla loro trattazione letteraria. LETTERATURA DEL XXI° SECOLO Jack BeauregardPotremmo considerare il concetto di transizione come il nucleo stesso della letteratura. Le migliori opere di sempre non sfuggono a questa regola: mettono in scena un processo di trasformazione, di mutamento, che può coinvolgere il protagonista, il suo ambiente, o entrambi. Lo scambio di informazioni tra un soggetto e il contesto in cui opera, di fronte a cambiamenti anche minimi, fa sì che si inneschi un meccanismo retroattivo che agisce producendo cambiamenti (aggiustamenti, se vogliamo) in risposta ad altri cambiamenti. La nostra opinabilissima definizione della fantascienza cerca di tenere conto anche di questo, nel tracciarne le caratteristiche in un tentativo di certo non esaustivo, ma che si vuole comprensivo al massimo: La fantascienza è la letteratura del mutamento, del possibile e del superamento. Mostra come, cambiando alcuni parametri della nostra realtà (società, storia, tecnologia), potrebbe diventare o avrebbe potuto essere il nostro mondo. E siccome il mutamento è al centro di ogni storia, il fatto che esso sia la premessa imprescindibile per una storia di fantascienza porta il genere a trascendere i confini della letteratura e a configurarsi come un meta-genere, che si interroga sul mondo, sull'uomo e sul loro destino. La fantascienza è l'ultima frontiera dell'avanguardia. Se da sempre la letteratura si confronta con il cambiamento, possiamo a ragione ritenere fondata la specificità letteraria del concetto. Dopotutto, che senso avrebbe mettere in scena una situazione immobile, senza nemmeno un'episodica rottura dell'equilibrio? Ma se la letteratura mainstream può permettersi di sprecare forze e risorse prendendo in esame equilibri che sono già fragili in partenza (di natura spesso emotiva e psicologica, piuttosto che sociale), alla fantascienza (e alla letteratura di genere in senso lato) è concesso il lusso di concentrarsi su equilibri che sembrano consolidati e ormai imperturbabili e, facendoli saltare, riscrivere daccapo i presupposti del mondo (inteso come macrocosmo, come microcosmo, e come l'inscindibile unità olistica dei due). Si parli di ucronìa, di estrapolazione scientifica, di una detective story o della lotta contro una minaccia oscura piovuta dallo spazio, fantascienza, giallo e horror hanno il vantaggio di potersi confrontare con la quintessenza della letteratura, senza l'obbligo di dover ridurre il cambiamento alle sue espressioni minimali, domestiche, quotidiane. Nell'era dell'iperspecificità, delle competenze che si fanno sempre più settoriali, degli interessi che diventano sempre più selettivi, il Connettivismo è una reazione alla narrativa minimale e riduzionista. La letteratura, come le altre arti, deve essere uno specchio per il suo tempo. Deve rifletterne i cambiamenti e in un'epoca di rapidi mutamenti come questa, in cui "tutto cambia per non cambiare nulla", non è impresa facile riprodurre le molteplici stratificazioni del reale, la complessità del mondo, dei suoi problemi attuali e di quelli prossimi venturi. CONNETTIVISMO: LA PROSPETTIVA DEL FUTURO NELLA SPAGHETTI SCI-FI Morte all'orecchio di Van Vogt!Il Connettivismo è prima di tutto una sensibilità, un sentire comune che si è aggregato attorno ad alcuni nuclei d'interesse specifico (le conseguenze del progresso, l'impatto sociale delle nuove tecnologie, la spinta dell'umanità verso il suo superamento fisico, l'analisi critica del futuro attraverso gli strumenti dell'avanguardia) per sviluppare un discorso che col tempo, e con l'apporto di nuovi membri, si è fatto sempre più complesso e variegato. Questa attitudine al futuro e l'interesse per temi di particolare rilevanza già oggi, ma che potrebbero avere un riflesso ancor più significativo sul nostro domani, è il carattere principale del Movimento, che esprime una vocazione che è al contempo sintetica e analitica. Il Connettivismo nasce come sintesi di esperienze diverse in questa sensibilità condivisa. Il suo esordio con un Manifesto, come le avanguardie di inizio Novecento, è emblematico: il Connettivismo è infatti pensato come un esperimento artistico in continua evoluzione e l'aspirazione al cambiamento è stata ribadita a più riprese. Ma si tratta anche di un progetto programmatico, nato con certi intenti (la democrazia delle idee, il superamento delle Due Culture e con questo il rinnovamento del genere, l'attenzione per le sue contaminazioni) e aperto a chiunque si riconosca in essi. La portata del suo abbraccio è ampia, tanto da considerare diverse forme espressive, dalla narrativa alla poesia fino alle arti figurative, ma forte e consolidato resta il suo legame con la fantascienza. "Connettivismo" è in effetti una parola mutuata dall'età classica del genere. In Italia è la traduzione del termine "nexialism", coniato in riferimento a una nuova pseudoscienza dal maestro canadese Alfred E. van Vogt nel suo celebre romanzo Crociera nell'Infinito (The Voyage of the "Space Beagle", pubblicato a puntate tra il 1939 e il 1943 su "Astounding"). Van Vogt, uno dei titani della Golden Age, amava inventare discipline scientifiche d'avanguardia nelle storie che scriveva: il Connettivismo, nella fattispecie, era "la scienza di collegare insieme le conoscenze settoriali delle altre discipline" (per usare le parole di Riccardo Valla). E la parola "Connettivismo" racchiude in sé una molteplicità davvero notevole di significati. Oltre alla già discussa volontà di produrre una sintesi – di sensibilità, di esperienze artistiche, di influenze e movimenti letterari, quello che si direbbe un crossover – un altro proposito che ci prefiggevamo era di riallacciare un legame con il passato e con le origini popolari e sperimentali di un immaginario proteso verso futuro. Il fatto poi che la parola avesse una felice assonanza con "connettività", vale a dire la capacità di programmi e sistemi di scambiarsi informazioni, cadeva a proposito in un'epoca come la nostra, in cui scrittori e lettori sono accomunati da un'unica esperienza, quella di essere operatori dell'immaginario in un'era tecnologica di massa. Il Connettivismo è emerso dal magma postcyberpunk e al movimento degli anni Ottanta deve molto. Se i cyberpunk sono stati la prima generazione di scrittori a crescere in un mondo fantascientifico, noi siamo stati i primi a confrontarci con un mondo cyberpunk. La politica delle lobby, la sperequazione tra il nord e il sud del mondo e, all'interno dell'Occidente stesso, la contrapposizione tra i "nodi della rete" e le cosiddette "zone marginali", i dilemmi etici sollevati dalla biogenetica, la battaglia continua per tenere l'informazione libera da filtri, l'integrazione progressiva della tecnologia con i nostri corpi e i primi vagiti delle nanotecnologie: sono questi i punti cardinali del nostro universo. Internet, chip sottocutanei a radiofrequenza, dispositivi retinici elettronici, tecniche chirurgiche sperimentali, virus informatici per cellulari, protesi cibernetiche, interfacce militari e programmi spaziali hanno contribuito a costruirci attorno la stessa atmosfera che si respira nei romanzi di William Gibson e soci. È il nostro mondo, quello che trasfiguriamo nelle nostre opere. Per i connettivisti lo strano, il bizzarro e il surreale sono motivo d'interesse, oggetto da indagare e vivisezionare. L'onirico spesso s'insinua nelle trame, contribuendo a generare atmosfere di sospensione fantastica, riflesso e sintomo di una forte concentrazione immaginativa. Mentre i cyberpunk rivendicavano una visione ampia e globale, i connettivisti, cresciuti in uno scenario già globalizzato, viandanti in nero nel deserto del reale, si sono lanciati nell'esplorazione di una Nuova Frontiera, non più – non solo – spaziale, bensì temporale, con il proposito di riportare il futuro nell'attualità. LA NUOVA FRONTIERA DEL NEW ITALIAN EPIC I tumulti della nostra epoca sono i cambiamenti che viviamo sperimentandone gli effetti sulla pelle, giorno dopo giorno. Sul piano degli affari internazionali, la calma di superficie – con l'America infangata nel (temporaneamente) duplice fronte della guerra al terrorismo, la Cina apparentemente ammansita dall'ammissione nel mercato globale, l'assestamento delle istituzioni russe dopo il passaggio di consegne dallo Zar al suo maggiordomo, il Medio Oriente in fissione (apparentemente) controllata – nasconde una certa agitazione di fondo, movimenti che occasionalmente accendono segnali di allerta sul nostro ecoscandaglio di profondità. Sui piani economico e culturale, l'egemonia dell'Occidente potrebbe essere prossima a soccombere. Potremmo essere già entrati negli Ultimi Giorni, senza che nessuno si sia dato la pena di annunciarcelo dalle torri di guardia. Il Cambiamento incarna lo Spirito di questa epoca, in qualsiasi direzione si scruti l'orizzonte. E, pur con le dovute sfumature, la sua portata non scende mai al di sotto della soglia critica che potrebbe consentirci di abbassare la guardia. Non possiamo più illuderci che il fronte sia lontano, come giustamente rimarca Wu Ming 1 nel suo saggio-memorandum sul New Italian Epic (nel seguito NIE). Siamo parte dell'ingranaggio, osservatori che interferiscono con il loro oggetto di studio come accadrebbe in un esperimento sulle proprietà quantistiche della materia. La rete è il tessuto connettivo che oggi permette un nuovo patto telepatico tra scrittore e lettore, ammettendoli su un piano paritetico che li vede entrambi partecipi nel processo di mitopoiesi, nei panni di operatori dell'immaginario. In questo la sensibilità emergente tradisce il suo forte debito verso le manifestazioni più alte e concrete del Postmodernismo, già orientate a cartografare la mitologia del Novecento e a rinsaldare il patto di fiducia e coinvolgimento con il destinatario dell'opera. Facendo riferimento oltre che al memorandum di Wu Ming 1 al dibattito che ne sta seguendo, ci preme richiamare l'attenzione su un punto che ci sta particolarmente a cuore: più che una frattura vera e propria con i postmoderni o, per meglio dire, con un certo modo di intendere il Postmodernismo (nell'accezione che abbraccia Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut, James G. Ballard, Samuel R. Delany, Don DeLillo, William Gibson), riscontriamo una naturale evoluzione che porta a innestare nel corpo della letteratura italiana elementi già acquisiti dal romanzo americano. Pensiamo al motore del Postmodernismo, "l'affermazione della narrazione come forma di conoscenza" che, percorrendo con slancio avanguardistico i sentieri dell'anti-realismo, nel sovrascrivere la concezione della letteratura come rappresentazione arriva a delineare un universo iperrealista. Da qui la commistione dei generi (fantascienza, thriller, spy story, pastiche); l'irruzione del dato scientifico, spesso mutuato da discipline di forte presa popolare sull'immaginario (dai principi della termodinamica e la neurofisiologia pavloviana di Pynchon al cyberspazio di Gibson, passando per la linguistica di Delany e gli studi hitleriani di DeLillo); la scrittura digressiva che proietta la trama su rotte divergenti e ne riassembla le schegge in un'architettura ipertestuale; l'inclinazione multimediale a trascendere i linguaggi (dal jazz al fumetto al cinema). "Più reale del reale": al di là della frenesia citazionista, delle modulazioni di registro, del continuo gioco dei rimandi a modelli ricombinanti e a fonti che la mano dell'autore plasma e piega alle esigenze del racconto, nell'architettura letteraria degli universi del Postmoderno si estrinseca un'urgenza di comprensione e di trascendenza letteraria, il bisogno di mettere a punto una formula per ridefinire l'interfaccia con il reale, portando il romanzo a essere un nuovo strumento di rappresentazione e simulazione da esplorare, indagare e interrogare per determinare limiti e forma del mondo. A questo riguardo il critico statunitense Fredric Jameson parla di nuove cartografie cognitive (cognitive mappings) e il parallelo non ci sembra inappropriato. I mutamenti occorsi nel frattempo impongono senz'altro di aggiustare la mira, rivedendo il paradigma concettuale per aggiornarlo ai tempi nuovi; tuttavia ci sentiamo di riconoscere le caratteristiche sopra illustrate in molti dei titoli riconducibili al NIE. È giusto e legittimo prendere posizione contro la fuga dalle responsabilità autoriali, ma confidiamo che l'interessante dibattito aperto da Wu Ming 1 non diventi pretesto per una crociata contro il Postmodernismo tout court, senza fare le dovute distinzioni. hurdles.jpgPiuttosto, si parta proprio da qui per impostare la rotta del futuro, perché occorre giocare d'anticipo e sfruttare ogni margine di manovra, e per questo possiamo fare tesoro dell'esperienza maturata nel corso della seconda metà del Novecento. Per questo è importante escogitare nuovi impieghi per gli strumenti comuni, a disposizione di tutti; per questo è fondamentale estendere il dominio della lotta, portando lo scontro sul terreno mutevole, volatile, fluido della rete e dei nuovi mezzi di comunicazione. Serve un ritorno massiccio alla letteratura militante, fatta di impegno civile, di sfide intellettuali, di ambizioni avanguardistiche. Il Connettivismo è sempre stato aperto alle commistioni, agli sperimentalismi, alle ibridazioni. E, qualità altrettanto importante, si è configurato fin dagli esordi come un movimento open source. E adesso assistiamo con soddisfazione alla stessa sfida rilanciata dal NIE a un livello tanto più alto quale compete a una sensibilità diffusa, che trascende i confini di genere o le piccole nicchie autarchiche. Frammentare e unire, capire, mettere in relazione le cose. Anche noi abbiamo "fiducia nel potere maieutico della parola, e nella sua capacità di stabilire legami (legere)". Ce n'è un gran bisogno, di questi tempi. Non a caso il saggio New Italian Epic inquadra un periodo, 1993-2008, in cui siamo scivolati senza interruzione alcuna e senza scossoni dal miraggio della rinascita della Repubblica alla distopia di una dittatura bianca, un regime morbido. Viste le premesse, ci siamo allegramente lanciati su un tappeto di tubi catodici verso un 2013 in cui nessuno si meraviglierebbe se ci scoprissimo a scattare un'istantanea a un nuovo Ventennio. Anche per questo riconosciamo la linea di frontiera del nostro Paese, "l'estremo avamposto" al quale accenna Wu Ming 1 è sotto i nostri piedi e già sulla nostra penna. "Accade in Italia", appunto. Un Paese che andrebbe scritto in minuscolo per l'efficacia con la quale viene amministrato, una nazione che è un sipario dietro al quale il Kipple che vi è stato nascosto è solo il sintomo di una malattia cronica che ci portiamo avanti da un po', formalmente dal 1861. Passato nebuloso, presente torbido e futuro tutt'altro che limpido. E qui l'impresa si fa ardua, perché raccontare e immaginare gli anni a venire è nel nostro DNA. È un confronto contro il tempo e contro i tempi che i connettivisti hanno di fatto accettato fin dalla loro costituzione, ponendo al centro della loro opera il tentativo estremo di riportare il futuro tra le priorità dei loro interessi, servendosi della luce riflessa della fantascienza per indagare meglio il nostro mondo contemporaneo e scrutare tra le pieghe del reale, laddove questo si compenetra con l'immaginario, scrutando all'interno di un genere letterario che, nelle sue migliori espressioni, e per definizione, è epico, perché "ambizioso, a lunga gittata, di ampio respiro". Il futuro come Nuova Frontiera richiede una prospettiva in continuo aggiornamento, in grado di evolversi al passo con i tempi se non più veloce di questi. La scrittura ci permette di proiettare nel nostro cono storico di luce l'effetto farfalla della storia, cavalcando la marea del tempo verso un orizzonte metastorico in cui l'uomo dovrà fare i conti con le divergenti linee postumane della propria evoluzione: estendere l'uomo, frattalizzarlo, farlo esplodere e, con lui, la sua storia; qualcosa che ha poco a che fare con un certo positivismo tecnologico rispolverato e riverniciato a nuovo, ma piuttosto con la riflessione, tuttora aperta e nient'affatto cristallizzata, sul superamento dell'uomo, sul suo futuro in quanto specie in estinzione. Difatti l'homo sapiens, nel corso della sua storia e soprattutto negli ultimi cento anni, si è destrutturato, atomizzato, continuando a credersi, nella sua stoltezza, al centro dell'universo. Ecco perché, tra le tante vie che si possono intraprendere, andrebbe riscoperto e re-inventato il mito, la cui funzione principale è dare un fondamento metastorico alla rappresentazione della realtà. Se la narrazione non mitizzata, intrappolata nei confini del genere, si pone al centro e al limite stesso della realtà raccontata, la mitizzazione – negli strumenti indispensabili dell'atemporalità – coglie e diffonde il nucleo stesso dell'evento, elevandolo a principio di una visione ideologicamente solida della realtà: il mito svolge una funzione prettamente eziologica, di spiegazione dei meccanismi primi della storia, piuttosto che della storicità in sé. Attraverso la figura del narratore che permea e respira le pagine stesse del suo racconto, il mito riesce a innestare l'ideologia del creatore – la sua prospettiva – nelle maglie definite della diegesi. È aperta la caccia al principio primo, al logos, energia metaletteraria che eleva la narrazione e la pone sul piano dell'assoluto, affrancandola da devianze autoreferenziali e limitanti. La letteratura non può fermarsi, costruendo immaginari statici, fasulli e consolatori. La pandemia è già in attoSe il mondo attuale, disgregante, con le sue connessioni veloci, la sua pubblicità invasiva e il suo overflow di informazioni, può condurre in territori della consapevolezza di difficile mappatura, e quindi di ardua gestione, i contenuti di un'opera letteraria capace di aspirare all'assolutizzazione dei significati (attraverso quello che Wu Ming 1, riprendendolo da Alex Galloway e McKenzie Wark, chiama allegoritmo) possono costituire un potenziale rimedio all'incombente dissoluzione cognitiva, che con il passare del tempo assume sempre più i contorni sfilacciati di una paradossale quanto pericolosa singolarità, una vera e propria malattia dell'intelletto. La pandemia è già in atto. Per questo una narrativa che ricorre alle armi della logica dislocata e dell'omogeneità diegetica può divenire il filo rosso necessario per coloro che aspirano a ricondurre idee e conflitti nella dimensione della persona, reintegrandola come centro conoscitivo e produttivo; questo tipo di narrativa, che fa della mitopoiesi un cardine insostituibile, ha in sé la capacità di poter indurre il lettore a liberarsi dai vincoli e dalle pastoie imposte dai media e dal consumo passivo di un certo tipo di letteratura, aiutandolo a ritrovare una cenestesi partecipativa, di lettore/fruitore ma anche di «demiurgo in seconda». Proprio questo, nel panorama impazzito di una società atrofizzata dalla standardizzazione culturale e assuefatta all'accelerazione del progresso, potrebbe assumere i caratteri di una rivoluzione culturale. È in tutto questo che sentiamo la vicinanza con gli intenti principali del NIE: mettere in discussione, capire e, ancora una volta, aggregare e disgregare, rivoluzionare. Stiamo costruendo il futuro anteriore – Quando, sicuri di aver fatto il possibile, potremo dire che ne sarà valsa la pena. Fino a innescare la supernova finale. A quel punto, quando l'onda della deflagrazione investirà le macerie del passato, sarà troppo tardi per qualsiasi tentativo di Restaurazione. E potremo cominciare a pensare al fronte successivo. CINEMA E GOMORRE di Mauro Gervasini* Seguendo da lettori il dibattito sulla Nuova epica italiana inaugurato da Wu Ming 1 e proseguito da altre voci, i cinefili non possono che provare invidia nei confronti degli appassionati di letteratura. Naturalmente le due condizioni possono coincidere, come nel caso di chi scrive, ma da attenti osservatori della “cosa” cinematografica italiana non possiamo che dolerci della mancanza di una tendenza simile in campo filmico. E la delusione si estende pensando che a parte le solite, rare eccezioni, persino la produzione nordamericana, da sempre abituata a elaborare in termini di immaginario gli archetipi dell’avventura e del mito, pare avere perso qualunque respiro epico. George Lucas, con la seconda trilogia (che poi sarebbe la prima) di Star Wars, ha dimostrato come sia possibile rincoglionirsi inseguendo chimere tecnologiche (il digitale, la computer graphic, il blue screen) e dimenticandosi della definizione di personaggi e avventure. Steven Spielberg (e ancora Lucas) con l’ultimo, sciagurato Indiana Jones, ha rincarato la dose confermando come il principio dell’immersione (postmoderna) nell’azione, sostituendo l’immedesimazione dell’avventura classica, possa generare mostri. Una prova? Guardate Casablanca di Curtiz e La maledizione del teschio di cristallo in rapida successione: il primo vi apparirà di una modernità, di un fascino e di una “autenticità” impressionanti. Il secondo, invece, paccottiglia spacciata per antica, e movimentata quanto basta per non far attecchire la polvere. A parte la limpida, inequivocabile, straordinaria eccezione di Michael Mann, il solo grande autore mainstream, Hollywood è morta. Come volete che stia Cinecittà, allora? Male. L’unico fenomeno di cassetta dell’ultimo decennio, escludendo i “panettoni”, è stato quello dei filmini giovanilistici tipo Notte prima degli esami e Tre metri sopra il cielo. La storia insegna a non demonizzare simili fenomeni, ma un conto é accogliere con interesse e rispetto Poveri ma belli di Dino Risi (1956), emblema di una gioventù proletaria che ambiva al benessere piccolo-borghese, un altro è accodarsi al successo di modelli che riproducono sul grande schermo quelli effimeri del piccolo. Con un cortocircuito micidiale, infatti, sono gli intrecci fasulli di Amici della De Filippi a funzionare da matrice narrativa; le colonne sonore sono canzoni degli spot dei cellulari e le regie si strutturano sulla falsariga dello stile mucciniano. Un tempo una siffatta espressione di riporto sarebbe stata definita trash, oggi si abbozza perché i Moccia, i Vaporidis, le Capotondi, i Brizzi paiono in sintonia con il paese reale, per lo meno quello under 20. E non è detto che non sia così... Di epica, comunque, manco a parlarne. Mancano le storie, quelle importanti e capaci di coinvolgere identità collettive e valori condivisi. Negli anni 60 e 70 c’erano sì i film sciatti e coatti, i Franchi e Ingrassia girati con la mano sinistra o Alvaro Vitali e Nadia Cassini, ma anche Il sorpasso e In nome del popolo italiano, Romanzo popolare e Francesco Rosi, Damiano Damiani, Petri e i generi propriamente avventurosi: western, horror, poliziesco. Per carità, nessuna nostalgia. Il 90% di quei modelli produttivi sarebbero irriproducibili adesso. Ma certo manca da parte della nostra cinematografia la capacità di elaborare racconti di ampio respiro e non solo scenette ombelicali costruite ad arte per soddisfare sponsor e responsabili del product placement. Invidia, dunque, pensando al fervore del dibattito che circonda il mondo delle lettere. Poi, inaspettatamente, escono in sala due film come Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino e un poco ci si riconcilia con il nostro cinema. Beninteso: nessuna “primavera” o risorgimento, sono formule buone per quotidiani e politici, alle quali non credono neanche gli addetti ai lavori. Solo una coincidenza fortuita, e l’occhio lungo dei selezionatori di un festival, quello di Cannes (dove i due titoli hanno rispettivamente vinto l’argento e il bronzo), che da tempo aspettava al varco un minimo segnale di ripresa della nostra produzione, puntualmente arrivato in base al calcolo delle probabilità. Anche, va detto, film profondamente diversi, nonostante condividano una medesima idea (politica e morale) di cinema. Gomorra si ispira liberamente all’omonimo testo di Roberto Saviano ma è un’altra cosa rispetto all’impianto del romanzo-inchiesta. Garrone ha eliminato il soggetto del libro (l’io narrante) e ha scelto come punto di vista quello dell’oggetto, ovvero il contesto, Gomorra, intesa come non-luogo dove convivono uomini e donne in un ambiente indistinto e senza regole che non siano quelle del denaro e della sopraffazione. Già questo spostamento dello sguardo ha un che di rivoluzionario, perché parte dal basso, dalle figure minori. Il sarto consapevole di lavorare per la camorra, lo scugnizzo pronto a essere militarizzato dal sistema, i due giovani ribelli che sfidano l’ingranaggio malavitoso, il modesto dispensatore di prebende, il collaboratore dell’affastellatore di rifiuti tossici (unico a ribellarsi). Ognuno contraddistinto da un diverso spazio fisico (il fortino delle Vele di Scampia per il piccolo Totò e don Ciro, spiagge mare boschi per i due “anarchici”, cave e campagne per i riciclatori, interni operosi per il sarto) e da un identico rumore di fondo. Piombo, neomelodici, fruscio dei soldi, motori di macchine o scooter. Sono stati i Massive Attack, autori del brano che segue i titoli di coda, a consigliare a Garrone di lasciare il film senza musica. Inutile e pleonastica. Basta il suono naturale delle cose, del degrado. Bastano le lingue (il casalese quasi pugliese, il napoletano, l’inglese dei nigeriani, il mandarino dei cinesi) a rendere Gomorra una fetta di mondo e non una ferita italiana. Una collega che da anni si occupa di giudiziaria, però, ci pone un problema. Il film racconta solo il primo anello della catena, non fa nomi, non mostra collusioni, non denuncia. Forse, per questo, “non fa politica”. Ma Gomorra non è un’inchiesta. Non è un reportage. E' un quadro impressionista. Realistico ma non realista. Anzi astratto, a tratti fiabesco, spessissimo sospeso tra la concretezza greve della terra e la materia del sogno, livida e stupefacente. Se si vuole sapere qualcosa dell’anello principale, quello che della Gomorra beneficia affinché tutto cambi per restare identico, be’, allora c’è Il Divo di Paolo Sorrentino. Non la biografia di Giulio Andreotti e neppure la cronaca dei suoi ultimi anni al potere, sebbene il film sia ambientato nel periodo che va dalla nascita del suo VII governo al processo per associazione mafiosa. Bensì la rappresentazione di quel tempo devastato e vile, avido, grottesco, con il simbolo della “complessità” oscura dell’Italia dal Dopoguerra a oggi ridotto non a maschera tragica ma a caricatura di se stesso e di un sistema. La storia insegna che nel declino di ogni potente c’è sempre qualcosa di ridicolo, ma la parabola discendente di Andreotti - dal bacio di Riina alla punzonatura dei picciotti alle battute stantie - è di per sé cattiva televisione, e non è un caso che sulla mensola del salotto del Divo siano in bella mostra i telegatti. L’operazione di Sorrentino è rischiosa, perché il personaggio, nella stilizzazione mimetica di Toni Servillo (più vera del vero: Andreotti sarebbe in realtà un uomo alto e nessuno se ne è mai accorto...) può risultare accattivante. Da qui il disprezzo della critica di sinistra (“il manifesto” ma anche Goffredo Fofi). Eppure, nell’economia del film, Andreotti è un falso problema. Sorrentino tenta anzi di trasformare un personaggio fortemente caratterizzato in un sorta di icona pop attraverso un riferimento classico (Todo modo di Petri) filtrato attraverso una sensibilità moderna (gli uomini della corrente presentati come le Iene di Tarantino, i piani sequenza scorsesiani, l’iperrealismo delle descrizioni). Così facendo, il Divo Giulio non é più l’individuo con la sua storia e i suoi misteri, ma il Potere in quanto tale, consapevole che il proprio esercizio possa avvenire a determinate condizioni. Per esempio accettando che per un sistema politico emanazione di un regime economico capitalista, il crimine non sia una perversione ma una componente intrinseca. Esattamente il senso di Gomorra di Roberto Saviano, tanto per chiudere il cerchio. A riprova dello spessore non contingente di Il Divo, la dichiarazione di Sean Penn, il quale, da presidente della giuria di Cannes, ha affermato di non sapere nulla della vicenda che racconta ma di avere avuto la percezione di riconoscere tutto, e che da loro, negli Stati Uniti, un film così lo si sarebbe potuto fare su Kissinger. Naturalmente, la similitudine tra Andreotti e Kissinger è data dalla rappresentazione, non dalla storia personale. Resta un punto da chiarire. In quali termini Gomorra e Il Divo sarebbero epici? Assumendo le caratteristiche principali del New Italian Epic individuate da Wu Ming 1 nel suo saggio, Gomorra soddisfa con molta evidenza il punto 1 ("nonostante Scarface di De Palma e Il Padrino, ecco un romanzo sociale e criminale disperato"), il punto 2 (lo sguardo, come detto, è obliquo e fluido per definizione), il punto 3 (la struttura a intreccio dice della complessità narrativa dell’opera), il punto 4 (ai non-luoghi di Garrone fa da sfondo un non-tempo, e l’incipit del film è, visivamente, pura fantascienza). Si può avere qualche dubbio solo sul punto 5 perché lo stile del regista è sovversivo senza essere dissimulato, ma non è escluso che il film si possa vedere senza percepire il contrappunto della macchina da presa. Il Divo soddisfa il punto 3 e soprattutto il 4, perché tutto - dai toni acidi alla colonna sonora anacronistica, alla mummificazione dei simboli istituzionali – getta la vicenda in una dimensione ucronica. Sul punto 5 vale la medesima osservazione fatta su Gomorra. I punti 1 e 2 sono i più controversi perché il film ha un rapporto ambiguo con il postmoderno e uno sguardo non definito. Chi racconta il declino di Giulio? Un occhio semplicemente impersonale e virtuosistico (la non-entità di cui parla Wu Ming 1) oppure uno pubblico che conferma come la Storia, in fondo, siamo noi? Al di là dei dubbi, e nel loro isolamento, Gomorra e Il Divo fanno sentire lo spettatore un po’ meno invidioso del lettore. E soprattutto, meno solo.