BOTTEGA DI LETTURA - RECENSIONI La prima notte, di Raul Montanari di Paolo Cacciolati Le uscite del nostro orticello letterario quest’anno sembrano essere dominate da due soli protagonisti: new epic o donne. Da questa dicotomia avanza poco, così non mi stupisco se anche un autore come Raul Montanari si sia, per così dire, "allineato", scegliendo per il suo nuovo romanzo il topos “donna”, centrando il libro su una figura femminile, Irene, che domina tutta la vicenda ed è la principale voce narrante. Irene è il perno intorno a cui girano le vicende di due uomini, Remo e Gavril, vincolati tra loro da un segreto che affonda nel passato, legandoli indissolubilmente. All’età di quindici anni furono coinvolti in fatto di sangue: Gavril, dopo esser stato aggredito dal padre di Remo, lo uccise incidentalmente, sotto gli occhi dell’amico che aveva cercato di difenderlo contro l’aggressione del padre. E’ un episodio che trasformerà il loro rapporto in qualcosa di gemellare, legandoli con una sorta di patto di reciproca assistenza. Da qui in poi entra in gioco Irene, che narra le sue esperienze giovanili, finchè conosce Remo alla sua festa di laurea, se ne innamora e lo sposa. Tutto bene? Manco per idea, presto sorgono i primi problemi e poi ricompare anche Gavril. Ancora una pagina irrisolta del passato spinge un terzo uomo a interessarsi morbosamente a Irene, entrando in conflitto con i primi due. Naturalmente tra i tre contendenti vince (in apparenza) il quarto, ovvero l’interlocutore di Irene, che si presta ad ascoltarla nella loro prima notte insieme. Raul Montanari con questo romanzo pare essersi sottoposto a una duplice sfida. Da un lato costruire l’intera narrazione in forma di semplice dialogo fra Irene e l’uomo che trascore con lei la notte. Dall’altro lato calarsi nei panni di un personaggio femminile, entrare nella psiche di una donna con le sue molteplici? infinite? sfaccettature. Se nella prima operazione vince facilmente la sua battaglia, utilizzando in modo magistrale l’alternanza di toni e omettendo perfino le virgolette delle battute, il secondo bersaglio appare di più arduo raggiungimento. Una cara amica tempo fa mi disse: a volte vorrei scrivere come un uomo. Non ricordo cosa le risposi, ma penso che non ci sia un modo di scrivere maschile o femminile, conta semmai la capacità di tradurre la propria esperienza in un linguaggio credibile e condivisibile sia dall’emisfero maschile che dall’altra metà del cielo. A volte, l’obiettivo che uno scrittore si pone con un libro tende a travalicare la voce del(la) protagonista. Spesso, nella volontà di far girar tutto e tutti in direzione dell’assunto che si vuol dimostrare, si corre il rischio di far perdere spontaneità ai propri personaggi. Non so se questo accada ne La prima notte, però, a mio parere, il personaggio di Irene parla con un timbro più incline al mostrare, al far vedere, che all’autoanalisi e alla resezione di ogni millimetro delle proprie emozioni, tipico di molte voci narranti al femminile. Questo non significa negare che ci siano donne che ragionano secondo schemi un tempo attribuiti ai maschietti, ma è un dato di fatto che, almeno nella nostra narrativa, tenda ancora a prevalere questa impostazione. Prendiamo ad esempio un paio di recenti uscite, di due scrittrici di casa nostra. Chiara Gamberale nel suo romanzo La zona cieca (Bompiani) così descrive la crisi d’identità della sua protagonista. Gli uomini. Ne individuavo uno il più difficile da conquistare, lo avvicinavo, entravo nella sua vita, ne condizionavo almeno un paio di abitudini per accertarmi di essere passata di là e poi scomparivo. Quelli che incontravo in qualche modo avrebbero potuto capire che l’intimità e la completa accondiscendenza che gli riservavo non aveva niente di personale nei loro confronti. E’ che non sapevo vivere, e speravo di riuscirci rispondendo ai desideri di chi sapeva farlo, di chi amava leggere o ascoltare il jazz o andare in barca a vela, di chi preferiva qualcosa a qualcos’altro… Caterina Bonvicini, con il suo libro L’equilibrio degli squali (Garzanti), così fa descrivere dalla sua protagonista un rapporto ormai incrinato: Nel frattempo era tornato Arturo. Incrinatura dopo incrinatura non sapevamo più cosa dirci. Eravamo lì, nell’ingresso, uno di fronte all’altro, a toccarci la faccia. C’erano dei rancori e ci scappava qualche morso. C’erano cose non dette o dette troppo, e ci infilavamo la lingua in gola. C’erano cose senza nome, mai capite e mai definite, e le schiacciavamo in mezzo a noi con la pancia. Dopo per un po’ riuscivamo perfino a sentirci sereni. L’approccio di Raul Montanari a questa materia mi pare più misurato, evitando di esporre direttamente quello che si agita nell’animo della sua protagonista. Preferisce farlo comprendere al lettore con i dialoghi tra lei e il suo nuovo amante, e indirettamente tramite l’esposizione delle sue vicissitudini, anche allo scopo di lasciare quel margine di non detto ma sospettato che agevola, tra l’altro, lo scivolamento verso la sorpresa finale. L’autore, considerato uno dei maestri del noir italiano, non rinuncia neppure qui alla suspence, ma è come se la traslasse sul fondo dell’anima della sua protagonista, è come se invitasse il lettore a scoprire chi sia veramente questa donna, che appare sì leggera e sorridente nel raccontare le sue vicende, anche le più drammatiche, ma sembra pure sfidare il suo interlocutore, e noi con lui, a capire se veramente sia stato sollevato l’ultimo velo sulla verità. A volte, poi, riserva magistrali pennellate agli elementi di contorno alla storia, come nella raffigurazione degli studi televisivi dove si sono conosciuti Irene e il suo amante. E rappresenta in modo sapido il campionario di presenzianti a certi salotti catodici. Ecco, ad esempio, come descrive lo scrittore tipo, comparsante in tivù: Hai presente come fanno i bruchi, no? Sono brutti, anzi orridi, mollicci e ripugnanti; però poi si trasformano in magiche creature alate. Agli scrittori succede spesso un fenomeno curioso. I loro libri sono belli, talvolta bellissimi, pieni di spirito, di conoscenza della vita, di arte. Loro invece, a conoscerli, sono repellenti, gonfi di supponenza quanto i bruchi sono gonfi di quel liquame che se li spiaccichi sotto il piede schizza tutto fuori lasciandone solo la pelle. Per questo li chiamo Bruchi Permanenti: sono bruchi che rimangono bruchi, non si trasformano mai, benché da loro si stacchino le farfalle meravigliose che sono i loro libri. E’ rarissimo che uno scrittore sia, di persona, all’altezza delle sue pagine. In sostanza, mi pare che si confermino qui le capacità dell’autore nel creare una corrente di tensione sotterranea, alzando progressivamente la posta in gioco, giocando solo sul racconto della protagonista, miscelando i momenti di tensione con quelli di distensione. Così l’azione, pur rimanendo fisicamente ancorata alla camera dei due amanti, si dilata in una serie di storie choccanti che si sovrappongono, fino a confluire in un finale ad alta tensione. E meno male che Raul Montanari non è stato troppo di parola nel promettere il superamento del genere giallo. Guido Cavani: “Zebio Còtal” (1961) di Bartolomeo Di Monaco È stato il mio conterraneo Vincenzo Pardini, che mi onora della sua amicizia, a consigliarmi la lettura di questo romanzo e di questo autore che non conoscevo. Nato a Modena nel 1897, Guido Cavani fa il tipografo, poi entra a lavorare presso il Comune di Modena. Ama la letteratura e vi si dedica da autodidatta. Nel 1923 compare la sua prima raccolta di poesie: “Liriche campagnole”, a cui fanno seguito: “Lumi di sera” (1940); “Solitudini” (1950); “Misericordia del tempo” (1954); “Nei ritorni a me stesso” (1960); nel 1958 esce il romanzo che darà all’autore vasta notorietà, “Zebio Còtal”, ristampato da Feltrinelli nel 1961 con prefazione di Pier Paolo Pasolini, che portò lo sconosciuto autore all’attenzione del mondo letterario; nel 1967 (l’anno della sua morte) esce la raccolta di racconti “Racconti in penombra”. Collabora anche alle riviste “Paragone” e “La fiera letteraria”. Scrive Pasolini nella sua prefazione: “abbiamo avuto una breve corrispondenza: la sua calligrafia era quella di un vecchio-bambino, malata e diligente.” Non così il contenuto del suo romanzo: asciutto, scarno, solido. Pasolini lo accosta in qualche modo a Silvio D’Arzo, ma anche il toscano Federico Tozzi ha molte affinità con lui sia con riguardo all’ambientazione contadina della storia che allo stile. Il figlio di Zebio, Zuello, è stato portato a vivere e a lavorare presso uno zio, Adrio Còtal, arricchitosi in America: “Zuello aveva lasciato la madre a piangere sulla soglia di casa, ed era partito a piedi, col padre, raggiungendo dopo due giorni di viaggio la nuova dimora.” Come non ricordare “Vita e morte del sindaco di Casterbridge” (1886) di Thomas Hardy, quando, all’avvio del romanzo, troviamo il protagonista Henchard che a piedi si sta trasferendo altrove con la moglie e la piccola bambina, tenuta in collo dalla madre. C’è già un filo lungo che collega attraverso Guido Cavani due civiltà contadine distanti l’una dall’altra molte migliaia di chilometri, ma in tutto simili. Come Henchard, incontrata per strada una fiera paesana, vi si ferma a bighellonare, ciò che cambierà il suo destino, così avviene a Zuello, quando dallo zio è mandato al mercato a comperare un “sacco di zolfo.” La descrizione del mercato che ne fa Cavani rende viva la somiglianza: “I contadini contrattavano raggruppati intorno alle colonne dei portici, seduti ai tavoli dei bar; le donne entravano ed uscivano dai negozi, si affollavano intorno ai banchi dei merciaiuoli ambulanti; i ragazzi si rincorrevano, strillando come i rondoni che saettavano intorno alla torre dell’orologio.” Anche per Zuello quella circostanza e quella visione saranno determinanti nella sua vita. Nelle descrizioni che troveremo, numerose e tutte di grande pregio, è rappresentato un antico reso al contempo con grazia, nitidezza e forza: “incontrò gente che ritornava dal mercato: donne in abito da festa, cariche dei generi acquistati; uomini con la giacca su le spalle, che ragionando fra loro e fumando, spingevano innanzi coi vincastri le bestie comperate o barattate.” Qui siamo in un cortile, in un momento di sosta dal lavoro: “le donne accovacciate vicino al muro della casa, tra fasci d’arnesi; gli uomini seduti sui carri, con le gambe penzoloni. Solo il vecchio stava in mezzo all’aia, contro il sole, a capo scoperto, scalzo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e i pugni chiusi che parevano due mazzuoli.” Descrizioni ancora vive, palpitanti, che restituiscono il fascino di un mondo svanito nel nulla. Qui siamo nel paesino di Serra, vicino a Pazzano, il luogo dove vive la famiglia Còtal: “Il postale, laccato in celeste, splendente di cristalli che specchiavano il cielo, arrivò rombando fra le case e si fermò. Era carico di gente che pareva gravata dal peso delle valigie e dei bauli ammonticchiati sull’imperiale. Smontarono due donne e un prete; furono gettati a terra sacchi della posta, scaricate alcune valigie, poi la bella macchina ripartì e scomparve in fondo alla strada.” Mancano i cavalli a condurre l’imperiale, altrimenti avremmo assistito ad una scena in tutto simile a quelle che si svolgevano nel fascinoso West ritratto da grandi registi, quali Howard Hawks, Henry Hathaway, John Sturges, Anthony Mann, Raoul Walsh, Fred Zinnemann, Sam Peckinpah, per fare solo qualche nome, ma specialmente dal grande John Ford. Si legga quest’altra, allorché due carabinieri scortano Zebio Còtal per condurlo in prigione: “Sulla strada li aspettava una carrozzella col soffietto alzato e i fanali accesi. I carabinieri se lo fecero sedere in mezzo; il fiaccheraio frustò la bestia insonnolita e la carrozza partì.” Anche la casa dove vive Zebio e il campo che coltiva danno l’immagine di un frammento dell’esistenza che non appartiene più al presente: “era una bicocca di sassi, dal tetto convesso e dalle finestre buie; pareva che tutto quel sole che batteva contro i suoi muri non riuscisse ad entrare nelle stanze.”; “Il grano ci veniva su a stento; la pioggia lo spiantava, il vento lo torceva in tutti i sensi, il sole lo strinava, senza lasciarlo maturare. Anche le patate allignavano alla meglio.” Gli stessi nomi desueti dei personaggi evocano una dolcezza mescolata ad una vigoria che deriva proprio da un passato che resiste: Zebio (il protagonista: “piccolo di statura e tarchiato.”), Zuello, Adrio, Mirca, Glizia, Placida (la moglie di Zebio: “La vita aveva fatto di lei quello che il vento aveva fatto dell’unico albero piantato nel campo.”), Diriego. Oltre a Zuello e a Glizia, Zebio e Placida hanno altri quattro figli: Bianco e Pellegrino, e due ancora più piccoli: Tuna, il maschietto, e Concetta. Come è aspra e severa la natura, così aspri, sofferti, malati come la terra, sono i loro lineamenti. Non ci sono uomini, donne o bambini che vantino una qualche bellezza nella “bicocca” di Zebio, fatta eccezione per il gracile Bianco (”questo povero corpicino col cuore atrofizzato.), somigliante più alla madre che al padre. Dal loro campo dominano “una valletta morta, piena di sassi e sparsa di piante che, seccandosi, avevano preso il colore della ruggine.” È delineata una vita dura e primitiva, in continua lotta con la natura per sopravvivere. La natura non vi è mai rigogliosa, come a sottolineare la spietatezza e la inevitabilità di una relazione sofferta tra essa e l’uomo: “Le piccole case di sasso apparivano seminascoste fra le siepi selvatiche di rovo che circondavano gli orti e fra i pochi alberi intristiti dalla troppa vicinanza con gli uomini.” Zebio è scontroso e irascibile, perfino la propria ombra gli è d’impaccio: “Camminava in fretta sui grossi ciottoli della strada, lungo la quale, qua e là, rassodava al sole lo sterco dei bovini, e i tritumi di paglia lucevano come pagliuzze d’oro; e mentre andava, continuava a pestare rabbiosamente la sua ombra che gli ballava tra i piedi come per farlo inciampare.” È appena stato da Don Alcide che gli ha letto la lettera con la quale il fratello Adrio gli comunica di aver cacciato Zuello, perché gli ha rubato. Un gatto tignoso gli si para tra le gambe, e Zebio “con un calcio lo gettò contro il muro di una casa.” Tali gesti, siffatte particolari descrizioni, palesano efficacemente la personalità di questo singolare protagonista, che pare vivere in un tempo ancora più lontano piuttosto che nel XX secolo. Cavani punteggia ogni volta la presenza della natura, sia quando si mostra ostile all’uomo, sia quando ne accompagna coi suoi colori e le sue vibrazioni gli umori. Allorché, pieno di rabbia, il protagonista grida alla moglie che il loro figlio Zuello non metterà più piedi in casa sua: “Il sole scomparve dietro i boschi di castagni; la casa diventò grigia; la sua porta e le sue finestre s’empirono di buio. Anche le terre lontane si spensero e s’incenerirono; e le macchie sui greppi gessosi e intorno ai grani rossicci si trasformarono in grosse nuvole d’ombra.” In realtà ciò che lo preoccupa non è tanto la colpa di Zuello, ma il suo ritorno a casa, che per Zebio avrebbe significato una bocca in più da sfamare, giacché i suoi non erano mai stati giorni di vacche grasse. La famiglia, la moglie Placida soprattutto, ma anche i figli, sono il bersaglio principale della sua ira, scatenata dalla sua miseria; spesso li picchia con calci o con “cinghiate” (”una cinghia di cuoio piena di borchie”). Quando si rifugia nel vino e si ubriaca diventa ancora più cattivo. Intanto, Zuello sta facendo ritorno al suo paese. Lo intravede in lontananza “con la chiesa e il campanile d’un bianco crudo di gesso; così piccoli, da sembrare due giocattoli dimenticati in un prato.” Sa che dovrà affrontare la furia del padre, ma “Gli sembrava un sogno di essere ritornato dopo tanti anni dove era nato, e sebbene ricordasse ben poco di quei luoghi, ne sentiva però la misteriosa dolcezza nel cuore.” Dunque, ecco due forze in campo: la furia di Zebio (”quell’uomo è della razza dei lupi”) alimentata dalla sua miseria, che lo tiene lontano da tutto, e l’amore di Zuello per il suo paese natìo, che sopravvive e resiste agli stenti e alle crudezze della vita, così che il suo distacco rappresenterà una profonda ferita impossibile da sanare (quell’amore non sarà, all’interno della famiglia, solo il suo, vedrete). Cavani disegna, perciò, due traiettorie, una ispirata ed inselvatichita dall’odio e una immalinconita dall’amore, preannunciandoci una convergenza, un incontro o uno scontro, sul cui esito costruisce il romanzo, dandoci un avvertimento: “La pietà muore in ciascuno quando tutti ne hanno bisogno, e nessuno può comprendere il dolore dei suoi simili, quando questo dolore è anche il suo.” Sebbene il romanzo si circondi di consuetudini antiche legate alla vita rurale e perciò intrise di una religiosità alimentata dal contatto pregnante, continuo e concreto con la natura, più che dalla fede, si avverte ogni tanto in Cavani l’intendimento di sottolineare la presenza in essa di una laicità composita, non solidale, che attinge il suo modello proprio dal contatto con le leggi della natura piuttosto che con Dio, sia pure una natura che può stupire “che quella gran pace che era nelle cose non fosse anche dentro di loro.” Dice il maresciallo dei carabinieri a Zebio, a cui rimprovera di picchiare la moglie e i figli e di ubriacarsi: “In questi luoghi che sembrano disabitati, gli occhi sono fitti come in primavera le lucciole sui prati. Qui tutti hanno buone orecchie e sono tremendi nel giudicarsi a vicenda.” Ma la vera pace la si trova solo dopo la morte. Lo pensa Placida quando ritorna Zuello e i due si ritirano sotto il muro del cimitero di Pazzano, per non essere sorpresi da Zebio: “Placida pensò che la vera pace era dietro il muro a cui stavano appoggiati.” La morte come luogo di pace, di rassegnazione, ma anche di speranza, ha una insistente presenza nel romanzo, richiamata dal clima di bestiale prepotenza che impregna il protagonista, al quale non bastano nemmeno i consigli e le intimazioni del maresciallo dei carabinieri. Quando picchia selvaggiamente il piccolo Bianco, il figlio che era tutt’uno con l’altro, Pellegrino, con il quale andava in giro a combinare monellerie, Bianco ne esce mutato, non è più lo stesso: “non si riebbe più; la sua anima fu presa dall’angoscia.” Partecipa alle scorribande del fratello, quasi inerme, con la testa altrove: “presentiva che qualcosa stava per finire, che qualcosa di nuovo stava per cominciare in altri luoghi, fra le anime che lo aspettavano nell’eternità. Dominato dal senso vago dell’al di là, non litigava più col fratello, lo lasciava fare tutto, lo seguiva disperatamente, con negli occhi lontane visioni. La sofferenza lo aveva fatto più bello, più delicato.” È soprattutto in questo gracile ragazzo (e un po’ anche nella madre) che si manifesta in tutta la sua pienezza quella religiosità che si rifugia nella fede salvifica quale ultima speranza per fuggire da un mondo spietato: “chiedeva di giungere presto nel paese azzurro dove i bimbi poveri vengono spogliati dei loro cenci e vestiti con abiti d’oro dagli angeli.” Bianco è uno dei personaggi più teneri e dolci del romanzo. Un giorno dice al fratello: “Non ne posso più, sono ammalato.” E subito dopo: “Portami a cavalcioni, non sto più in piedi.” Si avvicina anche per lui, cioè, come già per Zuello, quel processo di allontanamento che è il solo in cui ci si possa rifugiare: tornato a casa sulle spalle del fratello, va incontro alla madre, si siede “sulle sue ginocchia cingendole con un braccio il collo e nascondendole il volto contro il petto. Ella lo lasciò fare: era fiaccata dal lavoro della giornata, ma il peso del figliuolo le sembrò dolce; trovò in quell’abbandono, in quel bisogno d’amore, come una ricompensa, e le parve che anche Bianco come Zuello, dovesse partire per un lungo viaggio.” Questo capitolo, l’XI, e il successivo, ci dànno l’esempio di una misura contenuta e delicata cui l’autore riesce a pervenire nel trattare il sentimento. Esso mai esonda da una intimità sommessa, e fa da contraltare alla inclemenza e alla miseria dei luoghi in cui la storia si dipana: “Pareva quasi che il sole volesse vedere quella piccola anima a colloquio con Dio.” Infine, nell’occasione estrema, “Un colombo sbandato, di penna bianca, giunse a grande altezza sulla costa, portato dal vento. Per un momento ondeggiò sulle ali ferme come per guardare, poi, sfrecciò via, perdendosi nel turchino.” La scrittura non manca mai di accompagnare questo mondo rimasto fermo nel tempo: “I debiti, in un modo o in un altro vogliono pagati”; “I matti vogliono compatiti”; “avrebbe fatto i pugni anche con gli alberi.”, “la bracia”; “Ho imparato (in luogo di saputo) che sono aperte le iscrizioni per emigrare in Sardegna.” Sono espressioni e parole che lo traggono fuori dai recessi di un passato che non si è staccato ancora del tutto, e Zebio si erge a simbolo di una rabbia e di una cattiveria antiche e sempre perdenti, che non si esauriscono mai, ma covano, piuttosto, e si tramandano in forza della miseria e delle umiliazioni. A mano a mano che il racconto procede, egli somiglia ad un debole arbusto esposto ai forti venti di un uragano: tenace ma non per molto ancora, ribelle ma destinato a chinare il capo cedendo perfino nella sconfitta la parte migliore della sua umanità: “Chi ha dei figli ha dei nemici”. La sua caduta incombente, presentita ma respinta tragicamente (”In questo maledetto paese sono più quelli che mi vogliono male che quelli che mi vogliono bene, ma vincerò lo stesso.”; “tentavano di abbatterlo come un vecchio albero.”), è accompagnata dall’urlo della bestia più che dal grido di un uomo. Glizia vive con ansia la situazione familiare, vede la madre soffrire, tutto immiserirsi e vorrebbe dare un maggior aiuto. Vuol cercarsi un lavoro, portare qualche soldo in casa, visto che il padre sta dissipando il poco che è rimasto. L’autore tratteggia con Glizia la fisionomia di una disperazione in cui quel poco di speranza rimasta si sta consumando e accanto alla ragazza dipinge la figura di un giovane, il postino Franco Grotta, una specie di dongiovanni casereccio, che dopo aver cercato di approfittare di lei, infine, quando arriverà il momento, si adopererà per aiutarla. Sono personaggi che prendono forma a poco a poco e diventano ritratti in movimento e, tuttavia, definiti nei particolari, perfino nella gestualità che le parole dell’autore lasciano in dono alla nostra immaginazione. La casa di Còtal sta perdendo la sua vigoria, dunque: dopo Zuello, dopo la morte di Bianco, ora si sta allontanando anche Glizia, così importante nell’economia risicata della famiglia. Pellegrino si è sbandato, ha preso una brutta strada: lo devono rinchiudere in un riformatorio, ma “era fuggito portando con sé le scarpe, il mantello e la bisaccia.” Restano solo i piccoli Tuna e Concetta, lontani dai pensieri e dalle preoccupazioni dei grandi. Zebio sembra il parafulmine che è stato capace di scaricare l’energia distruttiva unicamente dentro la propria casa. Solo la mamma riesce a tessere e preservare quel filo indistruttibile che la lega ai propri figli. Quelli che se ne vanno ricordano lei, soltanto lei, e mettono da parte i soldi per aiutarla. Il ruolo della madre è esaltato da questo autore, fino al punto di intravedere una severa rampogna lasciata penetrare nel romanzo a carico dei padri. Vi è una lotta nemmeno tanto sorda per porsi al centro della vita residua rimasta ancora fertile nella casa dei Còtal, e Placida la sostiene nei confronti del distruttivo marito. Vorrebbe che se ne andasse a lavorare in Sardegna, come fanno molti in paese, e non baderebbe a ciò che si porterebbe via, purché se ne andasse. Solo la sua partenza può salvare ciò che resta di quell’energia che Placida avverte giunta vicino a spegnersi. La silenziosa Placida assurge così a simbolo del focolare domestico difeso con ostinazione fino anche al sacrificio. Zebio gli dice: “però, secondo i miei calcoli, se c’è una persona che se ne deve andare da questa casa, sarai tu.” Gli risponde Placida: “Lo so, e forse prima di quello che pensi.” Il focolare domestico per Placida, dunque, non corrisponde più alla casa in cui si vive, se questa è diventata luogo di contaminazione e di sconfitta. Lo si sposta altrove, in un punto dell’universo, dove il legame con i propri figli possa continuare a vivere: “la forza del suo amore era tutta in questo silenzio, era tutta per coloro che se ne erano andati senza dirle neppure una parola. Di lei, in casa, non restava ora che qualcosa di vago, di indefinito. Anch’essa era sempre in cammino con uno, con l’altro, per le vie della terra, per le vie del cielo, e non rincasava che di tanto in tanto con quell’unico che non era ancora capace di andarsene per sempre.” Del resto Zebio, quando va a chiedere un prestito al mercante Diriego Grillo, che glielo rifiuta, avverte già che ogni sua capacità di resistenza alla vita si sta sgretolando: “dite a quelli che mi vogliono rovinare che ci riusciranno: a salvarmi non ci tengo.” Tutto al contrario di ciò che aveva risposto qualche tempo prima al soldato che aveva incontrato all’osteria del Pradone: “ma vincerò lo stesso.” Zebio è consapevole ancora di più, ora, che la sua resistenza è già vinta e che lui stesso ne è stato l’artefice maldestro. Ormai la gente lo evita, non vuole più avere a che fare con lui. Si apre davanti a questo ennesimo vinto dell’umanità uno spazio di desolazione nel quale non potrà che perdersi: “Bisognava dimenticare le parole della moglie e del mercante, passare la domenica in letizia di spirito, ritrovare quel se stesso che tanto amava ma che così facilmente gli sfuggiva.” Non è più speranza, questa, ma soltanto un rimasuglio di ostinazione grazie alla quale ci si trattiene con le sole unghie sull’orlo del baratro in cui fra poco precipiteremo. Ecco qual è diventato il suo convincimento riguardo alla vita: “pensò che la vita degli uomini era simile alla vita del bosco: parassitaria, crudele; affidata alla forza e agli istinti più che al buon diritto di ciascuno e all’amore di tutti; fatta di apparenze più che di verità; falsa tanto nel bene quanto nel male.”; “purtroppo il male di ciascuno è la gioia di tutti.”; “Così è fatta la vita: ostinarsi a non credere nel male che è in noi per potere giudicare il male degli altri.”; “pare impossibile, tutti mi insegnano a fare il bene e nello stesso tempo mi obbligano a fare il male.” Anche la felicità non gli appartiene più, l’ha perduta per sempre, non è più sua, ma gli giunge come riflesso debole e opaco di quella altrui. Si veda anche la scena del ballo che si tiene all’interno della locanda La Lanterna, nel paese di Montardone, descritta nel capitolo XVII, allorché Zebio esclama: “Oh, avere vent’anni! È finita, è finita.” Infine: “tutti si erano già dimenticati di lui.” Una delle migliori qualità del romanzo è data dalla lentezza con cui, nello stile glabro, asciutto, si svolgono i fatti. Sembra che l’autore voglia indicarci che il destino, come la morte, non ha mai fretta, poiché sa bene che ciò che è stato deciso si compirà. Si avverte la sua presenza come quella del personaggio più importante della storia, anche più dello stesso Zebio, che diventa così la tragica rappresentazione di una delle tante maschere che il destino assume tra gli uomini: “oscure forze operavano a suo danno; si cercava di rovinarlo ad ogni costo. Non si trattava dell’opera di un solo nemico, ma di cento nemici senza viso, senz’anima, contro cui era impossibile lottare, per difendersi.” Attento alla natura che circonda il suo protagonista, l’autore ne sottolinea sempre i contorni, che accompagnano indissolubilmente ogni suo movimento. È un’attenzione che, notata già all’inizio, si rafforza vieppiù a mano a mano che la solitudine di Zebio viene accentuata dalle disgrazie causate dagli uomini. Zebio non fa un passo senza che l’autore ci dica come la natura si presenti ai suoi occhi: a volte essa contrasta col suo spirito sempre ostile e scontroso, a volte lo asseconda. È una specie di contrappunto che allarga o restringe la proiezione all’esterno che di sé, inconsapevolmente, esercita il protagonista. È sera quando, davanti al cimitero, dove non riesce ad entrare perché il cancello è sbarrato, da lontano lancia un’accorata invocazione al figlio Bianco. Gli chiede di aiutarlo “a ritrovare la strada buona; bisogna che tu mi impedisca di fare altre sciocchezze, perché altrimenti sono perduto per sempre, capisci? Per sempre.” Ma è solo un momento: “bisogna chiudere gli occhi e andare avanti alla cieca finché ci sarà fiato.” In realtà, nell’ostinato e scettico Zebio è iniziata una lotta che non sarebbe mai stata immaginabile, come se la pervicacia e la durezza delle sventure in qualche modo riuscissero a restituire alla coscienza una sensibilità considerata perduta. Ma non è facile che essa sia avvertita da un personaggio aspro come Zebio. Giunto a casa decide di non mettervi più piede poiché appartiene alla moglie e di andare a vivere sul suo campo. Dice alla figlia: “La casa è di tua madre e io non vi metterò più piede dentro, il campo è mio e voi farete lo stesso. Col tempo mi costruirò una baita di sassi e lavorerò la mia terra in pace con tutti.” Quando la lite con Glizia si fa violenta: “Si era già fatto buio; si accendevano i lumi nelle case lontane; dietro le montagne lampeggiava.” C’è una dichiarazione esplicita che manifesta questo legame tra la natura e gli uomini, e la si trova nel capitolo XXV. Siamo a settembre, un “dolce” settembre, “spirava un’aria leggiera e il sole coi suoi tepori dorati rendeva fragrante la terra.” Segue questa frase significativa: “Sembrava quasi che la vita non avesse più peso e che non ci fosse più dolore fra gli uomini.” È il riconoscimento definitivo di una interdipendenza tra l’uomo e la natura. Quando Placida si aggrava, “Il sole si era fatto più piccolo, il cielo più opaco, l’aria listata da raggi bianchi stagnava; nelle aie i galli cantavano.”, e Glizia, correndo a chiamare il medico, trova la piazzetta del paese “sotto a un povero sole senza raggi che la guardava con pietà”. Come era successo con Bianco, la cui morte è accompagnata dal volo di un colombo, anche la morte di Placida manifesta la partecipazione della natura: “Il disco del sole diventò abbagliante; la nube che lo copriva si divise in due parti; prima s’accesero le montagne più alte, poi le colline, le macchie, le acque, i prati; la casa di Placida diventò luminosa.” La natura, ossia, sembra riconciliarsi con l’uomo e risplendere di tutte le sue tenerezze nel momento della sua morte, quella morte che continua ad essere presente e importante, come si è già scritto, nel corso di tutto il romanzo. Per Zebio, abbandonata la casa e il campo, inizia una vita di stenti, randagio gira in cerca di lavoro, la notte bussa alle porte dei contadini perché gli diano qualcosa da mangiare e gli permettano di dormire nella stalla o nella legnaia. Si avvicina l’inverno, il tempo è mutato, fa più freddo; spesso Zebio cammina sotto la pioggia, e “Capiva, confusamente, che la vita era congegnata in modo che nessuno potesse sfuggire per le maglie del suo tessuto.” Ricordate il riferimento che all’inizio si è fatto a Thomas Hardy e al suo romanzo “Vita e morte del sindaco di Casterbridge”? Sebbene per vie diverse il percorso accidentato di Zebio lo conduce a formulare delle riflessioni che si avvicinano a quelle tragiche di Henchard: “non mi resta che dimenticarmi di quel poco di passato burrascoso che ho dietro di me, distruggere quei due documenti che ho in tasca, e soltanto io saprò chi sono. Zebio, ricordati che ancor prima di morire ti stai cancellando dalla terra.” Ma a differenza di Henchard, il personaggio disegnato da Cavani, nel momento in cui sta per cadere nel vuoto, trova per la prima volta, anche se solo per poco, la comprensione e la misericordia del prossimo. Ridotto a mal partito, con gli abiti a brandelli, le scarpe consumate, incontra inaspettatamente la bontà negli altri uomini, che non esitano ad aiutarlo; e la natura, eccola che è pronta a corrispondere: “Le nubi si erano spente; le montagne s’illimpidivano e il sole cominciava a scaldare l’aria.” Non è facile trovare un narratore in cui sia rappresentata con forza e intensità una tale speciale partecipazione della natura alla vita dell’uomo. Se c’è una sorprendente novità di contenuto in questa storia, essa è racchiusa proprio nel particolare rapporto che Cavani intesse tra la natura e l’uomo. La natura come manifestazione tangibile di una attenzione speciale destinata all’uomo, e sicuramente a Zebio Còtal. Se poi in Cavani la natura sia in qualche modo lo strumento della presenza di Dio, è argomento in tutto ipotizzabile e condivisibile: “quando fu un poco lontano levò le braccia in alto, alzò gli occhi al cielo per ringraziare Dio, senza sapere di preciso se scherzava o se faceva sul serio.” È l’accenno a una mutazione che sarebbe stata possibile, solo che Zebio se ne fosse reso conto. Ma: “Anche questo donare serve ad eliminare un uomo; diversamente nessuno si curerebbe di me.” C’è ancora in Zebio, dunque, una resistenza a comprendere. Si è ridotto a chiedere la carità: “I capelli gli cadevano ora sulle spalle e la barba gli toccava il petto: la testa sembrava quella di un santo, ma gli occhi erano quelli di un demonio. Gli si erano anche ingobbite le spalle e il passo gli si era fatto strascicante per la stanchezza dei lunghi viaggi.” Ancora una volta dobbiamo sottolineare, qui, le qualità descrittive, di grande sintesi ed efficacia, di questo autore. Zebio (”una faccia di profeta dagli occhi diabolici”) vi è rappresentato in tutta la sua valenza psicologica attraverso brevi tratti che lo raffigurano fisicamente: il corpo che si sta piegando alla sofferenza e alle umiliazioni, e lo spirito ribelle, ancora combattivo, che imperversa nei suoi occhi. Lungo il cammino, infatti, è continuamente messo alla prova e incontra non solo gente buona, ma anche, ahimè, gente che prende in giro la sua miseria, lo sbeffeggia, lo irride: sono donne e ragazzi, perfino, che, quando lo vedono uscire ubriaco da un’osteria, non lesinano offese alla sua persona, così che “ riuscì a capire però come la cattiveria umana, che non ha limiti, assuma, specialmente nelle donne e nei ragazzi, forme crudeli”. Gli lanciano sassi e allorché impreca maledizioni su di loro “In quel momento anche il sole si oscurò.” Così ridotto incontrerà i figli Zuello, che fa il pastore, e Glizia, che lavora alla locanda della Colomba, nel paesino di Pavullo. Il primo non riconoscerà il padre e parlerà di lui sdegnosamente; Glizia invece lo riconoscerà dalla voce quando si affaccia alla porta della locanda e si nasconderà per non farsi trovare. Sta nevicando, seduto al tavolo Zebio impreca contro l’umanità: “Fossi tutto di neve e mi potessi sciogliere, invece la neve se ne va ed io resto.”; “Fanno la carità non a me, ma ai miei cenci”. Glizia lo osserva allorché si allontana sotto la neve: “Sentì un’immensa pietà nel cuore, ma nello stesso tempo comprese che non poteva far nulla per lui.” Aveva detto Zuello parlando di suo padre: “ciascuno per la sua strada.” Di questa frase fa tesoro e si appropria perfino Zebio, che non vuole la compassione di nessuno. Tuttavia la sua vita sta portandolo, ormai, incontro alle sue colpe, lo sta mettendo di fronte al suo passato, così che in realtà quel “ciascuno per la sua strada” è impossibile a questo mondo e le strade di tutti in qualche modo si incontrano; chi è stato con noi anche per una sola volta, prima o poi ritorna ad incrociare il suo destino con il nostro, e quando questo accade può essere che un altro incontro si stia preparando, quello che ci farà capire che il nostro viaggio, la nostra fatica, le nostre gioie, i nostri rancori, sono finiti per sempre. Di nuovo la morte, dunque. La tragicità delle scene sotto la neve che si disegnano nell’ultimo capitolo, ha richiamato alla mia memoria una situazione simile, ossia altrettanto drammatica, che è descritta ne “L’ammazzatoio” (1876/1877) di Émile Zola, allorché, nel capitolo XII, Gervaise, anch’essa ridotta in miseria come Zebio, vaga sotto la neve per le strade di Parigi, immersa nella sua disperazione. È un accostamento che considero prezioso, e che la dice lunga sul valore di questo romanzo. Silenzi Vietati, Francesco Caccamea di Demetrio Paolin Caro Francesco, ti scrivo come se fosse una mail, ma in realtà questa sarebbe una recensione, anzi una lettura, a me le recensioni non piacciono, del tuo libro Silenzi Vietati (Avigliano). Allora sgomberiamo il campo, così arriviamo al centro del mio discorrere. Il libro mi è piaciuto. Io credo che a salvarti sia stata proprio la scelta di farne un romanzo epistolare e la scelta di usare come “tu”, una persona reale, vera e conosciuta. Anche a me sarebbe piaciuto farlo, ma l’unica persona a cui vorrei mandare delle lettere è Paolo di Tarso, ma lui è nel terzo cielo. Comunque. Io leggevo il tuo libro e pensavo a Foscolo e Goethe, come fonti del tuo romanzo. Potrebbero esserlo benissimo inconsce, ma credo che chiunque si metta a scrivere un libro in cui un giovane racconta la sua vita, i suoi amori, il suo andare verso il baratro faccia i conti con questi due grandi In più la scelta epistolare ti ha salvato dallo scrivere produrre un Holden in salsa viterbese. Il tu a cui il tuo personaggio scrive le lettere (questa distinzione per me è fondamentale, ma ne parliamo dopo) ti salva dalla schiavitù della parlata gergale, da quel finto parlato scritto che per molto tempo è stata una cifra della letteratura giovanile. Nello stesso tempo la struttura epistolare mi fa chiedere, ma chi è che dice io? Ora forse a te questo interessa poco, ma secondo me è essenziale. Prendiamo per buono che tu Francesco corrisponda appieno con il Francesco che scrive le lettere. Però, tu lo sai benissimo, quando scriviamo una lettera, anche quando raccontiamo esattamente quello che abbiamo appena vissuto facciamo due operazioni: scegliamo un mittente e decidiamo una strategia narrativa per coinvolgere o per allontanare il mittente stesso. Quindi al Francesco che immagina il Francesco che scrive la lettera, s’aggiunge il Francesco che agisce nella lettera, che altro non è che una rappresentazione, retorica, del Francesco che scrive, che come abbiamo detto potrebbe corrispondere o no (anche solo in parte) al Francesco autore del libro Silenzi Vietati. Questo risolve un altro problema di certa letteratura pesudogiovanilsitica ovvero la pruderie di vedere se quello che scrive l’autore sia la sua vita reale. [Sai quando mi capita di scrivere qualcosa io dico sempre: non è detto che quello che io scriva sia reale (leggi accaduto), ma sicuramente è vero (cioè possiede in sé un germe di verità).] E qui veniamo al nodo che vorrei affrontare con te, che riguarda la verità di quello che dici. Ho letto il libro e poi, perché sono una persona abbastanza pignola, mi sono pure letto le belle recensioni che ti sono state fatte. Mi ha colpito l’insistere e il ritornare da parte dei critici sul tema del male di vivere. A detta loro il tuo libro è il ritratto, lo specchio, del male di vivere della nostra generazione, di noi cha abbiamo tra i 30 e i 35 anni. Alcune riflessioni. Primo mi si deve spiegare cosa sia il male di vivere. Il non avere una donna e nemmeno rapporti con lei? La paura del futuro? Il lavoro precario? E’ questo il male di vivere? Questo mi pare non tanto male quanto paura di vivere. Il Francesco che agisce nelle lettere ha paura di vivere, ma non mi pare che esperimenti su di sé il male, né che lo descriva, il male. Ho riletto il libro ma io del male di vivere non ne ho trovato traccia. Forse la verità, caro Francesco, è che dovremmo togliere di mezzo due parole “di” e “vivere”. Ecco a me non interessa il male di vivere, ma il male. Io vorrei che la nostra generazione facesse i conti con tale entità. Certe volte penso che il disincanto, l’apatia, la depressione e la devianza sociale (potrei continuare), che narrativamente diventano il male di vivere, siano un modo di sviare gli occhi dall’unico tema che abbia senso, ovvero indagare il male. Qui, ma è mio parere personale, il tuo libro fallisce, perché s’accontenta di raccontare qualcosa che è già stato ampiamente detto e narrato. Io ti chiedo, e mi chiedo, ma raccontare una vita normalissima con personaggi normalissimi, che hanno un lavoro stabile, una vita sessuale e sociale nell’ordinario, e che però trasudano male, che vivono esperiscono su di loro il male, è possibile? Il tuo libro sembra suggerire che Francesco ha esperienza del male, perché non ha un vero rapporto d’amore, perché non entra in contatto con le persone, perché ha un lavoro precario etc etc… Cioè il male ha una origine, una scaturigine. Ora non sei il solo a pensarla in questo modo. Basta aprire la Bibbia per vedere lo Jahvista che nella Genesi inserisce la scena della mela per giustificare la comparsa del male nel mondo. Io penso, invece, che il male non abbia origine, ma semplicemente sia. Quindi vorrei che qualcuno mi raccontasse la storia di un individuo normale che sente su di sé il male, che non si nasconde dietro cause psicologiche, psicoanalitiche, religiose, ma semplicemente presenta il male per ciò che è. Nudo ed essenziale. E mi sembra interessante raccontarti questo, perché riguarda quello che t’ho appena scritto. Io di solito pranzo in un bar in centro a Torino. L’altro giorno, entrato, ho notato qualcosa di strano, faccio due parole con le cameriere e scopro che X, il barman, è morto ieri. Aveva la mia età. Una morosa splendida, una bella attività (il bar era suo). Morto. Salutista, vegetariano, non fumava, poco o niente alcool. Nessun problema di salute. Ictus e via. Io ci ho parlato un po’ insieme, quando era vivo. Era una persona normalissima, mi parlava dei suoi progetti come di qualcosa che sarà, di già certo e dato. Due settimane dopo non lo vediamo più. A me piacerebbe che qualcuno mi raccontasse una storia del genere. Un 34enne che non ha nessun problema, la cui vita si dipana tranquillamente. Una storia la cui penultima riga è un pensiero concreto di cosa si farà domani, seguita poi dall’ultima riga in cui si certifica l’avvenuta morte. Attenzione, Francesco, non voglio trucchi narrativi in cui i fatti, i pensieri e le azioni possano tradire il finale. Io voglio un personaggio come il barman: felice e, infine, morto. In questo caso è palese che non c’è causa. Proprio la assenza di ragioni costringe chi scrive a mettere su tutto un ambaradan retorico per dire che il male ha una origine. Nel povero barman il male c’era, silenzioso e ascoso, ma senza una ragione. Stava lì da sempre. E’ venuto e amen. Quale scrittore della nostra generazione avrà il coraggio di prendere il male, mettendolo in pagina semplicemente, rischiando pure di annoiare il lettore? Perché, prevengo tua obiezione e quella di altri, un romanzo del genere sarebbe di una noia terribile. Io ho pensato questo, è da un po’ che ci penso, immagina cosa potrebbe succedere se un ospite della trasmissione il Grande Fratello va a dormire e il giorno dopo lo si trova morto per cause naturali. Immagina se per un disguido il giorno della morte vada in onda il riassunto della puntata (di solito quella del giorno prima) in cui si vede il morto, ancora vivo, che fa i gavettoni agli altri concorrenti e si mette a giocare con loro a pallone, si allena per la prova settimanale e poi si fa la doccia. Tali azioni diverrebbero un vaticinio? No. Tanto che se le vedessimo senza sapere cosa è accaduto al poveraccio, diremmo le cose che diciamo di solito sui vari personaggi del GF. Eppure lì si annida il male. E’ quello il male che dovremmo – io per primo - imparare a scrivere. Come vedi ho iniziato facendo una recensione e sono finito a parlare d’altro. I cani abbaiano, di Truman Capote di cletus Truman Capote è uno dei miei scrittori preferiti. Un amore che parte da lontano. Dalla mia adolescenza. Da quando, di nascosto, rubavo un ormai ingiallito volumozzo degli Oscar, col suo A sangue freddo, dalla libreria dei “grandi”.. Più tardi, alla prima folgorazione, sempre venata dall’emotività e anzi fortemente influenzata da questa, crescendo e continuandolo a leggere è subentrata la consapevolezza che si tratta di una delle scritture che hanno saputo, più di tutte, catturare la mia attenzione, regalandomi ore di lettura di un po’ tutte le sue opere, di assoluto piacere, Tempo fa ho preso questo suo I CANI ABBAIANO. L’ho finito da poco. Si tratta di una raccolta di suoi scritti, diversi per data e soggetto. In genere sono cose che mi lasciano piuttosto perplesso e lo scetticismo è forte (un’operazione che è stata fatta anche con Carver. Pubblicare foss’anche la lista della spesa,o della tintoria) Chiuso il testo, poi però si fa strada il piacere, per il risultato davvero alto che è riuscito ad ottenere. Consiglio a chi volesse approcciare questo autore proprio di partire da un lavoro cosi. Somiglia ad un blog. Un plauso al curatore che ha saputo assemblare, anche se in modo apparentemente poco assortito, testi cosi differenti, ma con la costante comune di un linguaggio, di una voce che ci appare credibile come poche. Capote tratteggia, ha grazia. I suoi periodi sono brevi, a volte involuti, e con uno stile che gli è proprio non manca di svelare, agli occhi di una lettura poco meno che attenta, la grande sensibilità che li permea. La sua principale capacità è quella di raccontare con un tono pacato, mai aggressivo o ad effetto. Grazia, si direbbe, se non fosse abusato come termine. Ma è proprio questa la sensazione. Quella di trovarsi seduti, che so, su una sdraio sotto l’ombrellone con un caro amico che non vedi da un po’ e lasciare trascorrere il tempo, amabilmente, all’ascolto delle sue esperienze. E sono esperienze le più diverse. Da descrizioni (pennellate) di luoghi toccati dai suoi lunghi viaggi (Ischia, le isole della Grecia, Parigi, la Spagna, il Marocco, la “poetica” spietata di Hollywood a quelle d’incontri con personaggi famosi. Su tutte, quella con una Colette, che lo riceve nella sua damascata camera da letto, un gatto di un colore grigio inusuale “come fosse una coperta”, ai suoi piedi e nella cui stanza Capote rimane folgorato dalla bellezza di un fermacarte di cristallo che ha, inghiottita, una rosa bianca. Il pezzo, non a caso, si chiama proprio cosi. Capote lo sfrutta per spiegare la genesi di questa sua fobia, non mancando di condirla con l’umorismo che gli è proprio, narrando di aste all’ultimo sangue per accaparrarsi gli ultimi esemplari in circolazione “quelli di rara fattura dal 1840 al 1880”. Bellissima la frase di commiato di Colette, ripresa nel finale del brano “Mio caro, non avrebbe assolutamente senso offrire in regalo un oggetto se non lo amiamo a nostra volta”. Il testo contiene altre perle cosi. Sono gli appunti presi da questi incontri con gente come Bogart, Marilin Monroe, Ezra Pound, e l’esilarante Louis Armstrong al quale il nostro manderà una lettera, diventato ormai famoso, per ricordargli quando, poco più che bambino ballava al suono della sua musica su un battello fluviale sul quale il grande Satchmo si guadagnava la minestrina serale, intrattenendo i viaggiatori e presentando il bambino Capote, come un “qualcuno che sarebbe diventato famoso”. Fa niente se non come ballerino. Il testo si conclude con una gustosa autointervista, nella quale Capote dichiara il suo amore viscerale per NewYork, la città nella quale, pur avendo girato buona parte del mondo, non saprebbe rinunciare di vivere. Torno sul concetto di blog. La lettura di questi capitoli, quelli che prediligo, secchi, essenziali a volte di pochissime pagine, come si trattasse appunto di tanti “post”, in rapida successione, dona un ritmo involontario al testo, consentendo a chi volesse saperne qualcosa di più (ovvero “attaccarlo” dai suoi racconti, alcuni davvero mirabili, come dai suoi romanzi, oltre a quelli più famosi) di restare incuriosito abbastanza dall’andarseli a leggere. PS. La frase che da il titolo al testo è tratta da un proverbio arabo che gli ha raccontato Jean Cocteau “I cani abbaiano, ma la carovana prosegue”. Ciao e scusa la lungaggine. Franz Krauspenhaar: Era mio padre (2008) di Bartolomeo Di Monaco Il 21 maggio 2008 ho conosciuto a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, Franz Krauspenhaar, spigliato, disinvolto, coi suoi occhi azzurri che sprigionano simpatia e gioia. Così lontana la sua fisicità dall’immagine di irrequietezza e ribellione che emerge dai suoi romanzi, sempre sanguigni, appassionati, portatori di una verità contorta, rivelatrice di un malessere segreto che ancora la scrittura non è riuscita a vincere del tutto. Ora tocca a “Era mio padre” raccogliere questa eredità e una tale sfida. All’inizio incontriamo una frase molto bella, che è anche la chiave di lettura più significativa: “Il passato è passato, si dice. Come si può credere ad una idiozia del genere? Il passato è qui, ora, perché noi siamo passato, noi siamo il passato, il passato passa all’esterno ma rimane nel nostro interno notte – e giorno – giorno e notte; il passato ci sveglia nei sogni.” Il romanzo è dichiaratamente autobiografico. Tutto quello che c’è scritto è vero, ha dichiarato più volte l’autore. Carl e Franz, dunque, sono personaggi reali, in carne e ossa. È un tentativo, questo, che Franz Krauspenhaar compie per diagnosticare e risolvere quel suo malessere che lo accompagna, recuperare una libertà dello spirito non più impedito dai legacci della memoria, invadenti e ossessivi: “mi sembra di avere più ricordi che speranze.”; “uomo che ha una tara da colmare, badante di un se stesso in sedia a rotelle.” Forse è il romanzo che dischiuderà a Franz nuove frontiere: “eccomi qui a interrogarmi su queste pagine, a fare di te un libro.”, “questo libro è un salvataggio estremo”, “Io qui sperimento me stesso”; necessario, dunque, affinché la tempra d’artista che è in lui si riveli nella sua pienezza. È un romanzo di passaggio, anche se l’autore ha già le idee chiare: “i libri davvero forti e veri devono suscitare emozioni, e se negative tanto meglio. Devono seguire la forma dello sballamento umorale della vita, del mondo. Il saliscendi. Il motocross è letteratura. E illusionismo al cento per cento.” Sono gli irresistibili richiami alla beat generation, che Franz assimila e fa suoi per descrivere una parabola personale fatta di dolore, di alienazione e di morte: “questo sentire la vita come un lutto.”; “difficilmente io genererò un figlio: non si può mai dire, certo, ma con molta probabilità l’ultimo a sentire quel senso sovrano di morte sarò io”. Il tenersi attaccato alla memoria del padre è infatti non tanto un richiamo di vita, bensì di morte e un richiamo anche proveniente dalla morte, affidato quest’ultimo alla scrittura: “Questo padre che mi ha abbandonato troppo presto.”; “affonda nella prosa, resisti nella prosa.”; “ho scelto la prosa per venirti incontro e ricostruirti.” Solo attraverso una tale visione, come una luce opaca, e solo attraverso la scrittura Franz riuscirà a vedere intorno a sé e a leggere un nuovo rapporto con se stesso e con la vita. La mobilità stilistica e la visionarietà che s’inerpica all’improvviso come a raggiungere una vetta impossibile, sono tra le caratteristiche principali del romanzo, al servizio di una ricerca complessa, tortuosa e disperata. L’immagine del padre finisce per scuotere nell’animo dell’autore il recondito coacervo di sentimenti repressi per troppo tempo. La felicità suscitata in lui dal padre quando era in vita, si scopre che si è trasformata a poco a poco in un deposito nascosto dove sono andati a fermentare sensi di colpa, dolore, angosce, insicurezze, frustrazioni e disperazione. Una felicità, dunque, ambigua, dalla doppia faccia ingannatrice. Franz ne paga lo scotto, a partire dal momento in cui l’oggetto di questa felicità scompare per sempre. Allora il miscuglio torbido che si è depositato nella sua anima principia a gorgogliare, a venire in superficie e a pretendere una specie di resa dei conti con la verità. Milano (“la puttana discreta”) e le donne che si alternano nell’attenzione di Franz, risultano, così, pur nella loro consistenza, soltanto presenze complementari, brevi scenari di giuntura, semplici raccordi di percorsi di ben più grave spessore, in cui un qualsiasi abbandono può causare la perdita della conoscenza di se stesso, oltre che della vita. Scrivere libri come questi è sempre ad alto rischio. Ne possono uscire esiti liberatori, ma anche saldature imprescindibili che lasciano il segno. Ci vuole coraggio ad intraprendere un’impresa simile. Se pure la letteratura abbia già fornito esperienze di questo tipo, esse non sono poi così numerose, e va dato atto a Franz di averla affrontata senza menzogne, in un rapporto diretto con il lettore, come una confessione pubblica, generosa e appassionata. Scendere negli abissi della propria anima è soprattutto farsi strada nel buio, cercare la luce, ma specialmente procedere in una oscurità assoluta il cui attraversamento corrisponde nella maggior parte dei casi ad uno smarrimento, quasi una perdita di coscienza. Franz la attraversa affidandosi ad una visionarietà lautréamontiana, dove la mente, se pure si affida al ricordo, prende strade autonome tutte percorse da una specie di sbriciolamento della propria personalità. Il sogno di Franz di essere il padre di suo padre (“Io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio.”) e di portarlo per mano non ha il significato di una riappropriazione delle sue radici, piuttosto di uno smarrimento di se stesso, di una perdita di identità. Nella ricerca ossia di se stesso, Franz perde proprio l’unico legame che possa condurlo al se stesso che sta ricercando, quella forza di gravità che manca ad un uomo smarritosi nello spazio e nel tempo. Franz, dunque, ha scelto – inconsapevolmente o meno - la strada più difficile. Egli fa omaggio ad Henry Miller (“Miller mi ha fatto diventare uno scrittore”), ma qualche volta viene in mente la rabbia di Céline, che in Franz si mescola ad un amore-odio (“vendetta liberatrice”), diretto più che al padre, a se stesso. Il padre Carl (Karlo), in questo romanzo, è in realtà un pretesto, o meglio una specie di specchio rovesciato e deformante (“Volevi essere come tuo padre.”); il protagonista vero, perfino egocentrico e qualche volta eccessivo, è unicamente lui, colto nelle giravolte, negli sbandamenti, nelle insicurezze generate dalla sua speciale ricerca. È un romanzo da male oscuro, questo di Franz, ed una ricognizione a 360 gradi che può richiamare alla mente perfino il Kerouac di “On the road”. La sua disorganicità, la sua improvvisazione diaristica, la mancanza di una linea sicura che non sia quella della spontaneità, generano nel lettore il subbuglio di una confidenza inattesa ed imbarazzante. Ci sono parti che si ripetono come girando intorno a se stesse: le quali sono lì, in realtà, per ricordarci che ci troviamo ancora di fronte ad un trauma irrisolto (“È un viaggio con te perché io diventi un uomo completo”) che l’autore cerca ripetutamente di sciogliere con la scrittura. Karlo altro non è che la malattia di Franz, è il suo doppio che il figlio vuole disperatamente raggiungere per potercisi identificare: “Diventare te per davvero”, “Sto scrivendo di mio padre ma io intervengo di continuo col personaggio di me stesso, a inchiostro spiegato, pennellando il mio ego in ogni spazio. Questo libro è anche un diario di me stesso, e forse sì, il me stesso, sempre lui si sovrappone in maniera eccessiva a quello di papà.” È una dichiarazione, quest’ultima, di consapevolezza letteraria, che ha una sua lucidità la quale, se si diluisce nel contenuto, resta, nell’artista, molto determinata: “Questo mio viaggio è fatto di stop continui, di accelerazioni, di frenate brusche, di avanti e indietro nel tempo e nello spazio.” Una scrittura magmatica, dunque, con i suoi alti e bassi dovuti ad uno spontaneismo cercato ad ogni costo, per il quale talvolta Franz paga un prezzo salatissimo: “ho messo in atto una vera e propria polverizzazione della narrazione. Non c’è un nucleo.[…] Non ci posso fare niente”. Si pensi a questa frase, che si riferisce al fratello Stefano morto tragicamente, lasciata incustodita nella sua provvisorietà: “si dissolve da qualche altra remota parte oltre l’universo – o già si è dissolto – per imbarcare nuova luce nella realizzazione di spirito nuovo.” O a queste altre, troppo eccessive, al limite del sensazionalismo: “Affonda nella prosa, resisti nella prosa.”; “ho scelto la prosa per venirti incontro e ricostruirti, affondandoci insieme.”, “Io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio.” Non mancano, però, espressioni di nitida bellezza: riferendosi al padre che trascorre la vacanza a Palmi, la terra della mamma, scrive: “E quando nuotava in quel mare meraviglioso nuotava dentro la pelle chiara della mamma.”; “il passato ci sveglia nei sogni.”, allorché ricorda Svetlana invecchiata ed imbruttita, “pesta e ubriaca fradicia”, scrive: “Sentii il peso degli anni più di tante altre volte, fu un confronto duro col tempo che era trascorso nel peggiore dei modi. Con l’assenza di speranza. Con le illusioni perdute accartocciate nella mano, come un fascio di foglie secche.” E anche: “Fulmini caliginosi che entravano nella pelle, dopo aver polverizzato la crosta dell’aria.” Ma ne troveremo altre di simili. L’egocentrismo e una certa abbondanza espressiva, tuttavia, continuano ad impregnare il libro, ne fanno il propulsore dinamico e roboante, insieme con la scrittura, spuria ed allucinata: il padre ha diciotto anni e viene arruolato nella Cavalleria Wehrmatch e inviato in Ungheria, dove, ai lati di una grande strada, vede penzolare dagli alberi un sfilza di ragazzi e uomini tedeschi in divisa, con appiccicato addosso un cartello con la scritta infamante che si tratta di disertori. Non sono ammesse fughe, dunque, anche se la guerra ormai è perduta: “Eccoti che fai il tuo dovere. Il tuo dovere è di rischiare di farti scannare, di esplodere in mille pezzi, di trascorrere le tue ultime ore in agonia.” Mi viene in mente “Kaputt” di Curzio Malaparte (uno scrittore amato dall’autore, e citato nel romanzo insieme con Henry Miller e Céline), del 1944, dove la tragedia della guerra è intessuta con una scrittura superbamente controllata e magistrale. L’io che sta spuntando da queste confessioni di Franz è un io prepotente, perfino esaltato, ma necessario, il quale versa dappertutto il fiele della sua vendetta distruttiva. Per ricostruire o rinascere si deve distruggere, fare tabula rasa, chiudere tutti i legami, lottare strenuamente coi ricordi, senza temerli, ma per sconfiggerli: “io credo che l’idolo vada finalmente abbattuto per centrare meglio se stessi, e superare quell’inevitabile complesso d’inferiorità che ci sommerge a volte come una maledizione.” Non teme di confessare le sue simpatie nazifasciste in gioventù, di contro al conformismo che dilagava nei giovani della buona società che si dicevano comunisti, ma non rinunciavano ai loro privilegi. In questo differiva, allora, dal padre, che odiava profondamente Hitler e il nazismo (“Hitler era un porco”), avendo conosciuto gli orrori della guerra e la ferocia delle persecuzioni. Scrive Franz: “Avevo capito che il comunismo era l’altra faccia – quella più presentabile, perlomeno qui, da noi – del fascismo e della sua versione più netta e radicale, il nazismo. E le mie idee su questo non sono affatto cambiate, nonostante siano passati trent’anni e più da quegli anni piombati.” È il Franz combattivo, risoluto e tenace che ogni tanto afferra per la gola se stesso e trasforma la sua debolezza in orgoglio. È il Franz più sicuro, che non ha perso, nel ripescaggio di se stesso, quel punto di lucidità che lo tiene ancora attaccato al mondo. Sono le parti migliori del libro, anche stilisticamente, dove la confessione mantiene una sua salda linea di opposizione contro tutti i soprusi. Non ha peli sulla lingua, come non li ebbe Fenoglio. A proposito dei partigiani scrive: “Solo un certo numero io credo che fossero banditi. Come quelli che fecero saltare il camion di SS in via Rasella a Roma, causando la strage delle Fosse Ardeatine. Gente che sapeva benissimo cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata la rappresaglia”. Come pure sobrie e riuscite sono le pagine del capitolo 20 che descrivono il padre reduce sbandato, che sta cercando i suoi cari e di ricostruirsi una vita. Giunto in Italia, deve vedersela con le ostilità della gente, “In un paese che aveva tradito tutti all’ultimo momento, che aveva in un primo momento inneggiato al suo duce e poi aveva voltato le spalle con un colpo di mano da piccolo illusionista d’avanspettacolo. Ed ora per i tedeschi erano tempi grami.” Non è senza significato che troviamo questa esplicita confessione, che riguarda le amicizie del padre: “Ora che ci penso, non ha mai avuto un amico italiano.” Il romanzo si sta spogliando della malattia: ossia della retorica e della esaltazione dei sentimenti, quasi a svelare, dunque, che il percorso intrapreso dall’autore (“queste sedute di scrittura”) sta raccogliendo evidenti e importanti risultati. È il Franz che mi piace e che desidero incontrare nei prossimi romanzi: “Se non s’è perso l’amore, in fondo non s’è perduto niente.” È una frase che segna una forza nuova ed una irresistibile speranza. Bella, in appendice, la dedica alla madre Teresa, che ha il nome bellissimo che fu anche della mia. Le libere donne di Magliano, Mario Tobino di Ramona Può succedere. Parti per qualche giorno, non hai molto spazio in valigia, ti porti dietro solo un libro da leggere in treno. In teoria dovrebbe bastare per andata e ritorno, ma a metà dell’andata lo hai già finito. Così, quando arrivi a destinazione e hai da occupare qualche ora, senti che sei in astinenza da lettura e giri per una casa che non è la tua, cercando qualche pagina da tenere di nuovo fra le mani. È stato così, per una crisi di astinenza da lettura, che in quella casa ho sentito il richiamo, unico, fra le decine di libri impilati su una sedia. Per curare la mia crisi stavolta ho scelto, o forse mi ha scelta, un autentico specialista: Mario Tobino, lo psichiatra scrittore. Un dottore dell’anima, per il mio avido bisogno di parola scritta. Di lui avevo già letto tempo fa Per le antiche scale. Ora ho di fronte un altro titolo, che mi intriga moltissimo. Le libere donne di Magliano. Cosa vuol dire “libere donne”? Conoscendo Tobino inconsciamente intuisco il vero senso dell’aggettivo, quanto meno mi ci avvicino. Presto ho la conferma che l’istinto per le buone letture non mi ha tradito nemmeno questa volta. Incomincio, famelica, a leggere. Ho pochi giorni, le pagine non solo le leggo, ma le divoro, fino a ora tarda. Non voglio essere costretta a lasciare il discorso in sospeso prima della partenza, voglio vedere come va a finire. In realtà capisco subito che non c’è niente che debba iniziare e finire. Non si tratta di un romanzo, ma di una serie di istantanee che raffigurano un mondo assai crudo, violento e tenero, di un’epoca e una situazione non troppo lontani. Una rappresentazione che non sarebbe male rileggere, di tanto in tanto. Sono ritratti di donne, donne speciali, donne particolari, “libere” di essere se stesse, solo perché “matte”. È una galleria di malate psichiatriche, ricoverate nel manicomio di Magliano, nella realtà Maggiano, nei dintorni di Lucca. Anche se l’autore, nell’ultima pagina, ci tiene a specificare che “nessuno dei malati descritti in questo libro è ospite di alcun manicomio, nessun personaggio ha un reale contrapposto e qualsiasi nome e riferimento è puramente casuale.”. Dice ancora che avendo frequentato per lavoro molti istituti, quello che ha descritto è la risultante di tutte queste realtà e il luogo, Lucca, è stato scelto “per la ragione dell’arte.”. La professione di Tobino gli ha consentito di scavare nell’anima di quelli che la semplicità popolare ha sempre chiamato “matti”, o “pazzi”. I suoi scritti, per stessa ammissione dell’autore, hanno sempre cercato di richiamare l’attenzione dei “sani” su coloro che sono stati colpiti dalla follia. Dice Tobino, a pagina 18: “Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, lettore. Ma quello che è più misterioso domani potranno avere, guariti, la perfetta immagine, poi di nuovo tornare astratti, solo parole, soltanto delirî.”. Come dire che i matti sono uguali a noi e che noi potremmo essere matti in qualunque momento. Non dobbiamo dimenticarlo. Le malattie mentali esercitano su tutti un grande fascino e altrettanto timore. Misteriose e inquietanti, sono capaci di mutare radicalmente la personalità di uomini e donne “normali”. E chi lavora nella sanità come me, non necessariamente in una psichiatria (i manicomi, si sa, non esistono più, o non dovrebbero esistere), o comunque chi ha a che fare con una smisurata e variegata fetta di umanità, non può non riconoscere l’”anomalia”, il difetto, la stramberia, la deviazione psichiatrica nelle sue forme più svariate. Basta un comportamento inusuale, a volte, e già si guarda con sospetto. Sono catturata già dalla prefazione dello stesso autore. Lui, psichiatra, si chiede che cos’è la follia. È davvero una malattia? Non è piuttosto una delle tante espressioni umane, magari la più felice, la più libera, che solo perché si scontra con la cosiddetta ragione ne viene allontanata e respinta? Leggo queste parole mentre mi trovo rannicchiata su una poltrona e penso soltanto: “Fantastico!”. Tobino il medico sta mettendo in dubbio ciò che in pratica gli dà da vivere. Se la follia non è una malattia, a che servono, di fatto, gli psichiatri? Ma il bello è che io, da profana, mi sono spesso posta la sua stessa domanda. Chi è, mi chiedo talvolta, che stabilisce che i matti sono sempre matti oltre ogni ragionevole dubbio? È quasi una consuetudine affermare, non senza invidia, che in fondo i più felici sono proprio i folli, quanto meno sono i più liberi al mondo. Fuori dalle regole, fuori dagli schemi che imbrigliano, imprevedibili, mai uguali, fuori da ogni imposizione e da ogni confine. La libertà della mente di essere diversa, e quindi unica. La rivendicazione di un’unicità che viene definita patologica. Follia uguale libertà. Certo, la mia, forse anche quella di Tobino, è una visione romantica dell’argomento. Nella quale s’insinuano la preparazione e l’esperienza professionale, che m’impongono di ricordare che esistono casi di follia estrema, che porta il paziente a essere violento e pericoloso per sé e per gli altri. Chi non ne ha mai incontrato uno? Chiudo per un attimo libro e riflessioni e accendo i ricordi. Rivedo l’anziano che mi torce il polso della mano armata di una siringa a lui destinata per calmarne il delirio: “Signore, così mi fa male”, gli ho detto, “Io VOGLIO farti male”, è stata la risposta naturalissima… del resto, perché mentire?! I matti sono sinceri. Rivedo un’altra anziana che di notte chiama a gran voce il marito morto da anni per farsi portare via da lì, e sono calci e pugni che vanno a segno su chi cerca di impedire che si rechi danno da sè, incerta sulle gambe, debole di cuore, affannata, affaticata come si ritrova. Rivedo un giovane e il suo lucido delirio che gli fa sì capire di trovarsi in ospedale, ma che gli impone anche di non riconoscere la necessità del ricovero e di dichiarare semplicemente di volersene andare, in piena notte, un casco da motociclista in testa, come assurda e inconscia difesa, minacciando di gettarsi dalle scale se qualcuno glielo avesse impedito, sordo ad ogni ragionevolezza. Rivedo l’uomo, appena ricoverato, che lavora tutta la notte per prepararsi la valigia e alle sei di mattina si dichiara pronto a tornare a casa. Tranquillo, imperturbabile, non accetta un ordine contrario. Diventa violento se contraddetto. Sono follie, queste? O non sono piuttosto tentativi di fuga da una realtà dolorosa? Costringendo queste persone a curarsi, facciamo sempre loro del bene? Ne siamo proprio sicuri? Oppure vogliamo solo difendere i confini legittimi della società, che ai “matti” stanno stretti? La società impone regole comuni per garantire la sua stessa sopravvivenza. Ma questi esseri anomali, scomodi, in un loro modo incomprensibile, non possono accettare tali confini. Non ce la fanno, non a livello razionale. Quante volte, tante, davvero, mi sono soffermata, affascinata e timorosa, a considerare le incredibili mutevolezze della mente. Quante volte stabiliamo che un matto non ha più nulla di umano e proviamo pietà, ma anche paura. La diversità della mente fa paura. Meglio tenersi alla larga. E come non giustificarla, questa paura, là dove la follia esplode in violenza incontrollata? E come non pensare ad epoche e civiltà in cui invece il diverso era adorato come una divinità? Lascio per un po’ le divagazioni, ho poco tempo, devo finire il libro. Era il 1964 quando Tobino scrive nella prefazione della sua diffidenza verso gli psicofarmaci. In alcuni casi questi riducevano o annientavano la malattia, e là dove questa causava vera sofferenza, la persona ne usciva guarita. O “normalizzata”. In altri casi non c’era successo, se non quello di annullare l’esplosione della personalità “diversa”, mascherarla con una normalità apparente, lasciando il vero fuoco ancora tutto da scoprire, lungi dall’essere guarito. Già all’epoca Tobino si augurava che, agli psicofarmaci, la psichiatria accostasse la psicologia, l’umanità, l’approccio più intimo alla persona per tentare, dove possibile, di capirla nel suo intero. Inoltre: “Ora ci vorrebbero tanti più psichiatri, più infermieri specializzati, più dedizione, più giornaliera pazienza, più denari, più denari […]”. Come darti torto, dottore? Oggi che i manicomi, come li hai conosciuti tu, non ci sono più, come negare che ci vorrebbe ugualmente e con più decisione un aiuto maggiore alle famiglie con a carico persone così fuori dagli schemi, così impossibili da imbrigliare nelle maglie sociali che esse rifiutano nel loro categorico modo da pazzi? E che cosa diresti leggendo la notizia di poco tempo fa, che gli antidepressivi sono inutili per la maggior parte dei casi per cui vengono prescritti? Diresti che avevi ragione. E la ragione non è dei pazzi, vero? Non riesco a districare il racconto di Tobino dalle esperienze di vita. Da considerazioni tante volte fatte in corsia, di fronte a casi simili. Eppure la galleria di queste donne di Magliano è terribile e affascinante. L’autore dà maggior risalto all’oscuro erotismo che, selvaggio, senza freno, irrompe da donne che non devono sottostare più ad un codice morale, inventato per condannarle anche quando sono “normali”. Donne che in preda alla sensualità più libera si lanciano nude contro il medico, bramose di sesso. Come dice un’anonima infermiera del racconto, anche quelle fuori vorrebbero, ma non possono. Certo, un’esagerazione, ma che sottintende come le imposizioni sociali costringono la donna a “comportarsi bene”, a reprimere gli istinti, al contrario di quanto è concesso all’uomo. Se non lo fa, o è pazza, o è puttana. Donne che si autoaccusano dei mali del mondo, e cercano di uccidersi trafiggendosi il petto con un ferro da calza. E se non si autoaccusano apertamente, perché non pazze, pensiamoci: forse il mondo le responsabilizza e le reprime ugualmente troppo, incolpandole di ogni cosa, facendole nel tempo streghe, o madri snaturate, o femmine perverse. Donne che fanno del sesso libero la loro unica ragione (se di ragione si può parlare) e impudicamente si mostrano, provocano, smaniano, insultano le suore, custodi non solo delle malate stesse, ma anche di inconfessate brame verso il genere maschile. Donne indemoniate, si dice delle pazienti, che nude vengono rinchiuse in una cella con un solo letto d’alga, su cui sfogano rabbiose e impotenti la loro smania. E per chi è preda di quelle che noi chiamiamo allucinazioni, ma che sono verità per queste persone, Tobino svela: “una delle fondamentali leggi è che i matti non hanno né passato né futuro, ignorano la storia, sono soltanto momentanei attori del loro delirio che ogni secondo detta, ogni secondo muore, appunto perché fuori del mondo, vivi solo per la pazzia, quasi avessero quel compito. Di dimostrare che la pazzia esiste.”. Ce l’ho fatta. Sono stata sveglia di notte e chiudo il libro sull’ultima pagina che è quasi l’alba. Ma non dormo. Ripenso alle libere donne di Magliano. E a quante libere persone ho incontrato in tutti questi anni, senza riconoscerle.