Whiskey Jam (Nostalgia di California e poveri idioti). Salamandra ha da battere il tempo giusto, sennò lo picchio. Per noi che da un po’ stiamo da queste parti è normale vederlo partire, tre piatti alla volta verso un dove che sa solo lui. Rulla e controtempa che si sente Dio; fa tutto un frastuono di TUM-PA, poi ammazza il crash e cerca di violentare il charlestone, Buddah lo strafulmini. Non ti segue non ti sente, poi quando smette, sdenta un sorriso sudato e noi, sempre noi, fermi a guardarlo riposare le mani sulla bottiglia di Romanella, quella dolce che non spaventa gli spicci che fieri si sono sacrificati per lei. Onore a loro. -‘Tacci tua, Salamà. Più lo guardo più m’accorgo che il suo miglior talento è non avere talento. E questo mi fa felice, perché co’ noantri ce stà a pennello. Io da par mio sguiscio sulle corde della mia sei-gemiti, che continua a grugnire e lamentarsi, ma non scappa mai. Spavento gli astanti e do la colpa al jack del pedale per ogni tuono che spruzzo a ciel sereno, poi se bestemmio, gli altri ci credono pure. Gelli tira su uno starnuto e prende tre note in una, fa la mano morta all’Hammond che a quanto pare ci sta pure, visto il suono lungo e muto che fa. Ci sbrighiamo nei quattro quarti, prima che Salamandra ricominci, sfioriamo quasi il tempo, un paio di volte, e il Vecchio suona quel basso che non lo sente nessuno, ma mentre lo vedo in playback mi pare quasi sia bravo, quindi alzo ancora un po’ il mio volume, sia mai che se ne accorga. Happy stura la voce a forza di tabacco, che Venere gli manca. Ammicca al posa cicche e urla al microfono che o si fa come dice lui, o non si fa. Così funziona un gruppo. Si inasprisce piacione vicino l’asta, da uno sguardo a quelle li che sono venute a guardare pure se non volevo. Mi deconcentrano, anzichenò. Allora lui fa finta di saperne qualcosa e tira fuori il discorso che s’è imparato, tutto sul fatto che Bla bla bla. Mica l’ho mai sentito, io, tanto che sotto lo scherzo con un Peow sottile in Mi cantino. Salamandra, se c’è da star zitti, invece, prova la grancassa, si la grancassa, quella che da cinque anni si trova sempre nello stesso posto, quella che da cinque anni suona sempre uguale, quella che probabilmente per un altro quinquennio continuerà a suonare uguale. Ma si sa che i batteristi son stronzi. Happy si innervosisce, fa per andarsene, ritorna, sgrida, se ne rivà, poi a pagina due, da copione torna e comincia a fare sul serio. La scena serve a far smettere a quelle li all’angolo di giocare con lo smalto e guardarci un po’ di più, a far capire loro che ci sono delle stramaledette star, qui dentro. Allora si riattacca, e se siamo spaiati e goffi lo copriamo col rumore, mica per ridere. Che i Pink Floyd ci maledicano, penso un poco. E poi Hendirx, i Black Sabbath e tutto il Metallo che viene dopo. Happy s’arrocca, sale sulle scale di note e ci guarda, grattando via il silenzio dallo stomaco, puntando il suo misfatto verso l’apice delle nostre costruzioni. E tutto è come deve essere, e tutto si riconcilia, nella sua incoerenza,. Gli sbagli sono suoni che percuotiamo e innalziamo, ebbri ed insaziabili, giriamo attorno a questo falò stridente, invocando la pioggia, noi che siamo gli ultimi, con orgoglio rimaniamo tali. Poi venne il palco e da lassù vedevamo le volpi-rosse-doppio-malto, che non avranno il nostro scalpo, poche e disinteressate; più in la quelle che non volevo in sala prove. Quando Happy s’appoggò al gelato girammo forte il volume e nel vuoto pieno ci tuffammo, col pensiero che cadere, era problema d’altri. Dedicato a tutti quelli che si sono ubriacati e divertiti in una sala prove. Onore agli spicci caduti per la causa. Bevendo con il diavolo. Gli ho parlato l’altra notte sai…Era lì, seduto sulla mia poltrona che sorseggiava il mio rum, pronto a vendere indulgenze o a regalare condanne. E davvero non sapevo scegliere. Il prezzo da pagare era forse troppo alto per uno come me. Non è la mia anima che mi preme; non ne è rimasta abbastanza perché possa ancora avere voce in capitolo. Eppure un qualcosa c’è: il ricordo di un’inerzia fatta di ribellione, un’impertinenza che mi sta salvando dall’oblio, una voce che mi proibisce di pronunciare quel si. Ma è allora che la mia follia ha il sopravvento e spinge con prepotenza, facendosi largo fra le mie vene, i miei pensieri, pronta ad inghiottire la mia reticenza. Lui sa. Come potrebbe non sapere? È fatto della stessa materia del mio demone. Ma lui non mi appartiene, non risponde ai miei comandi dissennati, né alle mie patetiche preghiere. Sta in silenzio. E nel silenzio mi osserva, mentre sorseggia il suo rum che d’improvviso nel buio si tinge di rosso. E io resto in piedi, ridendo, contemplando il mio sangue versato prima nel bicchiere di cristallo scheggiato poi sulle sue labbra. Buffo. Tremendo. Folle. Vomito una risata fatta di ironia, segreti e veleno. Mi accorgo che il diavolo non ha bocca per parlare, solo sangue per corrompere. Il mio sangue. Ma sai cosa ti dico? Non m’importa. Che differenza fa giunti a questo punto? Cosa conta l’indulgenza più della condanna? È una prospettiva a breve termine, sicuramente più incerta e decisamente non altrettanto affascinante. Non trovi? Mi chiedo che sapore abbia il mio sangue. So già che non è ciò che vuole in cambio. Mi pare quasi di vederlo sorridere seminascosto dal cristallo troppo limpido per nascondere la rosa scarlatta sciolta nel bicchiere. Affascinante. Seducente. Capitemi, mi piace vederla in questo modo. Sapete, quando si è in bilico sul baratro dell’abisso si tende a vedere la realtà da un punto di vista diverso, poetico oserei dire. C’è poesia in tutto, in effetti. Nella vita spesso la ignori, o fingi di ignorarla, a volti la accogli coraggiosamente nella tua vita. Ma nella morte, nell’oblio…lì allora…ti tendi disperatamente ad afferrarla sperando che canti per te nella tomba. Lui non ha poesia per me. Né oggi né mai. Anche se i suoi occhi astuti, taglienti, vogliono farmi credere il contrario. Diffidate di quegli occhi. Aguzzate i vostri, sebbene mortali, per carpire il fruscio del gelo improvviso, lo sguardo dell’angelo falso, la bugia del mercante malvagio. Ascoltate nel buio i sospiri della notte, le preghiere del sangue attendendo il suo arrivo. Forse saprete come salvarvi. Temete il silenzio quando vagate fra la folla e quando giacete nei vostri letti. Lui è lì. Che vi osserva. E veglia su di voi. Veglia sulle anime che si prepara a strappare. Ma non prendetelo troppo sul serio. C’è sempre un modo per ingannarlo. C’è sempre un modo… Sento i suoi occhi bruciare la mia pelle, tentando invano di penetrarvi. Si alza. Riempie un nuovo bicchiere fino quasi a far traboccare l’alcool dai bordi lavorati. Si avvicina. Il cristallo sembra tragicamente fragile fra le sue mani. I suoi passi sono straziatamente lenti; ogni passo sulla morbida moquette annulla un mio battito, non dà segno di esistere sfociando drammaticamente nel silenzio, come la nuova morte di un fiore in procinto di nascere. Si ferma. Se ne sta lì in piedi con lo sguardo di chi guarda le cose da un nuovo punto di vista che tuttavia non gli rivela nulla. Un uomo senza pretese, un demone senza consigli. Cos’è che vuoi? Vorrei chiedergli. Ma non lo faccio. So che non hanno senso ora le parole. Ha ucciso anch’esse con il suo silenzio assassino. Mi offre il bicchiere pieno con fare per metà signorile per metà provocatore. Sento il cristallo rovente fra le mie mani. Vi leggo qualcosa di incerto, pericoloso, coraggioso. Assaporo la mia ribellione. Ma ogni sorso di rum che prendo dal mio calice va aggiungersi al suo tingendosi nuovamente di rosso. Qualcosa per qualcos’ altro. Una goccia di sangue per un sorso di rum. Un’anima per l’indulgenza. Una condanna per una temporanea illusione di libertà. Qualcosa nella mia testa mi suggerisce che dovrei urlare a questo punto. Ma non lo faccio. Inizio a ridere. Come non ho mai fatto, ammaliato probabilmente dalla prospettiva della mia ultima risata. Ma è davvero l’ultima? Lo è davvero amico mio? Forse si, forse no. Forse anche tu ti chiedevi che sapore avesse il mio sangue. Ma ora che lo sai, comprendi come non puoi ingannarmi, come non puoi legarmi a te. Non oggi. Ecco che miseramente fallisce. Perciò che torni all’inferno, io possiedo già il mio. E su di esso regno incondizionato, senza dovere tributi di sangue a nessuno, nutrendomi delle spine del mio dolore. Rinuncia amico mio, qui non c’è spazio per entrambi. Beviamo come fanno due amici alla vigilia del loro tradimento e non facciamoci promesse. Poi…quando sarò stanco di vivere il mio inferno…verrò un po’ a giocare da te. La campagna. Qualcosa si mosse sul ripiano giallo della cucina. Lo osservò con la coda dell’occhio mentre scolava l’insalata. Il movimento entrò nel suo campo visivo, si mise gli occhiali e classificò il corpo in moto come una formica. Allungò la mano per prenderla, ma l’insetto rapidamente sparì. Guardò l’insalata: forse era arrivato proprio con quella, da chissà quale orto. Improvvisamente sentì nostalgia della campagna. Non della campagna in sé, ma del ricordo che ne aveva dall’infanzia: lontana verde, fresca. Il sole picchiava sull’asfalto al di là della finestra e illuminava le sue mani rugose e macchiate. Già. La campagna: il giardino, l’orto, gli alberi visti da sotto in su, sdraiato nell’erba. Il rumore, fuori, non era certo quello delle cicale. Le cicale! Che cullavano quei pomeriggi lunghissimi. Il frastuono continuo del traffico ormai gli impediva persino di sognare. Scosse la testa avvilito e meravigliato di come l’ondata dei rimpianti l’avesse sopraffatto Chissà se quella campagna esisteva ancora? Forse era sparita, cambiata come lui, tanto che, persino il ricordo, non gli apparteneva più. Dalla strada giunse lo stridio di una frenata. Poi il botto e le voci concitate dei litiganti. Non si affacciò neanche: a quell’incrocio succedeva ogni giorno. Posò invece l’insalata, si mise le scarpe, prese la giacca, le chiavi dell’auto e uscì. Salì sulla vecchia Ford come un automa e si avviò verso la periferia. Guidava lentamente, concentrato, cercando nella memoria l’itinerario sulla traccia delle sue nostalgie. Imboccò l’autostrada, infastidito dal traffico pesante, preoccupato di non mancare l’uscita giusta. La seconda? Si sentiva teso ed accaldato. La vecchia auto ansimava e lui con lei. Finalmente, erano passate due ore, imboccò lo svincolo ed uscì da quell’inferno. La strada, sconosciuta, era un susseguirsi di capannoni industriali, ma le indicazioni erano rassicuranti. In lontananza si scorgevano paesini arroccati nel tufo. Sì: dopo il secondo bivio ritenne di essere a buon punto. Ma, al bivio seguente non ne fu più tanto sicuro. Sconcertato, andò comunque avanti ostinatamente. Intorno le strutture erano scomparse ed i campi si susseguivano con pochi casali isolati nell’entroterra. Cominciava ad essere stanco, quando il profilo di alcune colline gli accese dei ricordi remoti. Diresse verso di loro,una curva dopo l’altra, un dosso, una salita, una discesa, gli pareva di riconoscere qualcosa. La Ford cominciò a tossicchiare. La sto sforzando troppo, pensò, ma l’indicatore della benzina assicurava una piena autonomia. Faceva ancora molto caldo, anche se il sole cominciava a calare, ma le giornate erano lunghe e lui, ormai, senza più cognizione del tempo. Strano: quel casale rosso era uguale a quello già visto un’ora fa. Proseguì col dubbio. Continuò a salire e scendere finchè l’auto, con un sospiro, si fermò fumante. Sbalordito, scese senza osare aprire il cofano che emanava vapori minacciosi. Lasciamola raffreddare, si disse, senza tentare riavviarla. Per una volta rimpianse di non aver mai voluto un cellulare. Poi, sentendosi intorpidito, cominciò ad andare su e giù per sgranchirsi le gambe. Non era più abituato a guidare tanto. Gli doleva anche un braccio. “La campagna! Vecchio suonato!” Borbottò, più che altro per rompere il silenzio, alla cui ricerca era partito. “Qualcuno passerà” Ma sembrava che il tramonto imminente avesse dato il segnale della ritirata. Niente e nessuno. Cercò di ricordarsi dove aveva visto l’ultima casa. Forse due chilometri indietro. Meglio avviarsi e, strada facendo, se passava qualcuno, chiedere aiuto. Si incamminò di malavoglia, di pessimo umore. Intorno i campi, all’imbrunire, erano di un bel verde, ma lui non li guardava. Una scarpa gli martellava il piede ed il braccio continuava a formicolare. Rallentò un poco, mentre il sole spariva dietro le colline. Era meno caldo, ma lo sforzo e l’ansia gli imperlavano la fronte, sfiancandolo. Non si vedevano né case né luci. La prima stella era all’orizzonte nel cielo ancora turchino. Il dolore al piede si fece più acuto: forse era meglio camminare sull’erba. Scavalcò il fossatello ed entrò nei campi. Più in la c’erano degli alberi. Andò a sedervisi sotto per togliersi la scarpa e riposarsi. Seduto, si sentì ancora più stanco. Ma, invece dello sconforto che la sua situazione assurda suggeriva, si guardò intorno con una sorta di rassegnazione. Le cose non avevano più ombre e cominciavano a perdere i loro contorni. Il buio avanzava nel silenzio circostante. Una fitta gli traversò il petto, si ripetè più forte, lancinante, poi cessò. Un contadino che passava lo trovò così, il giorno dopo. Sdraiato sotto un albero, gli occhi, ancora aperti, rivolti agli alti rami. Su cui cantavano le cicale. Il principe che non sapeva ridere. C’era una volta in un regno lontano un bel principe che non sapeva ridere. La madre e le due sorelle avevano sempre tentato di insegnargli quella semplice arte, ma nulla era servito. Il giovane non era felice, non rideva tutto il tempo come faceva la maggior parte della nobile gioventù di corte, ma trascorreva le giornate in un misterioso stato di velata malinconia, intervallato da saltuari i momenti in cui una temporaneo divertimento illuminava il suo viso. In quelli istanti sembrava un giovane come gli altri, rideva e scherzava con i nobili compagni. Ma quei momenti si esaurivano presto, le risate si affievolivano e lui tornava serio e cupo. Il Re, che voleva molto bene al suo unico figlio maschio, decise di indire un concorso, chiunque avesse portato la felicità e il sorriso nel cuore del giovane principe avrebbe potuto chiedere al Re qualsiasi cosa. Il concorso era aperto a tutti, dall’uomo più povero al nobile più ricco. Il figlio accolse il volere del padre. Non passarono che pochi giorni e il castello fu traboccante di partecipanti di ogni genere. Una mattina la gara fu pubblicamente aperta. Iniziarono così le manifestazioni, vi erano fantasiosi racconta-storie che avevano inventato barzellette per l’occasione, abili acrobati che s’impegnavano in complessi esercizi per poi finire a testa in giù con una maschera da pagliaccio, stregoni che avevano creato pozioni per il sorriso, maghi e streghe con potenti incantesimi per rendere l’eterna felicità…ma tutto fu vano. Spesso il principe rise, ma sulle sue labbra non comparivano che risate passeggere, sorrisi momentanei. Dopo quelli istanti tornava a chiudersi in se stesso. Il risultato più grande lo ottenne involontariamente una bimba, che, sfuggita al controllo della distratta madre, corse allegramente al centro del palco. Lì iniziò a sorridere dolcemente e a dondolarsi sulle gambette. Quando notò che la fissavano tutti le sue paffute guance rosa divennero di un bel rosso acceso e nascose il faccino tondo dietro le piccole manine. Ma non smise di ridere teneramente. La madre riuscì allora a prenderla fra le braccia e a riportarla fra il pubblico. Il principe si era però intenerito e aveva mostrato apertamente un sorriso affettuoso, che non lo abbandonò che quando la bimba scomparve fra la folla. Il fenomeno non si ripeté più. Gli spettacoli continuarono fino a sera, ma nessuno riuscì a donare la vera felicità al cuore del giovane. Tutti i tentativi erano miseramente falliti. Il tempo tornò a scorrere e qualche mese dopo giunse a palazzo una giovane principessa venuta dall’oriente. La fanciulla era bella come l’alba, luminosa come il sole. Il principe, vista la splendida nobildonna, iniziò a frequentare i luoghi in cui più spesso lei amava recarsi. Convinse i suoi amici a trascorrere più tempo nel grande giardino del palazzo, passarono ore a scherzare in riva al mare…Il principe dedicava però solo una parte della sua attenzione ai compagni, mentre spesso s’incantava a guardare la bella principessa passeggiare sulla sabbia in compagnia delle sue dame, dondolarsi sull’altalena di fiori del giardino, danzare nella sala del palazzo. I suoi amici non notarono la sua disattenzione, lui infatti non lanciava che velati sguardi alla fanciulla orientale. La giovane si accorse dal primo istante di quei due occhi azzurri costantemente su di lei. Ma ciò non la infastidiva, anzi, le piaceva girarsi e incontrare lo sguardo del ragazzo audacemente posato su di lei. Lui però non tentò mai di parlarle, semplicemente non smise di far incrociare il suo sguardo con quello della ragazza. Solo qualche volta capitò di scambiarsi silenziosi inchini leggeri, o di sfiorarsi delicatamente quando prendevano posto a tavola, momenti carichi di parole nascoste. Un giorno fu organizzata una festa in maschera al villaggio vicino. I giovani nobili riuscirono a convincere il principe a prendervi parte con loro. Lui indossò una maschera blu come i suoi occhi e li seguì. Alla festa aveva preso parte tutto il paese, vi erano le maschere più varie, elfi con lunghe orecchie a punta, fate dalle ali chiare, leoni con una fitte criniere, nani con grosse asce, streghe con orribili nasi adunchi… insomma non mancava nessuna creatura. Il principe si lasciava trasportare dagli amici nei balli e in una delle danze finì in coppia con una fata dalle delicate ali verdine. Il giovane intravide sotto il velo della fanciulla dei profondi occhi scuri. Danzarono a lungo ma il principe non riusciva a divertirsi perché aveva sempre nella mente la misteriosa orientale che alloggiava a palazzo. Pensava a lei ogni giorno, ogni istante, c’era qualcosa di quella ragazza che lo aveva rapito e inspiegabilmente catturato. Quando la musica s’interruppe i due si divisero con un cordiale cenno del capo. La fata si allontanò dalla folla, ma camminando via perse un velo delle sue ali, che scivolò silenzioso a terra. Lei, non accortasi di nulla, si staccò la maschera dal viso e si appoggiò ad un albero poco lontano, illuminata dal chiarore della luna. Il principe notò il velo celeste a terra e lo riconobbe subito, faceva parte del costume della fata con cui aveva ballato poco prima. Lo raccolse e cercò con lo sguardo la sconosciuta ragazza. La vide e la raggiunse velocemente. “Mi perdoni il disturbo, lei ha perso qualcosa” le disse appena le fu dietro le spalle. Lei si girò e lui la riconobbe subito…la bella principessa del mistero. Era stata con lui tutta la sera e lui non l’aveva riconosciuta. Eppure quante volte si era perso nei suoi splendidi occhi…Lei sorrise gentilmente “Grazie, lei deve essere un vero principe, non solo nel costume che indossa. Pochi avrebbero perso anche un solo attimo di questa magnifica festa per qualcosa di così poca importanza”. “Oh no, sono sicuro che chiunque donerebbe tutti i suoi averi per poterle parlare anche solo per un istante. Il suo sorriso vale mille di queste feste” disse lui lentamente mentre si allontanava la maschera dal volto. Anche lei lo riconobbe immediatamente, era lui, il principe con cui spesso incrociava lo sguardo, il ragazzo che da giorni la osservava da lontano. I due giovani ballarono tutta la sera e poi fecero una lunga passeggiata sotto le stelle. Parlarono a lungo, e ognuno si immerse nell’animo dell’altro. Divennero inseparabili e il principe iniziò a sorridere, a ridere, ridere una risata vera. Non solo era allegro…era felice, e non passava istante che nei suoi occhi non splendesse l’anima stessa della felicità. Pochi mesi dopo i due reali si sposarono, unificando i due lontani regni sotto un’unica corona, innamorati ogni giorno di più, innamorati dal primo istante in cui i loro sguardi si erano incrociati per la prima volta. …E vissero per sempre felici e contenti, l’uno perso negli occhi dell’altro. Ecco cosa mancava al principe, cosa la famiglia reale aveva sempre cercato per il suo erede, una principessa che sapesse renderlo felice davvero, una principessa che gli donasse il suo cuore, accogliendo in se quello del suo principe. …Ecco cosa porta davvero la felicità nei cuori. Il principe lo aveva trovato e lo tenne stretto dolcemente per il resto della sua vita…L’amore. Nulla faceva presagire. “Nulla faceva presagire la tragedia” ci ha detto la vicina di casa che li conosceva … La vicina di casa spense il televisore mentre la sua immagine ancora la fissava dallo schermo. Li aveva sentiti litigare per mesi, da quando si erano trasferiti nell’appartamento accanto. Le liti iniziavano all’ora di cena, in un crescendo che la televisione accesa non riusciva a stemperare. A volte c’erano delle pause, delle tregue armate, che la facevano sobbalzare alla ripresa delle ostilità. Degeneravano in ingiurie e oscenità fino a tarda notte finché, al di là della parete che li separava, le cose prendevano uno sconcio andamento sussultorio, come di una lotta tra belve. Poi tutto finiva in un silenzio più preoccupante che pacifico. Lei, le palpebre serrate nel buio, era la coatta testimone della loro vita. Nei primi tempi, scandalizzata, aveva sussurrato rosari cercando di non sentirli. Li aveva spiati, il mattino dopo, l’occhio alla porta, quando uscivano. Sembravano una coppia normale. Invece tra di loro accadeva ogni sera qualcosa di terribile e lei lo condivideva suo malgrado. Passava notti insonni. Invano si attardava nell’altra stanza per non andare a letto: i muri risonanti non le davano tregua. Fu tentata di parlarne al confessore, ma si vergognava a riferire ciò che sentiva. Il prete poteva pensare che lei origliasse. Peccatori. Ecco cos’erano! Anime dannate che riuscivano a trascinarla nei loro abissi, coinvolgendola nella loro perdizione. Il primo passo fu di suonare alla loro porta un pomeriggio. La scusa erano dei problemi all’ascensore. Le aprì la donna, l’aria sciatta, e la invitò subito ad entrare. La casa era come la padrona. Nella cucina, dove le fu offerto un caffè, c’era un gran disordine: piatti sporchi, bottiglie vuote. Una di vino, appena aperta, era sul tavolo. Lei ne rifiutò un bicchiere. Rientrò in casa convinta che le sue intuizioni fossero esatte. I giorni passavano senza alcun miglioramento. Lei non riusciva a farci l’abitudine, anzi l’orecchio. Quando incrociava la donna la salutava compunta. L’altra le rispondeva cordiale, arrivando ad informarsi sulle questioni condominiali. Era esasperata: le cose andavano rimesse a posto. Non solo per la sua tranquillità, ma per il loro bene: non si poteva vivere così. Con pretesti diversi si riaffacciò varie volte dalla sua vicina studiandola. Il veleno, in polvere, lo aveva in casa, da tanto tempo. Ma i veleni non scadono. Lo diluì. Lo aspirò con una siringa, lo mise in tasca. Traversò il pianerottolo, suonò e chiese chiarimenti sull’ultima bolletta del riscaldamento. La donna la lasciò in cucina per andare a cercare la carta richiesta. Sul tavolo la solita bottiglia di vino stappata per la cena. Fece in un attimo. Quando la donna tornò, controllò con lei la fattura, ringraziò ed andò via rifiutando un bicchierino. Quella notte i rumori non ci furono, tranne quelli che lei si aspettava: un trapestio disperato che cessò rapidamente. Aspettò due giorni prima di dare l’allarme. Portarono via le salme sotto il suo sguardo freddo. La porta fu sigillata. “Omicidio e suicidio, messo in atto da uno dei due. Questa l’ipotesi degli inquirenti. Purtroppo non c’erano messaggi che chiarissero la dinamica dei fatti.” concluse il cronista. Chiuse il televisore mentre ancora la sua immagine era sullo schermo alla fine del servizio. Spense la luce e, nel silenzio della notte, si addormentò tranquilla. Un segreto agrodolce. Erano giorni freddi, di vento. Giorni in cui la neve cadeva a spruzzi. Giorni di metà marzo. Io me ne andavo a scuola con un piumino mezzo impolverato. Tanto non avevo mai dato troppo peso al vestiario. Quella mattina l’aria era particolarmente pungente ed io camminavo a passi svelti per la strada più per riscaldarmi che per non fare tardi. Di fare tardi in fondo non me n’è mai importato molto. Quel giorno però ero stranamente puntuale forse perché da un po’ di tempo non dormivo particolarmente bene, a causa d’un pensiero che seppur bellissimo mi teneva sveglio. Il pensiero di una ragazzetta che faceva il liceo con me. Un ragazza che mi aveva rubato l’anima. Entrai in classe e lei ancora non c’era. Era fin troppo presto e poi si sa come sono quelle donne che aspettiamo: non arrivano mai. Intanto mi sedei al mio posto con le braccia conserte e chiusi gli occhi come se volessi farmi una pennichella. Lei ancora non arrivava. Arrivò Jessica, la sua migliore amica. Mi sorrise ma non disse niente d’importante. Niente su di lei. Disse solo cazzate tipo: mamma che freddo, si gela, ecc…. roba di cui sinceramente non me ne fregava granché. E di sicuro non potevo domandarle di Anna, della mia dolce Anna. Anche perché ero stato tutto il tempo a nascondermi per non far sospettare nemmeno minimamente i miei sentimenti ad anima viva. E certo dovevo continuare a farlo: non avevo il coraggio di espormi, di gridare il mio amore al pubblico incanto. Ero un coniglio saccente, per questo non meritavo di stare con lei. I minuti passavano lenti, pesanti, nell’ansia di veder comparire la sua piccola sagoma all’ingresso. La immaginavo in mille piccoli pericoli in cui la vedevo imbattersi senza che io potessi essere lì a proteggerla e un po’ tiravo anche un sospiro di sollievo: in fondo io non ci sarei mai riuscito. A proteggerla. Neppure il prof di educazione fisica arrivava, ma in fondo questa non era più una gran novità. Da troppo tempo la sua ora era diventata una nostra ora auto-gestita, e nessuno poteva preoccuparsi se lui tardava o se non si presentava affatto. Io, quella benedetta prima ora del mercoledì mattina, me la cullavo nella mente come se dovesse essere per forza la migliore di tutta la mia settimana. E lo era! Perché mi illudevo che magari, trovando il pretesto giusto avrei potuto parlare per tutto il tempo con Anna, o anche solo ascoltarla magari guardandola negli occhi o sfiorandole le guance rosee. Solo questo sarebbe stato già un sogno per me, un sogno che non si avverava mai nel modo in cui l’avevo sognato. A volte quell’ora s’avvicinava al mio sogno, ma altre, invece, me ne restavo per tutto il tempo lontano da lei e dagli altri a pensare al modo per andare da Anna senza infastidirla e senza insospettire i miei compagni. Erano questi i mercoledì peggiori. Passavano nel rammarico di quella prima ora gettata a pensare a come avvicinarmi all’oggetto del mio amore. Non avrei potuto pensarci tutti gli altri giorni? Prepararmi? Me lo dicevo sempre mentre battevo la testa al muro per punirmi della mia dabbenaggine. Ma non potevo essere troppo severo con me, che sapevo benissimo d’averci pensato tanto per tutta la settimana anche immaginando possibili scenari. Purtroppo però quando era il momento di mettere in pratica il mio piano, c’era sempre un qualche aspetto che non ero riuscito a prevedere e che faceva saltare tutta la mia fantomatica costruzione. Aprii il mio zaino. Non mi serviva nulla di quel che c’era dentro. Lo zaino era un diversivo, un modo per ingannare l’attesa, un pretesto per affaccendarmi in qualcosa che potesse distogliermi dal dispiacere che certamente m’avrebbe dato l’elaborare che la mia dolce Anna non sarebbe mai arrivata. Proprio in quel momento entrò. Stravolta. Quasi non sembrava lei. Il volto annerito dal rimmel che le colava giù dagli occhi, le labbra strette in un fremito con cui cercava di reprimere la rabbia e il dolore che il suo piccolo corpo non riusciva a contenere. Rimasi intontito, fermo, immobile. Il mio cuore batteva forte. Avevo paura e non sapevo. Volevo chiederle cosa avesse ma ero fin troppo vigliacco e così stolto da anteporre l’insulso timore che il mio amore fosse scoperto all’immane sofferenza che lei stava vivendo. Dopo un attimo di titubanza, in cui se n’era stata all’atrio silenziosa e con lo sguardo assente, entrò e lanciò lo zaino sul suo banco. Poi corse in bagno mentre la sua miglior amica, che ancora non sapeva, s’affrettò a raggiungerla. Non ricordo molto altro. Ero sotto shock. Avevo un gran freddo e andai ad appoggiarmi ad un termosifone che per l’occasione (non capitava tutti i giorni in quella scuola, anzi capitava praticamente mai) era accesso. E lì, con le braccia conserte e visibilmente imbronciato, aspettavo non so cosa e non so chi, ignorando tutti quegli altri che ridevano e scherzavano perché non s’erano accorti di niente. Poi la porta si riaprì, la sua miglior amica rientrò e dietro di lei, fragile come un filo d’erba spazzato dal vento, c’era Anna. Doveva aver pianto ma ormai sul suo viso non ce n’era più traccia. Aveva recuperato la sua bellezza e Jessica l’aveva aiutata in questo. Il dolore però rimaneva fossilizzato in lei e ce n’era ancora traccia nel suo sguardo sbarrato, nel suo modo di camminare senza nessuna grazia come se stesse andando al patibolo, nella sua voce che era come un rantolo indistinguibile. E in lei, che diceva una parola ogni mille altrui quando le veniva richiesta con insistenza. E ciò sicuramente non faceva parte del suo abituale modo di fare. Quando la vidi raggiungermi ebbi come un moto di felicità e le sorrisi. Forse anche lei sentiva quel freddo dell’anima e non saprò mai se cercava conforto in quel vecchio e arrugginito termosifone o in me. Mi ricambiò per un secondo e poi si rabbuiò di nuovo, come se si fosse fatto improvvisamente notte sul suo volto. Anch’io mi rabbuiai perché potevo solo vivere della sua luce riflessa. Ora stava poggiata accanto a me. Io la guardavo cercando di dirle qualcosa con gli occhi ma non ci riuscivo. Lei guardava un po’ me e un po’ il pavimento, più il pavimento che me. Poi il suo sguardo si fermò nel mio, così a lungo da stupirmi. Raccolsi, in quel vortice di pensieri che mi gironzolavano per la testa, una parola da dirle. Senza neanche chiedermi se potesse confortarla, se fosse giusta o sbagliata, se servisse a lei o almeno a me. - Che cos’hai? – avrei voluto carezzarle il viso ma il mio gesto rimase a metà, smorzato dai miei timori, e divenne una pacca sulle spalle. Come se Anna fosse un camionista che aveva guidato tutta la notte ed io andavo a sostituirla compatendola per il lungo viaggio che aveva dovuto affrontare. Allora mi guardò per la prima volta come una donna guarda un uomo, mentre io continuavo a tenere i miei occhi su di lei così come li avevo sempre tenuti da quando la bramavo per me soltanto. - Niente – Piegò il bel volto in una smorfia come a nascondersi, mentre cercava di tirare fuori dal cilindro una naturalezza ed un sorriso che potessero dar conferma alle sue parole. Non li trovò. Un suo braccio penzolava inanimato dal termosifone sul quale era poggiato e come attratto s’avvicinava al mio corpo, come se volesse un contatto, come se volesse toccare altra carne debole e sofferente come la sua. Ed anch’io lo volevo ma non potevo. La mia codardia mi impediva non solo di toccarla o di abbracciarla ma anche di provare quel desiderio. E questo solo per non mostrare il mio amore. L’amore era talmente lampante in ogni mio atteggiamento, che il più delle volte mi stupivo e mi chiedevo come mai nessuno l’avesse ancora scoperto. Insistei. - Niente – mi ripeté – davvero. – “Dici niente come se il nulla potesse ridurti in questo stato. Dici niente illudendoti che io non conosca quell’alzata di spalle, quel tenero musetto imbronciato o quegli occhi da cerbiatto impaurito grazie ai quali so per certo che è un niente-tutto quello di cui tu stai parlando. È un niente che conosco bene. È lo stesso niente mio. Quello che ripeto sempre agli altri quando sono più buio della notte, quando il freddo è nel mio cuore e voglio che nessuno faccia luce, che nessuno mi copra perché sono testardo e voglio farcela da solo. O perché non mi fido di nessuno. Ma con me è diverso. Te lo giuro! Di me puoi fidarti mia piccola stellina. Io ti starò vicino durante la caduta come quel manto scuro che rende più dolce il tuo planare nella notte di San Lorenzo e poi sarò quella terra dove tu ti poserai ormai spenta, quella terra che ti terrà con sé nonostante tu abbia perso tutta la tua bellezza, tutto il tuo splendore. Quella terra di cui diverrai parte e con la quale darai nuovi frutti al mondo. E io tornerò ad essere quel manto oscuro e tu la mia sola luce. Tu, stella mia soltanto.” Ma di tante belle parole, di tante emozioni qui raccolte perché indelebili, perché vive in me come se tutto fosse successo da appena un minuto, non riuscii a musicarne neppure una e restai in silenzio come ad accettare con superficialità i suoi niente che erano solo di facciata. Riprovai ancora con ostinazione, perché volevo abbracciare quel dolore, volevo portarlo addosso insieme a lei; mentre mi pesava da morire continuare a tenere quelle distanze corporali che erano necessarie se volevo che il mio amore non fosse intuito da ogni altro, ma soprattutto dalla mia dolce amica. - Allora? T’è morto il gatto? – Sorrise per meno d’un secondo. - Vado in bagno – disse con la voce rotta dal pianto che tornava a riemergere dal pozzo profondo in cui tutta la sua forza lo aveva sotterrato. Ora non riusciva più a contrastarlo, io avevo tolto quel tappo di sughero e la bottiglia era esplosa tra le mie mani. Si affrettò ad andarsene. “Aspetta. – prendendola per un braccio - Non volevo essere insensibile. Non volevo offendere il tuo dolore. Volevo solo far risplendere il tuo sorriso perché io ne ho bisogno più del sole. Più dell’acqua dell’aria e di tutte le cose che dicono siano indispensabili all’uomo e che per me non valgono più del tuo alluce.” Ma stetti ancora immobile. Come una statua di marmo, con un cuore di ghiaccio e un viso inespressivo. Mentre lei era fuggita via. Oggi so che avrei dovuto seguirla e stringerla forte al mio petto senza dirle niente. Stringerla solo per far battere il mio cuore contro il suo e per lenire a vicenda quel freddo che sentivamo entrambi. Dovevo solo placare, con la forza delle mie braccia serrate, i tremori di un corpo scosso dal vento che spazzava la sua anima e forse cercare di trovare lo stesso calore in lei che tremava come una foglia. Non lo feci. M’importò più di quello che avrebbero potuto pensare un mucchio di deficienti che non s’erano nemmeno accorti che Anna soffrisse, così come non avevano sospettato che io l’amassi nemmeno per un giorno, di tutti gli anni in cui l’ho amata M’importò di quello che poteva pensare lei se si fosse accorta che l’amavo. Io, che l’ero sempre stato vicino d’amico e avevo fatto di tutto per non farle sospettare niente come se mi vergognassi del mio amore. Per fortuna per lei c’era Jessica, ch’era sua amica, e a differenza di me non ambiva ad amarla. Le corse dietro non appena vide che Anna s’allontanava da me. Mi passò davanti senza nemmeno guardarmi. Ignorandomi. Sbuffò soltanto. E così capii che era colpa mia. Dopo un po’, quando mi convinsi d’aver aspettato abbastanza a lungo da fugare ogni sospetto, uscii in corridoio a sentire le sue urla di dolore, a sentirla piangere ed urlare. A sentire Jessica che m’accusava d’essere un cretino, un insensibile, un idiota. E forse non aveva tutti i torti. E poi sentii dei singhiozzi e Anna. - No, non lo sapeva e non voleva – diceva tirando su col naso – ha solo riaperto la ferita ma non l’ha causata. E sarebbe ingiusto – continuava sospirando quasi ci tenesse a perorare la mia causa – prendermela con lui…è sempre così gentile – Allora Jessica si placò, o forse non volle infierire per risparmiare le forze. Le sarebbero venute utili poco dopo. “Sì, gentile… Gentile sei tu, amore, a difendermi ora che stai soffrendo anche a causa mia. Se solo sapessi che t’amo e non ho il coraggio di dirtelo e ho addirittura il terrore che tu venga a saperlo o che altri se ne accorgano…” Pensavo così mentre Jessica usciva dal bagno furibonda. Veniva a cercarmi. Me ne accorsi quando vedendomi là fuori allungò ancor di più il passo per raggiungermi. Quando fu vicina a me si fermò a guardarmi negli occhi con lo sguardo più truce che mi sia mai stato rivolto. Ressi quello sguardo con sincerità. Io l’amo con tutto me stesso, l’amo da tempo immemore, l’amo così tanto che morirei pur di regalarle un sorriso. Non lo dissi ma il pensarlo mi diede la forza di arrivare fino in fondo allo sguardo inquisitorio di Jessica. Pensarlo mi consentì di dimostrarle la mia assoluta buona fede e anche la mia sensibilità. E non ritrassi il mio sguardo perché forse non volevo più nascondere niente, perché in me era tutto chiaro da tempo e nell’amare Anna non c’era niente di male, niente di cui avere paura. Ora Jessica poteva anche leggermi negli occhi, leggere tutto l’amore che c’era nascosto dentro. La vinsi. Le sfuggirono lacrime commosse e leggera posò il volto sulla mia spalla. Vidi le sue lacrime bagnarmi la camicia. E solo allora di nuovo quel timore d’esser stato scoperto, o forse la liberazione (non so bene), mi ridiedero la parola. - Mi dici che c’è? – - Non ce la faccio più – e lo ripeté innumerevoli volte sospirando, con voce sempre più tenue finché non la sentii più. Allora mi strinse più forte. - Non ce l’ha con te. Lo sa che non volevi farle del male, che non gliene avresti fatto mai. – Annuii. Le sue parole, nonostante le avessi rubate soltanto poco prima dalla voce flebile di Anna, mi confortarono anche perché confermarono quelle che avevo sentito, ma così debolmente da avere il dubbio di averle immaginate soltanto. “Allora la presi per mano. - Andiamo da lei –dissi. - Anna ascoltami – le accarezzai il bel volto – Io ti amo, da così tanto che ormai non ricordo più quando ho cominciato. Ti amo perché mi ricordi la freschezza della brezza nelle mattine d’estate. Perché tu sei la sabbia ed io la clessidra, e il solo tenerti in me riempie il mio tempo. Ti amo perché sei come quei sogni irrealizzabili ma che tieni custoditi nel cuore. E guai se qualcuno te li tocca o ti dice che non li realizzerai. Sono tuoi soltanto e solo tu puoi decidere della loro vita e della loro morte, essere arbitro del loro destino. Perché solo tu sai se hai la forza di credere in loro e di resistere alla delusione che potranno procurarti quando svaniranno.” Ma tutto ciò forse per me sarebbe stato troppo. Per me che sono sempre stato un uomo di carta pesta. Anna uscì dal bagno. Mi avvicinai e le chiesi scusa. - Di che? – regalandomi il suo sorriso. Allora l’abbracciai perché ne sentii il bisogno. Sentii come una puntura al cuore, un dolore secco e forte che poteva essere lenito solo allargando le braccia e serrandole forte alle sue spalle. Questo m’aiutò a respirare meglio. La porta si aprì d’improvviso ed io schiusi subito il mio abbraccio come impaurito. Lei mi tenne ancora stretto. "Tranquillo. Solo chi t’ama sa riconoscere l’amore da un tuo abbraccio." La guerra di intellettuale. Ero nel fitto della macchia; affamato, superficialmente ferito e con quel senso di scoramento latente, inibito non tanto dalla voglia di sopravvivere, ma più che altro dalla voglia di mettere un piede davanti l’altro, ancora una volta, ancora per qualche metro, fino a raggiungere se non un ricovero, almeno una speranza. Erano passate all’incirca diciannove ore da quando mi divisi dal resto della mia squadra, da quando fummo martoriati da un commando di mercenari proprio mentre battevamo in ritirata. Una spedizione “ranger” semplice, troppo semplice per controllare tutti i fronti, si era trasformata in un tributo di sangue al Dio della guerra. Ci avevano segnalato che dei rivoltosi, probabilmente una branca filo-odifreddiana, erano stati avvistati tra i resti del nostro ex-avamposto d’osservazione. Il dispaccio veniva da dei non meglio identificati “osservatori neutrali”, ma in questo tipo di guerra le “gole profonde” sono considerate più che attendibili visto che, molto spesso, fanno parte di gruppi paramilitari facenti capo a imprenditori che parteggiano, se pur in maniera silente, per noi e per la nostra causa. Sta volta però, qualcosa era andato storto. Arrivati sul posto fummo attaccati direttamente da un gruppo sparuto di combattenti, contro di noi alzarono un fitto muro di fuoco, un attacco molto superficiale, da disperati. Da principio ci spararono contro una serie di insultacci tra il linguaggio d’osteria e il politically correct, poi si “raffinarono”, iniziando a bombardarci con tesi di idealismo politico standard. Ne caddero a decine tra i loro, ma a poco a poco scoprimmo che erano molto più di “decine”. La squadra che ci attaccò era solo uno specchietto per le allodole, dalle retrovie ben presto ne arrivarono a bizzeffe e, come se non bastasse, inizio a “piovere”. Cecchini. Tenemmo ben poco; mi fischiò accanto un breve periodo intitolabile “l’accezione non corrotta dell’espressione ‘rivoluzione fascista’”; lo spostamento d’aria mi stordì e caddi a terra, da dove potei veder meglio quel colpo raggiungere il suo vero obbiettivo e conficcarsi nel collo del soldato semplice Meyer, saggista abituale e abitudinario della casa editrice “Zapata Y Zapata”. Battemmo la ritirata quindi, ma solo una volta nel sottobosco realizzammo che quelli che ci avevano attaccato, non erano assolutamente Odifreddiani; troppo spartani, quelli erano carne da macello. Fu questa intuizione l’alba della nostra fine, il proemio della nostra tragedia. L’odore di Humus e di muschio e di tutte quelle cose che non erano sangue e polvere da sparo, mi rincuoro non poco, battemmo in ritirata, seppur in maniera frettolosa, sempre in formazione, per volere del Tenente Cerutti, ma questo non salvò di certo il Sotto Tenente Alfieri, apri pista di destra e Ingegnere Meccanico in tempi di pace, il quale appena dopo datoci un “clear”, acchiottato dietro il fusto d’una quercia, veniva raggiunto da una scarica di ilarità malata, quell’ilarità che ricerca il senso del ridicolo nei tentativi di dimostrazioni costruttive semplificate; ecco dov’erano. Mentre la tempesta di fuoco e parole si abbatteva su di noi, fu dato il “si salvi chi può” dal Caporal Maggiore Malaparte Sergio, un ex-carabiniere che usava questo nome d’arte e d’armi in onore dell’uomo a cui da sempre si ispirava, l’autore di Kaputt, portato alla sua attenzione dopo il film ispirato alla sua seconda opera fatto dalla Cavani. Sentii lo stesso rantolare di dolore mentre fuggivo senza guardarmi indietro, corsi, fin quando l’eco delle elucubrazioni matematiche non provocò più rumore del fogliare mosso dal vento. La guerra che aveva appena spazzato via la mia compagnia, durava ormai da due anni; da quel giorno, per la precisione, in cui 4 intellettuali coperti in viso da dei passamontagna, irruppero nello studio di “uomini&donne” trucidando l’inerme pubblico a colpi di “duopolio rai/mediaset; ovvero pubblico/privato”. Un vero massacro. Quei poveracci, abituati a barcamenarsi tra assiomizzazioni etiche e paradigmi morali tanto nuovi quanto corrotti, nulla poterono contro quei periodi ben articolati; qualcuno però, resistette alle argomentazioni fondamentalmente deboli addotte dal commando, ma non ebbero il tempo di organizzare un minimo contrattacco che gli incursori sfoderarono delle digressioni antropologiche. L’aggressione fu rivendicata dal I.C., Intellettuali Combattenti, che con quell’atto si istituiva formalmente. L’idea dell’I.C. era di spazzare via tutti i sedicenti opinionisti e, soprattutto, portare all’attenzione del pubblico che quei salotti televisivi, occupati da nani e ballerine parlanti, nulla avevano a che vedere con l’eredità dei salotti intellettuali di Derobertiana memoria. Incredibilmente però, celere e pronta fu la risposta di quelli che vennero nomati i “rivoltosi”, “gli impuri”. Costituitisi anche loro in gruppi combattenti, stupirono il mondo annoverando tra le loro fila nomi a dir poco prestigiosi; uno su tutti, G. F., che divento il loro ufficioso leader generale. Io fui arruolato dall’IC all’inizio del contenzioso e ora, essendo uno dei fanti con la più alta esperienza, sono stato inviato qui, a trentasette chilometri da quella che sembra essere l’attuale postazione del “laico crociato”. Di qui la mia storia, che soffrirà forse di recentismo, ma che suggerisce, in maniera inequivocabile, il fallimento di quello che doveva essere un assedio. Poi, scostata una fronda, ecco le spalle d’una divisa nera; la giacca mimetica posata su un arbusto che deve aver richiamato alla mente di quel soldato l’immagine dell’uomo morto posto, in tempi pacifici, accanto al suo comodino, e un grosso recipiente di metallo sul quale è chino, intento a far qualcosa che gli costerà la vita. Fisso il profilo di quell’uomo per una manciata di secondi che sembrano una vita; una vita che tostamente sarà spezzata dall’odio, dalla rabbia, dal rancore, da quel rancore che solo nei confronti di un nemico non tuo puoi provare. Cerco di riordinare le idee, analizzo tutti i concetti più potenti racchiusi nella mia mente; voglio colpirlo, per prima cosa, con dei colpi veloci ma non mortali, e dopo, ormai spiazzato, finirlo con banalità perfette e deflagranti. Quelle, per capirci, che sviliscono l’intelligenza umana, quelle che è facile dire ma alle quali è impossibile contro battere in quanto non consistono in nulla; non c’è nulla da schivare, solo un tutto da cui farsi travolgere. Ma un eccesso di adrenalina mi rende imperfetto, tocco qualcosa, non so cosa ma lo insospettisco, di colpo mi sembra che anche il mio respiro sia assordante; sa che ci sono, si gira, ora devo difendermi, devo salvarmi, afferro la prima cosa che trovo nell’armeria grigia. <> Non gli è affatto difficile aggirare il mio attacco; una breve analisi di Joe’s Garage e un elenco di un’altra decina di grandi album dell’artista bastano a ribattere il colpo, ma non posso proprio scoraggiarmi, devo assolutamente muovere un altro attacco, devo recuperare in qualsiasi modo la mia posizione di vantaggio, quand’ecco che di colpo, lui spara. <> Terribile. Per un intellettuale, far seguire un qualsiasi periodo di senso compiuto all’espressione “Non è la mia materia ma…”, equivale all’arrocco nel gioco degli scacchi; una difesa impenetrabile che lascia comunque un folto bouquet di possibili attacchi. Ero ormai spalle al muro, mi affidai dunque alla forza della disperazione e smitragliando luoghi comuni quanto mai odiosi, riuscii ad arginare i suoi attacchi ficcanti; è cosi che distrussi la sua maschera: lui era un semplice pensatore, e non aveva alcuna possibilità contro un lupo della parola come me. Portai a segno colpi su colpi, argomenti tra il serio e il faceto, pensierini irritanti che trascendevano di molto il mio pensiero, ma che collocavano quella semplice matricola oltre il confine dell’interdizione; era completamente sopraffatto. Decisi di finirlo in bellezza, macellarlo tra i miei virtuosismi vocali, lo avrei battuto sul suo stesso campo. Aveva iniziato il tenzone sostenendo che la leggerezza all’italiana poteva esser definita come qualcosa di diverso dalla merda, o almeno questa è la versione alchemizzata e corrotta che decisi di ribattere. Riuscì però, il maledetto, a deviare la conversazione sulla politica; una mossa davvero da accapigliamento tra megere, ma che comunque poteva concedergli qualche punto in più. Lo scontro si protrasse ben più del dovuto e io, provato dalla fuga di poco prima, decisi di sostenere la tesi che poche ore prima, esplose nel collo del mio compagno Meyer, squarciandogli la giugulare. Un professionista come me, si adatta a qualsiasi tipo di arma; se è propria del nemico, anche meglio. L’impalcatura è gia costruita. Nobilitai il nazionalismo eroico di D’Annunzio, snocciolai aneddoti gloriosi a proposito dell’impresa fiumana, parlai dell’arte fascista, del futurismo, dell’adesione al partito da parte di Luigi Pirandello(dribblando abilmente l’aggettivo “forzata”) e fu a quel punto, che lui si mise da solo in scacco. Rispose che dopo tutto questo, dopo i quartieri monumentali, le paludi bonificate e le cittadine costruite a tempi di record, ci furono le leggi fascistissime, quelle razziali, l’alleanza con il nazismo, senza accorgersene, insomma, abbasso i guantoni scoprendo la guardia, permettendomi cosi, il più secco e facile dei diretti. <> Il colpo lo fece cadere all’indietro. Tossiva sangue. Era completamente alla mia mercé; forse bramava il colpo finale, sarebbe bastato anche un semplice insulto. Avanzai ricoprendo due terzi della superficie fangosa che ci separava, volevo guardarlo da vicino mentre moriva per una guerra che non avrebbe dovuto combattere. Quand’ecco che, mentre il rumore d’un fruscio secco ancora non aveva raggiunto la mia coscienza, il mio ego sovraesposto veniva trivellato. Colpito alle spalle. Un colpo infame. Un colpo da campione, per quel che ci riguarda. <> Caddi in avanti e uno degli ultimi respiri, mi trascino in bocca un generoso tortino di fango, il quale, guadagnatosi l’ugola e il palato, aveva un sapore dantesco. Di contrappasso. Ninetta mia, son crepato per Grasso Io, l’intuizione, la ragione, lo smargiasso Ninetta bella, dritto all’inferno Avrei preferito andarci credendo. La fabbrica dei ricordi. Ricordo poco. Faccio fatica anche solo a ricordare il mio nome…mi sembra Agata Palombo. Penso di chiamarmi così, ma non ne sono sicura. Che cosa strana non ricordo neanche da quando non ricordo, già perché se non ricordo non posso ricordare, logico. Per avere memoria di quello che mi passa attorno mi trovo a dover appuntare tutto quanto mi succede su piccoli pezzi di carta per poi dimenticarmi anche dove li ho messi. Una malattia? No, nessuna malattia, solo la vita. Ho vissuto a lungo, così a lungo da non ricordare più neanche da quanto. Ogni tanto rovistando tra i cassetti di casa trovo qualche appunto con scritte delle date, allora riesco ad avere dei punti fermi. Nel 1965 c’ero già! Ma avevo dei ricordi? Non lo so, non ricordo. Buffo? Sono una donna matura ormai, non anziana, ma matura si. Ogni giorno mi guardo allo specchio per ricordarmi come sono fatta. La cosa bella di questa malattia è che non ricordandomi come ero non sento il peso della vecchiaia che avanza, ogni giorno mi guardo sempre con occhi diversi e nuovi. Però l’età avanza e anche se non mi ricordo il passare del tempo, questo scorre lo stesso. Non so se ho mai amato qualcuno. Non penso neanche si avere dei figli. Oppure sì. Poco fa è stato a trovarmi un uomo con un bambino piccolo in braccio con degli occhi azzurri come il cielo, questo me lo ricordo. Devo quindi ricordarmi di scrivere che questo me lo ricordo. Almeno so cosa mi sono ricordata e cosa mi devo ricordare. Casa mia è piena di fotografie, immagino che alcune siano mie, ma non ne sono sicura, ho dovuto catalogarle tutte aggirandomi per casa con uno specchietto, mi guardavo poi guardavo la foto e poi aggiungevo un’etichetta. Nelle immagini dove non mi riconoscevo mettevo un semplice punto di domanda, nella speranza di poter un giorno ricordare chi fosse. Ricordo poco. Non so se è un bene o un male rispetto a quelli che ricordano. I ricordi possono essere pesanti da sopportare, ma almeno danno la consapevolezza di aver vissuto. Io non avendone non so se ho vissuto, non ricordando neanche la mia età, è come se non fossi mai nata. Già è come se io non avessi un tempo. I ricordi misuratori del tempo che passa. Più ricordi uno ha, più ha vissuto e se non ne ha? Non ha vissuto? Mi guardo allo specchio, i segni sul mio volto tradiscono una certa abitudine alla vita, eppure non ricordo nulla. La vita. Ogni tanto ci penso. E se non avessi mai vissuto e se fossi solo una proiezione? In fondo non ricordo nulla. Per quanto ne so tutto attorno a me potrebbe essere solo un’idea. Per me conta solo il presente, ma si sa che il presente è tale in funzione del passato che invece è, ma se io non ho passato come posso dire di essere? La morte. Ogni tanto ci penso. Cosa mi succederà, avrò la coscienza di morire? Però se non ho la coscienza di aver vissuto in teoria non dovrei avere neanche la sensazione di morire. Meglio, non mi piacerebbe l’idea di essere sepolta, magari viva per un errore dei medici e mangiata dai vermi come “Re Orso” di Boito. Potrei farmi cremare…sì, questa mi sembra una buona idea. Bisogna che me lo scriva da qualche parte così me lo ricordo. Anzì scriverò di ricordarmi di scrivere che voglio essere cremata sullo specchio in ingresso così non mi dimentico di dove ho messo il biglietto. Sarebbe poco carino marcire sotto terra, eppoi io odio i cattivi odori e l’umido. Suona la porta, strano non ricordavo di aspettare qualcuno, ma tanto io non ricordo mai nulla. “Ciao mamma, come stai oggi? Meglio? Mettiti il cappotto che ti porto alla Fabbrica dei ricordi per il live up date annuale. Vedrai che poi starai meglio e ti ricorderai tutto di nuovo”. Ancora con i buchi. “Tu non vieni?”, mi sorride Eleonora da dietro gli occhiali, i capelli lisci staccati dalla testa inclinata. Salvo il file sul computer, punto le mani contro gli angoli del tavolo e spingo me e la sedia lontano dalla scrivania, poi scavalco un paio di ceste piene di campioni, giro attorno al tavolo e la seguo. Alle scrivanie sono rimasti i computer vuoti, con figli e mariti incollati sul desktop, e con i post-it sporgenti dai lati dello schermo come delle orecchie. Eleonora spinge sul maniglione antipanico che dà sul magazzino, e i capelli lisci ondeggiano compatti in avanti, poi di nuovo indietro. Le lunghe file di ceste impilate di campioni sono lì al loro posto, sulla destra, mentre poco più avanti una massa animata di colleghi si sgretola e si riaggruma poco lontano, in corrispondenza di alcuni scatoloni. Davanti alla vetrina di quel negozio io e Paolo passavamo tutti i giorni: si trovava sulla strada tra casa mia e casa sua. Lui guardava i modelli per decidere cosa si sarebbe fatto comprare, io restavo a guardare le luci, i manichini e i nomi dei marchi di cui tutti parlavano, negli anni ’80: Levi's, El Charro, Americanino. Poi entrava in casa, si svaccava nella poltrona marrone, con un piede ciondolante oltre il bracciolo; accendeva lo stereo col telecomando e sfilacciava i bordi della tovaglia all’uncinetto che immerlettava la tavola rotonda accanto a lui. Quando il padre arrivava, poggiava il gomito sul bracciolo opposto a quello su cui stava facendo dondolare il piede, ci buttava la testa e poi lanciava la sua richiesta per i soldi per i pantaloni appena visti in vetrina: 80 mila lire. Paolo chiedeva sempre soldi. Una volta la madre mi chiese come facessi ad andare a scuola. Risposi che prendevo l’autobus, e che avevo l’abbonamento. Si girò imbronciata verso Paolo, che aveva preso a girarle in tondo come quando ne aveva combinata una, e gli chiese se non potesse prendere anche lui l’abbonamento, invece di comprare i biglietti tutti i giorni. A Paolo piaceva farle grosse. Ma gli piaceva anche raccontare a chi aveva davanti come l’aveva fatto fesso. E continuando a girarle intorno, le disse che lui aveva già un abbonamento, che lo comprava a metà prezzo da un suo compagno di classe: i genitori glielo compravano ogni mese, ma lui non lo usava per via del motorino. Le sopracciglia della madre si alzavano sempre di più ad ogni sua sillaba, e credo che se avesse detto un’altra frase probabilmente avrebbero sorpassato la linea dei capelli. Non sarei mai riuscita a ingannare mia madre. Probabilmente perché non potevo. Paolo sollevava le spalle e le scrollava a farti contemplare la sua arguzia, e oramai era fatto, che potevi dirgli? “Io non capisco.”, esordiva dopo una sfuriata del padre sui suoi raggiri. “Prende 5 milioni al mese, di che cosa si preoccupa? C’è gente che vive con 800.000 lire al mese!” Abbassavo gli occhi. Io ero quella gente. I primi Levi's me li sono comprati su una bancarella al mercato a 20 anni. Ma non perché mia madre mi abbia mai negato niente. Una volta le piagnucolai che non mi comprava mai quello che volevo. Stavamo camminando su un marciapiede di Piazza Bologna, era buio, ma i negozi erano aperti, e ci eravamo appena fermate a guardare un negozio che vendeva jeans, e io mi ero innamorata di una minigonna jeans. Ma avevo amato in silenzio, sperando che lei capisse. Come avrei fatto da lì in poi con gli uomini. E come gli uomini, neanche lei capì. Mi aveva trascinato lontano dai neon e da quei mucchi di jeans e mini-jeans e riportato per strada, al buio, con il mio sogno che mi moriva dentro. E allora glielo dissi: “Tu non mi compri mai quello che voglio.” Mia madre aveva una giacchetta sintetica celeste che le ricordavo indosso da anni, forse da sempre. Sembrava così sottile. Chissà se la scaldava. Si fermo, nella sua giacchettina celeste, in mezzo al marciapiede, mi prese per un braccio e mi chiese con le pupille dilatate cosa mi avesse mai negato. Ci pensai, ci pensai per diversi giorni. Non mi aveva mai negato niente. Lo sapevo che non mi avrebbe negato niente, se glielo avessi chiesto. Quando arrivai alle medie, un gruppetto di ragazzi commentò davanti ad una mia amica che io “non vestivo alla moda”. Era vero: io mi accontentavo di avere addosso qualcosa che mi coprisse, e a dire il vero non ne soffrivo neanche. Allora andavano di moda i bomber. Credo costassero sull’ordine del centinaio di migliaia di lire. Sembravano caldi e indistruttibili, ma mi sembrava un tale spreco. Avevo commesso un errore. Durante una visita a Porta Portese, davanti a file di giacche a 15.000 lire, mamma mi aveva chiesto di sceglierne una. Aveva preso un montgomery blu, molto dignitoso. Ma io avevo visto una giacca lunga con un cappuccio di pelliccia. In quel periodo uscivano i primi cappucci pelosi, e quando li avevo visti avevo provato per una volta la voglia di avere qualcosa come tutti gli altri. Le avevo indicato quello. Mamma aveva storto la bocca, e mi aveva chiesto se non volessi provare quel Montgomery blu. Ma io avevo deciso, e come tutte le mie decisioni, arrivano in un lampo e mi lasciano rimorsi per anni. Quella giacca aveva un color caccola rinsecchita. Il cappuccio aveva i peli, già, ma il pelo era corto e un po’ rado, come se fosse stato spelucchiato. Ne fui felice per i primi giorni, ma poi quando lo portai in giro e lo paragonai agli altri, mi pentii di non aver scelto l’altro, che per la stessa cifra mi avrebbe fatto fare un po’ meno la figura della barbona. Fui una delle prime a portare i jeans strappati. Potevo far finta fosse per moda, ma preferivo tenerli finché non erano veramente più indossabili. Negli anni in cui le folle impazzivano per i jeans blu attillati, io li portavo larghi e neri, e ci sparivo dentro. I miei primi jeans attillati me li regalò una signora che aveva un negozio di abbigliamento, quando lasciai Roma per Torino. Come se avesse paura che su al nord facessi fare brutta figura alla capitale. Mia madre teneva un paio di maglie buone per le occasioni importanti, e io gliele invidiavo. A 12 anni avevo dei maglioni sintetici larghi e senza forma, con dei disegni tali che ancora oggi non indosso niente se non è tinta unita. Uno era fucsia, con dei puntini blu intrecciati nella maglia, e con una serie di coccinelle delle dimensioni di un coleottero che si arrampicavano su più punti della maglia. Sembravo Asia Argento quando fa la regina degli insetti in Phenomena. Ma la maglia non aveva buchi, e la mettevo spesso. Avevo l’ansia dei buchi. Avevo un paio di scarpe da ginnastica, bianche, con dei tratti orizzontali rossi che facevano sembrare le scarpe affette da rosolia. Anche per le scarpe, come potrete immaginare, mi è rimasto il gusto per la scarpa a tinta unita e dai colori tenui: mi sono sentita parecchio osservata da piccola. Quando feci la prima comunione, mi comprarono un paio di ballerine- che allora non andavano per niente di moda- di colore argento, perché si intonassero con l’abito che le suore ci vendevano per la cerimonia. Ero contenta per quell’uniforme, che regalava almeno nell’abito uguale dignità a tutti. Ma fossi stato un maschietto, avrei avuto un paio di scarpe nere eleganti, invece ci guadagnai un paio di scarpe argentate, che non sapevo con che cosa mettere- e che furono all’alba della crisi decennale che mi prese davanti all’armadio. Odiavo il mio armadio. Mi sembravo che nulla mi stesse mai bene, che non ci fosse mai nulla per farmi essere figa, quando ne sentivo l’esigenza. Nascosta in mezzo alle ante, pensavo che sarebbe stato facile essere vestiti alla moda con qualcuno che avesse sganciato 80 mila lire per dei Levi's senza battere ciglio. Le mie scarpe da ginnastica non erano mai, ovviamente, Superga. Costavano 45.000 lire. Ce ne compravo io di scarpe con tutti quei soldi! Le Simod erano una buona copia, e costavano un terzo. Quando entrai in classe alle elementari con le Simod, la top-model della classe mi saltò quasi addosso per vedere le mie nuove Super- ah, ma sono solo le Simod. Mi sembrava- e se ne andò. Ma cosa me ne importava del giudizio di una che scriveva mosca con l’acca? Credo di aver iniziato ad atteggiarmi ad intellettuale proprio perché non potevo permettermi di essere una top-model. D’altronde, durante l’interrogazione, le sue belle scarpe Superga non le vedeva nessuno, e sotto i grembiuli maglie e camicie si notavano ben poco. Ma la sua faccia che arrossiva era visibile fino agli ultimi banchi. E lì capii che se riesci a far concentrare qualcuno su quello che dici, non importa quanto male sei vestito: ti perdoneranno tutto. Poi la vedevo durante la ricreazione ridere e scherzare col ragazzo più carino della classe. E capii che quando non hai niente di intelligente da dire, se sei vestito bene ti daranno comunque credito. Le mie scarpe con la varicella non erano delle Simod, ma fecero un ottimo lavoro finché la tela a ridosso dell’iniettato si sfondò, lasciando un piccolo cratere nero. Quando ero in giro con gli amici, cercavo di tenere l’unghia del pollicione contro quel buco, di modo da tapparla, con la speranza che non si notasse, ma sapevo di ingannarmi. Preferivo i buchi che venivano sotto le scarpe: almeno quelli non li vedeva nessuno! Quando pioveva dovevi cercare di evitare le pozzanghere, ma comunque il calzino si bagnava e ciucciava l’acqua fino alla carne, il piede la strizzava fuori contro il sottopiede, e mi ritrovavo a sguazzare nella mia pozzanghera personale per tutto il giorno, con il calzino che andava in putrefazione e il pollice che si avviava sulla strada dei reumatismi. Al momento di togliere le scarpe, mi premuravo sempre che non ci fosse nessuno intorno, un po’ per paura che mia madre vedesse e mi buttasse via degli stivali esteriormente belli, un po’ per l’odore terribile del calzino e del piede oramai marci. Un giorno andai a casa di una mia compagna alle superiori, fuori pioveva e la madre aveva appena passato la cera, per cui fummo tutti invitati a togliere scarpe e infilare ciabatte con suola di feltro oppure ad usare le pattine. Mi sacrificai io per le scomodissime pattine, ma nessuno seppe perché. Fu la prima e l’ultima volta che andai a casa sua. I colleghi e le colleghe gironzolano attorno alle scatole, si chinano, sfrugugliano nel mucchio, tirano su una scarpa, guardano il numero, la posano per terra, la contemplano contro il linoleum, la soppesano con la mano, la mostrano al vicino, e poi la infilano nel sacchetto mentre cercano la sorella di fabbrica, oppure la rigettano nel mucchio del cartone. “Non andrai mica anche tu?” Gli occhi cerulei di Mario mi vorrebbero pinzare lì dove sono, su quel punto esatto del pavimento del magazzino. Certo che vado, che domande. “Vai pure, a farti comprare anche tu dal padrone.” Farmi comprare? Dal padrone? Con quella miseria di stipendio che mi dà, ha quasi l’obbligo morale di passarmi le scarpe. Non è in più, me lo deve. Gli scatoloni traboccano di numeri 37 e 38, con fantasie e colori che se dovessi pagare, rimarrebbero tutti lì. Invece il mio sacchetto si riempie, e si riempie anche il secondo. 37 è il mio numero, 38 è quello di mia madre. Forse questa ha il tacco troppo alto, forse quella ha un colore troppo sgargiante. Ma ci sarà un vestito con cui andrà bene. E se proprio non va bene a noi, ci sarà un’amica che potrebbe averne bisogno. Ma no, le scarpe si usano sempre. Anche così, con i buchi nella suola. “Perché voi italiani fate i buchi nelle suole delle scarpe?” Mi chiedono ogni volta i clienti cinesi. “Sono campioni: il buco serve per renderli inutilizzabili per la dogana.” Ride il cliente cinese, e rido io dietro di lui. Ma io non lo so cos’ho da ridermi. Che a 30 anni ho ancora i buchi sotto le scarpe. E peggio ancora, ci faccio andare in giro pure mia madre e le mie amiche. Si può volare. Robertina avvertiva vibrazioni negative nell’aria soffocante dell’abitacolo, erano provocate indubbiamente dal nervosismo di suo padre. Erano usciti di corsa da casa per andare a scuola. Lui fumava e sudava e ogni tanto imprecava contro qualche altra formica. Nei quarantacinque minuti trascorsi tra smog, clacson isterici, asfissiante odore di sigaretta e parolacce, Robertina non disse una parola, guardò fuori dal finestrino per tutto il tragitto restando quasi in apnea, respirando quel poco che bastava per non morire. Ebbe soltanto il coraggio di chiedergli che mettesse la sua canzone preferita, quella in inglese, la numero dodici, di cui capiva solo poche parole, le più comuni, ma che le piaceva molto. Suo padre le aveva insegnato a distinguere i vari strumenti. Le diceva “ascolta Robi… questa è la batteria e… questa… aspetta, aspetta, ora attacca… ecco, questa è la chitarra” e ancora “lo senti? questo è il basso… ascolta com’è bello!”, mentre con la mano non impegnata nella guida dirigeva un’orchestra invisibile quanto improbabile. Malgrado il muro spesso trent’anni che separava rendendo opposte le loro visioni del mondo intorno, adorava suo padre e le piaceva anche il suono del suo nome, Giuliano. Le sarebbe piaciuto assomigliargli almeno un po’ da grande, ma nei momenti no non riusciva neanche a guardarlo in faccia. E quello era un momento decisamente no. “Ora torno a casa e prendo la moto per andare al lavoro!” pensò ad alta voce Giuliano distrattamente. Robertina sentì una fitta nel petto. Perché non siamo usciti direttamente in moto? Perché non ci ha pensato? Eppure lui lo sapeva benissimo che le sarebbe sembrato un giorno di festa. Aveva solo quattro anni e mezzo quando l’estate precedente, contro tutto e contro tutti, l’aveva fatta salire per la prima volta in moto e da quella volta se la portava sempre dietro quando poteva. Perché? Domande impazzite scalciavano e le affollavano la testolina dai riccioli chiari, e si mordeva la lingua per non sputarle fuori. Gli occhi galleggiarono in specchi di trasparente acqua verde. Giuliano scese dalla macchina e aprì lo sportello posteriore per lasciar scendere Robertina, le prese la mano e attraversarono. Con occhi spenti le raccomandò meccanicamente di fare la brava, le diede un bacio stanco, salutò la maestra e in fretta scappò via. Un’altra abbondante mezz’ora e fu a casa. Dovette rilavarsi e cambiarsi la camicia. Uscì volando letteralmente per strada senza indossare il casco. Desiderò che piovesse senza conoscerne la ragione. Aveva detto a sua moglie che quel giorno non sarebbe rientrato per il pranzo, avrebbe dovuto sbrigare diverse cose e poi sarebbe andato a mangiare qualcosa al volo in un bar. Giunto all’incrocio di via del Carmine una strana forza improvvisa lo costrinse a svoltare a sinistra e imboccare l’antica salita in pietra che conduce in quella zona collinare agreste del paese tanto frequentata da ragazzino nei pomeriggi estivi fra un anno scolastico e l’altro. Sentì il volto cominciare a distendersi, i muscoli rilassarsi, si accorse che fino a quel momento era stato un monolito di carne e sangue rappreso e che adesso quel grumo si stava sciogliendo, ogni singola parte riprendeva la propria identità. I pensieri cominciarono a defluire cavalcando le onde del tempo, esplorando le grotte della memoria, sfidando fantasmi e scheletri, lottando contro rimorsi e scansando accuratamente rimpianti. In un lampo ricordi antichi di vent’anni gli riempirono la testa, gli occhi, le gambe e le braccia attraversando la schiena, graffiandola. L’odore mieloso del gelsomino di fine aprile lo penetrò con violenza e lo stordì. Ricordava quei luoghi come avvolti da un incantesimo. Piccoli vigneti, aranceti, alberi di ciliegie da saccheggiare insieme ai compagni di sempre, muri da scavalcare, proprietà da violare, cacciatori da disturbare, le loro auto da rigare, corse insensate, risate ingenue, interminabili stremanti pseudo partite di pallone, ginocchia e gomiti da sbucciare, pensieri leggeri che trasportano in alto le menti, i corpi, dando vita ad un unico corpo, una sola anima, un solo respiro. Ma soprattutto c’è lui, colui che tutto può, sotto le cui braccia ci si può rifugiare, si medita, si ignora, si ozia, si mangia, si beve, si dorme, si legge, si fanno progetti, si affondano sogni, si osserva il mondo senza lasciarsi vedere, lo si critica, lo si attacca, impotenti ma tenaci. Lui, un carrubo con infiniti anni alle spalle, un albero ciclopico a forma di semi palla, un semi mondo in cui entrare e da cui non voler più uscire. Le sue fronde accarezzano la terra arsa dall’impietoso sole agostano e nessun raggio riesce a penetrarne la folta chioma, scudo amico. Rami giganti a circa un metro dalla base del tronco consentono l’inizio semplice dell’arrampicata, altri meno massicci ma ugualmente robusti aiutano ad aggrapparsi per salire più su, dimenticando il resto, lasciandosi tutto sotto i piedi. Pochi metri più ad est, l’infinito: il fianco della collina scende al mare senza remore. Sotto le braccia di colui che tutto può, questo è il nome di un universo fatto di terra, di legno, di linfa e di aria pulita, un luogo vergine, un mondo sconosciuto dal mondo conosciuto. I più impavidi riescono a scalare il mostro buono fino al suo punto più alto e a far uscire la testa per ammirare muti la lontana scogliera in basso. Si può volare. Si sentì felice di aver cambiato strada, di aver deciso di non andare al lavoro quel giorno, di non dover rivedere le solite maschere dal sorriso ipocrita, almeno per un giorno. Doveva assolutamente riuscire a ricordare il posto esatto. Non sarebbe stato facile, se ne convinse quando cominciò a notare le innumerevoli ville e villette sorte evidentemente nel giro di qualche anno ai due lati della strada e, ogni cento metri circa, le altrettante nuove traverse recanti nomi monotematicamente botanici. Tutto era così diverso. Era divenuta una zona residenziale, ma non si perse d’animo. Orientandosi con la bussola dell’istinto girò a sinistra per via dei Ciclamini. Dopo un centinaio di metri si accorse che la strada, pur non essendo senza sbocco, disegnava una specie di semicerchio riportando sulla principale. Ben presto si rese conto che tutte le traversine erano state ideate e costruite allo stesso modo. Un serpente sottile con diversi bozzi a distanze regolari lungo buona parte del corpo, a volerlo immaginare visto dall’alto. Stava quasi per arrendersi quando, circa a metà di via delle Zagare, notò che dall’altra parte di un cancello sgraziato non c’era prato all’inglese, né siepi poste a decoro, né fontane pacchiane, né tanto meno graziose, panchine, piscine, ombrelloni, non c’era nemmeno il minimo indispensabile, la casa. Solo un paio di limoni malconci e qualche ferula popolavano la proprietà, spersi naufraghi in un mare d’abbandono. Ma quello stesso mare che ad altri occhi avrebbe provocato una sensazione di angoscia e di solutudine, ai suoi desiderosi di terra arida, erbacce e muretti a secco sembrò un’oasi in quel deserto delle apparenze. Sentì un formicolio scendere dalle orecchie giù per la nuca e intuì di essere nel posto giusto. Proseguì avanti fino alla strada principale e tornò indietro riprendendo la stessa via, stavolta in senso opposto sperando di captare altri dettagli. Niente, stessa visione di prima, la non villa era effettivamente lì insieme alle non fontane, alle non siepi e ai non nanetti, ma soprattutto insieme ai non dimoranti. Posteggiò la moto all’ombra di una rigogliosa buganvillea sul marciapiede di fronte e si avvicinò disinvolto al cancello non serrato. Lo dischiuse quel tanto bastevole per oltrepassarlo. La sensazione fu quella del passaggio attraverso la porta del paradiso visto in più occasioni in qualche film. Lo scenario però era oggettivamente differente, nient’affatto paradisiaco. S’incamminò seguendo un antico canale d’irrigazione visibilmente assetato da anni. All’orizzonte intravedeva, nell’aria tremolante, quella che ricordava essere una casetta in pietra abbandonata adesso mezza divorata dai rovi. Per quella parte di campagna sembrava che il tempo avesse scelto una direzione differente. Attraversò quello che probabilmente era stato il loro campo di calcio, ora occupato da aspri cespugli spinosi, e una ventata di nostalgia gli fece friggere la pelle. Si spinse oltre giungendo al limite della proprietà: una rete era stata posta dove un tempo iniziava la discesa della collina. Per qualche minuto rimase fermo, appoggiato alla recinzione, le dita strinsero forte il filo metallico sebbene fosse già rovente, sulla fronte rischiò la marchiatura. Gli occhi ammirarono quella meraviglia: l’infinito era ancora lì, intatto. Si voltò compiendo una panoramica da nord a sud. Qualcosa non andava. Qualcosa non c’era, ma cercò di non demoralizzarsi. Doveva essere lì da qualche parte. Proseguì verso sud camminando lungo il recinto e ad un tratto il suo sguardo fu rapito da una scena che lo raggelò, in un attimo vide andare in fumo il sogno di rivederlo, di rifugiarvisi. Il maestoso albero si era ridotto in un deforme scheletro di carbone per metà invaso da un rovo gigante. Si sentì defraudato della propria gioventù, come se non l’avesse mai vissuta. In un istante sentì le risate e le grida di quei ragazzini spegnersi e subito il silenzio avvolse ogni cosa. Gli occhi erano due dighe al culmine della loro resistenza e la punta dell’enorme iceberg che si stava formando dentro il petto premeva su per la gola. Avanzò fino alla carcassa e si sedette in quel po’ d’ombra generata dalla pianta spinosa. Appoggiò le spalle a quel che rimaneva del tronco tentando di intercettarne le vibrazioni e dopo un po’ qualcosa arrivò. Il silenzio pian piano divenne rasserenante massaggiandogli dolcemente le tempie. Volgeva ora la vista oltre la recinzione e questa parve scomparire. La scarsa ombra cominciò ad espandersi e si sentì levitare, mentre braccia conosciute lo accarezzavano e lo sollevavano. Fu come un volo leggero nell’aria silenziosa e spensierata d’un tempo. Inspiegabili sensazioni lo accompagnarono in quel viaggio fino alla lontana scogliera e poi di nuovo su per la collina, inspiegabili ma reali. Passarono circa quaranta minuti e si risvegliò rinfrancato dalla forza di quelle braccia che nel sogno lo avevano coccolato. Si rimise in piedi, diede una pacca sul fusto amico e si avviò verso il cancello. Indossò il casco e accese il motore, deciso. Arrivò dopo neanche dieci minuti. “Sono Bruni!” “Sì, un attimo!” “Buongiorno!” “Buongiorno signor Bruni, è successo qualcosa?” “Sì… no! Cioè, no… niente!” “Ah, meno male! Mi stavo preoccupando.” “Robertina che sta facendo?” “Stiamo facendo la lezione d’inglese.” “Ah bene! Beh, comunque, se possibile la vorrei portare via prima oggi.” “Certo, nessun problema! Robertina è in gamba e recupererà facilmente la prossima volta. Vado a chiamarla.” “Grazie!” “Ciao papi!” gli disse come se non lo vedesse da secoli. “Ciao amore, vieni qua!” la strinse forte, come non faceva da settimane ormai. “Dove andiamo?” “A fare una passeggiata al mare.” “Con la moto?” “Certo, tieni!” porgendole il piccolo casco che teneva sempre nel bauletto. “Wow! Evviva!” Furono in poco tempo sulla statale, il mare era alla loro destra, lontano, ma lo avrebbero raggiunto ben presto. Robertina si legò con le esili braccia alla sua vita e Giuliano ne fu certo. Erano proprio quelle, le stesse potenti braccia che poco prima nel sogno lo avevano sollevato da terra, le braccia di colei che tutto può e potrà. Capaci di renderlo felice, di nuovo vivo. Capaci di farlo volare.