Cortigiani, vil razza dannata di Carlo Loiodice Avrei voluto intervenire subito dopo gli eventi, ma in casi come questi, scattano meccanismi terribili di imperdonabile cautela o d'inconscia autocensura. Credo che a solidarizzare con i manifestanti contro Ferrara siano stati tanti di più rispetto alle voci che si sono sentite. Ma il pensiero unico e la supponenza strategica induceva comportamenti contrari. Bisognava "accreditarsi"; ed è quello che han fatto Mafai, Bertinotti, Giordano, Cofferati e gli altri "marrani". La parola tra virgolette non è dispregiativa ma storica. Si riferisce a quegli ebrei che, per sfuggire al bando di espuulsione emanato da Isabella e Ferdinando nella Spagna del 1492, si convertirono al cattolicesimo, così come tanti oggi si sono convertiti dal leninismo e dallo stalinismo al liberalismo. Il problema del "marrano" (il convertito) è che gli altri non sono disposti a crederti fino in fondo. Da qui prove ricorrenti per costringerti ad ulteriori professioni di fede, accettate volentieri dall'avversario ma mai come prova definitiva. Anche Giuliano Ferrara s'inscrive nel modello del "marrano", il "vil marrano" che dalle gesta dei cavalieri è passato al luogo comune. Comunista perché figlio di comunista, egli "uccide il padre" facendosi assoldare dalla CIA. E si badi: è più importante che lui se ne sia vantato, che il fatto sia o non sia realmente accaduto. Si converte a Craxi quando sembra che in Italia il re sia lui; e passa a Berlusconi per la stessa ragione. Ma del marrano non ci si può fidare: non ci si deve fidare (questo è il gioco tragico). Per cui ecco che il potere occulto chiede al ciccione una abiura ulteriore: quella della sin qui mantenuta laicità. Ed eccolo scendere in campo a sostegno del referendum di Ruini contro la legge 40 sulla procreazione assistita. "Sono stato bravo, eminenza?" "Certo, figliolo. Ma di' un po': che ne pensi delle donne che abortiscono?" "Eminenza, ma me lo chiede? Come potrebbe dubitare di me? Le darò una tangibile dimostrazione della mia devozione incondizionata..." Ed eccolo scendere in campo in una delle operazioni più assurde della storia politica italiana: affrontare una battaglia elettorale mettendo in conto un risultato quasi nullo, pur di produrre un rumore, molto rumore, a beneficio altrui. Se Ferrara fosse l'unico "marrano" non ci sarebbe storia e potremmo ridurlo a folclore, alla stregua di quel tal Damiano Orelli che negli anni '80 tenne un comizio in piazza Maggiore per l'Unione valdostana, insolentito e dileggiato per tutto il tempo e poi persino portato in trionfo dai compagni, quelli che lo avevano fischiato e schernito, al grido di "Aosta capitale!" Invece qui i marrani sono in tanti: tutti coloro che dopo l''89 si sono fatti in quattro per dimostrare all'universo mondo che loro non erano comunisti, non lo erano più o addirittura non lo erano mai stati... E se ancora lo erano, non erano più marxisti. E se lo erano ancora, non erano più violenti. E se erano stati atei, erano disposti ad ammettere che qualcosa... da qualche parte... E così abbiamo sotto gli occhi la situazione alla quale siamo giunti. In una intera storia umana in cui ha sempre vinto o chi ha forzato le regole o chi ne ha dato una lettura "creativa", la sinistra italiana, praticamente in tutti i suoi esponenti, giudica e manda secondo legalità, ossia secondo quelle regole che oggi governano l'ingiustizia. Più sopra ho definito "assurda" l'operazione politica di Ferrara. In effetti tale sembra in quanto appare senza sbocco. Eppure, a ben rifletterci, l'assurdità è solo apparente. Si tratta di una forzatura delle regole al fine di sovvertirle. In vista di quale obiettivo, possiamo supporlo anche se allo stato non mi sento di affermare qualcosa di esplicito. Ma proprio se di forzatura si tratta, ecco legittimata la forzatura simmetrica: quella di chi è andato in piazza a mettere sull'altro piatto della bilancia un peso equivalente e quindi neutralizzante. Beppe Grillo ha indirizzato una lettera al capo della polizia Antonio Manganelli, nella quale discute il comportamento delle forze dell'ordine nella circostanza: "Vede, ho una strana sensazione, che la Polizia di Stato stia assumendo agli occhi dell'opinione pubblica un ruolo che, sono sicuro, non vuole avere e non deve avere. Quello di protettrice degli interessi dei partiti, delle loro malefatte, dei loro numerosi pregiudicati e prescritti. Questa sensazione la leggo negli occhi delle ragazzine prese a manganellate a Bologna durante la manifestazione di dissenso nei confronti di Giuliano Ferrara. La loro unica colpa è stata di avere contestato con un lancio di pomodori un signore che vuole cancellare un referendum e che dal suo comodo studio televisivo sponsorizza ogni guerra, purché americana. Quando è possibile per i nostri ragazzi dissentire, anche urlando, se non in piazza? [...]" Già, quando e dove è possibile? Rispondano quei leader di partito e quei sindaci che a parole propugnano una libertà di manifestazione del pensiero che nella realtà ha un ben misero riscontro. Ripensi Cofferati, lui che frequenta il mondo della lirica, a quei loggionisti del teatro Regio di Parma, terrore di cantanti e direttori d'orchestra, che non risparmiavano con robuste bordate di fischi quando dissentivano dall'interpretazione. Non è mai accaduto che qualcuno dal palco si sia rivolto loro accusandoli di inciviltà o d'incompetenza. Poiché quelli civili erano, come dimostrava il fatto che spendevano i loro pochi soldi per acquistare un biglietto all'opera in loggione; e competenti anche, visto che non se ne perdevano una. Così, da queste manifestazioni - che oggi il fairplay e il politicamente corrretto snobbisticamente rifiuta - la lirica nel suo complesso ci ha guadagnato, finché è stato un genere vivo; e chi superava Parma poteva andare tranquillamente negli altri teatri. Analogamente la democrazia italiana nell'ultimo mezzo secolo è cresciuta anche grazie a certi scontri di piazza che ancora orgogliosamente includiamo nella nostra memoria (Almirante in piazza Maggiore, 1970). Se il MSI a Fiuggi trascolorò in AN, non fu in seguito ad una civile e pacata discussione con gli antifascisti; bensì per l'insostenibilità di una irrimediabile emarginazione dei fascisti voluta dal popolo e in qualche modo garantita dall'alleanza del cosiddetto "arco costituzionale". E quando dico "in qualche modo" mi riferisco a momenti di scontro duro come quelli dell'estate 1960 a Genova e a Reggio-Emilia. I "marrani" convinti che in Italia la democrazia abbia irrimediabilmente vinto commettono un miope e unilaterale errore di prospettiva. L'attacco alle istituzioni democratiche oramai non arriverà più nelle forme classiche che chiamiamo fascismo, ma in forme nuove e sicuramente più striscianti e meno leggibili nella loro immediatezza. E del resto anche nel 1922 molti democratici liberali - Gobetti escluso - non ebbero chiara la visione del pericolo reale e commisero l'errore dell'accondiscendenza o della neutralità. Per conto mio, trovo positivo che qualcuno - soprattutto ragazzi - senta il bisogno di opporsi a certe derive, come facevano i loggionisti di Parma. Ma il fatto che Ferrara, dopo essere stato fischiato a Bologna, vada a farsi fischiare anche altrove, dimostra due cose: che un disegno da quella parte c'è, e che l'interprete è pessimo. "Cortigiani, vil razza dannata..." (Verdi, "Rigoletto") La normalità del male di Blicero Martedì 11 marzo 2008 i pubblici ministeri Petruzziello e Ranieri Miniati hanno letto le loro richieste di pena per i 45 imputati per i fatti di Bolzaneto: le condanne ammontano a qualcosa come 76 anni complessivi, ma solo per 15 degli imputati la pena supera la soglia della condizionale (ventiquattro mesi) e solo per 8 di questi quella dell'indulto (tre anni). Per i restanti trenta le condanne sono di circa un anno (o meno) a testa, anche considerata la peculiarità delle condizioni che si sono verificate a Bolzaneto - hanno detto i pm. Il problema è che non c'è nulla di straordinario in Bolzaneto, se non il fatto che ciò che è accaduto sia sostanzialmente di dominio pubblico. La caserma del VI Reparto Mobile di Genova a Bolzaneto nel luglio 2001 era uno dei due luoghi adibiti a ricevere i fermati e gli arrestati per poi trasferirli alle carceri di destinazione (o rilasciarli nel caso dei primi). L'altro luogo era Forte San Giuliano, una caserma dei Carabinieri. A Bolzaneto per l'occasione si costruì una palazzina in cui le forze dell'ordine operanti in ordine pubblico dovevano portare i fermati, consegnarli agli uomini della Digos e della squadra mobile presenti, con i quali dovevano redigere gli atti relativi al fermo o all'arresto. Gli arrestati poi dovevano essere "passati" alla polizia penitenziaria, immatricolati, visitati e trasportati (o tradotti, come si dice in gergo) nei carceri di Alessandria, Pavia, Voghera, Vercelli. In realtà - come ormai tutti sanno - a Bolzaneto sin dall'arrivo le persone venivano sottoposte a una sorta di contrappasso violento e umiliante, una specie di vendetta, in cui le forze dell'ordine si autoqualificavano di fatto come avversari dei manifestanti. Questa è la prima inversione che spesso si cerca di fomentare per sminuire i fatti della caserma: nessuna delle persone in stato di "ristretta libertà" ha dato luogo a episodi di resistenza o di violenza, e quindi la decisione vigliacca e vile di esercitare la violenza anziché di svolgere il proprio compito ha una sola origine ben definita. Le persone venivano accerchiate, insultate, minacciate e picchiate nel cortile, poi venivano minacciate e percosse negli uffici della Digos e della squadra mobile, al fine di far loro firmare dei verbali redatti in italiano anche per gli stranieri. Ogni volta che le persone venivano spostate dalle celle di sicurezza all'ufficio trattazione atti e viceversa, dovevano passare in mezzo a due ali di agenti che continuavano a menare calci, pugni, sgambetti, insulti, sputi. Nelle celle di sicurezza le persone non potevano stare sedute, ma dovevano stare in piedi con la faccia al muro, le braccia alzate e le gambe divaricate, tanto che molti hanno avuto malori e conseguenze anche a medio-lungo termine per la posizione imposta. Senza contare gli episodi di violenza fisica e verbale gratuiti. A questo punto i fermati venivano rilasciati, non prima di essere stati fotosegnalati dalla scientifica (dove però non avviene nessun episodio di violenza), mentre gli arrestati passavano nelle mani della Polizia Penitenziaria, dove il trattamento nelle celle continuava: divieto di andare in bagno o l'accompagnamento con pestaggi e umiliazioni; violenze gratuite; minacce e intimidazioni continue. Dalle celle gli arrestati venivano immatricolati senza consentire loro di avvisare i familiari o i propri consolati, poi venivano perquisiti e visitati nella stessa stanza, dove agenti e medici li trattavano con violenza e scherno. Poi tornavano alle celle e infine erano tradotti alle carceri, alcuni dopo oltre 30 ore di permanenza nella struttura temporanea senza cibo e acqua. Per molti l'arrivo in carcere era praticamente una liberazione. Per tutto questo i pm avrebbero voluto usare il reato di tortura, che però in Italia non esiste, nonostante il nostro paese sia firmatario della convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura del 1989, che impegna i paesi firmatari a tradurre in disposizioni di legge il contenuto della convenzione: a venti anni di distanza nessuna legislatura è stata in grado di portare a termine questo compito. Al di là di questa carenza i pm hanno deciso di individuare e punire con pene più severe il cosiddetto livello apicale, ovverosia i capi dell'ufficio trattazione atti, i capi del sito di Bolzaneto, dell'infermeria, del servizio di traduzione, dei servizi di vigilanza alle celle: in pratica hanno ritenuto che il loro ruolo di responsabilità e garanzia fosse più importante e quindi da punire con più fermezza. Da questo livello hanno deciso di escludere il responsabile formale del sito, il magistrato Alfonso Sabella che pure vi era passato e che aveva a maggior ragione un ruolo di garanzia nei confronti di chi transitava in quei siti. Ma la solidarietà di casta non conosce confini. Viceversa hanno ritenuto che i livelli intermedi e gli agenti che effettivamente sono stati i protagonisti dei trattamenti fossero responsabili solo di episodi da inserire in un clima di impunità da attribuire ai loro dirigenti. Eccezioni sono ovviamente gli agenti individuati e riconosciuti con chiarezza come protagonisti di singoli atti di particolare crudeltà: ad esempio Pigozzi che prende a due a due le dita della mano di un arrestato, AG, e le divarica fino a provocargli lesioni. Il risultato finale sono una richiesta di pene (da notare che spesso i tribunali comminano pene inferiori a quelle richieste del pm) di circa 76 anni, una sola assoluzione, ventinove posizioni in vista di prescrizione e comunque entro i termini della condizionale, quindici posizioni con pene un po' più cospicue. Tutti soddisfatti? Direi di no, per almeno due motivi importanti (e una miriade di motivi più triviali): in primo luogo queste condanne equivalgono a meno della metà degli anni di carcere chiesti e ottenuti per le 25 persone accusate di aver partecipato agli scontri della giornata, e l'atteggiamento dei pm nei confronti degli imputati è stato improntato a un garantismo e una prudenza esasperati, tali che se non vi era prova certa del fatto e dell'identificazione di un imputato come autore di quel fatto, si sono pronunciati sempre e comunque per l'assoluzione (fermo restando l'ottimo lavoro svolto dai pm nel clima di difficoltà che un processo contro le forze dell'ordine rappresenta sempre). Non che nessuno sia interessato al fatto che queste persone passino mille anni in carcere, ma una condanna più dura in un caso come questo dove siamo alle porte della prescrizione sarebbe stata un segnale più forte da parte della procura rispetto a quanto è avvenuto e quanto avviene tutti i giorni (vedi sotto). E' facile capire come chiunque sia passato da Bolzaneto e non abbia denunciato quello che vi avveniva lo faccia in malafede e si renda corresponsabile di ciò che è accaduto. Mettete nell'equazione i campi dove tenevano i desaparecidos in Argentina al posto di Bolzaneto e vedrete che i conti tornano. Ma la giustizia si fa garante dell'onere della prova della commissione di un reato solo quando questo reato è esercitato da chi sta tra i ranghi del potere: infatti, per le 25 persone accusate degli scontri di piazza, non vi è stato alcuno scrupolo né nell'individuare i singoli reati commessi, né nello scegliere un capo d'accusa che avesse senso: servivano pene esemplari, e si è usato il reato necessario, anche a dispetto della realtà. La conclusione amara a cui uno deve giungere è che è meglio torturare come sottoposto centinaia di persone, che non spaccare due vetrine o lanciare quattro sassi: nel primo caso prendi 10 mesi e sei libero, nel secondo prendi 10 anni di galera. Il secondo punto problematico è la motivazione per le pene contenute richieste per gli esecutori materiali: secondo i pm le condizioni della caserma di Bolzaneto sono state eccezionali, nella commistione di diverse forze dell'ordine, nella poca chiarezza delle direttive, nella concitazione di quei giorni. Questa straordinarietà ha convinto i procuratori a non chiedere la recidività delle condotte e a chiedere in prima persona l'applicazione della sospensione con la condizionale della pena. Il problema è che quanto è avvenuto a Bolzaneto non è per nulla eccezionale, ma è la prova vivente di quanto avviene tutti i giorni in moltissimi luoghi del paese, nelle caserme, nei centri di permanenza temporanea, nelle carceri e alle volte (si vedano i casi recenti di Aldrovandri e di Sandri per citarne due) anche nelle strade. Bolzaneto è la rappresentazione dell'anima nera di una buona parte delle forze dell'ordine, della sensazione di chi veste una divisa di essere al di sopra della legge e di poter esercitare arbitrariamente il proprio potere su tutto e su tutti, in particolare su coloro che sono detenuti (o comunque "ristretti" nella loro libertà come i migranti in un CPT o i fermati in una cella di sicurezza della questura). L'arroganza e la prepotenza di moltissimi (non tutti, ci mancherebbe, non facciamo della facile demagogia) membri delle forze dell'ordine è un dato di fatto, e qualificare Bolzaneto come eccezione forse non rende un grande servizio alla possibilità che tutto questo cambi. Ma la strada perché le persone si interessino veramente di come funziona il mondo che le circonda e di come si esercitano il potere del controllo e della repressione è ancora molto lunga. Bolzaneto in questo senso è un'occasione persa, un tentativo di infilare tutto sotto il tappeto considerandolo come un episodio terribile ma isolato. Il male è molto più ordinario di quello che piace pensare. La falsa moralità della legge di Blackswift Il principio più importante su cui si costruisce molta dell'offensiva culturale e politica della destra moderna è la confusione. Una confusione scientifica tutta mirata a mistificare concetti tutto sommato semplici, ma che con un ragionevole impegno dialettico possano essere vòlti ai propri fini. Sempre più spesso violenza e sicurezza diventano binomi inscindibili: più sicurezza, meno violenza; più violenza, meno sicurezza. Basta una pennellata al contorno per far diventare la sicurezza non quella di una vita dignitosa e della propria libertà, ma quella dell'esercizio arbitrario dei poteri di repressione e di controllo, nell'illusione che alimentare la pressione in una pentola sigillata non la faccia esplodere ma ne dissipi il potenziale distruttivo. E la violenza diventa quella rappresentata delle curve dello stadio o di una piazza in cui brucia una piccola barricata. Puntare i fari in quest'ultimo caso è facile e fa spettacolo, malgrado i protagonisti, e consente di dimenticare la violenza che ogni giorno ci priva di un pezzetto di dignità, quella che rende possibile al datore di lavoro di mia madre di metterla in una scrivania faccia al muro dopo 40 anni di lavoro. L'immagine è tutto, e manipolare i termini del tessuto sociale è un elemento primario nella possibilità di dominarlo. La destra l'ha capito subito e se da un lato si è attrezzata con un impero mediatico, dall'altra ha lavorato ai fianchi le menti delle periferie, convincendole che la loro vita quotidiana era sbagliata, e che dovevano fare di tutto per sconfiggere il nemico – senza specificare quale. Così ritrovo ex banditi che al bar invocano l'intervento della polizia contro i rom e i barboni, oppure gente che contrabbanda qualsiasi cosa che si lamenta dei criminali. Come se non fossero loro. Come se non fossimo noi. Come se il problema non stesse da un'altra parte: nella barbarie della vita moderna e dei suoi interpreti principali. La sinistra su questo terreno parte in ritardo, e negli ultimi anni la corsa a fare la fotocopia sbiadita della destra è qualcosa che fa sorgere sempre un sentimento a metà tra la compassione e il ribrezzo. Viene da chiedersi se le persone che si definiscono di sinistra ce l'abbiano mai avuta una idea delle parole e di come sono state usate nel tempo. L'altro binomio cavalcato da tutto il “blocco d'ordine” (così qualcuno l'ha definito in maniera interessante a un recente incontro) è Morale e Legge. Qualche vecchia volpe diceva che la legge è l'ipostatizzazione della realtà, ovvero che la legge contribuisce a regolare gli usi e i costumi della società che regola, dopo che questi si sono lentamente consolidati. In realtà nel moderno mondo di cristallo delle false realtà immaginarie, la legge è la tutela della morale, l'ago della bilancia di ciò che è giusto e sbagliato, l'esatto opposto. Con un breve artificio retorico, il mondo si è rovesciato. Il risultato diretto di tutto questo è che la legge viene usata come una sorta di maglio moralizzatore che dovrebbe mostrarci chiaramente i buoni e i cattivi, evitandoci di pensare. Peccato che poi esistano persone e istituzioni (buone o cattive chi lo sa?) che definiscono l'uso della legge, e se non è il comune consenso civile a definire come farlo, quali sono i principi che li muovono? E' la risposta a questa domanda la più scomoda di tutte, perché la risposta è: “la conservazione di una élite dominante e di una popolazione docile al sopruso”. L'11 marzo un gruppo di 200-300 persone circa ha cercato di impedire che circa mille neofascisti sfilassero nel centro della città di Milano. Lo ritenevano sbagliato, perché conservano ancora il ricordo di quanto ha significato per tutti noi la Guerra di Liberazione – anche se pare sia un po' fuori moda, come testimoniano le uscite della sindaca Moratti sulle lapidi o la libertà d'azione che un gruppo di naziskin ha di accerchiare e sfottere un ex partigiano di 84 anni. Non riuscendo a raggiungere il corteo dei neofascisti per l'imponente schieramento di polizia in piazza Oberdan (Porta Venezia), i presenti hanno eretto delle barricate e ingaggiato un rapido scambio di lanci con le forze dell'ordine (durato in tutto 30 minuti). Durante la carica che ne è seguita, le forze dell'ordine hanno arrestato 45 persone: un terzo di queste, dopo aver fatto qualche giorno in carcere, sono state rilasciate perché non c'entravano nulla con gli eventi; un'altra decina sono state assolte perché non vi era una sola prova che avessero fatto alcunché; diciotto di questi sono stati condannati a 4 anni (ovvero 8, ridotti a 6 per le attenuanti e a 4 per il rito abbreviato) per devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.). Per questi ultimi l'accusa ha trovato almeno una foto che li ritrae travisati in piazza (notare che sono stati sparati decine di lacrimogeni e che anche le persone intorno che curiosavano avevano davanti al volto sciarpe e foulard per proteggersi dai fumi tossici). Solo due o tre di questi sono protagonisti di immagini in cui lanciano uno o due sassi. Nessuno di costoro si e' reso protagonista di incendi, di lancio di razzi, o di lancio di bombe carta imbottite di chiodi (che non ci sono mai state, dato che la foto a cui viene associata questa affermazione della polizia è in realtà il tipico cartone in cui ti vendono i chiodi a tre punte in un qualsiasi ferramenta). Quattro anni di condanna per essere presenti a una manifestazione in difesa della memoria antifascista di una città che degenera. I naziskin che hanno accoltellato quattro persone fuori dal centro sociale Conchetta di Milano (di cui due ridotte in fin di vita) hanno visto in appello derubricato il tentato omicidio per il reato di lesioni: due anni con la condizionale. Forse l'indicazione è: smettetela di giocare e datevi sul serio alla barbarie. Dovremmo tenerne conto. La legge è la misura di una falsa moralità che si nasconde dietro giudici e pm per non dover affrontare i contrasti di cui la vita quotidiana è composta, conflitti necessari per sopravvivere. Allora i giudici e i procuratori diventano lo strumento di un nuovo status quo, in cui è la legge a decidere cosa è giusto e cosa no, e non la convivenza tra le persone e il loro “contratto sociale”. E' facile per tutti tapparsi le orecchie e non accorgersi che a pagare sono sempre gli stessi, quelli che ancora non hanno capito che la compatibilità è il bene più prezioso, anche a scapito di ciò che reputiamo giusto. In occasione del processo contro i 29 imputati per devastazione e saccheggio per i fatti dell'11 marzo, complici le elezioni e un sempre più spinto moralismo che confonde violenza e sicurezza, barbarie e legalitarismo, nonché la contemporaneità delle elezioni comunali, nessuno ha avuto la coscienza di affermare che l'uso politico dei reati del codice penale è ormai totalmente fuori controllo. Il comitato dei genitori e i pochi che si sono spesi per difendere le persone accusate sono stati lasciati sostanzialmente da soli, mentre 27 persone (di cui poi 9 assolte) passavano mesi in galera. Ora, in teoria, sarebbe passato del tempo. Non ci sono più le elezioni. Non c'è più lo shock mediatico di mezza barricata che brucia in mezzo alle vetrine di Milano. Non ci sono più mostri, non ci sono più convenienze e opinionisti improvvisati che mettano tutto insieme in unico calderone di violenza, a cui rispondere con la mania securitaria, per il quale lasciare che la legge regoli il nostro senso di giustizia e dignità. Ora non c'è più nulla di tutto questo, ed è il tempo di rivedere libere persone che abbiamo immolato al nostro finto senso di tranquillità e al nostro desiderio di credere disperatamente alla rappresentazione della realtà che media e politicanti ci presentano, dimenticandoci quanto è diversa da quella che viviamo tutti i giorni e che loro ignorano. Invece, durante la prima udienza d'appello il Sostituto Procuratore Generale di Milano ha chiesto la conferma della pena per i condannati, senza smorzare minimamente l'impianto accusatorio che pareva vagamente ispirato dal circo mediatico che si era creato un anno e mezzo fa. Così, grazie a informative, documenti della polizia, dei carabinieri, ancora i Ris, i giudici, così come già a Genova, si apprestano a dare la loro versione della storia. Una versione, una verità che, anziché essere considerata solo una delle tante verità, spesso viene ripresa anche dai media, dai giornalisti, dagli scrittori, come quella "vera". Ne abbiamo visti di addetti all'informazioni aggirarsi per le aule di tribunale sempre molto eccitati - e acritici - di fronte a materiale con la dicitura "Questura", "Uffici della Digos", così segreti, così proibiti, forse. Li abbiamo visti e sentiti mentre pontificavano e usavano questo materiale per scrivere la storia per le masse, riprendendo una versione dalla storia decisa da una ben specifica parte sociale. La storia non è quella scritta negli uffici, nè quella scritta dai giudici. "La storia siamo noi", ma forse anche queste parole, così esaltate ipocritamente anni fa, oggi non sono più spendibili politicamente. ZERO. PERCHÉ LA VERSIONE UFFICIALE SULL’11/9 È UN FALSO di Giulietto Chiesa La ragione principale che mi ha spinto a promuovere questo lavoro collettivo risiede nella mia profonda convinzione, che so essere condivisa da tutti coloro che vi hanno preso parte, che l’11 settembre è stato non solo un colossale inganno, perpetrato ai danni dell’intera umanità, ma che esso è stato ed è un’arma di tremenda potenza puntata contro la pace mondiale e i cui effetti – se non impediti – potrebbero mettere in causa la stessa sopravvivenza di milioni e perfino di miliardi di individui. Come è stato detto autorevolmente, la verità sull’11 settembre non la conosceremo mai: non nei prossimi cento anni almeno. E questa realistica affermazione già implicitamente contiene l’ipotesi che la versione ufficiale non solo non ci ha detto la verità, ma è stata dettata da una ferrea ragion di stato, ben più tremenda del bilancio delle vittime di quel giorno, perché ha aperto la via a mostruose carneficine di innocenti. Che sono in corso mentre scrivo queste righe, e che possono dilagare se non ci sarà qualcuno capace di fermare la mano degli insensati che guidano il pianeta. Noi siamo partiti dalla necessità della ricerca della verità, ben sapendo che essa non è celata in un posto solo. Meno che mai in qualche grotta afgana. Una ricerca che, per il solo fatto di esistere, si pone come barriera alla prosecuzione della guerra infinita che è cominciata l’11 settembre e che non accenna a terminare e, anzi, continuamente minaccia di estendersi e di incendiare il mondo. Noi sappiamo dalla “prova di Godel”, che la quantità di proposizioni vere non dimostrabili è infinita, ma abbiamo sperimentato che è possibile dimostrare la falsità di un numero definito di proposizioni false. E siamo giunti pertanto, tutti insieme, noi che abbiamo lavorato qui in Italia, insieme alle decine di migliaia di ricercatori di tutto il mondo, alla conclusione che è sufficiente, per demolire il tabù, che si dimostri che la versione ufficiale è falsa. Perché chi ci ha raccontato questa enorme bugia non è stato – chiunque egli sia, con chiunque egli abbia lavorato, quale che sia stato il suo ruolo nella vicenda (e noi riteniamo che un ruolo importante lo abbia avuto) – Osama bin Laden. Non è stato Osama bin Laden a scrivere il rapporto finale della Commissione del Congresso degli Stati Uniti d’America. David Ray Griffin dimostra impeccabilmente, in queste pagine, di quali e quante bugie quel rapporto sia farcito. Gli autori dell’inganno sono stati coloro che ce lo hanno raccontato. Sapessero la verità oppure no è altra faccenda (più probabile che solo alcuni di loro si siano resi conto, o sapessero), ma si sono consapevolmente fermati davanti alla porta e non hanno voluto aprirla. Come molte persone normali, del resto, che arretrano impaurite di fronte all’evidenza, e preferiscono chiudere gli occhi, perché aprirli comporterebbe un grado di sofferenza che non sono in grado di affrontare. E, poiché noi siamo in condizione di dimostrare che gli autori del rapporto ufficiale hanno mentito, allora la nostra domanda è rivolta a loro: perché avete mentito, visto che secondo voi la risposta al quesito era così semplice da poter essere racchiusa in sole cinque parole: «è stato Osama bin Laden»? Che bisogno c’era di raccontare tante bugie se la verità era così semplice come avete cercato di far credere? Ed è subito evidente che, se noi abbiamo ragione, allora una serie gigantesca di interrogativi si affollano dietro il primo e fondamentale. Allora la guerra afgana perde il suo significato originario e ne acquista altri, del tutto diversi. Allora la decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che autorizzò l’attacco, perde ogni validità giuridica e si mostra per quello che è stato: esercizio del potere di imperio degli Stati Uniti sulla comunità internazionale. Allora si capisce perché la NATO fu trasformata, in anticipo, prima dell’11 settembre, da alleanza difensiva in offensiva e il suo ambito d’azione fu esteso a tutto il pianeta. Allora si capisce che la guerra contro l’Irak non fu bugiarda solo nel senso, ormai palese a tutti coloro che hanno un cervello in grado di funzionare, che non esistevano armi di distruzione di massa, ma anche in un altro senso: che era stata messa nei progetti di un gruppo di avventurieri che stavano complottando per prendere il potere negli Stati Uniti ben prima dell’11 settembre. Allora si capisce perché il Patriot Act era stato preparato con largo anticipo e venne tirato fuori dai cassetti al momento giusto, per sferrare un attacco mortale contro la democrazia americana. Con questo lavoro noi vogliamo dare forza alla richiesta – che sale e si estende, con il passare degli anni, soprattutto negli Stati Uniti, il cui popolo è stato il primo destinatario, cioè la prima vittima di questa menzogna globale – di una commissione d’inchiesta internazionale che faccia luce sui misteri e sulle distorsioni che quell’evento ha prodotto. Sappiamo perfettamente che non esiste un tribunale, un luogo fisico, un’istanza giuridica che possa prendere una tale decisione. La sede opportuna sarebbe forse il Tribunale Penale Internazionale, ma gli Stati Uniti, non per caso, non ne fanno parte ed esso ha la stessa forza dei governi, alleati degli Stati Uniti, che l’hanno approvato e condiviso: cioè nessuna. Eppure la necessità di un giudizio imparziale è impellente, nell’interesse stesso dell’America, oltre che del resto del mondo. E solo un giurì internazionale di saggi, al di sopra di ogni sospetto, di ogni vincolo, di ogni affiliazione, di ogni interesse, può formulare un giudizio su cui la comunità internazionale possa fare affidamento. Questo libro intende essere un contributo per la creazione di una tale commissione internazionale, un incoraggiamento, un prologo, una raccolta di fatti e di idee che potrà essere messa a frutto da altri, che seguiranno su questa strada. Dunque il nostro scopo collettivo non è soltanto il tentativo di fare luce su un evento che ha davvero impresso una violenta sterzata alla storia del mondo, quanto il proposito di spiegare i meccanismi che hanno impedito al mondo di difendersi dall’inganno, dalla minaccia. Questo lavoro vuole essere anche la descrizione e l’analisi di quel tabù che attanaglia da sei anni la politica mondiale, che paralizza le classi politiche dell’Occidente e del mondo intero, che ha trasformato la politica internazionale in una interminabile giaculatoria il cui mantra obbligatorio è la ripetizione rituale della necessità di «combattere il terrorismo internazionale». L’11 settembre 2001 ha segnato l’innalzarsi tragico di un totem sulle nostre teste. Una cerimonia di sangue, con il sacrificio umano di tremila innocenti, ha celebrato una nuova era di terrore collettivo. Tutti dovevano assistere, e infatti hanno assistito. Anzi si potrebbe dire che l’11 settembre è stato pensato per essere visto da tutti. Un 11 settembre senza televisione globale non sarebbe servito. A ben guardare, oltre alle menzogne che racchiude, l’11 settembre riassume in sé, come tutti gli eventi epocali che hanno contraddistinto la storia umana, molti paradigmi e perfino molte anticipazioni del futuro. Ecco perché appaiono davvero ben ridicoli e miseri tutti i tentativi di razionalizzare quell’evento basandosi sul senso comune, o di racchiudere l’evento all’interno della sequela dei particolari tecnici, dei dettagli, che è poi il modo migliore per renderlo incomprensibile, perché lo decontestualizza, perché il mare di particolari impedisce di guardare l’insieme, perché è il vecchio vizio di concentrarsi sull’albero per non vedere la foresta. Per la semplice ragione che quell’evento è la quint’essenza dell’uso manipolatorio del senso comune. Chi l’ha pensato sapeva perfettamente qual è la psicologia dell’uomo della strada. Sapeva che è molto più facile, per una persona normale, accettare la spiegazione di un evento di mostruosa violenza come il risultato della follia e del fanatismo. Un individuo è “normale” proprio in quanto rispetta le norme del vivere civile. Le rispetta perché le ha introiettate e fatte proprie. Per esempio non uccide gli altri, non tortura, non commette violenze. È difficile, quando non impossibile, che una persona normale possa accettare il fatto che qualcuno possa freddamente progettare un assassinio di massa. È fuori, appunto, dalla dimensione umana normale. È molto più facile, per una persona normale, accettare la spiegazione di un evento di mostruosa ferocia come il risultato della follia, o del fanatismo. Ciascuno di noi ha incontrato, almeno qualche volta nella vita, la follia, e ha visto in azione il fanatismo, magari in televisione. È un’esperienza abbastanza comune. Ma non è affatto esperienza comune conoscere chi progetta stragi seduto in poltrona, in gabinetti ovattati, circondato di tecnologie raffinate. Steven Jones, professore universitario, fisico, ci mostra come l’11 settembre non può essere stato il frutto di un’improvvisazione dilettantesca di un gruppo di fanatici senza conoscenze scientifiche precise. Andreas von Bulow, che di apparati dei servizi di sicurezza è esperto, analizza le principali ipotesi sul terreno in base alla quantità di materiali informativi disponibili. E conclude per la tesi di un’operazione d’intelligence nascosta sotto falsa bandiera. Un atto di tale potenza attribuito a un gruppo di sprovveduti (cosa che si può affermare senza il minimo dubbio) e fanatici (cosa che appare altamente inattendibile in base alla stessa descrizione offerta dalla teoria ufficiale) terroristi kamikaze (cosa di cui è lecito, almeno per alcuni di loro dubitare)? Von Bulow la considera un’ipotesi addirittura comica. Il fatto è che molte delle cose che sono emerse di fronte agli occhi della stessa commissione ufficiale, sono poi state eliminate dal rapporto, cancellate del tutto o collocate in posizione tale da risultare secondarie o quasi invisibili. Con il risultato che quei dieci senatori, guidati dal presidente Thomas H. Kean e dal vicepresidente Lee H. Hamilton si comportano come se avessero accettato di farsi accompagnare per mano dentro una favola a cartoni animati, dove tutte le spiegazioni sono semplici e chiare. Si spiega solo in questo modo, che ci fa precipitare nell’assurdo, il fatto che fin dalla prima pagina del 9/11 Commission Report comincia l’elenco delle assurdità “accertate” dagli 81 membri dello staff. Un gruppo di “esperti” sulla cui modalità di scelta nessuno è riuscito a indagare, guidato dal direttore esecutivo Philip Zelikow, uomo troppo addentro a diverse amministrazioni americane, troppo amico di Condoleezza Rice, per poter essere nominato a quell’incarico senza violare la stessa legge istitutiva della commissione d’indagine, che avrebbe dovuto scandagliare proprio le responsabilità delle inefficienze dello stato (essendo evidente fin dall’inizio che altro quella commissione non avrebbe potuto indagare, e che essa era stata costituita, dopo oltre due anni di accanita resistenza del presidente Bush, solo ed esclusivamente per portare acqua alla versione ufficiale, già acquisita per vera). Il famoso Mohammed Atta vi compare fin dalla prima pagina, non per chiarire interrogativi e misteri, ma per infittirli a dismisura. La puntigliosa ricostruzione dei suoi movimenti serve soltanto a mostrare l’inspiegabile. L’uomo chiave dell’attentato, l’organizzatore, il coordinatore del gruppo dei diciannove, colui cui era affidato il delicatissimo compito di garantire che tutti si trovassero al posto giusto nel momento giusto dell’evento che doveva cambiare i rapporti di forza tra il Grande Satana e l’Islam, se ne va a spasso all’improvviso, poche ore prima dell’ora X, mettendo a rischio l’intero progetto. Sbalorditivo? Eppure, stando al racconto ufficiale, risulta così. Mohammed Atta, ben sapendo che il giorno 11 settembre, alle 7.45, avrebbe dovuto salire a bordo del volo American Airlines 11, in partenza dall’aeroporto Logan di Boston alla volta di Los Angeles... parte da Boston, dove già si trovava, il giorno 10 settembre, in macchina, per raggiungere la città di Portland, nel Maine, insieme al compare Omari. In effetti solo un demente avrebbe potuto partire per Portland sapendo che l’unico modo per tornare a Boston sarebbe stato il volo 5930 in partenza da Portland alle ore 6.00 del mattino e che lo avrebbe fatto arrivare a Boston appena in tempo per l’imbarco sull’altrettanto “storico” volo AA 11. Così infatti, stando alla ricostruzione ufficiale, avvenne. Ma perché Atta andò a Portland il giorno prima nessuno ha saputo spiegarselo. Nemmeno la Commissione che, alla nota 1 di pagina 451, candidamente ammette: «Non vi è alcuna evidenza documentabile materialmente, o individuabile analiticamente, in grado di spiegare perché Atta e Omari andarono in auto a Portland». Resta il fatto che Mohammed Atta riuscì a imbarcarsi per il rotto della cuffia. Ma cosa sarebbe accaduto se, per una qualche avventura imprevista, il volo da Portland avesse subito un ritardo anche di soli quindici minuti? Dovremmo concluderne che tutta l’operazione sarebbe stata rinviata per colpa di una così totale leggerezza? Le altre 566 pagine continuano allo stesso livello di stupefacente ingenuità. Specie se si tiene conto – altra circostanza sbalorditiva – che, proprio quella mattina, erano programmate una serie di esercitazioni militari delle forze aeree statunitensi che dislocarono la gran parte dei caccia intercettatori assai lontano dai luoghi che sarebbero stati teatro dell’evento. Illuminante al riguardo il contributo di Webster Tarpley. Sapevano i terroristi di una tale formidabile, sbalorditiva, fortunosa circostanza? Perché è davvero difficile pensare a una coincidenza casuale di tali proporzioni. E, nel caso sapessero, chi li aveva informati? Non è venuto, a nessuno dei senatori della Commissione, il sospetto che i terroristi avevano talpe fin dentro i supremi gradi dello stato maggiore dell’aviazione statunitense? E, anche il solo, quasi inevitabile sospetto, non sarebbe stato materia per un’approfondita indagine, per verificare chi avesse fornito al gruppo terroristico informazioni di tale importanza strategica? Eppure nulla di tutto ciò è avvenuto, nemmeno in seguito. Tutto ciò che appariva anormale, insolito, tutto ciò che avrebbe attirato l’attenzione del più sprovveduto degli investigatori, è stato tolto di mezzo. Ha davvero ragione Gore Vidal quando ci dice, nell’intervista qui contenuta, che il livello d’incompetenza della Commissione Kean-Hamilton-Zelikow è pari soltanto a quello della Commissione Warren, quella che stabilì senza appello che Harvey Lee Oswald aveva assassinato John Kennedy facendo tutto da solo, sparando in rapida successione, con una mira spettacolare, da un fucile Mannlicher-Carcano che non era a ripetizione, mentre avrebbe potuto procurarsene uno decisamente migliore con poca spesa in uno qualunque dei negozi di Dallas. Del resto, cosa aspettarsi dai risultati di un’inchiesta che dichiara fin dall’inizio che il suo scopo «non è stato quello di impartire accuse individuali»? E se non era per individuare le responsabilità per gli errori e le incompetenze (unico scopo esplicito per il quale la commissione era stata richiesta dai democratici del Congresso), a cosa doveva servire una tale commissione? Ed essendo assolutamente evidente che vi erano state, come minimo, pesantissime responsabilità nell’incapacità di reagire della difesa aerea degli Stati Uniti, nel Servizio Segreto, nella CIA e nell’FBI, come spiegare la funzione della commissione? Ed essendo lo stesso rapporto del tutto chiaro su alcune di queste responsabilità, dovute a negligenza e incompetenza tali da sfiorare l’alto tradimento, come si spiega che nessuno, dicasi nessuno, dei responsabili delle diverse agenzie governative sia stato successivamente punito, processato, diminuito di grado, licenziato, mentre, per converso, non pochi dei più inetti dirigenti politici e militari implicati vennero promossi a cariche superiori nei mesi e anni successivi? E come spiegare che in questi sei anni trascorsi non un solo processo sia stato celebrato negli Stati Uniti per punire le responsabilità di cittadini americani – questa storia ne trabocca – che non hanno fatto il loro dovere? Mentre altri cittadini americani che hanno dimostrato fedeltà alla patria e al dovere sono stati puniti, licenziati, degradati? Domande, domande e ancora domande, tra le mille che non hanno avuto risposta e che non possono averla nel contesto di un’indagine sballata, preconfezionata, lacunosa e carente in decine di punti, quando non esplicitamente bugiarda in altri. Occorre dunque ricostruire un contesto diverso per spiegare l’accaduto. Questo libro si propone di mettere ordine nel mare delle domande e di fornire qualche ricetta per difendersi dai silenzi, dalle distorsioni e dalle falsità. Come fa Gianni Vattimo, nel suo breve ma intenso contributo in tema di difesa dalla manipolazione, riferito all’Italia, ma valido universalmente. E Thierry Meyssan, cui dobbiamo i primi tentativi di smascheramento della menzogna, e che ha dovuto subire, per questo, l’offensiva concentrica di tutto il mainstream informativo francese, destra e sinistra avvinghiate nello stesso rifiuto di vedere, porta su queste pagine alcune clamorose scoperte: quelle, per inciso, come egli stesso racconta, che lo costrinsero a mettersi sulle tracce dei mentitori come un segugio di razza. Anche lui, come molti altri, “scopre” l’11 settembre fin dai primi minuti, quando è ancora possibile vedere, in tempo reale, le bugie mentre si dipanano. Dobbiamo a lui la scoperta dei dispacci della agenzia France Presse in cui si dà notizia di esplosioni all’interno del Pentagono prima dell’arrivo dell’“aereo”. E altri dispacci dai quali emerge che la stessa agenzia “sapeva” che l’aereo in avvicinamento si stava dirigendo verso il Pentagono. Un po’ come le decine di giornalisti televisivi che raccontarono delle decine di esplosioni nelle torri gemelle, prima del crollo. Tutte cose che sono poi sparite e che è stato necessario ricostruire. La conclusione preliminare è che solo un’alta vigilanza intellettuale consente di resistere alla menzogna, e che, dopo averla scoperta, occorre il coraggio civico di denunciarla. E questo libro, in fondo, è proprio un tentativo di resistenza intellettuale, prima ancora che civile: di chi rifiuta, per dignità, di farsi abbindolare. Domande che sollevano spesso l’indignazione e l’esecrazione di coloro che non possono tollerare il dubbio, specie quando esso tocca i loro idoli, i loro totem. Specie quando esso colpisce e disintegra il tabù. In questo caso il tabù è l’intangibilità della supremazia degli Stati Uniti d’America, che ci sono stati inculcati come la culla della democrazia, il faro della libertà, i salvatori dell’Europa dal nazismo e del mondo dal comunismo. Il solo porre domande suscita nei bigotti prima lo sconcerto e poi la furia. Porre queste domande, per i bigotti, significa «parlare male dell’America», bestemmiare l’America. Fino all’imbestialita – di solito – aggressione verbale che ne consegue e che a costoro sembra naturale: «Ma lei sta sostenendo che gli americani se lo sono fatto da soli?». Naturalmente nessuno degli autori qui presenti sostiene una tale imbecillità, che però è assai diffusa anche tra i giornalisti che, invece, dovrebbero essere tra coloro che pongono domande invece di impedirle. A riprova che la categoria dei bigotti, come quella degli stupidi, è universalmente costante, come il compianto professor Cipolla dimostrò nel suo aureo libretto. Infatti l’ultima cosa che si può dire, a proposito dell’11 settembre, è che «gli americani se lo sono fatto da soli». Sarebbe del resto del tutto contrastante con l’opinione prevalente tra gli stessi cittadini americani che, per circa due terzi, hanno ripetutamente detto di non credere nella versione ufficiale e per più d’un terzo – sempre stando ai sondaggi d’opinione – ritengono che le autorità abbiano lasciato fare o siano state attivamente coinvolte nell’attentato. Ma non occorre neppure essere d’accordo con cento milioni di americani. Sarebbe sufficiente immaginare qualcosa di molto simile a ciò che Hollywood ha già ripetutamente e magistralmente trasformato in fiction anticipatrici, in film memorabili come I tre giorni del condor, o Sesso e Potere, o Syriana, per elencare solo alcuni titoli. Vi sono cose, non solo in America, che sfuggono al controllo perfino dei massimi dirigenti politici. Vi sono strutture segrete, segmenti di servizi impenetrabili, che agiscono in totale indipendenza, che hanno mezzi giganteschi per realizzare progetti di cui solo piccolissimi aggregati di persone sono al corrente. George Tenet, che allora dirigeva la CIA, disse che «solo quattro o cinque persone erano al corrente di ciò che sarebbe accaduto». Probabilmente lui stesso non era al corrente, il che non esclude che qualcuno attorno a lui fosse invece molto bene informato. Ma, a coloro che, fingendosi ingenui, si scandalizzano quando vengono avanzate ipotesi concernenti queste strutture – la cui esistenza, come vedremo tra poco, non può essere messa in discussione – basterà ricordare l’esistenza dei gruppi UFO (Unauthorized Foreign Operations) rivelata da Oswald LeWinter nel corso di un incontro per inviti organizzato a Parigi dal Reseau Voltaire. E la testimonianza di LeWinter, general-maggiore ed ex “senior CIA officer” è cruciale perché egli lavorò, in qualità di NOC (Non Official Cover), sotto la direzione di James Angleton, il padre delle operazioni segrete della CIA. Cosa facessero questi NOC, secondo la descrizione di Oswald LeWinter, corrisponde perfettamente a quanto rivelò Seymour Hersh in un articolo sul «New Yorker» del gennaio 2005. Secondo quella scoperta, che – scrisse Seymour – gli fu riferita da fonti dei servizi segreti americani, «agenti militati sarebbero stati preparati per fingersi uomini d’affari corrotti, che cercano di comprare pezzi che possano essere usati per costruire bombe atomiche, in certi casi cittadini locali [cioè non americani, N.d.R.] potrebbero essere reclutati per entrare a far parte di gruppi guerriglieri o terroristici. Con il compito potenziale di organizzare ed eseguire operazioni di combattimento, o perfino operazioni terroristiche». Come si chiamano questi gruppi? Con la sigla, sempre secondo Hersh, P2OG (Proactive Preemptive Operations Groups). Hersh, da giornalista di prima classe qual è, si era messo alla ricerca di tracce più precise quando, nel 2002, l’esistenza di un tale programma era emersa da una pubblicazione del Comitato Scientifico di Difesa del Pentagono. Quando questo programma fosse entrato in funzione non veniva detto, ma la sua esistenza era nota dal 2002 e la fonte di Hersh gli aveva confidato che il programma era stato «rimesso in funzione» nel 2005. Ma i gruppi UFO, secondo LeWinter, esistevano ben da prima del 2001, con le stesse caratteristiche. In sostanza per l’organizzazione di operazioni clandestine di elevata sofisticatezza, realizzate da spezzoni ultra segreti dei servizi per “stimolare reazioni” nei gruppi terroristici. Cioè operazioni di penetrazione, nei gruppi terroristici, di agenti provocatori, per spingerli ad azioni “errate”, che permettono, dopo essere state “scoperte”, di sgominarli o di ricattarli. Prendiamo ora per esempio, come modello di riferimento, la storia del “complotto globale” (così venne definito dalla stampa britannica) del 10 agosto 2006, quando la polizia britannica arrestò 24 persone che sarebbero state in procinto di dirottare una decina di aerei in partenza da Londra verso gli Stati Uniti, probabilmente – dissero le fonti ufficiali – per ripetere su scala gigantesca l’11 settembre 2001. Gli attentati non erano di immediata attuazione perché, come emerse successivamente, i sospettati non avevano ancora nemmeno comprato, né prenotato, i biglietti aerei. Molti di loro non avevano nemmeno i passaporti per andare negli Stati Uniti, necessari per salire a bordo anche se non necessari per l’arrivo, che si ipotizzava suicida. Dunque perché far esplodere il caso in pieno agosto, periodo di vacanze estive per l’intera Europa? Queste notizie vennero riferite dalla NBC News, che citò una fonte ufficiale rimasta anonima. La stessa rete tv riferì che molti dei sospetti erano sotto stretta sorveglianza da più d’un anno, cioè da prima degli attentati del luglio 2005. Ma se erano sotto vigilanza e non c’era pericolo imminente, perché scoprire tutto il gioco? NBC News riferì che la decisione di arrestarli subito «fu imposta dai funzionari di Washington». Procediamo nell’analisi del “modello” presumibile di P2OG. La “mente” del progetto fu subito indicata: un certo Rashid Rauf. Chi lo arresta, a Islamabad, è il famoso ISI, il servizio segreto militare pakistano. Rauf confessa, anzi – stando ai giornali pakistani – “crolla” sotto interrogatorio. Che non si fatica a indovinare di quale tipo. Le prigioni pakistane sono ben note per le pratiche di tortura che vi sono diffuse. Del resto anche Khaled Sheikh Mohammed, il famoso KSM che il rapporto ufficiale dell’11 settembre qualifica come l’ideatore dell’attentato a Manhattan, risulta essere stato interrogato con gli stessi metodi e negli stessi luoghi. La confessione, in quelle circostanze, è assicurata. Rashid Rauf confessa anche che gli aerei sarebbero stati fatti esplodere in aria (ma non era stato detto che l’obiettivo era di ripetere su scala moltiplicata l’11 settembre, cioè di farli schiantare contro edifici pubblici di alto significato simbolico?) mediante un esplosivo denominato TATP, perossido di idrogeno, acetone e acido solforico. Dobbiamo alla sua confessione se oggi non si può salire a bordo di un aereo portando liquidi in quantità superiore a dosi stabilite. Sfortunatamente questa storia è totalmente impossibile, come dimostrarono numerosi esperti di esplosivi, spiegando ai giornali che per fare, con quei componenti, un esplosivo efficace sarebbero state necessarie più ore di quelle necessarie per un volo transatlantico, e con un sistema di attrezzature per esperimenti chimici, da introdurre nelle toilettes dell’aereo, che non avrebbe potuto passare inosservato. Ma, sebbene le prove dell’inapplicabilità di quelle procedure siano clamorosamente evidenti, si continua ad effettuare controlli sui liquidi, per i passeggeri aerei, che non hanno alcun senso. Come ha scritto il giornalista americano Thomas Green «il mondo intero è stato raggirato con un mito hollywoodiano di liquidi esplosivi binari, che ha guidato governi e determinato politiche. Cioè noi abbiamo reagito a un complotto cinematografico». Pura fiction, evidentemente di grande successo. Ma veniamo alla domanda essenziale: chi l’ha prodotta? Secondo la dettagliata analisi di Nafeez Mossadeq Ahmed, che cita a sua volta il capo del bureau pakistano di «Asia Times», Sved Shahzad, i cittadini britannici di origine pakistana arrestati a Lahore e Karachi in connessione con il complotto, erano tutti membri attivi del gruppo islamico britannico clandestino Al Muhajiroun, il cui capo è Omar Bakri Mohammed. Costui è ora in Libano, dove è stato “esiliato” dalle autorità britanniche sebbene figuri tra i sospettati per le esplosioni del 7 luglio 2005 a Londra. Non è strano che, avendolo in mano, gli inglesi se lo siano fatto scappare? Risulterà meno strano quando si sappia che Omar Bakri Mohammed era un agente dell’MI-6 britannico, reclutato alla metà degli anni ’90 per reclutare, a sua volta, combattenti islamici per il Kosovo. Sempre secondo la stessa fonte, sia la CIA sia l’MI-6 avrebbero da tempo loro agenti infiltrati all’interno del gruppo Al Muhajiroun. Come si può notare tutta la storia appare straordinariamente simile alla mission del gruppo P2OG: organizzare finti o veri attentati terroristici, penetrare all’interno dei gruppi terroristici per usarli a proprio piacimento. Ecco da dove viene la fiction nella quale tutti i media principali hanno immediatamente creduto, rivendendocela come realtà effettuale, contribuendo a organizzare la diversione. In seguito tutto si sgonfierà come una bolla di sapone: le prove non saranno trovate, quasi tutti i membri del “complotto” verranno rilasciati. Resta una domanda, che spesso mi viene fatta quando cerco di spiegare che anche l’11 settembre è molto probabilmente qualcosa di analogo, con la sola differenza che è stato portato a compimento. Ma è possibile – c’è sempre qualcuno che mi fa questa domanda – che chi organizza questi spettacoli sia così sprovveduto da lasciarsi dietro tante incongruenze, così distratto da commettere tanti errori? La domanda è legittima, ma ingenua. Le incongruenze sono evidenti, ma solo pochi saranno in condizione di conoscerle. Evitare le incongruenze è tanto più difficile quanto più alto è il numero dei partecipanti, la gran parte dei quali commette errori, anche perché non è al corrente del piano di cui è parte. Il mainstream mediatico farà il resto. Occulterà le contraddizioni, distorcerà le conclusioni logiche, tacerà dove c’è da tacere, parlerà d’altro impedendo che l’attenzione del pubblico si concentri sui “buchi” della storia. Quello che “passa” è la versione ufficiale, che crea l’ondata di panico opportuna per l’uso da parte dei poteri. Chi organizza queste cose non è affatto stupido: conosce il funzionamento dei media meglio di noi e anche meglio di molti direttori di giornali e di telegiornali. Il saggio di Webster Tarpley traccia una lucida anatomia di qualcosa di simile a un colpo di stato, indicando i metodi di reclutamento dei “capri espiatori”, la costruzione di un sistema di “talpe” da piazzare nei gangli delle strutture dello stato, l’entrata in azione degli “specialisti” attraverso la trasformazione di esercitazioni militari, da lungo tempo programmate, in operazioni terroristiche reali. Il bigottismo che circonda l’11 settembre è, a suo modo, la prova indiretta del successo dell’operazione. Chi ne contesta la versione ufficiale, che è quella di un complotto organizzato da un gruppo di terroristi islamici, viene accusato di “complottismo”. Qui Barry Zwicker, con il suo sarcastico saggio intitolato Il complotto della “teoria del complotto” fa giustizia definitivamente dell’operazione che si proponeva, senza riuscirci, di chiudere tutte le bocche. E, in effetti, è una ben strana procedura mentale quella secondo la quale le autorità hanno diritto a elaborare le loro teorie del complotto, mentre gli altri, chiunque altro osi fare la stessa cosa, viene additato al pubblico ludibrio. Dove stia il trucco è presto detto. Chi controlla il sistema mediatico lavora per consolidare le teorie ufficiali e per impedire il passaggio di altre intepretazioni. E, quando esse riescono a farsi strada da sole, grazie alla forza delle loro argomentazioni, allora si ricorre al discredito personale dei loro autori, mentre la schiera dei cosiddetti debunkers, gli addetti alla disinformazione, i raccoglitori di pulci, quelli che cercano il pelo nell’uovo dimenticando l’esistenza dell’uovo, vengono sguinzagliati nel web o nei giornali per sminuzzare il lavoro di ricerca in cento rivoli di contestazione. Operazione tanto più facile e truffaldina quanto più alto è il numero di coloro che, avendo diffidato della versione ufficiale, cercano legittimamente di trovare quella vera. Ed essendo non tutti all’altezza del compito che si sono prefissi, commettono errori. E gli errori sono molti di più delle scoperte vere. Per cui è facile intorbidire le acque attaccando gli errori, per nascondere le verità che emergono. Oppure, semplicemente, prima facendo passare per pazzi e visionari tutti coloro che non stanno al gioco e, in ultima istanza, criminalizzando ogni lavoro di indagine. Con l’argomento principale, se non l’unico, a disposizione dei depistatori: chi non crede alla versione ufficiale è amico dei terroristi. Oppure intende deliberatamente scagionare i terroristi, cioè è un loro complice. È la collaudata metodologia della caccia alle streghe. Il saggio di Jürgen Elsässer – che è, in assoluto, la migliore analisi fin qui apparsa della componente islamica del terrorismo dell’11 settembre – è l’esatta confutazione di ogni semplificazione del fenomeno terrorista che pretenda di esaurirlo nella sua componente islamica. È alla sua perspicacia di ricercatore e di giornalista che dobbiamo la dimostrazione del collegamento tra gli attentati dell’11 settembre, e poi di quello di Madrid, con la cosiddetta legione islamica bosniaca, quella che l’allora leader bosniaco Alija Izetbegovic impiantò con l’aiuto dell’MPRI (una “azienda” privata alle dipendenze della CIA) per combattere contro i serbi di Milosevic. I terroristi islamici dunque c’erano, certo che c’erano! Il problema è di capire cosa fecero, come c’entrarono, cosa sapevano. Ma è proprio questo ciò su cui non si è voluto indagare: sui legami tra il terrorismo islamico e i servizi segreti statunitensi. Michel Chossudovsky, nel suo saggio su Al Qaeda e la “guerra al terrore”, allarga lo sguardo tratteggiando lo scenario di una prosecuzione, con gli stessi, funambolici stratagemmi di “distrazione di massa”, della logica dell’11 settembre, mostrando con straordinaria chiarezza come non possiamo considerarci fuori dal pericolo, a studiare un evento ormai terminato. Al contrario. Quell’evento continua, come ci era stato detto dai suoi ideatori, e noi ci siamo dentro come vittime sacrificali. Parlarne, come facciamo tutti insieme, significa essere immediatamente accusati di antiamericanismo. In realtà nessuno tra coloro che hanno partecipato a questo libro è mai stato antiamericano. Per la ovvia ragione, innanzitutto, che molti degli autori qui presenti sono cittadini americani, che sfidano il tabù in nome delle libertà americane conculcate. Ma anche i tedeschi, i francesi, gli italiani, i canadesi che hanno contribuito a questo lavoro con i loro scritti sono mossi dalle stesse motivazioni. Non è l’America che è sotto accusa in queste pagine: sono coloro che hanno portato l’America nel vicolo cieco della guerra contro il resto del mondo a essere al centro di questa riflessione. Basti qui citare quanto scriveva Paul Craig Roberts, segretario al Tesoro con Ronald Reagan, repubblicano convinto, ex commentatore del molto conservatore «Wall Street Journal», tutto il contrario di un antiamericano: «Molti lettori patriottici mi hanno scritto esprimendomi le loro frustrazioni perché i fatti e il senso comune non possono farsi strada in una discussione dominata dall’isteria e dalla disinformazione. Mi sfidano a spiegare come mai tre edifici del World Trade Center sono crollati nello stesso giorno sulle loro fondamenta alla velocità di caduta libera: un evento che è escluso dalle leggi della fisica, a meno che non si sia trattato di una demolizione controllata. Essi insistono che vivremo in una guerra ininterrotta e in uno stato di polizia fino a che la versione governativa dell’11 settembre resterà incontestata. Potrebbero avere ragione. Non ci sono molti direttori di giornale disposti a ospitare la critica agli evidenti difetti del Rapporto della Commissione sull’11 di settembre. [...] Noi sappiamo che il governo ha mentito sulle armi di distruzione di massa in Irak, ma crediamo che il governo abbia detto la verità sull’11 settembre». In questo contesto merita un po’ d’attenzione la posizione assunta, al riguardo, da un’autorità incontestabile come Noam Chomsky. Che, in una intervista a un gruppo di attivisti, ha messo insieme, devo dire con sbalorditiva efficacia negativa, tutti i luoghi comuni che sono stati usati dall’amministrazione statunitense, e poi amplificati dal mainstream informativo, per impedire ogni proseguimento delle indagini e per screditare chi lo avesse tentato. Tanto più sbalorditivo perché Chomsky sembra dimenticare, mentre dice ciò che dice, tutto ciò che lui stesso da decenni scrive sul sistema informativo americano e sugli inganni e i complotti del potere imperiale. «Che l’amministrazione Bush abbia tratto dei vantaggi da questo episodio non si discute, » esordisce affermando Chomsky «ma è soltanto una delle tante nazioni al mondo che ha saputo approfittare al meglio degli attentati dell’11/9, ma che lo abbiano pianificato in qualunque modo e che ne fossero a conoscenza mi pare altamente improbabile.» Fermiamoci un attimo a ragionare su queste parole. In primo luogo parlare dell’“amministrazione Bush” come l’origine degli attentati è la prima fonte di equivoco. Con chi polemizza Chomsky non è chiaro, a meno che non si tratti dell’ultimo ingenuo che si può incontrare su Internet. È una evidente banalizzazione, perché, come si evince da tutte le analisi più serie, non si può certo affermare che l’amministrazione Bush, nel suo complesso, abbia organizzato l’11/9. Ovvero che lo abbia “pianificato” o che ne fosse “a conoscenza”. Tutta l’amministrazione, semplifica Chomsky, traendo con questo in inganno gli ascoltatori. Ma dove Chomsky supera se stesso è quando include gli Stati Uniti nella lunga serie delle “tante nazioni” che hanno approfittato dell’11/9. Come se Washington non fosse il giocatore globale, il centro del potere mondiale, il santuario della finanza del pianeta, e se il suo contributo a un tale evento fosse equiparabile a quello di un qualunque altro stato. Che equivale a dire che l’11 settembre sarebbe potuto accadere in un posto qualunque del mondo e avrebbe avuto lo stesso effetto. Una sciocchezza madornale, come chiunque può capire. Ma Chomsky prosegue, e peggiora: «Prima di tutto sarebbero stati dei pazzi a tentare qualcosa del genere: è praticamente certo che qualcosa si sarebbe saputo in anticipo, il sistema è molto poco efficiente e i segreti sono difficili da mantenere. Qualcosa di sicuro sarebbe venuto fuori e, se questo fosse successo, sarebbero finiti tutti di fronte a plotoni di esecuzione. Sarebbe stata la fine del partito repubblicano». Anche l’incidente del golfo del Tonchino, che consentì agli Stati Uniti di entrare in guerra contro il Vietnam, fu costruito con l’inganno. Produsse decine di migliaia di morti americani, e oltre due milioni di morti vietnamiti. Chomsky lo sa, perché ne ha scritto a più riprese. Fu una avventura pazzesca, ma fu molto efficiente. Che fosse opera di pazzi lo si scoprì però, purtroppo, a guerra finita, e perduta. E l’affare Iran-Contras, che permise a Washington di abbattere un regime legittimo in Nicaragua, con altre migliaia di morti? Anche in quel caso erano centinaia le persone implicate, ma l’operazione andò in porto ugualmente. E il colpo di stato contro Salvador Allende? Anche in quel caso il complotto impegnò centinaia di persone. Ma funzionò perfettamente e non impedì a Henry Kissinger di prendere il premio Nobel per la pace. I segreti sono difficili da mantenere, è vero, ma il problema è quanto tempo ci vuole perché siano scoperti. Se lo scopo è di imporre una svolta al mondo, come in questo caso, quello che conta non è mantenere il segreto per sempre, ma impedire che venga fuori subito. Il fatto che lo si capisca dopo cinquanta o cento anni non ha nessuna importanza. Come è possibile che Chomsky, che ci ha insegnato questi trucchi del potere imperiale, non metta in pratica i suoi stessi insegnamenti in questo caso? Quanto ai plotoni di esecuzione siamo alla farsa. Si potrebbero fare decine di citazioni da Noam Chomsky, dalle quali si ricava l’assoluta improbabilità che organizzatori di un tale complotto finirebbero davanti a un tribunale per alto tradimento. Come se coloro che detengono il vero potere negli Stati Uniti, il potere di ingannare, di manipolare centinaia di milioni di persone, non fossero in grado di impedire l’emergere di una tale verità. Devo io ricordare a Chomsky le sue parole profetiche del 1996 circa «l’idea che nemici pericolosi siano sul punto di attaccarci e che perciò dobbiamo correre a rifugiarci sotto l’ala protettrice del potere»? E come non ricordare la sua invettiva contro «tutto questo parlare di capitalismo e libertà», che sono «menzogne deliberate», e che, «non appena ci si sposta dal mondo reale, ti rendi conto che nessuno potrebbe realmente credere a una simile sciocchezza»? Chomsky si è dimenticato, si spera solo per un attimo, che coloro che raccontano «simili sciocchezze» hanno un tale potere da poter imporre a milioni di persone «menzogne deliberate». E, dunque, da non finire sotto nessun plotone di esecuzione. Dice Chomsky che «le prove che sono state presentate secondo me sono essenzialmente prive di valore» e «chiunque capisca qualche cosa di scienza scarterà immediatamente quelle prove». Ma la parte più consapevole del movimento per la verità sull’11 settembre non esibisce prove, e pone invece domande. E tra coloro che lo fanno vi sono non pochi uomini di scienza. Tutti accomunati dalla convinzione che l’11/9 sia stato un evento di troppa importanza anche solo per paragonarlo all’assassinio di Kennedy. Che, forse non a caso, Noam Chomsky considera del tutto chiarito dalla Commissione Warren. Ma a lui non pare interessante né l’uno né l’altro quesito, perché «chi se ne frega [...] A chi importa questo in fondo? [...] Se ci fosse un motivo per credere che c’è stata una cospirazione ad alto livello, allora la cosa può diventare interessante, ma le prove contro questo sono assolutamente schiaccianti e quindi si finisce per dedicare energie ad argomenti che non hanno nessuna importanza». Chomsky non ha studiato il caso, è evidente. Ne parla con totale approssimazione, come un ignaro uomo della strada. Riesce solo a constatare di essere «molto isolato nell’Occidente», dove «gran parte della sinistra è completamente in disaccordo con me». Il che, è ben vero, non dimostra niente, perché si può essere nel giusto anche quando si è in minoranza. Ma non diminuisce lo stupore di vedere un uomo di scienza che parla con tanta approssimazione di cose che conosce poco o nulla, e che giunge a concludere che l’argomento 11 settembre, da cui ha avuto origine la grande guerra contro il terrorismo internazionale, che dovrebbe durare trent’anni, è una cosa «senza nessuna importanza». Il contributo di Lidia Ravera, in chiave narrativa, ci porta direttamente all’interno del dramma che hanno vissuto gli americani, la gente appunto normale, la loro difficoltà di districarsi tra il dolore e il patriottismo, tra i dubbi e la fede nel proprio paese. Un tema che dall’Europa è stato visto poco o nulla e quel poco nell’immediatezza della tragedia, per poi essere presto dimenticato. Il resto è stato sommerso dalla retorica del “siamo tutti americani”, che ha fatto dimenticare quanto l’America sia tante cose diverse, tanti umori, tanta scienza e tecnologia, ma anche tanta povertà, tanta divisione tra ricchi e poveri, tra neri e bianchi e latinos e asiatici, tante idee diverse, perfino tra democratici e repubblicani e all’interno degli uni e degli altri. E che, dunque, essere “tutti americani” è impossibile, dovendosi decidere prima a quale America si vuole appartenere. Ed è, ancora una volta, il contesto che decide se e come affrontare l’11 settembre. Perché è solo il contesto che spiega e rende molto plausibili tutti i sospetti. Non che la contestazione della versione ufficiale sia basata soltanto su sospetti. Quello che qui viene raccolto e pubblicato è una monumentale raccolta di dati sulla falsità della storia che è stata raccontata al pubblico mondiale. Ma, accanto all’evidenza dei fatti, c’è l’insieme dei movimenti culturali, politici, nei rapporti di forza che li hanno preceduti e accompagnati. Ed è non solo importante conoscerli e analizzarli, ma anche cogliere le relazioni possibili tra i primi e i secondi. Ci sono cose che possono accadere solo in determinati contesti e rapporti. E, quando questi contesti vengono messi a fuoco, ecco emergere le connessioni che legano i fatti alle spinte politiche, economiche e sociali che li hanno creati. Franco Cardini e Marina Montesano ci aiutano a districare il groviglio di nodi ideologici e religiosi che è alla base del fenomeno neocon. Parlare di questa corrente di pensiero, della rete di organizzazioni, di centri di potere, di mass media che l’ha sostenuta, significa parlare dei personaggi chiave dell’amministrazione in carica negli Stati Uniti. C’è una coincidenza pressoché totale tra le due cose. E se si rintraccino nel PNAC – come è agevole fare – pulsioni reazionarie e rivoluzionarie al massimo grado, è tutt’altro che azzardato, cioè del tutto ovvio, ritenere che esse facciano parte del modo di pensare degli uomini di punta di quell’amministrazione. Le spinte integraliste cristiane, di cui lo stesso presidente Bush è personificazione, il primitivismo politico violento dei predicatori evangelici che infestano quel paese, l’idea, che essi (e non solo essi) diffondono a piene mani, di un’America che ha una missione da compiere, di fronte alla quale nemmeno le considerazioni della realpolitik possono valere, come nulla può valere di fronte ad Armageddon, perché è da Armageddon che si ricomincerà a misurare, con l’aiuto di Dio, ogni scala di valori: ecco il contesto, il crogiuolo da cui nascono i pericoli... L’idea di una nuova Pearl Harbor, contenuta nel Progetto per il Nuovo Secolo Americano nasce in questo contesto. Un contesto che non è esagerato definire “rivoluzionario”, perché rivoluzionari si sentono i portatori di una dottrina radicalmente nuova. Che non è più quella, per loro incompleta e insufficiente della “fine della storia” di Francis Fukujama, ma è quella dell’inizio di una nuova storia, in cui i parametri del comportamento globale saranno misurati con un solo metro, quello dell’impero. Come è sempre accaduto nella storia dell’uomo, gli imperi cominciano a percepire la propria grandezza soltanto quando ne sentono il peso, cioè verso la loro fine. E il pericolo è che non vogliano prenderne atto e che cerchino di superare la crisi alzando la posta. Enzo Modugno ci mostra questo aspetto, tra i meno indagati dell’11 settembre: un’America in recessione, che si rilancia con la guerra, che ha bisogno della guerra per reggersi in piedi e continuare a estendere il suo potere imperiale. Un’America che fa le guerre non per vincerle ma per prosperare. Un’America il cui “ponte di comando” già vede il pericolo del declino e vi si contrappone con tutti i mezzi a propria disposizione, e che però esce dall’11 settembre tornando a consumare all’impazzata («tornate a fare shopping» disse Bush subito dopo la tragedia), cioè a indebitarsi oltre ogni soglia accettabile dal mercato mondiale. Un’America che ha scelto di essere l’unico vero centro del potere, e vuole imporsi come tale, proprio mentre altri giganti alzano o rialzano la testa e vi si contrappongono caparbiamente, in attesa di divenire essi i più forti. Un’America che, per tutti questi motivi diventa il disturbatore della quiete mondiale, colei che impone le sue guerre, colei che non firma il trattato di Kyoto, colei che rifiuta di aderire al Tribunale Penale Internazionale, colei che mantiene la pena di morte, colei che torna a praticare la tortura. In queste condizioni è difficile esercitare la guida del pianeta se non con la forza. Se accade che non si possano più rastrellare due miliardi di dollari al giorno dai mercati mondiali, per ripianare il debito statunitense; se accade cioè che il tenore di vita del popolo americano (cioè di quella parte del popolo, molto minoritaria, che non accetta di ridurlo nemmeno di un centesimo e che, anzi, vuole accrescerlo ulteriormente, contro l’evidenza dell’impossibilità di mantenerlo), allora non resta che il warfare, da applicare con la più grande determinazione nei confronti di tutti, degli alleati e di coloro che sono stati definiti in anticipo come “canaglie” e ai quali spetta il destino inesorabile di essere esemplarmente puniti. «Ogni dieci anni, all’incirca, gli Stati Uniti devono prendere per la gola qualche piccolo riottoso paese e scaraventarlo contro un muro, così, tanto per mostrare al mondo ciò che noi intendiamo per affari.» L’autore di queste righe è il professor Michael Ledeen, uno dei fondatori, appunto, del Progetto per il Nuovo Secolo Americano, stretto collaboratore di Richard Perle, uno dei più illustri del gruppo, intimo di Paul Wolfowitz e di Donald Rumsfeld. Queste parole costituiscono, in certo qual senso, un ritratto di gruppo. Ma queste sono cose che non si possono fare dichiarandole al mondo come tali. Ciascuna di esse, ogni volta, deve essere cucinata in modo tale che l’opinione pubblica mondiale sia manipolata perché l’accetti, la consideri normale, anzi giusta. I complotti, che tanto stupiscono e indignano i commentatori del mainstream informativo sono esattamente ciò che questi commentatori raccontano ai loro lettori, accreditandoli per veri, ogni volta. Il contributo che Claudio Fracassi ha dato a queste pagine, La Waterloo dell’informazione, ci porta dentro il funzionamento di uno dei grandi protagonisti della tragedia: la Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna. È essa il protagonista per il quale la tragedia è stata scritta, coautore a pieno titolo di ognuno degli atti, sceneggiatore principale senza il quale la tragedia non sarebbe stata concepita. Il mondo è entrato in una nuova fase, che implica la morte dell’informazione, e la sua trasformazione orwelliana in propaganda. La democrazia stessa è in pericolo, come ci ha insegnato proprio Noam Chomsky, quando l’informazione viene piegata al disegno di coloro che stanno sul ponte di comando. Perché non c’è più modo di difendersi dai loro disegni. E quando quei disegni diventano folli, è proprio l’informazione l’unico sistema per impedire la loro realizzazione. E l’11 settembre è invece proprio il paradigma non solo dell’inganno ma anche della sua geometrica potenza, della sua capacità di soggiogare l’unica alternativa per sconfiggerlo: l’informazione di massa. Sconfitto il socialismo reale, dove – riprendendo una barzelletta dell’epoca sovietica – la Verità (la «Pravda») era quella ufficiale, e le notizie (le «Izvestija») non c’erano, ecco riapparire gli stessi virus, come un’applicazione della legge del contrappasso, all’interno della società del capitalismo globale americano. L’11/9 li sintetizza tutti: manipolazione, inganno, silenzio. Una vendetta postuma del comunismo sovietico, anzi del suo fantasma. Ma l’11/9 è anche il sintomo della fine delle illusioni di coloro che hanno in mano il timone del pianeta e non sanno da che parte andare. Con il passare del tempo, sempre più veloce, i reprobi di turno diventano sempre più numerosi e si affacciano, “riottosi”, a riempire l’agenda dell’impero. Si candidano a essere scaraventati anch’essi contro il muro, uno dietro l’altro. Ma l’impero non potrà eliminarli tutti. La crescita promessa non poteva durare all’infinito e, infatti, si sta esaurendo. L’energia non basterà per tutti. L’atmosfera si riscalda a ritmi non controllabili. Alcuni giganti sono ormai troppo grandi per essere schiacciati dalla paura. Cina, Russia, India, cioè l’Asia, esigono la loro quota. L’11/9 serviva per lanciare il mondo in una nuova corsa al riarmo e per tenerlo incatenato al tenore di vita, non negoziabile, di una piccola quota dei 300 milioni di americani e dei 500 milioni di europei. Ma non è più possibile comunque. L’alternativa alla guerra per il dominio, che i progettisti dell’11/9 hanno in mente, è un grande compromesso per fare la pace con il pianeta che ci ospita. Ma per costruire questo compromesso, che comporta sacrifici per i più ricchi, occorre smascherare il progetto di una guerra senza fine, che porterà alla catastrofe. Ecco perché la verità sull’11 settembre 2001 è importante, anzi essenziale: per sopravvivere. Il governo delle ruspe di Alberto Masala [Pubblico questo intervento del poeta Alberto Masala (1) a commento dell'ultima porcheria del sindaco di Bologna Sergio Cofferati: la completa demolizione, due giorni fa, del centro sociale Crash, una delle realtà giovanili bolognesi più vive e attive sul territorio, un polo culturale importante. In appendice, alcune note del sottoscritto sul Crash. La vignetta qui a lato è di Nico Roby Sole.] (Valerio Evangelisti) una mattina d'estate, nella città vuota e silenziosa, le ruspe di cofferati hanno appiattito il CRASH, uno degli ultimi spazi di sopravvivenza a bologna questa città è un cimitero del pensiero del gesto della socialità dell'amore bologna, con i suoi governanti, sta morendo: è un caso evidente di accanimento terapeutico bologna la mediocre, la superficiale, l'astiosa, l'arrogante... bologna che millanta cultura e chiude gli unici spazi dove ancora si respira bologna con i suoi 'artisti'... i suoi 'scrittori'... ben aggrovigliati al proprio ego abnorme... giovanilisti di quartiere, comici da salotto, indignati da dopo-strage, poeti da tavolino, avanguardie autoproclamate del nulla... dove siete? in quale piazza state cospirando? in quale sotterraneo organizzate la resistenza? a quali ferite esponete il vostro prezioso corpo? a quale dolore il vostro spirito? dove siete? in quale festival dell'unità, con quale aperitivo state confortando la vostra vergogna? in africa, ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia, a bologna, ogni spazio che chiude distacca un tubo d'ossigeno a questa città morente solidarietà attiva (se c'è bisogno... un fischio) e passiva (interiore) al crash 1) Alberto Masala è un poeta sardo residente a Bologna, noto forse più negli Stati Uniti (grazie a un lungo sodalizio con Lawrence Ferlinghetti e altri della Beat Generation) che in Italia. Tra le sue raccolte, la più recente è Geometrie di libertà, ed. Zona, 2003. LA NOTA PREANNUNCIATA [Il Crash - Laboratorio del precariato metropolitano sorgeva all'estrema periferia di Bologna, in un magazzino in buone condizioni ma abbandonato da anni. Nessuna casa attorno, dunque nessuna possibilità di arrecare disturbo. Nessun problema di "ordine pubblico". Invece, un'affluenza di centinaia di giovani e giovanissimi, sia di quartiere, in una zona che non offre praticamente nulla, che provenienti da altre parti della città. Motivo d'attrazione, una vivacissima attività culturale: rassegne cinematografiche, presentazione di libri, un'affollatissima serata con Stefano Benni, ecc. Ma il Crash dava fastidio, penso, per la sua connotazione politica, e la partecipazione a iniziative come la marcia contro il CPT e la contestazione a un comizio razzista di Forza Nuova. Soprattutto, sul centro sociale si abbatterono, indirettamente, gli strali dell'Associazione delle vittime della strage del 2 agosto, sotto la direzione di un Paolo Bolognesi che fa di tutto per somigliare a un Vishinskij. Colpa del Crash era avere ospitato un Oreste Scalzone ("terrorista" che non ha mai ucciso nessuno, salvo i martiri della sua loquela e delle sue canzoni) e soprattutto un Renato Curcio, venuto a parlare non delle BR, ma dei temi di cui si occupa attualmente: immigrazione, emarginazione. Suppongo - ma è solo una supposizione - che dopo l'imbarazzante discorso di Bolognesi del 2 agosto 2007, in cui lanciava attorno accuse di connivenza col terrorismo, la sorte del Crash fosse segnata. Cofferati, invasato dagli spettri della "legalità" (pare l'unica cosa di cui si occupi, in una Bologna che spegne gradualmente le luci), era l'uomo adatto a recepire i segnali. Ecco dunque le ruspe, in barba a una delibera di comodo (16 agosto) che decideva non già di distruggere, bensì di recuperare un magazzino da tutti dimenticato. E' crollato il baretto, che vendeva birra e altro a prezzi politici; sono scomparsi i murales, tra i più belli dipinti nei CSOA della città; è cessata un'attività culturale di primissimo piano. Lo sceriffo di Bologna seguita a cagare merda attorno, con cui cerca di seppellire ogni cosa viva. Odia questa città in cui è stato trapiantato quanto noi, Bologna notturna e concreta, lo odiamo. Avrà, spero, la risposta che merita. Non i proiettili che giungono per posta ogni tanto a lui o all'alto clero, probabilmente autospediti. Qualcosa di più serio: uno sputo in faccia, proveniente dalle vie di una città che non conosce, che odia e che non sa amministrare. Dannati picisti, a distanza di trent'anni mi tocca tornare a chiamarli così. Li odio oggi come ieri. Spero che i compagni del Livello 57, del TPO, del VAG 61 ecc. passino sopra alle differenze e tengano duro. Prioritario è sbarazzarsi di un sindaco serial killer che vuole eliminare l'Altra Bologna. La sola Bologna viva e umana, necessariamente antagonista.] (V.E.)