Matteo Galiazzo Il mondo è posteggiato in discesa Einaudi Prologo Stanko Vituperovic arrivò a Genova chiuso dentro un container Teu omologato. Siete mai stati chiusi dentro un con- tainer da venti piedi per qualcosa come trentasei ore? Sapete cosa si prova dopo un po'? Non si sa dove diavolo fare pipì. Il container, quando Stanko c'era entrato trentasei ore prima, era sistemato su una pila composta da altri contenitori gemelli, sulla banchina di un porto, a pochi metri dall'acqua e dalla fiancata di un cargo. Stanko si era arrampicato, aveva letto This way up e Fragile e aveva fatto la sua scelta. Dopo che ebbe aggeggiato un po' col lucchetto, il portellone aveva ruotato sui cardini di qualche grado. Sgusciato all'interno, Stanko si era ritrovato dentro un materasso di pesantissima e compattissima stoffa di jeans. Quella mattina aveva ricevuto una cartolina con una firma illeggibile, da un posto molto vicino. Stanko aveva potuto fare tutto indisturbato. Non c'era molta gente a badare a un ragazzo di ventidue anni che traffica con i lucchetti di un container pieno di stoffa nelle banchine del porto. L'attenzione di tutti era in gran parte dedicata alle bombe che cadevano dall'alto, e che quando raggiungevano il suolo facevano esplodere tante belle cose. Tutti in quel momento badavano alle bombe e ai proiettili che cadevano dall'alto, e alla loro firma illeggibile. Erano giorni ormai, che quel temporale metallico si era fermato sopra quella piccola città di mare, e Stanko si era già abituato, come se la cosa durasse ormai da sempre. Dentro la cassa Stanko cominciò ad aspettare. Gli strati di stoffa di jeans erano compressissimi l'uno sull'altro, e formavano un mattone impenetrabile. Stanko non capiva che ci faceva quella stoffa dentro un container con scritto This way up e Fragile. Evidentemente le scritte si riferivano a un carico precedente. Stanko aveva avuto paura di rimanere schiacciato dal contenuto della cassa durante le operazioni di carico. "Quando il container verrà caricato sul cargo verrà capovolto e io finirò sul lato basso e le tonnellate di roba mi finiranno addosso con tutto il loro peso". Ecco perché ne aveva cercato uno con le scritte This way up e Fragile. Quella mattina Stanko avrebbe dovuto presentarsi in caserma. Questo diceva la cartolina. Stanko non obbedì alla firma illeggibile e se ne andò invece ad aggeggiare con i lucchetti del porto, mentre tutti si rifugiavano sulle colline. Chiuso dentro il container, completamente al buio, respirando un'atmosfera di microfibre di jeans, aveva sentito le vibrazioni del terreno tenere lontano i rumori. A seconda della vicinanza delle bombe il terreno rabbrividiva con diversi gradi d'intensità. Dopo meno di un'ora le vibrazioni si erano allontanate, affievolite. Dopo qualche ora i rumori erano tornati. Voci motori carrucole. Poi per molto tempo non era successo niente. Le voci e i rumori giravano attorno al container di Stanko. Poi c'era stato uno scossone fortissimo che aveva deformato per qualche secondo le pareti di metallo. Stanko sentì che tutto si sollevava, e si preparò a essere finalmente schiacciato. Il container dondolava lentamente. Il dondolio aumentò d'ampiezza, e Stanko sentì un solletico e un'apprensione dappertutto, come da piccolo in altalena. Sembrava di essere dentro a un ascensore rimasto appeso ai cavi di un palazzo che viene demolito a partire dal basso. L'ascensore prese a scendere, e il dondolio diminuì. Poi un colpo secco e un rumore fortissimo. Le pareti metalliche del container si incurvarono di nuovo per quasi un secondo, poi tornarono come prima, con una tensione acuminata, resa sorda solo dalle tonnellate di stoffa. Altri colpi metallici si erano susseguiti per un'altra ora almeno, man mano che i container venivano caricati a bordo. A un certo punto dovevano aver appoggiato altri container sopra quello di Stanko, perché degli urti violentissimi avevano fatto barcollare le linee di forza che mantenevano raccolti jeans e buio. Poi si era accorto di un ronzio regolare, lento, come di un enorme rasoio elettrico imbavagliato. Più tardi un dondolio, molto dolce e quasi inavvertibile. Il mare. Senza poter vedere niente, Stanko dondolò via da quella piccola città di mare, ex colonia veneziana, dove i vecchi parlano una lingua che sulle prime sembra slava, ma che a poco a poco, dopo un po' che li ascolti, si trasforma in dialetto veneto. Primo Tempo Sapete cosa si prova a stare chiusi dentro un container per qualcosa come trentasei ore? Io non ne ho idea. E nemmeno Stanko. Dopo circa un'oretta non ne poteva più, aveva riaperto il portellone. Il portellone si apriva, ma fino a un certo punto. Era bloccato da un altro container, vicinissimo. Stanko uscì con un po' di contorsioni e si ritrovò appeso a sette otto metri dal pavimento, in mezzo a due pile altissime di contenitori. Il mare doveva essere piuttosto agitato, e le pile oscillavano, si avvicinavano e si allontanavano l'una dall'altra cigolando, come dei grattacieli leggermente snodati, con un ciclo lento e regolare. Stanko scese giù calandosi nella fessura oscillante tra le due pile, e alla fine i suoi piedi raggiunsero un pavimento. Guardò in alto: una strisciolina di cielo si allargava e si restringeva tra le due pareti di contenitori. Camminò. Gli spazi tra le pile formavano dei percorsi: una specie di labirinto reticolare. Camminò a caso, più o meno verso la luce, lentamente, appiattendosi ogni volta che incontrava una svolta. Alla fine si ritrovò fuori, a prua. Non c'era nessuno. C'era la prua, un triangolo di coperta dipinto di vernice verde, un piccolo paranco, due immensi argani per le catene dell'ancora. Dopo un attento esame della direzione dell'aria Stanko si affacciò al lato sottovento, si aprì i pantaloni, tirò fuori il gingillo. Il sole tramontava da qualche parte, Stanko ne dedusse che il cargo si stava dirigendo a Venezia o a Trieste. Pisciò un po' fuoribordo, ma soprattutto sulla sua gamba destra. Il mare agitato gli fece venire una leggera nausea. Così non sentirò la fame, pensò. Non aveva niente da mangiare. Poi gli era sembrato di sentire un odore d'arrosto provenire da poppa e il suo stomaco cominciò ad agitarsi. Così non sentirò la nausea, pensò. Poi si era accorto che i due malesseri convivevano benissimo dentro di lui. Ormai la costa era scomparsa, e alla nausea e alla fame si aggiunse il freddo. Stanko pensò di ritornare nel container dei jeans, ma era impossibile riuscire a ritrovare la strada giusta tra quei cunicoli di metallo. Un contenitore valeva l'altro. Trafficò con il lucchetto di un container in basso, e si ritrovò in mezzo a scatole di plastica piene di polvere bianca puzzolente. Stanko ne assaggiò un po'. Farina di pesce. Era freddissima. Stanko intingeva un dito nella farina e se lo portava alla bocca, ancora e ancora. La nausea, la fame e il freddo aumentarono d'intensità, come ciclisti in fuga dentro di lui. Fuori di lui la puzza di pesce e la puzza di piscio duellavano sotto le sue narici come cavalieri antichi sotto il balcone della figlia del re. "Sono stanco", mormorò Stanko come rispondendo al telefono, addormentandosi dentro un altro container pieno di Diana blu, morbide. Si rese conto di essere di nuovo sveglio quando sentì un cambiamento nella vibrazione di fondo. Tutto tremava, le pareti di metallo entrarono in risonanza ed era come un canto, una specie di Aaaaa prolungato. Il dondolio era finito. Si sentivano di nuovo delle voci urlare. Uscì dal contenitore. Doveva essere notte. A tentoni ritrovò la strada per il triangolo di prua. Da dietro venivano dei clangori metallici che risuonavano nel buio. Evidentemente cominciavano a scaricare, a poppa. Si affacciò al parapetto. Il cargo era attraccato a una banchina. Luci bianche e gialle dappertutto. Venezia, mio caro, pensò aprendo un boccaporto e scendendo sottocoperta, in una specie di grande gavone di prua. Si affacciò a uno degli oblò. C'era una fune di attracco che passava proprio a qualche metro da lì e finiva attorcigliata a una grande bitta sulla banchina. Con un salto ci si poteva arrivare. Poi bastava calarsi a terra comodamente. Un bel salto. Poteva farcela. Con un bel salto poteva raggiungere la corda e calarsi giù a terra. Venezia, mio caro. Stanko a mo' di preghiera recitò una cosa tra sé e sé: Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va', per te l'ho pregato - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine. Un bel salto. Stanko inarcò la schiena, si iperventilò con rapidi respiri, si concentrò nell'impresa, focalizzò la sua mente su quella precisa sequenza di movimenti che doveva compiere, li ripeté col pensiero fino a farli diventare un'unica lineare contrazione muscolare, strinse coi pugni gli orli dell'oblò, puntellò i piedi, si accosciò sulle gambe, contò fino a tre, poi con un urlo da uomo schizzò fuori dallo scafo, mancò la fune di una decina di metri buoni e patapumfò nel minestrone tossico che ristagnava tra la nave e il molo. L'acqua non è poi così fredda, cercava di convincersi Stanko nuotando freneticamente verso le scalette in fondo al molo. Certo, l'acqua qua dev'essere talmente sporca che non può nemmeno essere fredda, voglio dire. Questione di composizione chimica. Questa non è nemmeno acqua, voglio dire, pensava Stanko. Questa sostanza dentro la quale sto nuotando magari non ha neanche un punto di solidificazione o di evaporazione. Guarda come sto a galla facilmente. Deve avere un peso specifico pari a quello del plutonio. Sono caduto da dieci metri e non mi sono nemmeno immerso completamente. Per fortuna. Piuttosto che immergere la testa in questa roba meglio infilarla nel culo di un bove. Il molo era completamente deserto. Stanko emerse dal tristissimo liquido con un rumore di mamma che lava i panni a mano. Guardò la città, aperta ad anfiteatro oltre le ciminiere, oltre le raffinerie, oltre le enormi gru gialle, e i rimorchiatori arancioni, e i silos abbandonati, oltre i rotoloni di cavi. Oltre tutto questo, segmenti zigzaganti di luci sottolineavano strade che si arrampicavano su per i monti. I monti. A Venezia. Stanko era fradicio come il calzino di una mondina. Dal buio nulla verso il quale stava camminando gli si avvicinò un cagnolino, uno di quei cagnolini da salotto pieni di pelo. Stanko non fu felice. Odiava i cani di quel tipo. La voce stridula con la quale abbaiano. E abbaiano sempre. Le loro padrone li portano in braccio negli ascensori dei grandi magazzini, tu sei lì, li guardi, e loro ti abbaiano. Da in braccio alla loro padrona, come dei neonati minacciosi. Cosa c'è di più insopportabile? E sembra che non si stanchino mai di abbaiare, mio dio, non gli va mai bene niente. Il cagnetto si avvicinò, e iniziò ad abbaiare. Era abbastanza malridotto. Senza collare, molto sporco. Si avvicinava abbaiando rauco a Stanko. Non si capiva che intenzioni avesse. Stanko con una pedata caricò la bestiola d'energia cinetica, rendendola momentaneamente in grado di volare. L'uggiolante stella cadente atterrò parecchi metri più in là, riabituandosi al terreno tutto di un colpo. Appena le zampette malferme glielo consentirono, si raddrizzò e tornò verso Stanko. Bel gioco, pensò Stanko, come quando butti il bastone al cane e lui te lo riporta, invece io butto direttamente il cane, e lui riporta se stesso. Il cagnetto gli si era già affezionato, si allacciò a una gamba. Stanko la scrollava con tutte le sue forze. Stanko prese dei fogli di carta da terra, li arrotolò dando loro la forma solida di un papiro, li sventolò per un po' davanti al muso del cane, poi, confidando nella leggiadra idiozia dei cani da salotto, li lanciò lontano, oltre il bordo del molo. - Vai! - lo incitò Stanko. Il cagnolino si avviò felice di rendersi utile. Raggiunto il bordo guardò il mare, restò un po' lì incerto, poi lentamente tornò indietro. Stanko era sparito. Per uscire dal porto Stanko doveva passare davanti al gabbiotto della guardia di finanza. Dentro c'erano due uomini in divisa. Sembravano abbastanza indaffarati a giocare a briscola. Camminando gatton gattoni sotto la finestrella rimase fuori dalla loro visuale. Sentiva le voci che si accaloravano sui dieci e sugli assi. Aveva rapidamente superato il gabbiotto e si era rialzato. Ora c'era solo da imboccare la scaletta ed era fatta. Era già quasi a metà della scala quando udì le classiche due parole che fanno sobbalzare i fuggitivi: - Ehi, tu! - Fece finta di niente, continuando a inanellare gradini su gradini. Poi nella fonosfera del pianeta prese posto un altrettanto classico: - Ehi, dico a te, biondo, sei sordo? Il cane ce lo lasci qua? Al ristorante vietnamita me lo pagano un tanto all'etto -. Stanko si voltò. Il cane, completamente fradicio, annacquava il piazzale antistante il molo, vittorioso, con il papiro in bocca. - Mica siamo al casello dell'autostrada. Stanko tornò giù: - Ah, - disse. L'altro collega, da dentro aggiunse: - Sì, comunque lo capisco. Sono quei cani che se li guardi in ascensore ti abbaiano. Come se avesse capito, il cagnolino corse verso Stanko, scodinzolando. Stanko deglutendo se lo prese in braccio e lo accarezzò meccanicamente. - Certo che ti sei bagnato ben bene a giocare col cane. Sei completamente fradicio, - osservò uno dei due finanzieri. Il cane si voltò verso di lui e cominciò ad abbaiare la sua indignazione. Sembrava una cantante lirica che singhiozza in modo stronzo e incontrollato. - Ecco, vedi, - indicò la guardia dentro il gabbiotto all'altra, - tu lo tieni in braccio e lui abbaia alla gente. Ma cosa c'ha da abbaiare? Vien voglia di spedirli in orbita. Secondo me Laika, la cagnetta russa, secondo me era proprio di quella razza lì. - Tra l'altro nello spazio non si sentono i suoni. - Un bel vantaggio. - Già. Non so se hai mai notato che c'è una specie di legge fisica sulla rumorosità dei cani. È inversamente proporzionale alle loro dimensioni. - È vero, più i cani sono grossi più sono silenziosi e di indole quieta, e viceversa. - Più sono piccoli e più rompono il cazzo. - Io sono per i gatti. Più silenziosi di loro. - Sì, però non sono per niente affettuosi. - Mah, bisogna saperli interpretare. - Certo, ad esempio interpretami la bella pisciata dentro le prese d'aria della macchina che mi hanno fatto stanotte. Apri il raffreddamento e si riempie tutto di odore di piscio di gatto. Stanko era già lontano. Camminava per lo sfacelo socio-urbano di via Gramsci. Il cagnolino abbaiava a chiunque. Anzi, non incontravano proprio nessuno, le strade erano deserte, e quel cazzo di cane abbaiava lo stesso. Ogni volta che passava una macchina, quel fetente groviglio di peli si sboccava in acutissime esplosioni di garrulismo. Stanko resisté non si sa come alla tentazione di fare di quell'essere un ordigno proiettato verso le fasce esterne di Van Hallen. Lo lasciò scivolare invece dentro il primo cassonetto a portata di mano, assicurandosi che il coperchio fosse chiuso ermeticamente, e che il cane non potesse uscire in nessun modo. E si allontanò. Ah, che sollievo. Da dentro il cassonetto si sentiva ancora abbaiare e raspare con le unghie contro le pareti, ma il suono si affievoliva sempre più. Ancora pochi passi e il silenzio sarebbe stato assoluto. Ma evidentemente in questa città sconosciuta la fortuna non si concede al primo venuto: una vecchia con dei sacchetti della spazzatura in mano è diretta con tutta invadenza verso il cassonetto. Stanko presagendo la traiettoria cerca di allontanarsi il più velocemente possibile. La vecchia raggiunge infatti il cassonetto (essendo sorda probabilmente non è insospettita da tutto quell'odioso latrare), fa scorrere l'apertura e si ritrova faccia a faccia con il proprio infarto. Stanko è già sparito da qualsiasi visuale. Ma nonostante il cane sia un cane da salotto, eccolo sfoderare un atavico ricordo della sua natura brada, una voce sepolta da generazioni che cerca di comunicargli qualcosa. "Il fiuto, usa il fiuto", dice la voce degli antenati. Il cane non capisce, però istintivamente comincia ad annusare la traccia. Ma certo. Una traccia sgocciolata di ventimila veleni diversi uniti per comodità sotto il nome collettivo di mare. Non è difficile. Perfino un cane come lui può seguire quella scia. Grazie antenati. Però perché adesso tende a seguirsi da solo? Ah, già, anche lui è fradicio di quella roba, ha addosso lo stesso odore. Prossimo al congelamento a causa dei suoi vestiti bagnati, Stanko camminava per le strade di una città misteriosa, seguito a breve distanza dal cagnetto. Ad ogni bivio svoltava a caso. Camminò per più di tre ore in questo modo, confidando che la casualità fosse per lui portatrice di fortuna. Occorreva trovare un riparo, fare asciugare i vestiti. Mentre camminava per vicoli deserti e male illuminati si raccontò da solo una barzelletta che gli raccontava sempre sua nonna. Sua nonna sapeva un sacco di barzellette. Quando in Jugoslavia c'era ancora Tito potevano dare anche quattro anni di prigione per aver raccontato una barzelletta contro i comunisti. Sua nonna si era fatta sei anni. Evidentemente l'avevano arrestata a metà della seconda barzelletta. Due amici s'incontrano per strada. Uno dei due porta l'altro in un posto nascosto, poi gli dice: "So una barzelletta bellissima. Tito sta passeggiando per Belgrado, quando arriva in un quartiere malfamato: le strade sono strette, buie e deserte. A un incrocio incontra un uomo gigantesco armato di mazza e pistola. Non ricordo il seguito, ma l'inizio promette davvero bene". Ridacchiando tra sé e sé, Stanko svoltò in un vicolo stretto. Dava su una piccolissima piazzetta, con al centro un'altalena per bambini. Sopra l'altalena c'era un mostro gigantesco, cattivo, armato e di sicuro abitualmente dedito al crimine, che appena lo vide gli gridò: - Ehi, tu, bambina bionda. Vieni qua. Ehi, dico a te. Lotorio Bacigalluzzi non riusciva a vedere niente. Era più miope di un microscopio elettronico. Era talmente miope che non si sa come facesse a muoversi così disinvolto. Il mondo per lui era un pasticciato sistema di macchie colorate, confuse come quelle che si vedono nel fondo marino quando lo si guarda stando fuori dall'acqua. E le cose peggioravano. La sua vista subiva una continua inflazione galoppante a due cifre. Eppure non si sarebbe mai detto, guardandolo dal di fuori. Lotorio sembrava assolutamente normale. Si muoveva distruggendo cose e persone, ma non aveva l'aria di farlo per sbaglio. Pesava centotrenta chili. Rubava. Odiava gli oculisti. Odiava i dentisti. Odiava un sacco di gente. Ma più di tutti odiava i ragazzi che frequentavano il Matador. Lotorio aveva anche una sua particolare ossessione. L'autoipnosi. L'autoipnosi. L'autoipnosi. Trascorreva le sue giornate cercando di autoipnotizzarsi. Si era convinto, non si sa perché, che attraverso l'autoipnosi sarebbe riuscito finalmente a dimagrire. Avete idea di che cosa si prova a pesare centotrenta chili? Ve lo dico io. Si ha subito voglia di pesare meno. Una volta dimagrito, Lotorio sarebbe riuscito finalmente a entrare al Matador. Ecco il piano. Non so perché ci tenesse così tanto, visto che odiava tutti gli avventori. Per autoipnotizzarsi occorreva osservare oggetti isocroni. Cose che dondolano, insomma. Tipo le pendole dei vecchi orologi. I metronomi. Il fatto era che la miopia fortissima di Lotorio gli impediva di distinguere bene questi oggetti, e l'autoipnosi non gli era mai riuscita. Era quindi alla ricerca di oggetti isocroni sempre più grandi. Oggetti isocroni sempre più grandi, tipo quest'altalena. Lotorio aveva provato a farla dondolare, ma non riusciva a distinguerla bene. La fissava e non vedeva nulla. Il sedile era troppo piccolo, non spiccava per niente. Oltre tutto la piazzetta era molto buia. Poi era comparsa la bambina bionda. Lotorio l'aveva chiamata e lei si era avvicinata. - Non sono una bambina, - aveva detto la bambina. - Non sono una bambina, mi chiamo Stanko Vituperovic, sono un disertore dalmata. - Stanko Vituperovic, sali sull'altalena e dondolati reggendo questa torcia elettrica. Stanko obbedì. Salì sul sedile dell'altalena e cominciò ad allargare il raggio d'azione delle catenelle. Hop. Hop. Hop. - Ecco, adesso accendi la torcia -. Stanko accese la torcia. - Adesso stai zitto e continua a dondolarti. Stanko continuò a dondolarsi. Si divertiva abbastanza. Soprattutto perché il cane era rimasto a terra, ma ad ogni giro cercava di saltare in braccio a Stanko che ne approfittava per allontanarlo a calci. - Ma che è 'sto rumore orrendo? - chiese Lotorio irritato. - Sembra uno di quei cani che abbaiano negli ascensori. Non puoi farlo smettere? Mi deconcentra. - Qual è il problema? - chiese Stanko, mentre tutti e due si dirigevano a caso nei vicoli della città vecchia. - Non ci vedo un cacchio, - rispose Lotorio. - E perché non usi gli occhiali? - chiese Stanko. - Perché mi stanno male. Mi fanno lo sguardo da idiota. Già sono grasso, ci mancano anche gli occhiali. - E perché non usi le lenti a contatto? - Mi fanno arrossare gli occhi. - Non le sopporti? - È che ho un tic che mi viene quasi sempre quando sono nervoso e devo fare qualcosa con le mani, questo tic mi fa scattare il braccio. Di solito mentre cerco di mettermi le lenti mi scatta il braccio e il dito e mi s'infila nell'occhio. Fa un male cane. L'occhio diventa rossissimo. Ho smesso di provarci. A Stanko venne in mente una cosa e cioè: La vita che dà barlumi è quella che sola tu scorgi. A lei ti sporgi da questa finestra che non s'illumina. Mentre camminavano i vicoli si erano riempiti di ragazzi e ragazze. Una torma di ragazzi e ragazze che passeggiavano a gruppetti saturando le strette viuzze. Ridevano, scherzavano tra loro, tutti con dei grandi bicchieroni di birra in mano. Si spostavano da un bar all'altro, ma pochi restavano dentro i locali, i più compravano la birra e uscivano subito e riprendevano a passeggiare lentamente chiacchierando con questo e con quello. Avevano tutti un'aria allegra e sfaccendata. - In questa zona una volta c'erano gli spacciatori, - spiegò Lotorio. - Nessuno passava di qua, era pericoloso. Tu le vedi quelle specie di frecce disegnate sui muri con lo spray? - Sì, ci sono delle frecce con la scritta spacciatori in grosso. Sono una dietro l'altra, formano una specie di percorso. - Fino a qualche tempo fa gli abitanti di qui erano assediati dagli spacciatori, ce l'avevano col fatto che agissero così allo scoperto senza che la polizia intervenisse. Allora non so, probabilmente per provocazione mettevano queste indicazioni rivolte ai poliziotti, come per guidarli. Se segui le frecce fino alla fine del percorso, nel pezzo di muro in cui si appoggiava sempre di schiena lo spacciatore c'è tutta un'aureola di frecce che lo indica, con scritto tutt'attorno lo spacciatore. Ora è cambiato, qui, ci sono un sacco di locali, organizzano concerti, ci sono un sacco di ragazzi, vedi. Stanko osservò la moltitudine colorata che intasava gli spazi tra muri e muri, una folla di rumore e di rilassata amicizia. Era contento. Era tempo che non vedeva niente del genere. Arrivarono a uno slargo, e a una strana piazza in salita dove gente seduta per terra a ridosso dei muri delle case produceva con chitarre e bonghi un dolcissimo amalgama sonoro invitante e accogliente. Stanko era rapito. A questi ragazzi nessuna firma illeggibile aveva mai chiesto niente, eppure eccoli qui, giovani e belli di risate, a proteggere questo territorio. Ecco una città in cui chitarre e bonghi tengono lontane morte e violenza, pensò Stanko, pieno di un'invidia commossa. Improvvisamente una finestra che dava sulla piazza si spalancò e apparve una figura in camicia da notte: - Basta con questa musica del cazzo! Non si riesce a dormire! - gridò l'uomo ai ragazzi che se ne stavano seduti esattamente sotto la sua finestra. - Tutte le notti la stessa storia. Domani mattina mi devo svegliare alle sei e mezza per andare a lavorare, che cazzo, - continuò. - Vi butto l'ammoniaca se non ve ne andate -. Effettivamente appoggiò sul davanzale un grosso recipiente. I ragazzi seduti sulla verticale schizzarono subito via allontanandosi balzellon balzelloni, e sotto alla finestra si formò il vuoto. Si aprirono altre finestre, e apparvero altre persone, tutte ugualmente piene di una rabbia assonnata: - È vero, cazzo! Non ci lasciano dormire! Si stava meglio quando c'erano gli spacciatori! - gridavano. Molti brandivano contenitori pieni di ammoniaca e piscio, pronti a decolorare i toni alla marmaglia casinista. - Ridateci gli spacciatori! Recupero urbano del cazzo! Rivogliamo i silenziosi e discreti spacciatori! Mentre la folla si allontanava di malumore e protestando, lo stupido cane, che aveva continuato a seguire Stanko e Lotorio nel loro tragitto notturno, rivolse la sua attenzione all'uomo che era apparso per primo alla finestra. Si piazzò proprio sotto il davanzale e cominciò a esprimere tutta la sua carica d'antipatia nei confronti di quell'uomo malvagio. Stanko e Lotorio osservarono stupiti. Il cane si ergeva minaccioso in tutti i suoi quattro centimetri d'altezza, cacofonando latrati che ricordavano in peggio il lamento del gesso sfregato contro una lavagna da un'allieva del terzo anno con le unghie troppo lunghe, mentre qualcuno nella stessa stanza strofina del polistirolo su un vetro umido e un deficiente tenta di far esplodere una lampadina con un violino da tre lire. - Zitto, cane di merda, - tuonò la voce dell'uomo alla finestra. Le parole giunsero al cane seguite da una secchiata d'idrogeno e azoto e piscio che lo investì in pieno trasformandolo in un grosso topo scheletrico, un viscido rospo di fosso, una schifezza fradicia. Schizzò via rapido come una cavalletta gigante, uggiolando e lamentandosi rumorosamente, finché non venne raggiunto da una seconda secchiata d'ammoniaca, lanciata da un'altra persona affacciata a un'altra finestra. Ci fu anche una terza secchiata da parte di una terza persona affacciata a una terza finestra. Da qui in poi proseguite da soli, basta saper contare. Alla fine tutte le persone a tutte le finestre avevano tirato tutte le secchiate d'ammoniaca all'indirizzo del cane scassacazzo, che non sapeva più in quale angolo della piazza scappare per evitare quelle dimostrazioni chimiche d'insofferenza. Si rifugiò sotto le gambe di Stanko, che lo proiettò lontano a scarpate. Tutti gli altri stavano defluendo verso una stradina secondaria, e anche Stanko e Lotorio si accodarono. - Ma che piazza è mai questa, i cui abitanti preferiscono gli spacciatori ai ragazzi con le chitarre e i bonghi? - chiese Stanko a Lotorio. - Piazza delle Erbe, - disse tristemente Lotorio, - nella ridentissima città di Genova. Mediterraneo settentrionale. - Una cosa è certa, - commentò Stanko. - Tutti, ma proprio tutti, odiano questo cane. Sloggiati a suon d'ammoniaca dalla piazza in salita, Lotorio e Stanko presero per un largo stradone, poi svoltarono di volta in volta a destra e a sinistra, come a voler cercare il vicolo più stretto del mondo. Lotorio era silenzioso, sembrava assorto. Stanko guardò in alto i muri stortissimi dei palazzi, e si ricordò del labirinto oscillante di container da cui era scaturito. Che città irregolare, pensò Stanko. Poi si concentrò sulle cose basse, sui gradini, sull'acciottolato, sulle soglie dei portoncini. Incrociavano pochissima gente, tutta la folla di ragazzi si era dissolta altrove. - Per darti un'idea di com'è fatta questa città ti dico una cosa. Quando a Genova è arrivato il Mc Donald's, hai presente? - Hamburger, - annuì Stanko. - Esatto. Il personale dei Mc Donald's ha un contratto particolare, uguale in tutto il mondo. Chi lavora lì deve sorridere ai clienti, c'è proprio scritto nel contratto. Le cassiere devono sorridere mentre ti servono, se non lo fanno ti puoi lamentare con il direttore e farle licenziare. - Agli americani piace la gente sorridente. - Ai genovesi invece molto meno. Quando Mc Donald's ha aperto a Genova, per i primi giorni le cameriere, come da contratto, sorridevano. Sembrava proprio un Mc Donald's normale, come quelli di Barcellona, Milano, Los Angeles, tutti sorridevano. Non avevano calcolato che i genovesi, di carattere decisamente ombroso, non amano granché che si sorrida loro in maniera così incomprensibile. Si sentivano presi per il culo. Non erano abituati, reagivano male, s'incazzavano con le cameriere, che cercavano di calmarli sorridendo ancora di più e facendoli quindi incazzare ancora di più. Alla fine di solito volavano le sberle. Dopo un po', visto come andavano le cose, è arrivata una dispensa dal quartier generale del Mc Donald's che consente eccezionalmente al personale del Mc Donald's di Genova di non sorridere durante il lavoro. - Fantastico. - Adesso è diventata un'attrazione. Vengono da tutto il mondo per vedere l'unico Mc Donald's in cui le cameriere non sorridono. A un certo punto, sempre guardando giù, Stanko si rese conto che l'acciottolato aveva cambiato consistenza. Sollevò lo sguardo. - Ehi, dove siamo? - chiese. In basso c'erano dei ciottoli, bianchi e neri, che formavano un mosaico a forma di conchiglia, in una piccola piazza a forma di conchiglia. Uno dei lati della piazza era formato da tante facciate colorate, rosa e gialle, appiccicate le une alle altre. Dalla parte opposta c'era un muretto, che dava su altre casette più in basso, disposte lungo serpentine acciottolate che scendevano. Le facciate avevano delle finestre incorniciate ognuna da un rettangolo bianco. La piazzetta a conchiglia, una specie di ellisse esagonale, sembrava il palcoscenico di un teatrino, con queste quinte formate dalle casette colorate. Se uno che dipinge fondali per i teatri dei burattini dovesse dipingere una piazzetta su cui si affacciano delle case, dipingerebbe una cosa simile a questa. Sistemerebbe delle casette in questa maniera, con queste finestrelle irregolari, non allineate, una più in basso, una più in alto, con queste facciate pastello, con le porticine che dànno sulla piazza e tutto il resto. Poi metterebbe tutto su un saliscendi in modo che le stradine si attorciglino e ci vogliano delle scalette divertenti che portino dentro le case. Poi dei passaggi, degli archivolti, in modo da vedere le personcine camminarci dentro. - Che c'è? - chiese Lotorio. - Una specie di piazzetta giocattolo, non so. Ci sono delle case che sembrano uscite da quei libri per bambini che quando li apri escono fuori le figure. Cos'è? - Boh. Ci sarà il nome da qualche parte. Davanti a un cancelletto in un lato dell'esagono dormiva un enorme cagnone. Il minicane che i due loro malgrado si portavano dietro cominciò ad annusare tutti gli angoli della piazza e a pisciare in giro come a dire che quella era tutta roba sua. L'enorme cane aprì un occhio, e osservò il pelucchio vivente fare quello che stava facendo. Dopo aver sbadigliato a tutto schermo si sollevò pigramente, e muovendosi lento come un cammello ripisciò in ognuno degli angoli dove il corpuscolo aveva depositato le sue chiazze territoriali. Con opportuni getti gialli cancellò ogni traccia del passaggio dell'intruso, dopodiché si acciambellò nella posizione iniziale e richiuse gli occhi. Il piccolo cane antipatico ricominciò il giro degli angoli, cospargendo puntigliosamente di piscio tutti i punti in cui era passato prima. Alla fine del giro era chiaro che non doveva essergli più tanto agevole produrre abbastanza liquido, si vedeva che si stava spremendo la vescica, anche se fingeva una spocchiosa indifferenza. Il grosso cane allora si risollevò e dimostrando una santa pazienza riallargò i confini liquidi del suo territorio con poderosi scrosci odorosi. Il cagnetto doveva avere dentro di sé più piscio che sangue, ma anche così non si arrivava che a pochi decilitri. Esaurita l'ultima goccia, il microcane non si diede per vinto. Doveva possedere un animo tendente all'ottimismo, o quanto meno non avere un'idea precisa delle sue stesse dimensioni. Solo così si spiega il fatto che tentò di attaccare il grosso cane, il quale se ne accorse con una certa difficoltà. Poi, incuriosito dai suoni, si rigirò su se stesso per voltarsi, e così facendo schiacciò il cagnolino come l'ipotenusa di un triangolo molto ottuso. Il cagnolino emerse a fatica dal pelo del cagnone tossendo e starnutendo, ma ancora convinto di poter sopraffare il suo avversario. Alla fine usò la sua arma più micidiale: l'ugola. I singulti irregolari e aguzzi che provenivano da quel chiodino di peli avrebbero devastato i coglioni di un santo, ma non smuovevano minimamente il grosso cane. Stanko e Lotorio avevano assistito mediamente interessati a quella battaglia a colpi di piscio, e adesso speravano entrambi che il cagnone li liberasse per sempre dal cagnetto insopportabile. - Va', che lo fa incazzare. Forse ce lo togliamo di torno una buona volta. Ma il cagnone dimostrava una divina indifferenza. La bestiolina proseguiva il suo sproloquio di lapilli sonori. - Adesso hai rotto veramente il cazzo, - sbottò Lotorio, all'improvviso, poi prese la rincorsa e calciò via quel martirio acustico che, dopo un volo teso di qualche metro, colpì la parete colorata di una casetta con uno scricchiolio di costole e liquido, rimase un po' lì appiattito tra due balconi - persino la forza di gravità era riluttante ad avere a che fare con lui -, quindi lentamente prese a scivolare giù per la parete come tracimando da una pentola in ebollizione, e nel suo percorso verticale verso il basso passò accanto a un'indicazione marmorea che denominava ufficialmente quel luogo fatato. - Campopisano, - disse Stanko affascinato. - E così hai disertato. Ma come mai parli così bene l'italiano? - Lotorio e Stanko avevano traslocato con i loro discorsi verso la circonvallazione a mare, dove Lotorio doveva recuperare un motorino. - Mia madre ha sposato un italiano, - raccontò Stanko, - quando io ero piccolo. Lei pensava che lui ci avrebbe portati tutti a vivere in Italia. Mia madre credeva che l'Italia fosse una specie d'America, ed era raggiante. In realtà si erano capiti male, a causa della lingua, ed è stato lui a venire a vivere a casa nostra, perché pare che in Italia fosse ricercato. Poi con l'inflazione del dinaro in quel periodo praticamente bastava avere pochi spiccioli di una qualsiasi moneta straniera e vivevi di rendita. Mamma c'è rimasta molto male, così da quel giorno ha cominciato a studiare l'italiano l'italiano e ancora l'italiano, e me l'ha fatto studiare pure a me tantissimo, per evitare ulteriori fregature, diceva. Mamma sarebbe felice di sapere che sono finito proprio a Genova. - Perché? Cos'ha Genova? - Per Montale. A lei piace tantissimo Montale. Mi recitava sempre Montale, così l'ho imparato anch'io. - Chi è 'sto Montale? - Montale, il poeta. Premio Nobel per la letteratura. Nato a Genova. - Mai sentito. Andavo malissimo in italiano. E di dov'era tuo padre? - chiese Lotorio. - Questo qua non era mio padre. Mio padre non lo so chi era, ma era italiano anche lui. Penso che mamma poi si sia risposata con un altro italiano apposta, cioè, come se questo mi rendesse in qualche modo un po' meno bastardo. Anche per questo ci teneva tanto ad andare a vivere in Italia. Pensava che lì sarei stato ancora meno bastardo. - E ora dove sono? Tua mamma e questo qua, voglio dire? - Da qualche parte, a nord. - E tu sei scappato? - Io amo la mia città. Non mi piaceva stare a guardare mentre la bombardavano. Lotorio indicò a Stanko un motorino, legato con una robusta catena a un palo della segnaletica stradale. Si guardò un po' intorno, poi cominciò ad affaccendarsi, chino sul lucchetto. - Genova. Quando mi sono infilato nel container mica lo sapevo che sarei arrivato qui. Pensavo di finire a Venezia. Lotorio sollevò la catena antifurto, ricoperta di plastica rossa, la tenne sollevata come un pericoloso serpente morto, quindi la usò a mo' di frusta contro il cane redivivo. Poi scosse il motorino per saggiare la quantità di miscela nel serbatoio. Un rumore come di lavatrice, pochi secondi prima della centrifuga. - Che lavoro facevi? - chiese Lotorio salendo in sella e cominciando a pedalare a vuoto sul cavalletto. - Costruivo bombe. Lotorio e Stanko si erano inseriti nell'inesistente traffico notturno a bordo dell'antiquato Califfone. Il mefistofelico cane tremolicchiava dentro il bauletto, dove s'era inserito a viva forza. Ai semafori minacciava tutti con la sua bavosa carica di decibel. - Lavoravo in una fabbrica che produceva bombe incendiarie. Come materie prime usavamo i detersivi, specie i detergenti per i vetri. - Bel lavoro. Come l'hai trovato? - Mi sono diplomato come perito chimico. Alla maturità ho portato una tesina che s'intitolava appunto Conversione di flaconi di detergenti in ordigni ad alta intensità incendiaria e di colluttazione. Mi hanno dato un barattolo di Svelto, e io ho convertito il detergente in esplosivo. Non ci vuole molto. Detergenti ed esplosivi sono chimicamente molto simili. Ma anche dalle supposte di glicerina ad esempio è facile ottenere delle piccole cariche di esplosivo. Una volta diplomato mi hanno assunto lì. - Ma tu invece come fai a guidare se non ci vedi per niente? - chiese Stanko a Lotorio, stupito della sicurezza con cui si spostava tra semafori e guardrail. - Basta non pensare agli oggetti che si frappongono al tuo cammino come a ostacoli. - E i vigili? - Frega sega. - E se ti sequestrano il motorino? - Ne rubo un altro. Io non ho paura Niccolò Ammaniti Einaudi Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l’ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina. Non dovevo portarmela dietro, mamma me l’avrebbe fatta pagare cara. Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l’ho chiamata. – Maria? Maria? Mi ha risposto una vocina sofferente. – Michele! – Ti sei fatta male? – Sì, vieni. – Dove ti sei fatta male? – Alla gamba. Faceva finta, era stanca. Vado avanti, mi sono detto. E se si era fatta male davvero? Dov’erano gli altri? Vedevo le loro scie nel grano. Salivano piano, in file parallele, come le dita di una mano, verso la cima della collina, lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti. Quell’anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto tanto, e a metà giugno le piante erano più rigogliose che mai. Crescevano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte. Ogni cosa era coperta di grano. Le colline, basse, si susseguivano come onde di un oceano dorato. Fino in fondo all’orizzonte grano, cielo, grilli, sole e caldo. Non avevo idea di quanto faceva caldo, uno a nove anni, di gradi centigradi se ne intende poco, ma sapevo che non era normale. Quella maledetta estate del 1978 è rimasta famosa come una delle piú calde del secolo. Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell’orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti levava il respiro, la forza, la voglia di giocare, tutto. E la notte si schiattava uguale. Ad Acqua Traverse gli adulti non uscivano di casa prima delle sei di sera. Si tappavano dentro, con le persiane chiuse. Solo noi ci avventuravamo nella campagna rovente e abbandonata. Mia sorella Maria aveva cinque anni e mi seguiva con l’ostinazione di un bastardino tirato fuori da un canile. «Voglio fare quello che fai tu», diceva sempre. Mamma le dava ragione. «Sei o non sei il fratello maggiore?» E non c’erano santi, mi toccava portarmela dietro. Nessuno si era fermato ad aiutarla. Normale, era una gara. – Dritti, su per la collina. Niente curve. È vietato stare uno dietro l’altro. È vietato fermarsi. Chi arriva ultimo paga penitenza –. Aveva deciso il Teschio e mi aveva concesso: – Va bene, tua sorella non gareggia. È troppo piccola. – Non sono troppo piccola! – aveva protestato Maria. – Voglio fare anch’io la gara! – E poi era caduta. Peccato, ero terzo. Primo era Antonio. Come sempre. Antonio Natale, detto il Teschio. Perché lo chiamavamo il Teschio non me lo ricordo. Forse perché una volta si era appiccicato sul braccio un teschio, una di quelle decalcomanie che si compravano dal tabaccaio e si attaccavano con l’acqua. Il Teschio era il più grande della banda. Dodici anni. Ed era il capo. Gli piaceva comandare e se non obbedivi diventava cattivo. Non era una cima, ma era grosso, forte e coraggioso. E si arrampicava su per quella collina come una dannata ruspa. Secondo era Salvatore. Salvatore Scardaccione aveva nove anni, la mia stessa età. Eravamo in classe insieme. Era il mio migliore amico. Salvatore era più alto di me. Era un ragazzino solitario. A volte veniva con noi ma spesso se ne stava per i fatti suoi. Era più sveglio del Teschio, gli sarebbe stato facilissimo spodestarlo, ma non gli interessava diventare capo. Il padre, l’avvocato Emilio Scardaccione, era una persona importante a Roma. E aveva un sacco di soldi in Svizzera. Questo si diceva. Poi c’ero io, Michele. Michele Amitrano. E anche quella volta ero terzo, stavo salendo bene, ma per colpa di mia sorella adesso ero fermo. Stavo decidendo se tornare indietro o lasciarla là, quando mi sono ritrovato quarto. Dall’altra parte del crinale quella schiappa di Remo Marzano mi aveva superato. E se non mi rimettevo subito ad arrampicarmi mi sorpassava pure Barbara Mura. Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una femmina. Cicciona. Barbara Mura saliva a quattro zampe come una scrofa inferocita. Tutta sudata e coperta di terra. – Che fai, non vai dalla sorellina? Non l’hai sentita? Si è fatta male, poverina, – ha grugnito felice. Per una volta non sarebbe toccata a lei la penitenza. – Ci vado, ci vado… E ti batto pure –. Non potevo dargliela vinta così. Mi sono voltato e ho cominciato a scendere, agitando le braccia e urlando come un sioux. I sandali di cuoio scivolavano sul grano. Sono finito culo a terra un paio di volte. Non la vedevo. – Maria! Maria! Dove stai? – Michele… Eccola. Era lí. Piccola e infelice. Seduta sopra un cerchio di steli spezzati. Con una mano si massaggiava una caviglia e con l’altra si teneva gli occhiali. Aveva i capelli appiccicati alla fronte e gli occhi lucidi. Quando mi ha visto, ha storto la bocca e si è gonfiata come un tacchino. – Michele…? – Maria, mi hai fatto perdere la gara! Te l’avevo detto di non venire, mannaggia a te –. Mi sono seduto. – Che ti sei fatta? – Sono inciampata. Mi sono fatta male al piede e… – Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi, ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. – Gli occhiali! Gli occhiali si sono rotti! Le avrei mollato uno schiaffone. Era la terza volta che rompeva gli occhiali da quando era finita la scuola. E ogni volta con chi se la prendeva mamma? «Devi stare attento a tua sorella, sei il fratello maggiore». «Mamma, io…» «Niente mamma io. Tu non hai ancora capito, ma io i soldi non li trovo nell’orto. La prossima volta che rompete gli occhiali ti prendi una di quelle punizioni che…» Si erano spezzati al centro, dove erano stati già incollati. Erano da buttare. Mia sorella intanto continuava a piangere. – Mamma… Si arrabbia… Come si fa? – E come si fa? Ci mettiamo lo scotch. Alzati, su. – Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissimi. Non mi piacciono. Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza, Maria non ci vedeva, aveva gli occhi storti e il medico aveva detto che si sarebbe dovuta operare prima di diventare grande. – Non fa niente. Alzati. Ha smesso di piangere e ha cominciato a tirare su con il naso. – Mi fa male il piede. – Dove? – Continuavo a pensare agli altri, dovevano essere arrivati sopra la collina da un’ora. Ero ultimo. Speravo solo che il Teschio non mi facesse scontare una penitenza troppo dura. Una volta che avevo perso una gara mi aveva obbligato a correre nell’ortica. – Dove ti fa male? – Qua –. Mi ha mostrato la caviglia. – Una storta. Non è niente. Passa subito. Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l’ho sfilata con molta attenzione. Come avrebbe fatto un dottore. – Ora va meglio? – Un po’. Torniamo a casa? Ho sete da morire. E mamma… Aveva ragione. Ci eravamo allontanati troppo. E da troppo tempo. L’ora di pranzo era passata da un pezzo e mamma doveva stare di vedetta alla finestra. Lo vedevo male il ritorno a casa. Ma chi se lo immaginava poche ore prima. Quella mattina avevamo preso le biciclette. Di solito facevamo dei giri piccoli, intorno alle case, arrivavamo ai bordi dei campi, al torrente secco e tornavamo indietro facendo le gare. La mia bicicletta era un ferro vecchio, con il sellino rattoppato, e così alta che dovevo piegarmi tutto per toccare a terra. Tutti la chiamavano la Scassona. Salvatore diceva che era la bicicletta degli alpini. Ma a me piaceva, era quella di mio padre. Se non andavamo in bicicletta ce ne stavamo in strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non fare niente. Potevamo fare quello che ci pareva. Macchine non ne passavano. Pericoli non ce n’erano. E i grandi se ne stavano rintanati in casa, come rospi che aspettano la fine del caldo. Il tempo scorreva lento. A fine estate non vedevamo l’ora che ricominciasse la scuola. Quella mattina avevamo attaccato a parlare dei maiali di Melichetti. Si parlava spesso, tra noi, dei maiali di Melichetti. Si diceva che il vecchio Melichetti li addestrava a sbranare le galline, e a volte pure i conigli e i gatti che raccattava per strada. Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliva bianca. – Finora non ve l’ho mai raccontato. Perché non lo potevo dire. Ma ora ve lo dico: quei maiali si sono mangiati il bassotto della figlia di Melichetti. Si è sollevato un coro generale. – No, non è vero! – È vero. Ve lo giuro sul cuore della Madonna. Vivo.Completamente vivo. – È impossibile! Che razza di bestie dovevano essere per mangiarsi pure un cane di razza? Il Teschio ha fatto di sí con la testa. – Melichetti glielo ha lanciato dentro il recinto. Il bassotto ha provato a scappare, è un animale furbo, ma i maiali di Melichetti di più. Non gli hanno dato scampo. Massacrato in due secondi –. Poi ha aggiunto: – Peggio dei cinghiali. Barbara gli ha chiesto: – E perché glielo ha lanciato? Il Teschio ci ha pensato un po’. – Ha pisciato in casa. E se tu finisci là dentro, cicciona come sei, ti spolpano fino alle ossa. Maria si è messa in piedi. – È pazzo Melichetti? Il Teschio ha sputato di nuovo a terra. – Più pazzo dei suoi maiali. Siamo rimasti zitti a immaginarci la figlia di Melichetti con un padre così cattivo. Nessuno di noi sapeva come si chiamava, ma era famosa per avere una specie di armatura di ferro intorno a una gamba. – Possiamo andarli a vedere! – me ne sono uscito. – Una spedizione! – ha fatto Barbara. – È lontanissima la fattoria di Melichetti. Ci mettiamo un sacco, – ha brontolato Salvatore. – E invece è vicinissima, andiamo… – Il Teschio è montato sulla bicicletta. Non sprecava mai l’occasione per avere la meglio su Salvatore. Mi è venuta un’idea. – Perché non prendiamo una gallina dal pollaio di Remo, così quando arriviamo la gettiamo nel recinto dei maiali e vediamo come la spolpano? – Forte! – il Teschio ha approvato. – Ma papà mi uccide se gli prendiamo una gallina, – ha piagnucolato Remo. Non c’è stato niente da fare, l’idea era buonissima. Siamo entrati nel pollaio, abbiamo scelto la gallina più magra e spelacchiata e l’abbiamo messa in una sacca. E siamo partiti, tutti e sei e la gallina, per andare a vedere questi famosi maiali di Melichetti e abbiamo pedalato tra i campi di grano, e pedala pedala il sole è salito e ha arroventato tutto. DAVID GEMMELL LA SAGA DELLA REGINA GUERRIERA DELLE HIGHLAND LIBRO PRIMO Sigarni la regina guerriera PROLOGO Il coltello fendette l’aria brillando alla luce del sole e si andò a piantare nel cerchio disegnato col gesso al centro della tavola di legno. La donna sorrise. – Hai perso ancora, Ballistar – affermò. – Ti ho lasciata vincere – rispose il nano. – Io sono una leggenda, e non sono secondo a nessuno. – Benché sorridesse mentre rispondeva, i suoi occhi scuri erano tristi. La ragazza allungò la mano e la posò sulla guancia barbuta, l’uomo si appoggiò al palmo, poi girò la testa e la baciò. – Sei l’uomo migliore che ci sia al mondo – disse la ragazza con dolcezza, – e gli dèi, se esistono, non sono stati benevoli con te. Ballistar non rispose. Alzò lo sguardo godendosi la sua bellezza, il colore dorato della pelle, l’indimenticabile grigio blu degli occhi. Alta e snella, con le labbra carnose e il seno prosperoso, Sigarni aveva diciannove anni ed era la donna più bella che Ballistar avesse mai visto. L’unico suo difetto erano i capelli tagliati corti che brillavano come l’argento nell’aria: essi erano diventati grigi all’età di sei anni, dopo che aveva assistito all’assassinio dei genitori. Il fatto era successo durante quella notte di cui nessun abitante del villaggio voleva mai parlare: la Notte degli Assassini. Alzandosi in piedi, Ballistar raggiunse la staccionata e si arrampicò per prendere il coltello da lancio di Sigarni. La ragazza lo fissò mentre allungava le magre braccia e le dita ossute che non riuscivano neanche a chiudersi intorno all’elsa dell’arma. Dopo innumerevoli tentativi il nano riuscì ad afferrarlo, si girò e saltò a terra. Malgrado la testa grossa e la folta barba che gli copriva il volto, era alto come un bambino di quattro anni. Ballistar le restituì l’arma e lei la mise nel fodero che pendeva dal fianco, poi prese una brocca di acqua fresca, riempì due coppe di terracotta e ne passò una al nano. Ballistar la prese e fece un largo sorriso di ringraziamento, poi passò la piccola mano sulla superficie dell’acqua. La ragazza scosse la testa. – Non dovresti fare simili gesti, amico mio – l’ammonì in tono serio. – Se venissi visto dalla persona sbagliata finiresti frustato. – Mi hanno già frustato altre volte. Ti ho fatto vedere le cicatrici? – Molte volte. – Ormai non temo più la frusta – affermò ripetendo il gesto. – Al Re da tempo morto sull’acqua, – recitò portandosi la coppa alle labbra. Uno snello cane da caccia si avvicinò silenziosamente. Robusta di spalle, dai fianchi snelli, la cagna era specializzata nella caccia ai conigli e alle lepri, e la sua velocità era leggendaria. La forza, la resistenza e l’obbedienza erano le caratteristiche peculiari dei cani da caccia delle Highland, ma la loro principale qualità era la velocità, e in questo la cagna di Sigarni non aveva rivali. Ballistar posò la coppa e la chiamò. – Qua, Lady! – La cagna alzò la testa e lo raggiunse, spingendo il lungo naso dentro la barba e leccandogli il viso. – Le donne mi trovano irresistibile – disse mentre le accarezzava le orecchie. – Io so il perché – gli rispose Sigarni. – Sei delicato. Ballistar sfiorò i fianchi di Lady poi la fissò negli occhi. Uno era di colore marrone chiaro, l’altro grigio opale. – È guarita bene – affermò tastando la cicatrice sul muso della cagna. Sigarni annuì e Ballistar vide un lampo d’ira balenare negli occhi della ragazza. – Bernt è un pazzo. Non avrei mai dovuto permettergli di venire. Che stupido. – Quello stupido uomo ti ama – la beffeggiò Ballistar. – Come tutti d’altronde, principessa. – Idiota – sbottò, ma la rabbia scomparve dai suoi occhi. – Sai bene che non ho diritto a tale titolo. – Non è vero, Sigarni. Nelle tue vene scorre il sangue di Gandarin. – Pah! Metà della popolazione ha il suo sangue. Quell’uomo era un caprone sempre in calore. Gwalchmai me ne ha parlato e mi ha detto che con tutti i suoi figli bastardi, Gandarin avrebbe potuto formare un esercito. Probabilmente anche Bernt possiede qualche goccia del sangue di Gandarin. – Dovresti perdonarlo – l’ammonì Ballistar. – Non voleva che Lady si facesse del male. – In quel momento un falco rosso calò sopra la radura e atterrò su un arcuato posatoio poco distante dai due. Saltellò per qualche attimo da una zampa all’altra, poi drizzò la testa e fissò la donna. Il cane emise un sordo ringhio, poi si accucciò vicino a Ballistar. Sigarni si mise un lungo guanto di lucido cuoio nero e rimase immobile con il braccio disteso. Il falco spiccò il volo dalla palizzata e la raggiunse. – Ah, bella mia – disse Sigarni arruffando le penne color ruggine del volatile. Prese un pezzo di carne di coniglio da un sacchetto che portava al fianco e lo diede al falco. Con movimenti veloci ed esperti gli attaccò due morbidi anelli alle zampe, poi vincolò il falco al guanto infilando una striscia di cuoio nei fori del collare. Infine prese un piccolo cappuccio di cuoio morbido e lo mise delicatamente sopra gli occhi e il becco del rapace. Il falco rimase immobile, anzi girò il collo per permettere a Sigarni di annodare i lacci posteriori. La ragazza tornò a guardare il nano e sorrise. – So che Bernt ha agito il quel modo per stupidità. Sono più arrabbiata con me stessa che con lui. Gli avevo detto di liberare Lady solo se ci fosse stata una seconda lepre. Era un’istruzione così semplice, ma lui è riuscito a trasgredirla. Sai che non mi piace essere circondata da stupidi. Ballistar non aggiunse altro. Sapeva bene che Sigarni amava solo due creature al mondo: la cagna Lady e il falco Abby. Aveva insegnato loro a lavorare insieme come una squadra e l’addestramento aveva funzionato. Lady doveva trovare le lepri e spaventarle, mentre Abby, appollaiata su un albero, si sarebbe scagliata sulla prescelta, abbattendola con la rapidità di una freccia. I problemi insorgevano quando veniva individuata una singola preda. In due occasioni, il falco e il cane avevano gareggiato per accaparrarsela, ma Abby aveva vinto entrambe le dispute. La seconda volta, però, il rapace l’aveva beccata ferendola al fianco. A quel punto Sigarni era intervenuta trascinando via la cagna per il collare. Mentre tentava di migliorare l’addestramento di Lady, la ragazza aveva permesso a Bernt, il guardiano delle mucche, di accompagnarla durante una caccia. Il ragazzo avrebbe dovuto tenere Lady al guinzaglio, liberandola solamente quando avessero avvistato più di una lepre. Ma il giovane aveva commesso un errore. Eccitato dalla caccia, aveva lasciato libera la cagna appena avvistata una preda. Il falco l’aveva già ghermita, quando Lady si era interposta velocemente facendola a pezzi, allora il falco si era rivoltato e aveva beccato la cagna all’occhio destro. – Vai a caccia oggi? – domandò il nano. – No, Abby è sovrappeso. Ieri le ho permesso di mangiarsi la lepre che ha catturato. Oggi faremo una passeggiata fino all’High Druin. Le piace volare in quel posto. – Stai attenta al mago! – la mise in guardia Ballistar. – Non c’è motivo d’averne paura – affermò Sigarni. – Credo che sia un brav’uomo. – È uno straniero e ha la pelle bruciata dalla magia. Mi fa rabbrividire. Sigarni si mise a ridere. – Oh, Ballistar, sei pazzo! Nella sua terra tutti hanno la pelle scura. – È un mago! Di notte si trasforma in un grande uccello nero che vola sopra l’High Druin. Lo hanno visto in molti: un grande corvo nero grosso il doppio del normale. Il suo castello è infestato da creature spaventose e incantesimi, ci sono anche degli animali congelati. Conosci Marion, lei c’è stata! Ci ha raccontato di un grande orso nero immobilizzato da un incantesimo in mezzo ad un corridoio. Stai lontana da quell’uomo, Sigarni! La donna lo fissò negli occhi e vide che era veramente spaventato. – Starò attenta – lo rassicurò. – Contaci. Ma io non ho paura, Ballistar. Non è quello di Gandarin il sangue che mi scorre nelle vene? – Mentre parlava, Sigarni trattenne a stento il riso. – Non dovresti prendere in giro gli amici! – La rimproverò. – I maghi sono gente da evitare, qualsiasi persona assennata lo sa. Cosa sta facendo qui, nelle nostre terre alte e solitarie? Eh? Perché ha lasciato la sua gente nera per venire da noi? Cosa sta cercando? Sta forse scappando dalla giustizia? – La prossima volta che lo vedrò glielo domanderò – disse. – Andiamo, Lady. – La cagna si alzò pigramente e si mise accanto alla ragazza. Sigarni si inginocchiò e le diede una pacca sui fianchi. – Adesso hai imparato a rispettare Abby – sussurrò, – ma temo che lei non ti rispetterà mai allo stesso modo. – Perché? – domandò Ballistar. Sigarni alzò gli occhi. – È una delle caratteristiche dei falchi, amico mio. Non amano nessuno, non hanno bisogno di nessuno, non temono nessuno. – Vuoi dire che non ti ama, Sigarni? – No, ecco perché non devo mai chiamarla inutilmente. Ogni volta che Abby si posa sul mio pugno devo nutrirla. Il giorno che non lo farò potrebbe decidere di non tornare. I falchi non sanno cosa sia la lealtà. Rimangono perché decidono di farlo. Nessun uomo o donna può dire di possederne uno. Senza una parola di saluto la cacciatrice si incamminò con passo deciso nella foresta. Tovi chiuse lo sportello del forno, si tolse il grembiule e si pulì la faccia dalla farina con un asciugamano pulito. Il pane appena sfornato era appoggiato su una pila di sei vassoi di legno e il suo profumo gli riempiva le narici. Benché fossero passati molti anni quel profumo continuava a piacergli. Prese una pagnotta e la spezzò. Era sostanziosa e leggera, senza alcuna bolla d’aria all’interno. Alle sue spalle, Stalf, l’apprendista, emise un silenzioso sospiro di sollievo. Tovi si girò verso il ragazzo. – Non male – ammise. Ne tagliò due fette, le spalmò di burro e ne passò una al giovane. Tovi raggiunse la porta posteriore e uscì in strada. Sopra le case in legno e pietra del villaggio, il sole stava cominciando ad illuminare i picchi e una fresca brezza soffiava da nord. La panetteria, un vecchio edificio a tre piani che un tempo era stata la sede del concilio, era situata nel centro del paese. Nei giorni in cui era permesso avere un concilio, pensò acidamente Tovi. Gli edifici circostanti erano costruzioni vecchie e solide. Più in basso, lungo il pendio della collina, si trovavano le modeste abitazioni in legno delle famiglie meno abbienti. Tovi fece qualche passo e si fermò a fissare il fiume. Gli abitanti del villaggio iniziavano a scendere in strada e alcune donne si erano inginocchiate lungo la sponda del fiume per lavare i vestiti e le coperte sbattendoli contro le pietre bianche della riva. Tovi vide la vedova Maffrey, avvolta nel suo abito nero, dirigersi verso il pozzo comunale. Il panettiere la salutò con un cenno della mano e un sorriso, e la donna rispose con un movimento del capo. Grame, il fabbro, stava accendendo la forgia e appena vide Tovi gli andò incontro con la barba bianca macchiata dalla fuliggine. – Buon giorno, panettiere. – Altrettanto a te. Sembra essere una bella giornata. Non si vede neanche una nuvola. Ho visto che hai i grigi del Barone nelle stalle. Belle bestie. – Migliori dell’uomo che le possiede. Una ha uno zoccolo scheggiato ed entrambe hanno delle ferite infette. Non è il modo di trattare dei buoni cavalli. Prenderei una pagnotta se non ti dispiace. Una di quelle con la crosta nera come il peccato e il centro immacolato come l’anima di una suora. Tovi scosse la testa. – Prenderai quella che ti darò io, uomo, e devi esserne felice, poiché il mio pane è il migliore del regno. Stalf! Porta una pagnotta per il fabbro. Il ragazzo la portò avvolta in una mussolina. Grame prese due piccole monete di rame dalla tasca del grembiule di cuoio e le fece cadere nel palmo teso dell’apprendista che s’inchinò e s’allontanò. – Sarà una bella estate – disse Grame, strappando un pezzo di pane e portandoselo alla bocca. – Speriamo che sia così – commentò Tovi. Avanzando faticosamente per la ripida collina, Ballistar, il nano, raggiunse i due uomini e fece un elaborato inchino. – Buon giorno a voi – li salutò. – Sono in ritardo per avere del pane? – No, se hai delle monete, piccolo uomo – rispose Tovi, socchiudendo gli occhi. Il nano lo faceva sentire a disagio. – Nessuna moneta – dichiarò affabile Ballistar, – ma ho tre lepri. – Catturate da Sigarni, senza dubbio! – sbottò il panettiere. – Non so perché lei sia sempre così generosa con te. – Forse perché le piaccio – rispose Ballistar, senza alcuna traccia di irritazione. Tovi prese un’altra pagnotta e la diede al nano. – Stasera portami la lepre migliore. – Perché ti fa tanto arrabbiare? – domandò Grame, mentre il nano si allontanava. Tovi alzò le spalle. – È maledetto. Avrebbero dovuto abbandonarlo alla nascita. Quale utilità può avere per la gente? Non può cacciare, non può lavorare. Se non fosse per Sigarni forse se ne andrebbe dal villaggio. Potrebbe unirsi ad un circo! Là potrebbe guadagnarsi da vivere in modo onesto. – Stai diventando un vecchio acido, Tovi. – E tu stai ingrassando! – È vero, ma ricordo ancora quando vestivamo di rosso, il colore che a quei tempi era il nostro simbolo, e ti assicuro che si tratta di un ricordo che tu ed io ci porteremo fino alla tomba. Il panettiere annuì e l’espressione del viso si rilassò. – Bei tempi, Grame, ma non torneranno mai più. – Credo che gli abbiamo offerto una bella battaglia, vero? Tovi scosse la testa. – Gli abbiamo mostrato come muoiono degli uomini coraggiosi, non è la stessa cosa, amico mio. Eravamo pochi e male addestrati, i loro cavalieri si erano aperti un varco nei nostri ranghi tagliando e uccidendo. Le lame delle nostre spade battevano contro le loro armature senza danneggiarle minimamente. Dèi, uomo, quel giorno è stato un massacro! Non avrei mai voluto vederlo. – Eravamo mal guidati – sussurrò Grame. – Gandarin non ha trasmesso la sua forza ai figli. Il fabbro sospirò. – Ah, bene, per oggi abbiamo già detto troppe cose tristi. Questo è un nuovo giorno, fresco e incontaminato. – così dicendo si girò e tornò verso la forgia. Quando Tovi rientrò nella panetteria, Stalf non disse nulla. Aveva sentito qualche frammento della conversazione e vedeva che il suo maestro era immerso nei propri pensieri. Era difficile credere che Tovi il Grasso avesse indossato il rosso, e avesse partecipato alla battaglia di Colden Moor. L’autunno precedente, Stalf aveva visitato il luogo dello scontro; una grande pianura punteggiata da quarantadue tumuli. Ognuno di essi rappresentava la morte di un intero clan di combattenti. Quel giorno il vento soffiava su Colden Moor, la sua potenza e il suo lamento ossessionante avevano spaventato Stalf. Era stato suo zio Mart Senza un Braccio ad accompagnarlo là, e una volta arrivati gli aveva appoggiato la mano scarna sulla spalla e gli aveva detto: – Questo è il luogo dove finiscono i sogni, ragazzo. Questo è il cimitero della speranza. – In quanti sono morti, zio? – Decine di migliaia. – Ma non il Re. – No, non il Re, egli volò in una terra splendente oltre le acque. Ma loro riuscirono a trovarlo lo stesso e lo uccisero. Ora non ci sono più Re della Montagna. Zio Mart l’aveva portato davanti ad un alto tumulo che s’ergeva sulla brughiera. – Qui sono sepolti gli uomini di Loda, spalla contro spalla, fratelli in guerra, fratelli nella morte. – Aveva alzato il moncherino del braccio sinistro e aveva fatto un sorriso cupo. – Anche una parte di me è sepolta qui, ragazzo. Molto più che il mio braccio. Il mio cuore giace qui, insieme ai miei fratelli e amici. Stalf ritornò alla realtà. Tovi stava guardando fuori dalla finestra, e i suoi occhi vagavano lontano come quelli di Mart Senza un Braccio quel giorno a Colden Moor. – Posso prendere un po’ di pane per me, signore? – chiese Stalf. Tovi annuì. Il ragazzo scelse due pagnotte e le impacchettò. Aveva appena raggiunto la porta quando Tovi lo chiamò. – Cosa vorrai fare, ragazzo, quando sarai adulto? – Il panettiere, voglio diventare bravo quanto lei, signore. – Tovi non disse altro e il ragazzo s’affrettò ad uscire. Sigarni amava le montagne, con le lussureggianti vallate annidate tra i pendii e le fitte e oscure foreste che ne ricoprivano le pendici. Ma più di tutto amava l’High Druin, un picco solitario che torreggiava sopra le terre alte, con la cima coperta dalle nuvole e ammantata di neve. Una magnificenza elementale emanava dai suoi aguzzi e spavaldi picchi, un qualcosa di magico che cantava nel sussurro dei venti dopo una tempesta invernale. High Druin parlava dritto al cuore e diceva: – Io sono l’Eternità pietrificata. Sono sempre stato qui. Sarò sempre qui! La cacciatrice lasciò che Abby si librasse in volo e la osservò planare sopra i pendii bassi dell’High Druin. Il corpo snello e nero di Lady sbucò dall’erba. Allerta, la cagna esplorava con l’unico occhio sano il terreno in cerca di una lepre o di un topo. Sigarni sedette sulla sponda del Lago delle Lacrime osservando le anatre dal piumaggio vivace che si trovavano sull’isoletta che sorgeva nel suo centro. Abby prese a volare in cerchio sopra di loro, fissandole. Poi volteggiò verso il basso e si andò a posare su un albero. Le anatre, accortesi della presenza del rapace, entrarono precipitosamente in acqua. Sigarni le guardò con interesse. L’anatra arrosto avrebbe rappresentato una piacevole variante alla carne di coniglio che aveva mangiato nelle ultime due settimane. – Qua, Lady! – chiamò. Quando la cagna s’avvicinò, la ragazza indicò le anatre. – Vai! – ordinò Sigarni. Istantaneamente la bestia si tuffò in acqua dirigendosi verso il gruppo di volatili. Spostandosi a pelo d’acqua sbattendo le ali, le anatre misero velocemente una bella distanza tra di loro e il cane, ma una spiccò il volo e Abby si lanciò subito all’inseguimento. L’anatra stava guadagnando quota velocemente, quando Abby le si avventò addosso con gli artigli aperti. All’ultimo momento l’anatra vide l’uccello da preda e si tuffò in picchiata. Per un istante, Sigarni ebbe l’impressione che Abby fosse riuscita a catturarla, ma l’anatra colpì l’acqua e s’immerse in profondità confondendo il falco, che volando in cerchio tornò a posarsi sul ramo. La cacciatrice emise un fischio, segnalando a Lady di tornare a riva. Poi, udendo il rumore di un cavallo che s’avvicinava, Sigarni s’alzò e si girò. Il cavallo era un grosso sauro ed era montato da un uomo nero con il volto coperto da un lungo e fluente burnus bianco. Un mantello di lana blu pendeva dalle larghe spalle e una spada ricurva era appesa al fianco. Appena vide la ragazza delle montagne sorrise. – Quando un falco caccia le anatre, è meglio che le sorprenda dal basso – consigliò scendendo dalla sella. – Stiamo ancora imparando – replicò affabilmente Sigarni. – Ha ancora il piumaggio nuziale, ma come tu mi hai detto, Asmidir, ci vorrà del tempo. L’uomo si sedette sulla riva. Lady gli si avvicinò barcollando e il nuovo arrivato le grattò la testa. – L’occhio sta guarendo bene, ha ancora difficoltà a cacciare? – Sigarni scosse il capo. – E l’uccello? Quanto pesa? – Due libbre e due once, ma è riuscita a catturare una lepre anche quando pesava due once in più. – Quanto mangia ogni giorno? – Non più di tre once di cibo. L’uomo annuì. – Di tanto in tanto dovresti darle un topo. Non c’è niente di meglio di un topo per pulire il piumaggio di un uccello. – Perché, Asmidir? – chiese Sigarni sedendosi al suo fianco. – Non lo so – ammise lui con un largo sorriso. – Me lo ha detto mio padre molti anni fa. Come sai, il falco quando può, ingoia tutta la preda comprimendone la carcassa in modo da far fuoriuscire le parti più appetitose, poi vomita le rimanenze. Io credo che nella pelle o nel pelo del ratto ci sia un qualcosa che pulisca le piume degli uccelli. – Appoggiandosi sui gomiti, strinse gli occhi e osservò il falco lontano. – Quante prede fino a oggi? – Sessantotto lepri, venti piccioni e un furetto. – Dai la caccia ai furetti? – domandò perplesso Asmidir alzando un sopracciglio. – È stato un errore. Il furetto aveva ingoiato una lepre e Abby lo ha ucciso. Asmidir sorrise. – Hai fatto un buon lavoro, Sigarni, sono contento di averti donato il falco. – Per tre volte ho creduto di averlo perso. Sempre nella foresta. – Tu puoi perderlo di vista, bambina mia, ma lui no, mai. Torniamo al castello, ti preparerò qualcosa da mangiare. Vale anche per te – aggiunse accarezzando le orecchie della cagna. – Mi hanno detto che devo stare attenta a te perché sei un mago. – Dovresti sempre dare retta agli avvertimenti dei nani – disse, – o di ogni altra leggenda. – Come fai a conoscere Ballistar? – Perché sono un mago, mia cara. Tutti si aspettano che io conosca queste cose. – Ti fermi sempre a guardare il mio orso – osservò Asmidir, fissando la ragazza mentre accarezzava il petto della bestia. Era una creatura gigantesca, con le braccia protese, gli artigli snudati e la bocca aperta in un silenzioso ruggito. – È fantastico – disse lei. – Credi che sia opera di un incantesimo? – domandò. – No. – Bene – disse lentamente grattandosi il mento, – se non è un incantesimo allora deve essere un orso imbalsamato. Nella mia terra ci sono degli esperti che lavorano le carcasse. Ne asportano le interiora che marcirebbero, poi ricostruiscono la bestia con la creta ed infine la ricoprono con la sua pelliccia. I risultati sono notevoli. – E questo è quindi un orso imbalsamato? – Non ho detto questo – le ricordò l’uomo. – Vieni, andiamo a mangiare. Asmidir la condusse nel salone principale. Un ceppo bruciava piacevolmente nel camino e due servi stavano portando piatti di carne sul tavolo. Erano due uomini alti e dalla pelle scura che lavoravano in silenzio, senza mai guardare il loro padrone in viso. Finita di preparare la tavola si ritirarono. – I tuoi servitori non sono molto amichevoli – commentò Sigarni. – Sono efficienti – dichiarò Asmidir, sedendosi a tavola e versandosi una coppa di vino. – Hanno paura di te? – È una cosa buona per un servo temere un po’ il padrone. – Ti vogliono bene? – Non sono un uomo facile da amare. I miei servitori sono contenti. Non sono schiavi, sono liberi di andarsene quando ne hanno voglia. – Offrì a Sigarni del vino, lei lo rifiutò e Asmidir le riempì una coppa d’acqua. Mangiarono in silenzio, poi Asmidir si accostò al fuoco e fece segno a Sigarni di avvicinarsi. – Tu non hai paura? – domandò l’uomo, appena la ragazza si sedette vicino a lui. – Di cosa? – Della vita. Della morte. Di me. – Perché dovrei avere paura di te? – Perché non dovresti? Quando l’anno scorso ci siamo conosciuti ero solo uno Straniero nero e spaventoso – asserì, spalancando gli occhi e mimando un ringhio. La ragazza rise. – Non sei mai stato spaventoso – affermò. – Pericoloso, sì. Ma mai spaventoso. – C’è una differenza? – Certo che c’è – dichiarò inclinando la testa da un lato. – A me piacciono gli uomini pericolosi. Asmidir scosse la testa. – Sei incorreggibile, Sigarni. Il corpo di un angelo con il cervello di una puttana. Di solito questa è considerata una stupenda combinazione se stai pensando di intraprendere la vita della cortigiana, della prostituta o della mantenuta. È questa la tua ambizione? Sigarni sbadigliò teatralmente. – Credo che sia ora di andare a casa – dichiarò alzandosi adagio. – Ah, ti ho offesa. – No, per niente – rispose Sigarni, – ma da te mi aspettavo qualcosa di più, Asmidir. – Dovresti aspettarti qualcosa di meglio per te stessa, Sigarni. Stanno per arrivare dei giorni funesti. Sta per giungere un capo, un capo dal sangue nobile. Probabilmente sarai chiamata al suo cospetto per aiutarlo. Anche tu hai il sangue di Gandarin. Gli uomini seguiranno un angelo o un santo, seguiranno un despota o un contadino, ma l’unico posto in cui seguiranno una puttana è nella camera da letto. La faccia di Sigarni divenne rossa dall’ira. – Sentirò i sermoni da un prete, ma non da un uomo che si è divertito con me in primavera e in estate e ora cerca di sminuirmi. Non sono una pastorella o una cameriera. Sono Sigarni delle Montagne. Quello che faccio è solo una mia scelta. Lo ammetto, ti ho usato per soddisfare i miei piaceri. Sei un bravo amante, sei forte e gentile, e anche tu mi hai usata. Questo è uno scambio alla pari in cui nessuno dei due è rimasto truffato. Come osi offendermi? – Perché lo vedi come una vergogna? – replicò. – Io sto parlando di percezioni, le percezioni degli uomini. Tu pensi che io ti giudichi? No, non lo faccio. Io ti adoro per il tuo corpo e per la tua mente. Inoltre, probabilmente, per quanto ne sia capace, sono innamorato di te. Ma questo non è il motivo per cui ti ho parlato così. – Non mi importa – rispose la ragazza. – Addio. Sigarni uscì dalla stanza con passo deciso e superò il grande orso, giunta davanti all’uscita del palazzo un servitore le aprì la porta a due battenti, lei scese la scalinata e raggiunse il cortile. Lady le s’avvicinò con andatura trotterellante. Un altro servo, un uomo magro dagli occhi scuri, che teneva Abby appoggiata sul polso, l’attendeva alla fine della scalinata. Sigarni si mise il guanto di cuoio. – Mi stavi aspettando? – chiese al giovane. Il ragazzo annuì. – Perché? Di solito rimango per molte ore. – Il maestro mi ha detto che oggi sarebbe stata una breve visita. Sigarni allentò i lacci e tolse il cappuccio ad Abby. Il falco si guardò intorno poi saltò sul pugno della ragazza. Quando la cacciatrice allungò il braccio e gridò – Hai! – il falco spiccò il volo verso sud. Sigarni schioccò le dita e Lady si avvicinò aspettando istruzioni. – Come ti chiami? – chiese al servitore, notando la morbidezza della pelle e il contorno dei muscoli sotto la maglietta di seta blu. Il ragazzo scosse la testa e s’allontanò. Annoiata, la cacciatrice uscì dal vecchio castello, attraversò il ponte traballante e si diresse verso la foresta. Era arrabbiata e delusa. Il cervello di una puttana. I suoi pensieri tornarono a Fell il guardaboschi. Quello era un uomo che capiva cosa fosse il piacere. Sigarni dubitava che ci fosse stata una sola donna, nel raggio di un giorno di cammino, che non avesse ceduto alle sue lusinghe. Lo chiamano puttana? No, lui è il buon vecchio Fell, che carattere, che uomo! Idiota! Le parole di Asmidir bruciavano. Aveva pensato che lui fosse differente, più... intelligente? Sì. Tuttavia, infine, si era dimostrato uguale agli altri uomini: tutti intrappolati tra il bisogno di fornicare e l’amore per le prediche. Abby planava sopra di lei, e Lady corse lungo il bordo del sentiero cercando le lepri. Sigarni distolse il pensiero del negro e continuò a camminare immersa nella luce del tramonto, raggiungendo infine l’ultima collina che conduceva alla sua capanna. Vide che una luce brillava ad una finestra e la visione la disturbò: quella sera avrebbe voluto restare sola. Se era quello stupido di Bernt, avrebbe assaporato il lato più tagliente della sua lingua. Arrivata nel cortile, fischiò per chiamare Abby. Il falco s’abbassò, allargò le ali e si posò sul guanto. Sigarni gli diede un pezzo di carne e gli tolse i geti da caccia; poi lo portò verso il posatoio ricurvo, lo legò e si avviò verso la capanna. Lady raggiunse la costruzione e si sdraiò con la testa appoggiata sulle zampe mentre Sigarni apriva la porta. Fell era seduto vicino al fuoco con gli occhi chiusi e le gambe allungate davanti alla fiamma. Il fatto che la presenza di quell’uomo l’eccitasse in qualche modo, la fece arrabbiare. Non sembrava cambiato dall’ultima volta: i lunghi capelli neri che crescevano lisci e fluenti, trattenuti da un laccio di cuoio, la barba tagliata corta e soffice come una pelliccia. Sigarni fece un profondo respiro, cercando di calmarsi. – Che cosa vuoi, cervello di capra? In quel momento vide il sangue. Era circondato dai lupi, con le fauci aperte, pronte a graffiare e squarciare. Una grande bestia gli saltò addosso, Fell la prese alla gola, poi si girò facendo perno sui tacchi e scagliò a terra la creatura. Sentiva i fianchi pesanti, come se stesse attraversando l’acqua. I lupi scomparvero, evaporando. Diventarono un alto guerriero dagli occhi di fuoco che reggeva due affilati coltelli di bronzo. L’uomo si mosse verso di lui, con leggerezza, lentamente. Le braccia di Fell erano paralizzate e sentì il primo coltello affondare nella spalla come una lingua di fuoco... Aprì gli occhi, vide Sigarni inginocchiata al suo fianco, e sentì il dolore nei lembi di carne che venivano riavvicinati dal filo. Fell imprecò a bassa voce. – Stai fermo – gli ordinò la ragazza e il guardaboschi obbedì. Sentiva lo stomaco a soqquadro. Sigarni spezzò il filo con i denti e si sedette. – Sembra una ferita da spada. – Coltello lungo – rispose, con un lungo e tremante respiro. Rimase a lungo in silenzio con la testa posata sul cuscino imbottito della poltrona. Concentrò lo sguardo sul muro dall’altra parte della stanza, e osservò le armi che erano appese: la spada dalla lama a forma di foglia e l’elsa in cuoio, l’arco di corno, la faretra di frecce nere, le daghe e i pugnali e infine l’elmo, con la corona e i para-guance di metallo nero e il para-naso e fronte di ottone lucido. Su tutta quell’attrezzatura non era presente il minimo segno di ruggine. – Tieni le armi di tuo padre in ottime condizioni – commentò. – Questo è quanto mi ha insegnato Gwal – rispose. – Chi ti ha ferito? – Non abbiamo avuto il tempo di presentarci. Erano in due, avevano assalito un pellegrino sulla Pista Bassa, ed io li ho inseguiti fino a Mas Gryff dove li ho affrontati e ripreso il bottino. – Dove sono adesso? – Oh, sono ancora là. Ho restituito i soldi al pellegrino e ho avvertito la Sorveglianza. – Il volto si scurì. – Bastardi! – Scosse la testa. – Non durerà molto, sai. Cercheranno ogni tipo di scusa per discolparsi, potrebbero anche dire che sono stato io ad assalirli. – Hai perso molto sangue – disse la ragazza. – Stai buono mentre ti preparo un po’ di zuppa. Mentre si allontanava gli occhi di Fell indugiarono sul movimento dei suoi fianchi. – Sei una donna bellissima, Sigarni. Mai visto una come te! – Continua a guardare e rimpiangi quello che hai perso – ingiunse lei prima di sparire nella stanza sul retro. – Amen – sussurrò Fell. Appoggiando di nuovo la testa si ricordò di quando due anni prima si erano separati. Sigarni era lì, in piedi, alta e orgogliosa... sempre così orgogliosa. Fell aveva attraversato le gole fino a Cilfallen per pagare la somma di denaro stabilita per sposare Gwendolyn. La dolce Gwen. Poteva competere con la ragazza dai capelli d’argento solo perché poteva avere dei bambini, e un uomo aveva bisogno di figli. Dieci mesi dopo Gwen era morta, vittima di un parto podalico che aveva ucciso lei e il bambino. Fell li aveva seppelliti entrambi nel cimitero di Loda sul versante occidentale dell’High Druin. Sigarni tornò a sedersi vicino a lui. – Piega il braccio – gli ordinò. Lui ci provò ma ebbe un sussulto di dolore. – Fa un male dannato. – Bene, mi piace pensare che soffri. – Ho sepolto mio figlio, donna. So che cosa sia il dolore e non lo auguro a nessuno dei miei amici. – Neanch’io – concordò la ragazza. – Ma tu non sei mio amico. – Il tuo modo di fare non è onesto – l’ammonì. – Hai avuto dei problemi con il tuo uomo nero, vero? – Mi hai spiato Fell? – Il fatto che Sigarni non negasse, lo irritava. – È il mio lavoro, Sigarni. Io sorveglio la foresta e ti ho vista entrare nel suo castello. Come puoi spassartela con uno così? La cacciatrice rise, facendo aumentare la rabbia del ferito. – Asmidir è un uomo decisamente migliore di te, Fell, in ogni cosa. Avrebbe voluto colpirla, farle sparire quel sorriso dalla faccia. Ma la nausea lo travolse, s’alzò dalla sedia con un lamento e raggiunse barcollando la porta. Aveva appena fatto qualche passo sotto il chiarore della luna quando cadde a terra e cominciò a vomitare. Il volto s’imperlò di sudore e quando cercò d’alzarsi si sentì debole come un vitello di un giorno. Sigarni lo raggiunse, gli prese un braccio e lo fece passare sopra una sua spalla. – Ti porto a letto – affermò con dolcezza. Fell si appoggiò alla ragazza e il suo odore gli pervase le narici. – Ti ho amata – dichiarò, mentre lei lo aiutava a salire i gradini prima della porta. – Però mi hai lasciata – rispose. Quando si svegliò era giorno pieno e il sole brillava attraverso la finestra. Il cielo era blu e Fell vide per un attimo la forma del falco in volo. Si sedette con un lamento, sentiva la spalla bruciare e le costole erano ammaccate a causa del combattimento contro i due ladri Stranieri. Alzandosi dal letto si diresse alla finestra. Sigarni era in piedi sotto la luce del sole, il falco era posato sul guanto e il cane da caccia nero era accucciato ai suoi piedi. Fell sentiva la bocca arida e le emozioni che aveva represso per lungo tempo tornarono a galla. Di tutte le donne che aveva conosciuto, ed erano state molte, ne aveva amata solo una. E in quel momento seppe, con dolorosa certezza, che sarebbe sempre stato così. Oh, si sarebbe risposato, avrebbe avuto dei figli, ma il suo cuore sarebbe rimasto con quell’enigmatica donna della montagna, finché le daghe del tempo non l’avessero fermato. Benché si sentisse ancora debole a causa dell’eccessiva perdita di sangue, Fell sapeva che non poteva rimanere ancora a lungo nella casa di Sigarni. Raccolse il mantello di cuoio nero e si mise gli stivali, prese il lungo arco e la faretra, raggiunse la porta sul retro, uscì e imboccò la strada per Cilfallen. Lì c’era una ragazza in età da matrimonio e il padre aveva stabilito un prezzo che Fell si poteva permettere. – Odio questo posto – dichiarò il barone Ranulph Gottason, mentre si appoggiava sul largo parapetto e osservava le distanti montagne. Asmidir non disse nulla. Faceva freddo sugli alti muri della Cittadella e il vento che sibilava dal nord riusciva a passare anche attraverso i vestiti più spessi. Ma il barone sembrava non notare il clima inclemente. Era vestito con una semplice maglia di seta nera e un giustacuore senza maniche di bellissimo cuoio nero. Non portava nessun ornamento, nessuna decorazione argentata sulle ghette di cuoio nero, nessuna catena o disco attaccato agli stivali alti fino al ginocchio. Mentre Asmidir rabbrividì, il barone si girò fissandolo con gli occhi grigio pallido. – Non è come Kushir, vero? Troppo freddo, troppo desolato. Hai mai desiderato di tornare a casa? – Qualche volta – ammise Asmidir. – Anch’io. Cosa può fare qui un uomo come me? Dov’è la gloria? – Il regno è in pace, mio signore – fece notare Asmidir. – Principalmente, grazie a te a al conte di Jastey. Le labbra del barone s’assottigliarono, e gli occhi grigi si strinsero. – Non pronunciare mai quel nome in mia presenza! Non ho mai incontrato una persona così baciata dalla fortuna. Tutte le sue vittorie non valgono nulla. Dimmi se ha mai fatto qualcosa di tanto grande da poter essere confrontato con la conquista di Ligia? Venticinquemila guerrieri contro due delle mie legioni. Tuttavia li abbiamo sconfitti, e abbiamo preso la loro capitale. Che cosa può contrapporre lui? L’assedio di Catium? Pah! – Infatti, signore – concesse Asmidir con calma, – le tue gesta verranno ricordate su tutti i libri di storia. Ma ora sono sicuro che hai cose ben più importanti a cui badare, in che cosa posso esserti utile? Il barone si girò e fece segno ad Asmidir di seguirlo dentro il piccolo studio. L’uomo di colore fissò il camino vuoto con bramosia. Quest’uomo sente il freddo? si domandò. Il barone si sedette dietro alla scrivania di quercia. – Voglio il falco rosso – esordì. – Ci sarà un torneo tra due mesi e il falco rosso potrebbe vincerlo. Dimmi il prezzo. – Vorrei poterlo fare, signore, ma ho venduto il falco lo scorso autunno. Il Barone imprecò. – A chi? Lo ricomprerò. – Non saprei dove ritrovare quell’uomo – mentì Asmidir. – È venuto al mio castello un anno fa. Credo che fosse un viaggiatore, forse un pellegrino. Ma nel caso lo rivedessi lo manderò immediatamente da te. Il Barone imprecò nuovamente, poi colpì la scrivania con un pugno. – Va bene, questo era tutto. Asmidir s’inchinò e lasciò lo studio. Discese la scala a spirale e raggiunse il cuore della fortezza, spuntando nella lunga sala dove continuava il banchetto. Servi in livrea rossa portavano vassoi pieni di cibo e libagioni ai tre tavoli intorno ai quali stavano seduti due decine di cavalieri con le rispettive compagne. Dei fuochi bruciavano ai due estremi della sala e il canto dei menestrelli, posti in galleria, era soffocato dal chiasso degli invitati. Asmidir non era tanto affamato; attraversò velocemente la sala e imboccò la lunga scalinata che portava alle stanze inferiori e al portone. I suoi pensieri divennero scuri quando si sovvenne delle parole del Barone. Asmidir si ricordava la conquista di Ligia, le battaglie e i massacri, gli stupri e le mutilazioni, le torture e la distruzione. Una ricca e indipendente nazione messa in ginocchio, umiliata e ridotta in povertà, le biblioteche bruciate, e i luoghi sacri violati. Oh sì, Ranulph, la storia si ricorderà a lungo del tuo maledetto nome! Asmidir rabbrividì. La vendetta, come ricordava il proverbio, era un piatto da servire freddo. Sarà vero? si chiese. Ci sarà qualche tipo di soddisfazione nel rovinare un uomo? Avvolgendosi ancor più strettamente nel mantello, Asmidir lasciò la fortezza e attraversò il cortile. Un giovane alto e snello, con i lunghi capelli biondi legati a coda di cavallo lo salutò e lui si girò sorridendo al nuovo venuto. Il ragazzo stava portando delle mappe arrotolate.– Buon pomeriggio, Leofric, ti stai perdendo la festa. – Sì, lo so – rispose in modo addolorato. – Ma il Barone vuole che studi queste mappe. Non è saggio farlo aspettare. – Sembrano vecchie. – Lo sono. Vennero commissionate circa duecento anni fa dal re delle Highland, Gandarin Primo. La maggior parte sono ben fatte, molto ben disegnate. I cartografi avevano anche un metodo per valutare l’altezza delle montagne. sapevi che l’High Druin è alto circa novemilasettecentottantadue piedi? Pensi che possa essere vero, o che qualcuno si sia inventato la cifra? Asmidir alzò le spalle. – Sembra troppo precisa per essere inventata. Comunque, sono felice che ti piaccia il tuo lavoro. – Mi piace il dettaglio – dichiarò Leofric, sorridendo. – Non sono in molti a farlo. Mi fa piacere sapere quante lance abbiamo, e le condizioni dei nostri cavalli. Mi piace lavorare su questi progetti. Sapevi che in tutte le Cinque Città ci sono quattrocentododici carri? – Il giovane rise. – Sì, lo so, per la maggior parte della gente è noioso. Ma prova ad intraprendere una campagna senza carri e la guerra finirà prima ancora di cominciare. Asmidir chiacchierò con il giovane per alcuni minuti, poi lo salutò e si diresse velocemente verso la stalla. Appena lo vide, lo stalliere s’inchinò e gli sellò il sauro castrato. Asmidir diede all’uomo una piccola moneta d’argento. – Grazie, signore – disse questi, mettendosela velocemente in tasca. Asmidir uscì dalla stalla, attraversò il cancello e s’incamminò lungo la strada principale. Arrivato sulla piazza del mercato sentì gli occhi della gente fissi su di lui, e udì alcuni bambini insultarlo. Un gruppo di soldati lo superò, si trattava di mercenari e sembravano stanchi, come se avessero marciato per molte miglia. Leofric pianificava la strategia di guerra, ogni giorno arrivavano nuovi mercenari... La bestia non è distante, pensò Asmidir. Superata la porta settentrionale, Asmidir lanciò il cavallo al galoppo. Mantenne quell’andatura per alcune miglia poi rallentò. Il sauro era fortissimo, un cavallo molto resistente, e quando tirò le redini per fermarlo non ansimava nemmeno. L’uomo di colore batté alcune pacche affettuose sul collo del castrato. – I sogni dell’uomo nascono nel sangue – recitò a bassa voce. Fell si era seduto sul ciglio della strada per riprendere fiato, quando vide arrivare un piccolo carro a due ruote trainato da due grossi cani lupi grigi. Colui che guidava il carro era un uomo dai capelli brizzolati che teneva in mano un lungo bastone. Vedendo il forestiero, il vecchio batté piano sul fianco dei cani. – Fermati, Shamol, fermati, Cabris. Buon giorno a te, uomo dei boschi! Fell sorrise. – Santo cielo, Gwalch, sei ridicolo seduto su quell’aggeggio. – Lo so, ragazzo, ma alla mia età non mi curo molto di come posso apparire – disse il vecchio. – Il fatto è che con questo posso viaggiare quanto voglio senza dover mettere a soqquadro le mie vecchie ossa. – Si sporse in avanti, e fissò con attenzione il guardaboschi. – Ragazzo, mi sembri più grigio del cielo invernale. Ti senti male? – Mi hanno ferito e ho perso del sangue. Starò bene. Ho solo bisogno di riposarmi, ecco tutto. – Sei diretto a Cilfallen? – Sì. – Allora monta su, giovanotto. I miei cani possono tranquillamente portare due persone. È un buon esercizio per loro. Ci fermeremo alla mia capanna per farci un bicchierino. Ecco ciò di cui hai bisogno, credimi, un po’ di acqua della vita, e prometto che non ti predirò la fortuna. – Tu mi predici sempre la fortuna, ma lei non ascolta mai bene. Tuttavia per questa volta accetterò la tua offerta. Salirò su questo stupido carro, e pregherò gli dèi perché nessuna delle persone che conosco mi veda. Sarebbe la fine. Il vecchio sorrise e si spostò verso destra facendo spazio al guardaboschi. Fell appoggiò l’arco e la faretra sul retro del carro e si mise a sedere. – A casa adesso, cani! – incitò Gwalch. I cani si mossero e il piccolo carro avanzò. Fell rise ad alta voce. – Pensavo che oggi niente mi avrebbe fatto divertire. – Non saresti dovuto andare da lei, ragazzo – lo rimproverò Gwalch. – Niente fortuna, hai detto! – sbottò il guardaboschi. – Bah! Questo non è predire la fortuna; questo è un commento a quanto è accaduto. E tu puoi anche dimenticarti dell’uomo nero. Non l’avrà. Lei appartiene alla terra, Fell. In qualche modo lei è la terra. Sigarni la Regina Falco, la speranza delle Highland. – Il vecchio scosse la testa, poi rise, come se si trattasse di uno scherzo. Le ruote superarono delle radici che affioravano in mezzo alla strada, e il veicolo tremò e sobbalzò quasi rovesciandosi. Fell s’aggrappò alla sponda. – Santo cielo, Gwalch, non è una passeggiata molto comoda – si lamentò. – Pensi che questo sia scomodo? – replicò il vecchio. – Aspetta di raggiungere la cima della collina. I cani si mettono sempre a correre fino alla casa. Per le palle di Shemak, ti farà diventare i capelli bianchi! I cani raggiunsero la cima della collina e si fermarono un poco a riprendere fiato. Poi si rimisero in marcia. Superata l’ultima curva della pista, videro la capanna di Gwalch, si misero ad abbaiare e iniziarono a correre. Man mano che scendevano il pendio, i cani acquistavano sempre più velocità e il carro barcollava e saltellava. Fell sentiva il cuore battergli forte e vide le nocche delle dita sbiancarsi mentre si reggeva alla sponda del carro. Davanti a loro, in piena rotta di collisione, torreggiava una quercia. – L’albero! – urlò Fell. – Lo so! – rispose Gwalch. – Meglio saltare! – Saltare? – ripeté Fell, girandosi per vedere se il vecchio avesse messo in pratica la sua affermazione. All’ultimo momento i cani sterzarono in direzione della capanna, il carro si ribaltò, e Fell, scagliato fuori a testa in avanti, mancò la quercia di pochi passi. Il guardaboschi atterrò duramente, e rimase senza fiato. Si sforzò di inginocchiarsi nel momento stesso in cui Gwalch lo raggiunse camminando lentamente. – Molto divertente, vero? – affermò il vecchio, aiutandolo a rialzarsi. Fell fissò i brillanti occhi marroni di Gwalch. – Tu sei pazzo, Gwalch! Lo sei sempre stato. – La vita è fatta per essere vissuta, ragazzo. Senza il pericolo non c’è vita. Vieni, beviamoci un bicchierino. Io e te parleremo di vita e amore, di sogni e gloria. Ti racconterò storie che ti infiammeranno il sangue. Fell ritrovò l’arco e la faretra, raccolse le frecce e seguì il vecchio. L’interno della capanna era composto da un’unica stanza, con il letto nell’angolo, un camino in pietra addossato contro il muro a nord, e nel centro un grezzo tavolo di legno con due sedie. Il pavimento in terriccio era coperto da tre tappeti, mentre, appese al muro, c’erano diverse armi: due archi lunghi con le estremità in corno, alcune spade una delle quali era scozzese a doppio taglio. A fianco del fuoco, appesa ad un gancio, c’era una cotta di maglia di ferro, gli anelli erano ben lucidati e senza neppure una macchia di ruggine. Su uno scaffale c’era un elmo di ferro nero adornato di ottone e rame. Una scintillante ascia bipenne da battaglia stava appesa sul camino. – Pronto per la guerra, eh, vecchio? – chiese Fell mentre si sedeva a tavola. Gwalch sorrise e riempì una coppa d’argilla con un liquido ambrato. – Sempre pronto, anche se non ne sono più all’altezza – ammise il vecchio con tristezza. – E questa è una vergogna, visto che una guerra è vicina. – Non c’è nessuna guerra! – esclamò Fell irritato. – Non c’è alcun motivo perché ne scoppi una. Le Highland sono in pace. Paghiamo le tasse. E le strade sono sicure. Gwalch si riempì di nuovo la tazza e la tracannò in un sol fiato. – Quegli Stranieri bastardi non hanno bisogno di nessuna scusa, Fell. Posso sentire l’odore nel sangue nell’aria. Ma questo accadrà un altro giorno; più avanti. Non voglio disturbare la tua bevuta. Adesso dimmi, com’è? – Non voglio parlare di lei. – E invece lo farai. È nei tuoi pensieri. Le donne sono così, che siano benedette! Un tempo conoscevo una ragazza che si chiamava Maev. Mai una donna così perfetta ha camminato sulle verdi colline. E i fianchi! Il loro dondolio! Era arrivata al villaggio insieme ad un allevatore di bestiame di Gilcross. Undici bambini e tutti sopravvissuti fino all’età adulta. Quella sì che era una donna! – Avresti dovuto sposarla – disse Fell. – Lo feci – rispose Gwalch. – Siamo rimasti insieme per due anni. Grandi anni. Mi consumò. Poi venni ferito alla testa durante la battaglia del Ponte di Ferro e da quel giorno il Talento comparve. Non potevo più guardare un uomo o una donna senza capire che cosa pensavano. Oh, Fell, non hai idea di quanto sia noioso. – Gwalch si sedette e riempì la coppa per la terza volta. – Sdraiarsi sopra una bellissima donna, sentire il calore e la morbidezza della sua pelle, essere bruciati dalla passione e scoprire che sta pensando ad una mucca malata con una mammella gonfia! – il vecchio rise. Fell scosse la testa e sorrise. – È vero? – Vero, come lo sono io. Un giorno le dissi: “Mi ami donna?” lei mi guardò negli occhi e rispose: “Certo che sì.” E vuoi sapere a cosa pensava? Pensava all’allevatore di bestiame che aveva incontrato ai Giochi Estivi, e a quando si era rotolata nel fieno con lui. – Avrai avuto la tentazione di ucciderla – arguì Fell, imbarazzato dalla confessione. – Nah! Non sono mai stato un grande amante, né dentro né fuori. Meritava un po’ di felicità. L’ho rivista ancora. Il marito è morto da tempo, e lei ora è una ricca vedova. – Quelle armi sono tutte tue? – domandò Fell, cambiando argomento. – Sì, e le ho usate tutte. Ho combattuto con il vecchio Re, quando avevamo quasi vinto, e ho combattuto insieme al giovane folle che ci comandò al massacro di Colden Moor. Non mi ricordo bene di quel giorno. Avevo già quaranta o cinquant’anni. Anche se avremo un capo migliore, non sarò così fortunato alla prossima. – Chi? Il vecchio si toccò il naso. – È giunto il momento, Fell. E se te lo dicessi non mi crederesti. Comunque prima parlavamo di donne. Allora, dimmi di Sigarni. Tu sai di volerlo, o preferisci che ti dica quello che pensi? – No! – disse Fell secco. – Riempimi un’altra tazza e parlerò, anche se solo gli dèi sanno perché lo faccio. Non mi aiuta. – Prese la tazza e la tracannò in un solo fiato. La bevanda gli bruciò la gola. – Gwalch, sei un figlio di puttana! È fatta di piscio di ratto? – Solo un poco – rispose il vecchio. – Giusto per dargli corpo. Continua. – Perché lei? Ecco quello che mi domando. Ho avuto più di una bella donna. Perché solo lei mi infiamma il sangue? Perché? – Perché lei è speciale. – Gwalch s’alzò dalla sedia e andò verso il camino. Il fuoco era stato preparato da una mano esperta. Il vecchio accese l’acciarino e lo tenne sotto gli alari in ghisa a forma di cane finché le fiamme non incominciarono a lambire i rametti. Inginocchiatosi, soffiò sul fuoco finché i ceppi più grossi non presero. Poi s’alzò. – Donne come lei sono rare, nate per essere grandi. Non sono fatte per essere mogli, vecchie prima del tempo, con i seni rinsecchiti che penzolano come impiccati. Lei è una stella e le altre donne sono semplici fiamme di candela. Capisci? Dovresti sentirti privilegiato di essere andato a letto con una donna così. Ha il dono, Fell. Il dono dell’eternità. Capisci cosa voglio dire? – Non ne ho la minima idea – ammise il guardaboschi. – Vuol dire che vivrà in eterno. Tra migliaia di anni gli uomini pronunceranno il suo nome. Fell prese la coppa e fissò il liquido ambrato. – Bere questa roba ti fa marcire il cervello, vecchio. – Sì, forse è così. Ma io so quello che dico, Fell. So che vivrai per lei, e so che morirai per lei. Resisti, Fell. Fallo per me! E tutti ti cadranno davanti con le loro spade di fuoco, le loro lance di dolore e le loro frecce d’addio. Resisterai, Fell, quando lei te lo chiederà? – Gwalch s’inclinò in avanti fino ad appoggiare la testa sulle sue braccia. – Resisterai, Fell? – Tu sei ubriaco, amico mio. Stai parlando a vanvera. Gwalch lo guardò con gli occhi annebbiati. – Vorrei essere ancora giovane, Fell. Starei al tuo fianco. Per Dio, prenderei quella freccia per te! Fell si alzò barcollando, accompagnò cautamente Gwalch verso il letto dove lo fece sdraiare, poi ritornò vicino al fuoco, si adagiò sul tappeto di pelle d’orso e si addormentò. Sigarni si fermò sul bordo dello strapiombo. Era nuda, in cima alle rocce a fianco della cascata, si portò sul limite della roccia e piegò le dita dei piedi oltre l’umido bordo di pietra. Sessanta piedi più in basso, l’acqua ribolliva. Il sole le scaldava la schiena, e il cielo era blu come un diamante. Sigarni si lanciò in avanti, tuffandosi dritta come una freccia osservando la superficie del laghetto che s’avvicinava. All’ultimo momento allungò le braccia e colpì l’acqua con un rumoroso tonfo. S’immerse finché le mani toccarono il fondo, poi si spinse con i piedi e tornò verso l’alto. Raggiunta la superficie nuotò con pigra grazia fino alla sponda sud, dove Lady l’aspettava ansiosa. Uscì dall’acqua, si sedette su una piatta roccia bianca e scosse i capelli per asciugarli. In quel punto il rumore della cascata suonava in modo diverso e il sole che filtrava attraverso le foglie di un salice macchiava le acque di riflessi dorati. È facile credere alle leggende in una simile giornata, pensò la ragazza. Sembrava naturale che un re avesse scelto quel posto per lasciare il mondo degli uomini e intraprendere il suo viaggio in paradiso. Poteva quasi vederlo entrare nell’acqua, e poi girarsi con la grande spada nelle mani sporche di sangue, con il latrare dei cani e le urla gutturali degli assassini che riecheggiavano tutt’intorno. Poi appena i guerrieri si erano mossi per ucciderlo, un lampo di luce e l’apertura del Cancello. Era tutto senza senso. In quel luogo era stato ucciso Sorain Mano di Ferro, conosciuto anche come Dita d’Acciaio, grande Re delle Highland. In primavera, durante uno dei suoi tuffi, Sigarni aveva trovato un osso sul fondo del laghetto. Quando lo aveva portato in superficie aveva visto che era una scapola. Per più di un’ora aveva esplorato il fondale, infine aveva scoperto lo scheletro, o almeno quanto ne rimaneva, trattenuto sul fondo da alcune pesanti rocce. La mano destra era scomparsa, ma c’erano i segni sbiaditi di ruggine nell’osso del polso, e nelle vicinanze i resti di una mano di ferro. Nessun Cancello per il paradiso, almeno per il suo corpo. Solo una morte solitaria, ucciso da uomini inferiori. Questo è il destino dei re, pensò. Una leggera brezza la fece rabbrividire. – Sei ancora qui, Mano di Ferro? – domandò. – Il tuo spirito infesta ancora questo luogo? – Solo durante la luna piena – dichiarò una voce alle sue spalle. Sigarni balzò in piedi, si girò e vide che appoggiato al salice c’era un uomo alto e sorridente, che si puntellava ad un bastone di quercia. Lady non si mosse. Sigarni si avvicinò ai vestiti ed estrasse la spada dal fodero. – Oh, non avrai bisogno di quella, signora. Non rubo alle donne, sono semplicemente un viaggiatore che si è fermato a bere un sorso d’acqua fresca. Mi chiamo Loran. – Appoggiò il bastone contro l’albero, superò la ragazza, s’inginocchiò vicino alla riva del lago e prima di bere accarezzò i fianchi di Lady. – Di solito... non le piacciono gli sconosciuti. – Io sono simpatico agli animali. – Il nuovo venuto la guardò e le fece un sorriso ingenuo. – Forse ti sentiresti più a tuo agio vestita. – era un bell’uomo, alto e senza barba, aveva i capelli del colore del grano e gli occhi blu scuro. Sigarni decise che aveva un bel sorriso. – Forse ti sentiresti più a tuo agio senza i vestiti – rispose sentendosi di nuovo calma. – Voi Loda vi spingete sempre così avanti? – chiese in modo amabile. La ragazza rinfoderò il coltello e si sedette, Lady si avvicinò al suo fianco. – A quale clan appartieni? – domandò. – Pallides – rispose. – Tutti i Pallides sono così timidi? L’uomo si abbandonò a una compiaciuta e sonora risata. – No, ma siamo della gente semplice che ha bisogno di essere trattata con cura e pazienza. Quanto dista Cilfallen? – Si alzò e s’avvicinò ad un albero abbattuto e prima di sedersi lo pulì dai pezzi di corteccia. Sigarni allungò una mano e prese i gambali. – Mezza giornata – rispose, – in direzione sud. – La parte superiore del suo corpo era ancora umida e la maglia di lana le aderiva al seno. Si assicurò la daga al fianco e tornò a sedersi. – Come mai un Pallides si trova così a sud? – indagò lei. – Sto cercando Tovi Lungo-braccio. Ho un messaggio per lui da parte del Signore della Caccia. Hai un nome, donna? – Sì. – Potrei sapere quale? – Sigarni. – Sei arrabbiata con me, Sigarni? – le parole erano state pronunciate con calma, ma lo sguardo dell’uomo era serio. Sì sono arrabbiata, pensò. Asmidir mi ha chiamato puttana, Fell se ne è andato senza salutare o ringraziare e adesso questo straniero che mi respinge. Certo che sono maledettamente arrabbiata! – No – mentì Sigarni. Il nuovo venuto s’inclinò all’indietro appoggiando una mano sul tronco. Sigarni sfoderò la daga e la lanciò colpendo il legno a meno di cinque centimetri dalla mano di Loran. L’uomo abbassò lo sguardo e vide la lama piantata in mezzo alla testa di una vipera che agitava il resto del corpo in preda agli spasmi. Ritrasse la mano. – Sei una donna incredibile, Sigarni – constatò. Allungò la mano e svelse la daga. Poi decapitò l’animale con un colpo netto, pulì la lama sull’erba e la ripassò alla cacciatrice porgendogliela dall’elsa. – Farò un pezzo di strada con te – disse lei. – Non vorrei vedere un Pallides disperso nella foresta. – Incredibile e benedetta dalla gentilezza. Si allontanarono insieme dalla cascata e raggiunsero la pista principale. Lì gli alberi erano più fitti e le foglie cominciavano ad assumere la tonalità oro brunita tipica dell’autunno. – Parli spesso con i fantasmi? – domandò Loran mentre camminavano. – Fantasmi? – indagò la ragazza. – Mano di Ferro. Stavi parlando con lui quando sono arrivato? Non era quello il laghetto magico in cui entrò in un altro mondo? – Sì. – Credi nelle leggende? – Perché non dovrei – controbatté. – Nessuno ne ha mai trovato il corpo, o no? L’uomo alzò le spalle. – Non è mai tornato indietro, ma la sua vita non è stata molto bella. L’ultimo grande Re dopo Gandarin. Si dice che abbia ucciso sette dei suoi assassini. Non male per un ferito. – Loran rise. – Forse gli uomini duecento anni fa erano più forti e coriacei. Questo è quello che mi ha sempre detto mio nonno. “I giorni in cui gli uomini erano uomini”, era solito dire. Mi ha raccontato che Mano di ferro era alto sette piedi e che la sua ascia pesava sessanta libbre. Mi sedevo accanto a lui e ascoltavo quelle storie fantastiche di streghe e draghi, di eroi che erano più alti di una spalla e di una testa degli altri uomini. Mi disse che in quei giorni chiunque fosse al di sotto dei sei piedi si pensava che fosse un nano. Non c’è mai stato un bambino così credulone come lo ero io. – Forse aveva ragione – disse Sigarni. – Forse erano più robusti. Loran annuì. – È possibile, credo. Ma l’anno scorso sono stato arbitro dei Giochi. Mereth Occhio-fino ha battuto tutti i record di lancio del tronco, nonostante che la sua statura sia di soli cinque pollici. Se a quel tempo erano tutti più veloci e forti di noi, perché i loro primati li mostrano come più lenti e deboli rispetto alla gente di oggi? Superarono l’ultima collina prima di Cilfallen. Sigarni si fermò. – Quella è casa mia – dichiarò indicando la capanna vicino al ruscello. – Devi continuare a seguire la strada in direzione sud. L’uomo s’inchinò e le prese la mano baciandole il palmo. – I miei ringraziamenti, Sigarni, sei stata una piacevole compagnia. La cacciatrice annuì. – Temo che tu abbia rifiutato la parte migliore di me – disse, sorprendendosi a sorridere al ricordo. Loran scosse la testa. – Io penso che nessun uomo abbia mai visto la parte migliore di te, donna. Arrivederci! – Mentre Loran si allontanava, Sigarni chiamò e lui si voltò. – Nei giorni antichi – cominciò, – la gente delle Highland era libera, indipendente e unita. Forse era questo che li faceva sembrare più forti, splendenti e spavaldi. La loro forza non derivava dal lancio di un tronco, ma da un nemico sconfitto. Forse non erano alti sette piedi, forse loro si sentivano come se lo fossero. L’uomo si fermò pensando alle parole. – Mi piacerebbe rivederti – dichiarò infine. – Sarò il benvenuto al tuo focolare? – Porta pane e sale, Pallides, e vedremo. FLAVIO BARBIERO UNA CIVILTÀ SOTTO GHIACCIO PREFAZIONE L’ATLANTIDE E UNA NUOVA TEORIA Il mito di Atlantide ha avuto la sua consacrazione da Platone che in due dei suoi famosi Dialoghi, il Timeo e il Crizia, ha dato informazioni topografiche, geografiche, antropologiche, politiche, amministrative, economiche, scientifiche e religiose di una sorprendente precisione e di una ricchezza tale di particolari, da far supporre che il grande filosofo greco avesse avuto la fortuna di esaminare documenti d’archivio o di ascoltare tradizioni orali tramandate da generazioni e generazioni, nel lento trascorrere dei millenni. Dopo Platone, con periodi più o meno lunghi di silenzio, la scienza umana ha cercato di indagare il mistero del continente scomparso alla luce delle “prove” che via via erano scoperte e che venivano interpretate non tanto sul rigido metro dei postulati scientifici, quanto sulle passioni e sugli orgogli nazionali. Si parlò quindi di un continente, sommerso a più riprese, un tempo esistente nell’Atlantico settentrionale e di cui la Groenlandia, le Azzorre e forse le Canarie sarebbero gli ultimi avanzi; di un’isola posta nelle acque della Spagna meridionale e dell’emporio commerciale di Tartesso; della Tunisia; dell’isola di Santorino, ecc. La letteratura sull’argomento è vastissima e alla fine di questo volume il lettore ne trova un nutrito elenco. Ricordiamo i lavori di A. Schulten (Tartessos: ein Beitrag zur dltesten Geschichte des Westens, Amburgo, 1908), di L. Germain (Le problème de l’Atlantide et la zoologie, “Annales de Géographie”, 1913, pp. 209-226), di G. Perrone (L’Atlantide, Torino, 1918), di P. Termier (L’Atlantide, Parigi, 1919), di R. Dévigne (Un continent disparu: l’Atlantide, Parigi, 1924), di P. Henning (Das Ratsel der Atlantis, “Meereskunde”, 1926), di L. Giannitrapani (L’Atlantide, “L’Universo”, Firenze, 1927, pp. 1279-1320), di W. Brandenstein (Atlantis, Vienna, 1951), ma essi sono un nulla a confronto della produzione letteraria e scientifica che si sviluppò intorno all’argomento. L’apporto numericamente più consistente lo dette, però, la fantascienza che intorno all’Atlantide ha avuto modo di sbizzarrirsi sotto le angolazioni più varie, e, diciamolo pure, più disparate. Qui non ci interessano le fantasie dei romanzieri o le interpretazioni poetiche: il problema di Atlantide - la sua esistenza e la sua ubicazione - potrà risolverlo soltanto la Scienza servendosi delle moderne conquiste tecnologiche, calcolatori in testa, animati dal buon senso umano e dalle intuizioni degli studiosi e dei ricercatori. Quando Heinrich Schliemann, l’archeologo tedesco che pur fra tanti errori scoprì la Troia omerica, si accinse alla sua immortale scoperta, fu oggetto di scherno da parte degli studiosi ufficiali non tanto perché non era un cattedratico, quanto per la fede cieca che aveva nelle cose scritte da Omero. Era convinto che il poeta non avesse falsato con la fantasia la verità dei riferimenti topografici che delimitavano l’antica città di Priamo e se Omero aveva scritto che 34 sorgenti di acqua calda circondavano le mura della città, bisognava ricercare quelle 34 fonti e Troia sarebbe ritornata alla luce del Sole. Ai cattedratici che, sorridendo, gli facevano notare che si trattava di un numero generico e che essi ne avevano trovato alcune e che nessuna città era venuta alla luce nei loro pressi, Schliemann rispondeva, con cocciutaggine e assoluta convinzione, che se Omero aveva scritto quel numero, di quello si trattava e non di “alcune” sorgenti. La sua fede vinse e il suo amore e il suo rispetto per Omero trionfarono. L’archeologo “dilettante” aveva accettato in blocco, come verità indiscutibili, le indicazioni di Omero e così del mito di Troia e della guerra che dalla città prese nome, fece delle realtà terrene. Gli Storici, poi, spiegarono le cause del lungo conflitto che riportarono entro i binari dei fatti umani. Per Atlantide si è sulla stessa strada. Fino ad oggi, per avvalorare le ipotesi più incredibili, si è distorto ciò che ha scritto Platone. Da Aristotele in poi si è tacciato di falso il filosofo per non dichiarare la propria impotenza a localizzare il grande impero scomparso. Nei migliori dei casi si è accettato per vero ciò che faceva comodo al presentatore di una nuova ipotesi e si è rigettato come falso ciò che contrastava con l’ipotesi stessa: gli scritti di Platone sono diventati buoni per tutte le misure, come l’elastico! Il problema che si pone allo studioso serio prima di indagare il mistero di Atlantide è uno solo: accettare tutto Platone o rigettarlo tutto come fantasioso. Una delle più grandi menti speculative della storia dell’umanità come fu quella di Platone non concedeva troppo spazio - questo è certo - alle fantasie poetiche: dichiarò più volte di non avere eccessive simpatie per i poeti e non si può credere che cambiasse idea soltanto a proposito di Atlantide. La coerenza del filosofo è fuori discussione perché la serietà e la profondità della sua dottrina hanno superato il collaudo dei secoli e nulla ha potuto scalfirle. Anche il Poisson, uno dei più preparati “demolitori” dell’idea di Atlantide, ha scritto: “L’omogeneità del racconto del Crizia non consente di distinguervi elementi di pura immaginazione, mescolati ad elementi realmente tradizionali. Esso costituisce un tutt’uno che bisogna accettare o rigettare in blocco”. Poisson lo rigetta in blocco, ma non è detto che sia dalla parte della ragione. La sua scelta è degna di rispetto, ma opinabile. Fino ad oggi sono stati usati gli scritti di Platone in un esasperante gioco di tira e molla, di affermazioni di verità e di falsità, di omaggio e di denigrazione al genio del pensatore e i risultati sono stati completamente nulli: non si è raggiunta nessuna prova che in epoca pre-neolitica (12.000 anni a.C.) sia esistita una civiltà superiore dalla quale siano derivate quelle di tutti i continenti; non si sono scoperti i resti della grande città di cui scrive Platone e, soprattutto, non si è giunti a dare una spiegazione logica e accettabile del fenomeno delle glaciazioni, del diluvio universale, della improvvisa scomparsa di numerosi rappresentanti della fauna e dello squilibrio verificatosi all’improvviso negli ecosistemi esistenti allora sulla Terra. Si è voluto circoscrivere l’area interessata dal diluvio alle regioni mesopotamiche, dimenticando che i libri religiosi di molti popoli, dell’antico e del nuovo continente, parlano di un “diluvio universale” e che il ricordo di quella immane tragedia è tramandato, vivissimo, nelle mitologie dei popoli più disparati, dai Maya agli Eschimesi, dagli Ebrei agli Indonesiani. Come potevano, per esempio gli Eschimesi, venire a conoscenza di un fatto accaduto in una piccola regione a loro assolutamente sconosciuta e interessarsene talmente da tramandarlo in molti loro racconti? E i popoli dell’America meridionale? Sono interrogativi a cui bisognerà pur rispondere un giorno! Non è sufficiente sbrigare il problema dell’Atlantide in poche righe, o accusando Platone di estrema fantasia, o usando alcune coincidenze geologiche esistenti fra terre bagnate dalle opposte sponde dell’Atlantico, o dimostrando insofferenza e fastidio per l’argomento. In una grande opera scientifica (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, vol. II, Milano, Mondadori, 1966, 4a edizione), alla voce Atlantide si legge: “Le dottrine geologiche confermano, in un certo senso, l’esistenza di un complesso di terre emerse occupanti un tempo l’area dell’attuale Oceano Atlantico (continente nord atlantico il blocco boreale e continente di Gondwana quello australe, così chiamato da Gondwana, provincia dell’India). Risulta infatti che il grande continente boreale atlantico si mantenne più o meno unitario durante tutta l’era paleozoica e, in parte, fino al Cretaceo. Nel Terziario si completò rapidamente la suddivisione dell’Europa e del Nord America, sussistendo tuttavia per lungo tempo comunicazioni o isole intermedie. Scarsi e non decisivi sono invece gli argomenti in favore di una persistenza di tali terre emerse in tempi geologici più recenti, posteriori alla comparsa dell’uomo, come vorrebbe la leggenda”. Tutto qui. Francamente è un po’ poco, tanto più che questo poco contiene affermazioni contrastanti e quanto mai discutibili. È la prova, forse più autorevole in tempi a noi vicinissimi, che l’Atlantide continua ad essere relegata nel regno delle leggende, solo perché non si riesce a spiegarne l’esistenza. L’Autore di questo volume, giovane ingegnere dalla vasta preparazione scientifica e Ufficiale Superiore nel Corpo delle Armi Navali, ha scelto un’altra strada, nettamente differenziata da quella battuta fino ad oggi da tutti gli studiosi, antichi e nuovi, che l’hanno preceduto. Potremmo dire che è la strada della sperimentazione, ma preferiamo chiamarla del controllo scientifico a tutti i costi, del confronto che nulla lascia al caso, del dubbio creato a priori per risolverlo alla luce della scienza moderna. Innanzi a tutto Barbiero ha accettato in blocco il racconto di Platone nel quale crede con una certezza assoluta e commovente. E credendovi, si è prefisso il compito immane di dimostrarlo vero in tutte le sue parti, con una dialettica scientifica stringente e lineare che convince anche il lettore più scettico o il profano. Il valore del metodo seguito consiste maggiormente nel fatto che nulla è stato distorto nel racconto platoniano per piegarlo alla tesi dell’Autore: tutto doveva essere dimostrato con prove scientifiche, o nulla doveva essere accettato. Per prima cosa Platone ha affermato che Atlantide sparì in una notte sotto l’azione di terremoti terribili e di ondate alte come montagne. Quale fenomeno poteva far sì che la Terra si trovasse in tali condizioni nello spazio di pochissimi giorni se non addirittura di pochissime ore? Perché la tragedia dovette avvenire in un tempo da misurarsi ad ore, anche se fu preannunciata con un anticipo di alcuni giorni: il cibo trovato nello stomaco di alcuni mammut ne è la prova indiscutibile. Le glaciazioni verificatesi sulla Terra sono state spiegate in tanti modi e tutti differenti, appunto perché nessuno è convincente: bisognava spiegare il perché della morte improvvisa di intere specie animali e vegetali e il perché della formazione improvvisa dei ghiacci su gran parte della superficie terrestre. Il verificarsi di questi due fatti si può spiegare in un solo modo e cioè con l’improvviso spostamento dell’asse terrestre. Solo così i cambiamenti climatici sono repentini e terribili. Ma per spostare l’asse terrestre e far “vagabondare” i poli geografici (nessuno più mette in dubbio che essi si siano spostati notevolmente, fino ad occupare posizioni ben lontane dalle attuali) occorreva una forza spaventosa, in grado di far sì che la Terra agisse come un giroscopio. Ebbene, è possibile dimostrare che circa 12.000 anni fa (quanti, cioè, sono stati indicati da Platone) la Terra fu investita da un asteroide o da una cometa, la sola potenza in grado di spostare l’asse terrestre e di determinare, quindi, i rivolgimenti climatici improvvisi che si verificarono sul nostro pianeta. Si badi bene che l’ipotesi, di questo scontro Terra-asteroide è dimostrabile e che coincide non solo col racconto platoniano, ma con le mitologie più conosciute di molti popoli. È evidente, allora, che in quell’epoca il clima terrestre era profondamente diverso e che su molte regioni dove oggi impera il ghiaccio o almeno una temperatura bassissima (per esempio l’Antartide e la Siberia), c’era un clima eternamente primaverile e dei biosistemi ben diversi dagli attuali. Ne esistono le prove e perciò non si tratta di affermazioni campate in aria. La civiltà degli Atlantidi, come ce l’ha descritta Platone, era decisamente una civiltà superiore, ma l’archeologia, per quanti scavi siano stati compiuti, non è riuscita a darci la prova dell’esistenza di una tale civiltà che doveva aver raggiunto tecnologie avanzatissime, ordinamenti politici di vasta portata, potenza militare e commerciale da lasciare allibiti. L’archeologia è risalita alla preistoria di pochi millenni fa e non c’è speranza che possa andare più a ritroso nel tempo per la semplice ragione che non c’è nulla di più antico da scoprire nelle terre emerse dei due emisferi. Questo significa che il racconto di Platone non è veritiero? Non si vuole giungere a tanto. Bisogna invece ricercare una nuova localizzazione di Atlantide e ricercarla secondo le indicazioni topografiche - numerose e accurate - lasciate da Platone. Barbiero avanza l’ipotesi che l’antico impero Atlantide avesse la sua sede nell’Antartide e più precisamente nella regione bagnata dal mare di Weddell. La proposta è di quelle che lasciano senza fiato e richiedono un certo tempo per essere assimilate perché è l’unica alla quale nessuno ha mai pensato e la più remota dalle idee di tutti gli studiosi. Passato, però, il primo momento di smarrimento e di incredulità e letti i capitoli, densi di prove e incalzanti, che l’A. dedica a questo specifico argomento, si ha voglia di complimentarsi con lui ad alta voce per far partecipi tutti del nostro entusiasmo. Sì, perché è difficile - anche se siamo abituati alla sublime freddezza della Scienza - rimanere indifferenti davanti alle argomentazioni che l’A. porta a sostegno di questa sua tesi affascinante. Per giungere a questa sorprendente conclusione, Barbiero ha vagliato i dati e le misure fornite da Platone e le ha sottoposte a una critica serrata e a un controllo attentissimo. Nulla è sfuggito al suo esame e tutto l’insieme del volume risulta una sintesi mirabile dei risultati a cui sono giunti i ricercatori delle più disparate discipline: dall’astronomia all’oceanografia, dalla cartografia all’antropologia, dalla geologia alla glaciologia, dalla storia all’archeologia, dalla botanica alla zoologia, ecc. È sorprendente che un uomo solo abbia potuto indagare tanti campi dello scibile umano e questo fatto dimostra con quanta serietà egli si sia preparato al lavoro che lo ha portato alla conclusione di cui sopra. Platone ha ricordato che su una collina della capitale dell’impero - che occupava una grande pianura delimitata da alte montagne - sorgeva il tempio dedicato a Poseidone. Una costruzione ciclopica e sfarzosa, dove l’oro e le gemme erano il simbolo di una potenza incontrastata. Ebbene, l’A. ha localizzato il punto dove sorgeva il tempio e lo ha fatto in base a precisi calcoli e non a cervellotiche ricostruzioni: si tratta dell’isola Berkner ed anzi della sua parte nord-orientale. Tutt’intorno all’isola - di modesta estensione - domina un possente tavolato di ghiaccio che ricopre un mare formatosi all’epoca del cataclisma che distrusse Atlantide e sotto il quale si stende una parte della pianura che fu il centro pulsante dell’impero. Le isobate ce la indicano chiaramente e quando sarà possibile farvi ricerche archeologiche sottomarine, si avrà forse la prova, oltre ogni possibile dubbio, che l’ipotesi di Barbiero è esatta. Intanto un controllo fondamentale si potrebbe fare nell’isola Berkner dove, se l’ipotesi risponde al vero, sarebbe sufficiente fare alcuni scavi per ritrovare, se non i resti del tempio, almeno alcuni manufatti dovuti all’uomo di 12.000 anni fa. Vedremo, però, quali sono le difficoltà che si frappongono alla realizzazione del progetto. Intanto continuiamo a seguire Barbiero nella sua affascinante ricostruzione scientifica di quella che potrebbe essere - finalmente - la verità su Atlantide. Si trattò di un vasto impero a civiltà prevalentemente marinara che aveva raggiunto un alto livello tecnico nella costruzione di grandi navi atte ad attraversare i mari per intrattenere relazioni commerciali con le genti di altre terre. Quando fu evidente che la collisione con l’asteroide o la cometa era inevitabile, gli astronomi atlantidi misero in allarme le popolazioni che abbandonarono le città per rifugiarsi sulle navi portate subito al largo. Su quelle da guerra, si raccolsero i dignitari, gli scienziati, i tecnici, ecc. e in quelle mercantili, il popolo minuto. L’onda di marea, che fece innalzare di molti metri il livello dei mari, giunse all’improvviso, spaventosa e incontenibile, spazzò via terre, città, popoli e sommerse chissà quante navi: un’ecatombe complessiva di milioni di persone. Le poche navi superstiti approdarono, forse mesi dopo, sulle coste dell’America meridionale, dell’Africa, dell’Indonesia, dell’Europa e i naufraghi, terrorizzati e disperati, si incontrarono con genti primitive, ancora allo stadio di cacciatori-raccoglitori, che furono subito conquistate dalle tecniche dei nuovi arrivati e cominciarono con loro una vita in comune. Ma non tutti gli sbarcati erano scienziati o costruttori: nella maggior parte si doveva trattare di poveri marinai che costruirono le prime capanne e che, privi di tutto quanto aveva reso grande la loro patria e relativamente comoda la loro vita, si adattarono a fatica alla nuova esistenza. Erano pur sempre dei marinai e i primi insediamenti sorsero lungo le coste del mare o le rive dei grandi fiumi. Quasi privi di donne, questi marinai si unirono a donne del luogo ed ebbero figli che ricordavano la patria di origine solo attraverso i racconti dei padri. Dopo poche generazioni, rimase il ricordo poetico di quell’impero distrutto, ma non si rammentarono più le conquiste tecnologiche e l’alto grado di civiltà raggiunto. L’uomo era ritornato allo stato primitivo, con un balzo all’indietro di portata incalcolabile. La teoria della diffusione culturale (da uno stadio primitivo l’uomo era passato a gradi superiori di civiltà), parallela a quella darwiniana dell’evoluzione della specie, per spiegare la formazione di culture tanto diverse quanto numerose, si dimostrò perfetta fino al nono millennio a.C., ma da quell’epoca - scomparvero allora le grandi culture paleolitiche - tutto divenne confuso e incerto. L’archeologia affermò che la civiltà superiore era nata in un luogo (forse l’Egitto o la Mesopotamia) della cosiddetta “mezzaluna fertile” (la fascia di terre che si stende dall’Egitto alla valle dell’Indo) intorno al terzo millennio a.C. Si sarebbe, cioè, formata una corrente culturale che si sarebbe diffusa in tutto il mondo, muovendo da occidente ad oriente. Inebriati da questa teoria, gli archeologi sistemarono tutte le questioni cronologiche relative ai reperti preistorici in base al semplice - o semplicistico - presupposto che essi fossero tanto più recenti quanto erano più lontani dall’area mesopotamica. Quando, però, nel 1949 W.F. Libby e nel 1971 H.E. Suess misero a punto un metodo sicuro di datazione basato su due isotopi del Carbonio, il C12 e il C14, il paziente lavoro degli archeologi crollò miseramente. I più antichi villaggi agricoli del Medio Oriente risultarono sorti intorno all’ottomila a.C. invece che nel 4000-4500. come si credeva; nello stesso ottomila fu importata l’agricoltura in America e nell’Estremo Oriente; le grandi civiltà precolombiane non sorsero autonomamente e d’altra parte è un assurdo pensare a un’influenza mediterranea o cinese su quelle civiltà: gli Oceani non si attraversavano facilmente su barche fragili e le navigazioni atlantiche di Thor Heyerdall non hanno dimostrato un bel nulla. In ogni caso, pur ammettendo che una barca di papiro raggiungesse l’America, doveva trasportare una decina di persone: ci vuole altro per influenzare una cultura o per formarne una nuova! Anche i Vichinghi, ben più numerosi, giunsero in America alcuni secoli prima di Colombo, ma non lasciarono tracce durature e non influenzarono minimamente la civiltà tradizionale con la quale si scontrarono. Continuando a credere nella teoria diffusionista, nonostante la rivoluzione apportata dal nuovo metodo di datazione, bisognerebbe ammettere che dopo millenni di lenta maturazione, popoli profondamente diversi abbiano inventato simultaneamente l’agricoltura, l’architettura, gli usi, gli ordinamenti sociali, ecc. che presentano un fondo comune senza che vi fossero stati dei contatti di qualsiasi ordine. Sarebbe voler credere nell’impossibile e infatti nessuno più vi presta fede. Bisogna allora ritornare a un’origine comune della civiltà e non c’è altra strada che riprendere il creduto mito di Atlantide. Non s’inventa nulla perché in tutte le civiltà antiche se ne parla: dai Maya agli Egizi, dai Sumeri agli Indiani, pur sotto nomi diversi. Ecco, dunque, che il quadro si completa; le navi atlantidi superstiti della tragedia approdarono in terre diverse e i loro occupanti, in misura più o meno sensibile, influenzarono le culture delle popolazioni incontrate, quando addirittura non le formarono. Solo così si spiega il fondo comune di tutte le civiltà e la spiegazione non ha bisogno di funambolismi per apparire logica. Queste ed altre ipotesi sono presentate in forma intelleggibile a tutti e in uno stile riposante nel libro di Barbiero che susciterà, certamente, un vespaio di fertili discussioni le quali dovranno approdare a qualcosa di molto costruttivo. Nell’opera è illustrata, in tutti i suoi aspetti, la civiltà atlantide che dovette essere, senza dubbio, una grande civiltà marinara e il Barbiero ha fatto, giustamente, l’esaltazione delle origini marinare di tutti i popoli perché la “civiltà superiore” nacque dapprima in riva al mare e si affermò poi nell’interno delle terre emerse. La prova per eccellenza che la teoria del Barbiero è esatta si può avere soltanto da uno scavo sistematico da farsi in un determinato punto dell’isola Berkner, ma, come si è detto, gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del progetto sono molteplici e di varia natura. Quando l’Ing. Barbiero ebbe messo a punto la sua teoria, si mise in contatto con me chiedendo l’appoggio dell’Istituto Geografico Polare per organizzare una spedizione all’isola Berkner. Ebbi con lui un lungo colloquio che mi convinse della fondatezza scientifica di gran parte delle sue argomentazioni e gli assicurai l’aiuto dell’Istituto. Per prima cosa pubblicai, nella rivista «Il Polo», un suo serrato studio sull’argomento e l’articolo provocò molto interesse, tanto che fu riprodotto anche in altre pubblicazioni periodiche. Organizzare una spedizione italiana era impossibile: una lunga esperienza mi aveva insegnato che anche pochi milioni (ma qui si trattava di molti!) non erano facilmente reperibili per una ricerca scientifica e che si sarebbe perduto del tempo ad ascoltare inutili discorsi e promesse che sarebbero rimaste sempre tali. A non molta distanza dall’isola Berkner (circa 200 km in linea d’aria) è funzionante la stazione scientifica argentina “Base General Belgrano”, mentre a 150 km c’è quella di “Ellsworth”, pure appartenente all’Argentina. Mi parve logico chiedere all’Istituto Antartico Argentino una collaborazione in questi termini: trasportare una spedizione italiana (2-3 uomini) coi rompighiaccio General San Martin fino alla base Belgrano e di lì, a mezzo di un elicottero, nell’isola Berkner. La durata della permanenza sull’isola doveva essere studiata in modo da non intralciare le operazioni di scarico del rompighiaccio col quale la spedizione sarebbe rientrata a Buenos Aires. La copertura per le spese occorrenti era assicurata. Gli Argentini risposero che le condizioni dei ghiacci nel “Tavolato Filchner” erano pessime, che il rompighiaccio sarebbe rimasto pochi giorni e che gli elicotteri erano tutti impegnati per lo scarico dei materiali: in definitiva la loro risposta fu negativa e tolse ogni possibilità a una spedizione italiana di recarsi sul posto a verificare archeologicamente la validità dell’ipotesi del Barbiero. In seguito, poi, gli Argentini dimostrarono un’ostilità tanto scervellata quanto inspiegabile a un altro tentativo italiano, da fare insorgere contro di loro molte società polari di varie parti del mondo. Può darsi che la spedizione possa effettuarsi sotto altri auspici o che la scoperta archeologica venga fatta da altri: era indispensabile, però, pubblicare questo lavoro organico perché, a seguito dell’articolo apparso nel “Polo”, altri esploratori potrebbero tentare la scoperta sensazionale e privare il Barbiero di una precedenza che gli spetta di diritto. Le difficoltà rappresentate dall’Istituto Antartico Argentino sono reali e ad esse va aggiunto il fatto che i confini dell’isola sono tutt’altro che definiti e che il ghiaccio e la neve la coprono per molti mesi all’anno. Durante questi millenni gli elementi esogeni hanno sicuramente esercitato una grande influenza negativa sugli eventuali resti della civiltà atlantide, ma se essi esistono, le statue d’oro dovrebbero essere intatte. Eppure basterebbe una sola pietra squadrata dalla mano dell’uomo per fare di quest’ipotesi una realtà tale da spalancare alla Scienza le porte di un’indagine conoscitiva di portata rivoluzionaria! In attesa che questa prova venga alla luce, si deve considerare il libro del Barbiero come uno dei più esaltanti di questo secolo e uno dei più adatti ad essere a lungo discusso. Dopo la pubblicazione della prima edizione di questo volume, avvenuta nel dicembre 1974, si è continuato a ricercare Atlantide un po’ ovunque: un ingegnere anconetano l’ha localizzata in Egitto sulla base di complicati calcoli trigonometrici e di messaggi spiritici che non hanno risolto un bel nulla e hanno fatto scempio del racconto platoniano; i Greci, servendosi addirittura del nome famoso di Jacques-Yves Cousteau, la vogliono a tutti i costi a Santorino e nelle acque del Mare Egeo, ma i resti di Atlantide non sono venuti alla luce e di lì non verranno mai per placare gli spiriti tormentati dei molti ricercatori teorici. Al principio del 1976 l’Ing. Barbiero ebbe la possibilità di aggregarsi a una spedizione alpinistica e un po’ scientifica, organizzata alla garibaldina, che per una ventina di giorni operò nell’area della Penisola Antartica, una regione, cioè molto lontana dal mare di Weddell e dall’isola Berkner, ma che poteva riservare pur sempre delle sorprese. Infatti fu nell’isola Seymour che il Capitano norvegese C.A. Larsen trovò, nel 1893, una cinquantina di palline di sabbia e “cemento” messe su colonnette dello stesso materiale. Larsen scrisse che quegli oggetti sembravano “fatti da una mano umana”. Un’espressione generica per dire che erano oggetti fatti molto bene? Forse, e infatti non li fece mai studiare né analizzare ed oggi, purtroppo, non li possediamo più perché andarono distrutti nell’incendio della sua casa a Grytviken (Georgia Australe). Nel corso della spedizione del 1976 l’Ing. Barbiero scoprì, nell’isola Re Giorgio (una del gruppo delle Shetland Australi), una grande quantità di tronchi semifossilizzati che potrebbero risalire a 10-12.000 anni fa. Purtroppo gli Istituti scientifici ai quali erano stati inviati i campioni di questi tronchi per la datazione col metodo del C14 non hanno fatto conoscere ancora la loro risposta. In Antartide sono stati trovati, a più riprese, dei fossili di alberi e di altre piante (Robert Falcon Scott stesso ne riportò moltissimi), ma se i tronchi semifossilizzati scoperti da Barbiero risalgono veramente a un massimo di 12.000 anni fa, si ha la prova che fino a quell’epoca l’Antartide poteva essere abitata e molti fatti coinciderebbero con le affermazioni contenute nei dialoghi di Platone e, di conseguenza, con l’ipotesi avanzata da Barbiero in questo volume. Si avrebbe anche un’ulteriore prova che la teoria delle quattro glaciazioni che avrebbero interessato la Terra è sbagliata e che numerose altre glaciazioni, di estensione più locale e di durata minore, si verificarono a periodi alternati in varie parti del nostro globo. Intanto, mentre questa nuova edizione vede la luce, Barbiero è ritornato in Antartide con una sua piccola spedizione, osteggiata o ignorata da chi poteva aiutarla e abbandonata all’ultimo minuto da chi aveva fatto solenni promesse. L’augurio di tutti è che riporti, dalla sua avventura, le prove che la sua teoria è valida e che Platone va considerato, ancora una volta, maestro di verità. Silvio Zavatti Direttore dell’Istituto Geografico Polare. Diario di una casalinga disperata di Sue Kaufman Venerdì 22 settembre Sono le nove e un quarto di una calda mattina di settembre, più calda di qualsiasi altra giornata di questa estate. Tutte le finestre sono aperte e la fuliggine, come pioggia radioattiva trasportata dal vento, entra e si deposita ovunque. Fuori dalla porta chiusa a chiave della mia camera da letto, l'appartamento è vuoto e fastidiosamente silenzioso. Oggi, venerdì, le bambine sono tornate a scuola per quello che viene definito il Giorno del Riorientamento. Sono appena rientrata dopo averle accompagnate allo scuolabus e aver portato Folly a Central Park West, e mi ci è voluta un'eternità dato che Folly odia i canali di scolo, e io ho paura di inoltrarmi nel parco. Oggi ho giurato a me stessa che mi sarei imposta di entrarci, e sono arrivata fino all'ingresso quando, nel bel mezzo del vialetto, ho visto un uomo in piedi che, con espressione folle e il viso rivolto verso l'alto, sorrideva agli alberi. Era anziano, con i capelli bianchi e probabilmente era solo il povero vecchio padre in pensione di qualcuno, o un attempato bird-watcher che forse sperava di mettere gli occhi su un ciuffolotto purpureo, ma non me la sono sentita di rischiare. Non in questo periodo. Non io. Perciò ho optato per il sudiciume dei canali di scolo, coprendoli con pagine strappate del «Daily News». Appena sono tornata quassù ho chiuso a chiave la porta - non mi piace quel silenzio – ho aperto il cassetto di mezzo e tirato fuori questo blocco da sotto una pila di mutandine di nylon. È meravigliosamente spesso, ha centotrentadue pagine. La mia mano scorre sulla prima, così bianca e così nuova, lasciando increspature gonfie e umide, che quando cerco di scriverci sopra fanno colare l'inchiostro. L'ho comprato ieri al supermercato. Ci ho portato le bambine per premiarle visto che erano state buone mentre andavamo in giro ad acquistare un po' di biancheria intima pesante e pigiami invernali per loro. Il premio consisteva in un gelato alla crema e l'equivalente di cinque dollari da spendere per la scuola, giusto per divertirsi, dato che la Bartlett School fornisce tutto l'occorrente. Ma glielo avevo promesso ed era questo che volevano, perciò ciascuna ha preso un cestino e ha iniziato a riempirlo di roba: blocchetti con la spirale, pacchetti di matite, gomme da cancellare rosa, scatole di graffette, righelli di plastica, pennini, evidenziatori e flaconcini di colla. Mentre curiosavano e sceglievano, io sono rimasta a osservare, sperando che il tic all'occhio destro si fermasse e pregando che il nodo alla gola non peggiorasse, ma quando ho individuato la pila di blocchetti come questo e mi è venuta un'idea. All'improvviso. Li ho visti e ho capito che erano quello di cui avevo bisogno, quel che avevo sempre cercato, senza sapere che mi serviva né che stessi cercando una cosa del genere, se riesco a spiegarmi. E ho capito anche che l'idea era giusta, valida, perché mentre ero in piedi e fissavo i blocchetti il tic all'occhio di colpo si è fermato, il nodo alla gola si è sciolto. Un Segno. Perciò ho preso quattro blocchetti e me li sono messi sotto al braccio. - Sono per noi, quelli, mami? - ha chiesto Liz alla cassa quando li ho appoggiati per farli battere insieme alle loro cose. - No. Sono per me, - ho detto, togliendole dalle mani un un cappello di plastica per la pioggia e rimettendolo sull'espositore accanto alla cassa. - Per te? - ha detto Sylvie. - Perché hai bisogno di tutti quei blocchetti? Che cosa devi farci tu con tutti quei blocchetti del cavolo? - Ho tirato fuori il portafoglio per trattenermi dallo schiaffeggiarla. - Resoconto, - ho detto, calma, contando le banconote. - Farò un resoconto. Allora, Resoconto è davvero un gran bella parola. Resoconto in senso cronachistico e non finanziario. Resoconto, resocontare, cioè fare un resoconto di quel che sta succedendo. Molto meglio di un'agenda o di un diario. Agenda mi fa pensare alle ragazze dei campeggi, grasse e depresse, con le agendine rilegate in finto marocchino verde col lucchetto e la chiave appesa alle collane attorno al collo sudicio. Diario mi fa pensare a tutti quei corsi di letteratura all'università, a Gide o alla Woolf oppure a Gorky o a Baudelaire, anche se devo ammettere che una frase come «ho sentito passare su di me il vento dell'ala dell'imbecillità» di Baudelaire si avvicina molto a ciò che ho in mente io. A ogni modo, Resoconti va bene. Resoconti, è meglio. Sì, Resoconti, in effetti, va benissimo. Per esempio «Resoconto di ciò che è successo qui stamattina alle 7.22». Buttando sul letto con disgusto una camicia pulita cui mancavano due bottoni, Jonathan è andato a prenderne un'altra nel comò e ha detto: - Tina. Tina, sono davvero molto preoccupato per te. Per fortuna mi dava le spalle e non ha potuto vedere come ho reagito a questa frase. - Ma dài? - ho detto, terminando finalmente di tirarmi su la lampo dei pantaloni. - Che buffo. Perché mai dovresti essere preoccupato per me? - Non è affatto buffo -. Si è voltato, infilando il braccio in una camicia che con ogni probabilità aveva tutti i bottoni. - A dir la verità, è una cosa molto molto seria. Sono preoccupato perché non sei più la stessa e questo ormai da settimane. Chiedendomi se le danze fossero iniziate, sono riuscita comunque a mantenermi in apparenza calma. Ho detto: - Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando, Jonathan, - e mi sono avvicinata allo specchio per pettinarmi. Lui ha sospirato, è andato alla cravattiera attaccata dietro l'anta del guardaroba e ha iniziato a rovistare tra le centodiciassette cravatte appese. - Sto parlando di un sacco di cose. Per cominciare, del tuo aspetto. Non hai un bell'aspetto, anzi, sei proprio orribile. Sei verde in faccia, sembri stremata, pare che tu stia dimagrendo, e per di più dài l'impressione di non tenerci. Inoltre sei tremendamente suscettibile. Tesa, irritabile e disorganizzata. Insomma, faccio un esempio, prendi i bauli nella dispensa. Siamo tornati dalla campagna da quasi due settimane e tu non hai alzato un dito per disfarli e sbatterli fuori di lì. Potrei andare avanti, Teen, ma credo che ormai quando dico che non sei più la stessa in linea di massima tu ti sia fatta un'idea di cosa intendo. Me l'ero fatta, altroché. Lui aveva finito di vestirsi e, pronto per la colazione, aspettava che cercassi di vendicarmi. Ho detto: - La Railway Express ha portato quei bauli lo scorso venerdì mattina. Sono qui da una settimana, non da due. Uno è quasi completamente pieno dei tuoi vestiti estivi sporchi. Dato che insisti che debbano essere messi via stirati, oltre che lavati, e dato che non ti piace come stira Lottie e non vuoi che io li mandi in tintoria, devo chiamare una lavandaia apposta, e proprio non ho avuto il tempo di farlo. Non ne ho avuto il tempo perché finché oggi non è ricominciata la scuola, le bambine si annoiavano. Ho dovuto inventare qualcosa per farle svagare. Per due settimane sono stata costretta a scorrazzare con loro in giro per la città con questo caldo assurdo portandole a fare shopping, dal medico e dal dentista per i controlli annuali, oppure in giro con le amiche. Se ti sembro stanca e pallida e, in qualche modo, scombussolata, e nervosa e disorganizzata, è perché non sopporto di correre qua e là con questo caldo, e anche perché non ho avuto un solo minuto per me stessa. Alquanto spiazzato da un tale, elaborato spiegamento di prove circostanziate (che in effetti, essendo avvocato, avrebbe dovuto metterlo sull'attenti), Jonathan ha scosso stancamente la testa. - Va bene, Teen. Va bene. Riconosco che è tutto vero, ma sono comunque preoccupato per te. Vorrei che vedessi Max Simon e ti sottoponessi a un check-up completo, potresti essere anemica o qualcosa del genere senza saperlo. E credo che, dopo il controllo, sarebbe una buona idea se andassi a fare una chiacchierata con Popkin. - Popkin. Perché, in nome di Dio, dovrei andare da Popkin? Jonathan ha emesso un altro sospiro di paziente sopportazione. - Perché sì. Perché ti ha aiutato immensamente quando eri in quello stato due anni fa. Ecco perché. - Posso ricordarti, - ho detto ad alta voce, - che io ero in «quello stato»perché pareva che mio padre dovesse morire da un momento all'altro? Non sono in nessuno stato adesso! - Okay, okay. Calmati, per l'amor di Dio, è proprio questo che intendo. Sei molto molto suscettibile -. E se ne è andato scalpicciando per il corridoio con le sue scarpe da 65 dollari, nuove di zecca. Fine del Resoconto. Commento: ci è mancato poco. Ci è mancato un pelo. Povero Jonathan. Pensa che io sia irritabile e disorganizzata. Nervosa e suscettibile. In realtà, quel che sono ora e lo sono da metà estate è: paralizzata. Paranoica come un vecchio pazzo. Talvolta sono così depressa da non riuscire a parlare, così giù di morale da dovermi chiudere a chiave in bagno e aprire i rubinetti per coprire il rumore del pianto. Altre volte così su di giri da non riuscire a stare ferma mentre tutto trema, tanto che alla fine devo prendere una pillola o bere un veloce e furtivo sorso di vodka, a seconda di quel che c'è a portata di mano. È che a un tratto ho paura di quasi ogni cosa abbia un nome. Tanto per fare qualche esempio, ho paura di: ascensori metropolitane ponti tunnel posti alti posti bassi posti stretti barche macchine aerei treni folla parcheggi deserti dentisti api ragni falene scarafaggi bande di adolescenti rapinatori stupratori squali incendi onde anomale malattie incurabili: tutte quelle note all'uomo. Mariangela Cerrino GLI EREDI DELLA LUCE CAPITOLO PRIMO Verrà un uomo, dal Nord… Albeggiava. Un vento leggero, ma tenace, scendeva dalle alture di Timan-Si infilandosi capriccioso nelle strade di Mu-Nixi, l’immensa Città Mercato, la più antica e importante città delle Terre Fortunate dopo la Capitale. Chael Kor si mosse tra la folla dei mercanti lasciandosi sorpassare. Non aveva fretta e nemmeno tutta quella gente che premeva, e i colori, le voci, gli odori e i profumi strani, e le sensazioni nuove, lo allontanavano dal suo riflettere su ciò che vedeva. Era nato in una città fredda, Sur, all’estremo limite delle Terre Settentrionali; terre di immense steppe vuote e di città cupe e affollate, dove il cielo era sempre grigio, e dove le case erano di pietra cruda e nessuno non aveva mai visto un giardino. Per anni Chael Kor aveva ascoltato i racconti dei mercanti delle Provincie di Mezzo, che intessevano tra il nord industrioso e le Terre Fortunate le loro trame di commerci e affari. Già il nome era una promessa: terre dove il cielo era sempre azzurro e c’era abbondanza di alberi e fiori, e dove il vento non era un’eterna afflizione. Ma anche le terre della Dinastia: le terre dei Mu. Chael non aveva mai visto da vicino un Mu. Non venivano nelle Terre di Settentrione, troppo fredde per il loro sangue azzurro, e pochi abitavano le Provincie di Mezzo, se non lungo le coste tiepide. Avevano delegato al potere in loro vece gli umani, ma umani di una casta molto particolare: i nobili. Da millenni i Mu possedevano e usavano i nobili, ma Chael ancora non riusciva ad immaginare quanto e come. Tuttavia era un uomo libero, condizione comune nel nord, ma già privilegiata nelle Provincie di Mezzo e quasi eccezionale nelle Terre Fortunate, tranne che a Mu-Nixi, la città mercato. E la sua condizione di uomo libero era la sua ricchezza. Chael varcò la porta che immetteva alla fiera permanente. Era una porta grandiosa, altissima, che aveva visto da lontano ardere nella notte, coronata di luce bianca. Così si voltò a guardarla scoprendovi incise le tracce di una scrittura che non sapeva leggere. Arretrò di un passo, e andò a sbattere nell’uomo, in realtà senza quasi toccarlo, e spostandosi subito. L’altro allungò una mano per proteggersi dal contatto. Era un nobile, e portava il punshaw sulla schiena, come si conveniva, con l’impugnatura che affiorava al di sopra della spalla sinistra e la shran, la corta spada a due lame, nella cintura, con le insegne che lo qualificafano nobile della Casa di Tian. Il volto era largo, e piatto, e gli occhi chiari. I capelli erano biondissimi, e gli scendevano sulle spalle, acconciati con scintillanti nastri azzurri. – Hai intralciato la mia strada, giovane uomo del nord – lo riprese, aspro. – Ammiravo la gloria Mu. È consentito farlo ad uno straniero ed è più importante di te, nobile della Casa di Tian. O vuoi forse dirmi che non è così? L’altro portò la mano all’impugnatura della shran, e Chael si sentì indifeso. Una cosa soltanto poteva riconoscere ai nobili: l’addestramento. Durava in effetti tutta la vita e ne faceva dei guerrieri imbattibili. Ma forse anche questo era diverso, nelle Terre Fortunate. – Sei pronto di lingua, uomo del nord. Ma se è la gloria Mu che vuoi vedere, continua per questa strada: agli stranieri è consentito molto, quando devono apprendere. Chael assentì correndo con lo sguardo alla più larga delle strade che da quel punto si aprivano a ventaglio verso il cuore della città e della fiera. – Ti ringrazio – rispose cauto. L’altro non si mosse. Chael restò guardingo dopo che l’ebbe superato, ma poi fu circondato dalla folla, e allentò un poco la tensione. Molta gente, in ambedue le direzioni, riempiva la strada, fluendo come la corrente di un fiume. Il sole si era levato a lambire i tetti delle botteghe accendendoli di riflessi scintillanti, ma i suoi occhi non erano assuefatti a quella luminosità fastidiosa che quasi lo accecava. Chael si fermò un paio di volte alle botteghe più insolite. C’erano gemme dei laghi di Ouray e spezie della città-porto di Moi, e negozi di libri preziosi e di armi di Ur-Sur, vendute lì cento volte più di quanto le stesse erano pagate ai costruttori, e proprio quello era lo scopo del suo viaggio: trovare dei compratori per aggirare i mercanti. Si fermò infine alla vetrina delle Sfere dei Sogni. Di là dal vetro color ambra le sfere prendevano forma e si agitavano, riflettendo la sua figura; Chael era un bel giovane, alto, con spalle larghe; era forte ma anche agile, e il suo corpo era asciutto, grazie alla vita non facile nelle sue terre. Portava i capelli neri e lisci cortissimi, in contrasto con gli usi delle Terre Fortunate, e questo gli attirava qualche sguardo curioso. Tuttavia la sua figura, riflessa dalle Sfere dei Sogni, appariva continuamente diversa, deformata e sconosciuta persino ai suoi occhi. – Chael Kor: l’uomo del nord che vuole ammirare la gloria Mu. La voce non era stata né ostile né ironica, e tuttavia era qualcosa di estremamente sgradevole e pericoloso, che diede a Chael un brivido, come se un fuoco mortale e invisibile lo avesse percorso. Si girò lentamente e scoprì un Mu a un passo da lui. Sentì il freddo che emanava. Lo sentì fisicamente, provandone repulsione, ma riuscì a non spostarsi. Quegli strani occhi che avevano il potere di cambiare colore tenevano i suoi senza sforzo e senza misericordia. – Che cosa vuoi vedere della gloria Mu? – insistette il Mu, imperioso. Gli tenne testa. – Lo Specchio degli Eventi, forse? – ribatté. – Sei molto sciocco e molto presuntuoso, umano. Non saresti in grado di vedere nulla. – Ma davvero tu sapresti fare di meglio? Si dice nelle mie terre che quello che si racconta del grande popolo dei Mu non sono altro che illusioni tenute in vita dalla ferocia. Il Mu sorrise. Un sorriso freddo, mentre gli occhi mutavano il colore scuro in un vivo rosso. Il vecchio apparso sulla soglia della bottega tirò Chael per un braccio, fino all’interno. La sua stretta era forte, e lo sostenne persino quando Chael inciampò nell’ultimo gradino. Un momento dopo la porta era chiusa; nella bottega la luce d’oro era soffusa e confortevole. Chael si liberò dalla stretta. – Hai gli occhi blu. Sei un uomo del nord? – fu tutto quello che disse il vecchio, precedendolo tra le scansie. – Sono un uomo libero del nord – precisò Chael. – Che cosa ti ha portato a Mu-Nixi? – Affari. – La gloria dei Mu non è mai stata un affare per nessun umano, nemmeno per i nobili. E tu non lo sei – commentò l’altro sconsolatamente. – Perché ne sei così sicuro, vecchio? Solo per i miei abiti e il mio accento? – No; perché sono vecchio, come tu stesso hai detto, e ho visto più cose di quante ne possa raccontare. – Spiegami perché quel nobile Mu non ha reagito. – Non ha reagito? Così credi tu – mormorò il vecchio, guidandolo sul fondo della bottega, dove c’era un po’ di spazio, e un corto bancone su cui stavano ammucchiati libri e oggetti. Chael li sfiorò con la punta delle dita, interrogandosi su quella risposta. Un brivido freddo si impossessò di lui, all’improvviso. – Che aspetto può avere lo Specchio degli Eventi? – chiese tuttavia. – Che vuoi che ne sappia? Ai nobili umani è concesso vederlo una sola volta in tutta la vita, ma hanno l’obbligo di non parlarne. Si trova nella sala delle Ametiste Oscure, alla Capitale. Chissà, forse non è nemmeno un vero specchio. Si dice che sia in grado di mostrare le cose lontane nel tempo, e che sappia rispondere a qualunque domanda… ma come ti ho detto, chi l’ha visto non può parlarne, e quelli che ne parlano non l’hanno visto. Chael ora aveva un pensiero, lieve, appena un fastidio, che gli girava per la mente. Gli sembrava che le sue dita e le sue stesse mani fossero di un altro, e non più sue. La luce d’oro tremò, come se un soffio d’aria gelata si fosse insinuato all’interno della bottega. Le sue mani salirono estranee ad aprirgli il mantello, e restarono avvinghiate ai bordi, come ragni in agguato. – Perché mi hai aiutato, vecchio? – mormorò Chael mentre la paura si avventava su di lui come una piovra gigantesca. – Io non ti ho aiutato. Non avevo alcun motivo per aiutarti. Io ho obbedito, proprio come farai tu. Le tue mani mi uccideranno, e non potrai fare nulla per impedirlo. E questo ti mostrerà la gloria Mu. – No! – si oppose Chael. – Perché dovrei ucciderti? Non ho nulla contro di te! Il vecchio scosse il capo. – Il volere di un umano non conta. Nemmeno io voglio morire, eppure morirò. Con orrore Chael vide le sue mani staccarsi dai bordi del mantello e andare al collo del vecchio, trascinandosi appresso il corpo che lottava per resistere. Il sudore gli coprì la faccia, le spalle tremarono sotto la spinta, ma la morsa si chiuse e sentì la vertebra cervicale del vecchio spezzarsi. La forza lo abbandonò di colpo, sbilanciandolo all’indietro. Finì contro il banco, ai cui piedi il vecchio giaceva scomposto. Scosso da brividi violenti, incapace di pensare, Chael si afferrò agli oggetti preziosi, rovesciandoli. Buttò un’occhiata ansiosa alla vetrina, ma nessuno vi si era fermato davanti, e il lento fluire della folla sembrava inalterato. Doveva andarsene al più presto. Infilò la porta sul retro, uno stanzino pieno di cianfrusaglie, e uscì sul vicolo. Lì non c’era nessuno, ma quella solitudine gli riuscì meno rassicurante della folla, e allora al primo incrocio infilò un’altra strada. Era quella delle botteghe delle stoffe, delle tinture, delle polveri splendenti, e sfociava in un’ampia piazza coronata da alberi, e ricca di fontane e cespugli fioriti. Cercò un albergo che gli consentisse di rintanarsi nella quiete di una stanza chiusa. Era una costruzione dignitosa, che passava per modesta tra le decine d’altre, ma che ai suoi occhi riuscì carica di decorazioni come un gran palazzo. Curiosi specchi ornavano tutti gli angoli, sdoppiando le immagini all’infinito e imponendo loro una specie di movimento che disorientava. Nel cortile interno, su cui si affacciavano le stanze, c’era un minuscolo giardino con quattro grandi baini, o una specie affine, gravidi di pesanti fiori bluastri e odorosi. Il profumo era tanto acuto da impregnare anche le stanze. I clienti erano tutti viaggiatori, per lo più mercanti e qualche pellegrino diretto alla città-tempio di Van, che non lo degnarono di più attenzione di quanta ne davano ad ogni nuovo arrivato. Era presto, e molti dovevano ancora uscire o erano in procinto di ripartire. Chael era abituato ad osservare, così rilevò tutto quanto aveva intorno senza neanche rendersene conto, se non quando si fu richiuso la porta della stanza alle spalle, e si ritrovò le proprie mani davanti agli occhi. Ucciso. Aveva ucciso perché qualcun altro si era impossessato delle sue mani e ne aveva fatto quello che voleva. Il vecchio era stato consapevole, e come lui non aveva avuto scampo. Era questo, dunque. Era questo l’orrore che arrivava filtrato, nel nord, come se fosse una diceria, o qualcosa che accadeva in un altro mondo. Era questo che i Mu facevano da millenni agli umani. Era questa la gloria Mu. Si portò le mani al viso, e per un poco restò chino, ripiegato su se stesso, invaso da una rabbia violenta. Il nord doveva lottare con i nobili, ma erano pur sempre umani, pur sempre comprensibili, avidi, disonesti e violenti. I Mu erano un orrore senza nome. Qualcosa batté sommessamente alla porta. Per un momento Chael restò immobile, incerto. Non aveva armi. Nessuno che non fosse nobile o soldato poteva portarne, ma afferrò un vaso e si mise a lato della porta. – Vattene! – ordinò. – Chiunque tu sia. – Ti posso aiutare, e puoi aiutarmi. – La voce era sommessa, e calda, e sembrava quasi la voce di una bambina. Chael fece scattare l’apertura della porta, e restò prudentemente di lato. Ma la ragazza stava accovacciata sulla stuoia dell’ingresso, in attesa. Portava un kivac azzurro, e le insegne sulla spalla la dicevano proprietà di un Mu. Stava con il capo chino, e per un momento Chael vide soltanto l’oro chiaro dei capelli, divisi ai lati del viso, e poi intrecciati sulla nuca con file di minuscole gemme azzurre. – Nel nord, da dove io vengo, una come te sarebbe una principessa. Alzati – le ordinò. La ragazza sollevò il viso. Aveva occhi chiari e labbra pallide, e ben disegnate. – Perdonami, signore. Io non sono una principessa. – E io non sono un signore. Sono Chael Kor, figlio primogenito di Kor Neki, fabbricante di lame nella città di Ur-Sur, all’estremo limite delle Terre Settentrionali. Gli occhi pallidi si illuminarono come se avessero riflesso il sole, mentre si appoggiava alla sua mano per sollevarsi ed entrare. Chael lasciò la porta socchiusa. – Allora? Sto aspettando di sapere chi sei. La ragazza lasciò correre lo sguardo per la stanza. – È brutto, qui – mormorò. – Sei abituata a posti più belli? – Sono abituata alla casa del Mu Ala Iosi. – Non lo conosco. – Lo conosci. Il mio padrone si è degnato di giocare con te, poco fa. – Il tuo padrone! Per lui uccidere è un gioco? – La vita di un umano è un soffio di vento al volere di un Mu. Ma tu sei straniero. Per questo il mio padrone ti trova divertente. – Divertente! – ripeté Chael tra i denti, sommerso dalla rabbia. La ragazza lo guardò stupita, perché davvero non riusciva a comprendere il suo sgomento. Chael tentò di calmarsi. – Hai detto che gli appartieni: come ti chiami? – Il mio nome è Tianne. Sono nata nella sua casa, e quindi gli appartengo. Chael la afferrò bruscamente, costringendola a guardarlo. – Hai detto che il tuo padrone ha giocato. Io posso dire al tuo padrone che il suo gioco non mi è piaciuto! La ragazza sollevò una mano a coprirgli le labbra. – Tu devi essere pazzo, uomo del nord. Perché sei venuto nelle Terre Fortunate se non sai come ci si comporta con i Mu? Chael allontanò le dita calde che premevano sulle sue labbra. – Che cosa sei venuta a fare? E come mi ha trovato? – Tutti possono essere trovati, a Mu-Nixi. Non lasciarti ingannare dalla gran quantità di gente e dalla confusione. Quando passi le sue porte di luce ti viene fatto un segno, e quel segno ti segue ovunque, fino a quando non lasci la città. I Mu erano molto sapienti, tanto tempo fa, e le porte sono vecchie di millenni. – Ed è così in tutte le città Mu? – Non lo so. Non ho mai lasciato Mu-Nixi – ammise la ragazza. – Non mi hai detto perché sei venuta. Tianne sorrise per la prima volta da che era entrata. – Il mio padrone ti ordina di presentarti alla sua casa, e sono venuta per accompagnarti. – Nessuno ha il diritto di ordinarmi qualcosa. Sono un uomo libero. – Non è vero. Come tutti gli uomini del nord sei soggetto al volere dei nobili della tua città. – Questo come lo sai? Tianne lo guardò maliziosamente. – Sono più colta di te – replicò. – Ti hanno semplicemente posto in bocca parole che ripeti. Non verrò. – Ma non puoi rifiutare. Ricorda quello che è accaduto alle tue mani e sii ragionevole. Il mio padrone è ben disposto, e tu qui non hai alcun diritto, se non quello di piacergli. Chael tremò, posando le proprie mani sulle spalle fragili della ragazza. Il kivac azzurro brillava come polvere d’argento, al calore del corpo. – È vero: non conosco nulla degli usi dei Mu. Ma non sopporterò i giochi del tuo padrone. E non sopporto nemmeno l’idea che possa servirsi di me per divertirsi. Sai che cosa vuol dire questo? Che non uscirò vivo dalla sua casa. – Io... io non so come aiutarti – mormorò la ragazza. – Lo vorresti davvero? – ribatté Chael. – Qualche volte gli umani parlano tra loro come tu hai fatto con me, ma di nascosto, e hanno paura. Tu non hai paura. Soltanto... – Soltanto? – la esortò. – Sento qualcosa in te, uomo del nord. Qualcosa che sa di sangue, e di morte. – Le mie mani hanno appena ucciso. – Non è soltanto questo. È... molto di più. È tutto un mondo che urla. Chael scosse il capo, spingendola fuori della stanza. – Io credo che tu faccia troppo uso delle Sfere, come tutti da queste parti. I Mu vi hanno soggiogati con quelle illusioni. – Da te non è così? – Noi combattiamo l’uso delle illusioni! – ribatté Chael. – E ora mi avvedo di quanto questo sia giusto. Tianne lo guardò sorpresa, e un poco perplessa. Chael si mise sulle spalle la sacca che era tutto il suo bagaglio. – Andiamo – fu tutto quello che disse, e gli restò la frustrazione di sapere che non avrebbe potuto comunque fare altro. La ragazza lo tenne per mano per tutta la piazza e lungo la strada, leggermente in salita, che portava ai sobborghi occidentali della città. Era una strada tranquilla, con botteghe eleganti e giardini ben curati, e nobili che sostavano all’aperto, occupati in giochi sconosciuti, talvolta su scacchiere scintillanti, talvolta su minuscole scatole che sembravano dotate di vita propria. Erano ormai fuori dell’immensa area della fiera, e nessuno badava a loro. Le insegne sul kivac della ragazza dovevano costituire una specie di lasciapassare, che li portò indisturbati fino al fondo della lunghissima strada. Il sole ormai era alto. Per tutto il tempo Tianne non aveva detto una sola parola, e Chael era stato immerso nei propri pensieri, e al tempo stesso si era guardato intorno, e aveva guardato le facce della gente, cercando di venire a patti con la rabbia che lo divorava. Al fondo della strada presero un vran in attesa. L’umano che lo conduceva era un servo del Mu Ala Iosi, ne riconobbe le insegne, e tuttavia non una sola parola fu scambiata tra l’uomo e Tianne, che gli sedette accanto lasciando Chael solo sul sedile posteriore. Il veicolo si mosse lentamente, scivolando silenzioso ad un palmo dal suolo e imboccando un viale alberato che svoltava ad oriente. Chael si rilassò, socchiudendo gli occhi al verde squillante che adesso costeggiava la strada, da una parte e dell’altra. C’erano alberi e fiori che non aveva mai visto, così alti e lussureggianti che le più fitte foreste del nord sembravano al confronto macchie di cespugli. La casa del Mu si allungava a semicerchio tra l’acqua e gli alberi, e il vran li lasciò davanti al padiglione centrale, in un ampio cortile circondato da cerchi di acqua chiara. Tianne lo condusse per l’ampio vestibolo, vuoto e invaso dalla luce, fino al cortile interno. Dell’acqua cantava, nelle fontane dal fondo luccicante, ma era un suono assolutamente preciso, calcolato, che pur variando ripeteva all’infinito la stessa nota. – Sulla stuoia – gli mormorò Tianne, e Chael la imitò, sedendosi. Si accorse di avere caldo, così nel sole. Anche l’aria era inebriante. Sotto i portici che correvano tutt’intorno vedeva adesso passare delle ombre, che i suoi occhi non riuscivano a distinguere, e sentiva delle voci: la parlata lenta delle Provincie di Mezzo e quella squillante di Mu-Nixi, intervallate da risa umane. D’improvviso seppe che stava venendo. Il suo corpo lo avvertì come una minaccia, reagendo, e dovette sforzarsi per restare accovacciato. Si fece quindi schermo degli occhi con una mano: l’alta ombra del Mu veniva dal portico. Vestiva d’azzurro, e sebbene non sorridesse, i tratti del volto erano rilassati. – Tianne dice che ti opponi alla mia volontà perché sei un uomo del nord, e ti ritieni libero. Chael si girò a mezzo guardando stupito la ragazza, che non aveva ancora aperto bocca. – Se leggi così bene i pensieri non hai bisogno di chiedermelo! – ribatté. Il Mu tese una mano verso di lui. Una mano lunga e sottile, con dita straordinariamente affusolate. – Posso fare molto più che leggere i tuoi pensieri: posso toglierti l’aria che respiri e spegnere la luce dai tuoi occhi e raggelare il sangue nelle tue vene. – E questa è la gloria Mu? – Sei un umano divertente. Ma la tua mente è piccola come un seme di moi, e altrettanto rozza. E io sono annoiato. Ti concedo di combattere con un nobile della mia Casa, e di divertirci. – Non voglio battermi! – Ma lo farai – ribatté il Mu. La piccola folla di umani si mosse dall’ombra del portico, verso il cortile. Oltre le fontane c’erano altri Mu, forse tre o quattro, ma Chael non si girò, per non distrarsi. Con un solo gesto si liberò della sacca e del mantello. Il nobile che si mosse per primo aveva le insegne della Casa di Tian, e altri della casa, tra i quali quello che aveva urtato alla porta della città, si fecero avanti. Abbozzò un cenno con il capo e si allontanò dalla stuoia, per non coinvolgere Tianne. Gli sembrò che qualcuno, da qualche parte nella sua mente, ridesse di quella premura. Il nobile si mosse girando su se stesso e sfoderando il punshaw, e l’arma gli passò sulla testa, sfiorandolo, nello stesso istante. Chael si abbassò e si spostò di lato. Ma non c’era molto che potesse fare, se non giocare di agilità e di astuzia. Il nobile si muoveva sicuro. Per due volte fece volteggiare il punshaw, e Chael si salvò arretrando. Alla terza volta, la lama lo sfiorò di piatto, aprendogli uno squarcio superficiale sul petto. Il colpo non portò alcuna emozione evidente nel suo avversario. Chael arretrò fino alla pietra bianca di una fontana, e poi si lasciò scivolare in ginocchio, e rotolò in avanti nel momento in cui il suo avversario abbassava la lama. Gli afferrò il polso, e lo tirò, con una mossa di Dai. Il fatto che conoscesse quella tecnica di lotta, riservata ai nobili, sconcertò tanto il suo avversario che dimenticò di opporgli la contromossa. Fu soltanto un attimo, ma Chael lo afferrò per il collo, lo tirò sotto di sé e si appropriò della shran, posandogliela sulla gola. Adesso, qualunque fosse stato il movimento, il nobile era morto, perché la corta spada a due lame non perdonava. Il nobile non si mosse, e nemmeno Chael, lasciando che l’acqua della fontana gli colasse addosso in un velo di spruzzi. L’uomo respirava con affanno. Chael sollevò lo sguardo sull’ombra del Mu, che li aveva raggiunti. – Uccidilo – ordinò il Mu. Chael sollevò lo sguardo ad incontrare gli occhi adesso rosso cupi, e la bocca senza sorriso. Allentò la stretta e sollevò il braccio armato. – No – rispose. – Soltanto perché è un ordine? – ribatté il Mu. Chael non riuscì a definire l’intonazione in quella voce; intanto il nobile sgusciò via dalla sua stretta, e si mise in piedi, ma Chael restò inginocchiato nell’acqua. – Un tempo, molto tempo fa, i nobili umani avevano un codice d’onore, che vietava loro di incrociare le armi con gli inferiori, ma che imponeva loro la morte se accettavano la lotta e ne uscivano vivi e sconfitti. Vedi come si corrompe una specie, giovane uomo del nord? Questo nobile non ti è grato perché gli hai risparmiato la vita, e tuttavia non si ucciderà, perché anche l’onore è morto per lui. – E per te, Mu Ala Iosi? Gli occhi del Mu erano tornati cupi. Chael sentì una specie di dolore alla base della nuca, una stretta immateriale, molto intima e selvaggia, dolorosa, ma anche mescolata ad una strana, viva e intensa sensazione di piacere. Qualcosa che non aveva mai provato prima. Qualcosa che lo riempì al tempo stesso di voglia di lasciarsi invadere, e d’orrore. Gli occhi del Mu erano argento vivo. Chael vedeva solo quegli occhi. Nessun suono, nessuna luce, nessun calore per un istante che sembrò durare l’eternità stessa. Si ritrovò nudo, piegato in due nell’acqua, con ancora la sua domanda sulle labbra, e il gelo nelle vene. Tianne gli sfiorò le spalle, sollevandogli poi la fronte. Sentì la sua mano come se fosse fuoco sulla pelle gelata. – Cerca di respirare, Chael! – supplicava la giovane. – Respira, ti prego! Si appoggiò alle spalle della ragazza, cercando conforto nel tepore della sua pelle, e le obbedì. Il respiro gli uscì come un sibilo rauco. E infine riuscì a sollevare il capo e a guardarsi intorno. Il giardino era vuoto, e anche i portici. Fece cenno a Tianne di volersi alzare, e la ragazza lo sostenne, aiutandolo, e ponendogli il suo mantello intorno ai fianchi. Il sangue che scorreva dalla ferita era rosso e caldo, e anche il gelo, lentamente, lo stava lasciando. Tianne lo guidò verso un’arcata, e poi in un altro cortile. Lì si aprivano piccole stanze ombrose, circondate di verde e colme di tappeti. L’acqua scorreva ovunque, componendosi in cascatelle e specchi tranquilli, e c’era uno strano profumo, forte, non umano. La ragazza lo aiutò ad adagiarsi su uno dei tappeti sistemandogli un cuscino sotto il capo, e poi gli tornò accanto con una cesta di unguenti e di bende. Per un poco Chael la lasciò fare, tenendo gli occhi chiusi, e limitandosi ad ascoltare i suoni e gli odori. Aveva tante domande per la mente, ma nessuna gli sembrava tanto importante quanto inseguire le sensazioni che gli erano rimaste, e quella voglia di morte che gli pesava addosso. – Che cosa mi ha fatto? mormorò infine, aprendo gli occhi su Tianne. La ragazza aveva portato coppe di bevande e piatti di cibi che non conosceva, ma non gli rispose. – Non vuoi parlarmene? – insistette. Incontrò due occhi pallidi in cui non c’era luce. – Sei piaciuto al mio padrone, Chael. Da molto tempo i Mu cercano le emozioni degli umani per godere. La tua lotta e la tua temerarietà lo hanno eccitato e divertito. Ti ha posseduto. E lo farà ancora, fintanto che in te non resterà più nulla di tutto questo. Se sarai ancora vivo, dopo, forse ti lascerà andare per la tua strada, o forse ti concederà di vivere in questa casa come un servo. – Legge davvero la mia mente? Può farlo? – Quando ti avrà posseduto molte volte la tua mente non potrà più nascondergli nulla. Vedrà con i tuoi occhi e sentirà con le tue orecchie. Ma adesso ci sono ancora molte cose che puoi nascondergli. Per questo lo diverti. Posseduto. Era questo dunque, che sentiva ardere nella pelle. La violenza nella sua mente e nella sua carne non era che la prima aggressione, la prima breccia per divorarlo, vivo. Tentò di ragionare. – È lui che mi parla, adesso. È lui che parla attraverso te! Tianne lo guardò senza rispondergli. Chael distolse gli occhi dai suoi. Adesso tutto quel verde, e la quiete, i colori e la luce gli riuscivano insostenibili. – Può farlo in qualunque momento? – mormorò. – Possedermi, intendo! – Anche da lontano, sì. Ma richiede energia. È più facile, e più piacevole, se ti sta accanto. Anche il tuo corpo gli è piaciuto, Chael. I Mu provano piacere con i corpi umani, ma il Mu Ala Iosi è molto esigente. – Piacevole! – imprecò. – Anche il corpo di un Mu è piacevole per un umano, Chael, se ci si lascia guidare. Chael allungò una mano a sfiorarle il viso, ma senza guardarla. – Va’ via! – le ordinò. – Vattene! – Non posso – mormorò Tianne, sollevando le mani a toccarlo. Per un momento Chael si vide riflesso negli occhi pallidi, trasformato dalla rassegnata disperazione che sembrava affiorare dal profondo della ragazza. Con mani non più sue le afferrò il kivac e lo stracciò, prendendo il suo corpo con furia, devastandolo, fintanto che la sua mente si trovò affogata, e il corpo sotto di lui non era più quello di Tianne, ma quello del Mu Ala Iosi. Restò a lungo disteso sul tappeto, dopo. Il corpo di Tianne giaceva girato su un fianco, nudo, le trecce sfatte, le gemme azzurre sparse intorno. Con uno sforzo Chael arrivò a sfiorarle la schiena, e infine a girarla. La ragazza era fredda. Il collo era spezzato e la violenza aveva distrutto il suo ventre piatto e i seni accoglienti. Chael ritirò la mano tremando. La violenza del Mu su di lui era stata altrettanto brutale e selvaggia. Ma non era morto. Non ancora e non del tutto. Scivolò nel torpore, troppo debole e troppo ferito per resistere: sapeva quello che gli stava succedendo. Il richiamo adesso era gentile, e gli prometteva sollievo e ancora piacere. Così Ala Iosi lo avrebbe avuto ogni volta più consenziente, e ogni volta più affamato. E gli si buttò contro, e cedette di nuovo. Quando si svegliò era notte. Il suono dell’acqua era mutato, e anche i profumi nell’aria, che erano diventati dolci e leggeri. Una brezza fresca faceva muovere il verde e portava cascate di petali a cadere a pioggia dai fiori maturi. Si mosse adagio, cercando nella penombra i suoi vestiti. Una luce leggera veniva dalla volta della stanza, e coronava i portici con un debole splendore. Ricostruì il percorso compiuto con Tianne, fino al cortile mediano. Era vuoto, e diverso nella luce della luna piena. Infilò deciso il portico e le stanze che vi si aprivano. Ala Iosi doveva sapere che stava andando da lui. Chael non tentò di nasconderglielo. Anzi, spinse la sua mente verso il Mu con tutta la forza di cui era capace, e intanto arrotolò tra le mani, sotto il mantello, il filo di ghenir, l’arma dei cacciatori del nord, l’unica arma che un nobile ed un soldato non avrebbero portato perché non la riconoscevano tale. Traversò sale su sale, con facilità, quasi di corsa. Erano deserte, e colme di strane cose che vivevano nel buio senza muoversi, accendendosi al suo passaggio e spegnendosi subito dopo. Cose non umane. La mente del Mu era una macchia d’argento vivo che si mangiava i suoi pensieri. Chael gli arrivò alle spalle. Il Mu stava rigido nell’ampio sedile, e nel momento in cui Chael alzò le braccia e le abbassò stringendogli intorno al collo il ghenir gli esplose nella mente il disprezzo e il piacere, la voglia di morte e l’urlo di trionfo del Mu. Strinse, fintanto che il filo gli penetrò nelle dita facendole sanguinare, e poi avvertì il distacco. Una massa oscura che si separava da lui, una corsa verso il basso, qualcosa che gli fece mancare l’aria e lo costrinse ad appoggiarsi al sedile per non cadere. Il Mu era morto. Morto come un qualunque umano, strangolato da un filo di ghenir. Chael aveva la mente vuota, e si sentiva debole, come se fosse appena scampato ad una spaventosa malattia. Arretrò cautamente nelle sale appena percorse, ma adesso che le vedeva con i suoi occhi gli sembravano paurose e sconosciute. Non sapeva che cosa stava accadendo agli altri umani della casa. Ai servi, che erano certamente tutti posseduti, ai nobili, che si prestavano per obbligo all’unione; agli altri Mu, che si diceva fossero sempre in grado di sentirsi tra loro. Si ritrovò nel giardino principale, e corse verso il vestibolo. Non c’erano guardie: non ce n’era bisogno, perché nessuno aveva mai attaccato e ucciso un Mu prima di lui. I presidi, i soldati, la giustizia dei nobili erano per gli umani e le loro piccole beghe. Nessun Mu agiva mai contro un altro Mu, e l’Impero e la Dinastia erano stati per questo, nel tempo, saldi come rocce. Fino a quel momento. Si infilò in un vran e lo mise in moto. Dalla dimora non veniva alcun suono d’allarme. Forse gli altri Mu erano occupati nei loro personali piaceri, forse i nobili non erano tanto fedeli, e forse i servi non potevano più vivere senza la mente che li possedeva. Quel pensiero lo colpì, mentre scendeva lungo il viale alberato verso Mu-Nixi. – Nelle tue mani c’è tutto un mondo che urla. Morte e sangue... – così aveva detto Tianne. Ma era stato Ala Iosi a parlare. Ala Iosi che aveva goduto doppiamente affrontando la sua premonizione e sfidando la morte, vittima e carnefice. Lasciò il vran all’inizio del lungo viale ancora pieno di gente, di luci e di suoni, e si confuse tra la folla, risalendo verso la porta est, ricordando l’avvertimento di Tianne sul segno impresso per rintracciare chiunque all’interno della città, che veniva cancellato soltanto ripassando da una delle porte per l’uscita. Lasciò Mu-Nixi dalla porta orientale, e appena fuori prese un vran da trasporto sulla strada Nixi-Van. Tuttavia era già molto tardi, e il veicolo fermò la sua corsa al primo villaggio, dopo poco più di due ore, lasciandolo con altri passeggeri su una piazzetta deserta. Il villaggio sembrava di nobili, e le dimore erano nascoste nel verde di giardini molto fitti. Trovò una sola locanda, appena oltre la curva della strada principale, e si infilò sotto il portico. Non c’erano altri avventori, a parte un umano avanti negli anni, ma poderoso, che se ne stava chino su un boccale di skor. Ne ordinò uno a sua volta, e l’oste lo servì con sollecitudine vedendo il suo mantello scarlatto di uomo libero del nord. Per un poco Chael si rilassò contro il sedile di pietra, lasciando che lo skor si scaldasse nel boccale. Adesso sentiva il dolore per la ferita al petto, e il dolore della carne, per la violenza subita. E il pensiero che la corte dei nobili aveva assistito allo spettacolo lo faceva tremare come per un attacco di febbre. La rabbia lo divorava con altrettanta ferocia del Mu. La mano che gli si posò sulla spalla sostò solo un istante, leggerissima, e le dita lo sfiorarono appena. – Stai male? – chiese l’umano, che l’aveva raggiunto lasciando il proprio tavolo. Scosse il capo, per allontanare il fastidio del suo interesse. – Vattene – fu tutto quello che gli rispose. – Perdonami se insisto. Ma poco fa stavi per cadere dal sedile. Stai male? Chael alzò gli occhi a guardarlo; lo vedeva di là da una nebbia che lo rendeva impreciso. Provava il disperato bisogno di parlare con qualcuno, ma restò zitto. – Mi chiamo Imarti. Sono un trasportatore libero, sulla strada Mu-Nixi e Omik-le-ma via Van. Parto domattina. Se vuoi, posso ospitarti – si offrì. – Sei molto generoso, Imarti. – La stanchezza o la malattia ti fanno pensare cose ingenerose di me, giovane uomo del nord. – Come fai a dirlo? Anche tu entri nella mente degli altri, Imarti? Il vecchio scosse il capo. Aveva un’aria compassionevole, adesso, che rese furioso Chael. – No. Ma vedo del sangue che filtra dal tuo mantello, e leggo la disperazione nei tuoi occhi. Io credo che tu non voglia essere trovato, quando si comincerà a cercare. È così? Chael si alzò senza rispondere, ondeggiando, e lasciò una moneta sul piano del tavolo. Imarti tese un braccio per sostenerlo, ma Chael si scostò bruscamente. – Non mi toccare! – ringhiò. Non avrebbe più permesso a nessuno di toccarlo. Il vecchio annuì in silenzio, e lo precedette fuori. Aveva una capanna piccola e pulita all’altra estremità del villaggio, tra i folti baini dalle larghe foglie, che la rendevano quasi invisibile dalla strada. Chael accettò con infinito sollievo il giaciglio che il vecchio gli indicò, e si distese tenendosi addosso il mantello e girandosi immediatamente verso la parete, fingendo di dormire. Quando si svegliò si accorse che una mano gentile gli aveva posto dell’acqua fresca sulla fronte, gli aveva tolto il mantello e gli stivali, e lo aveva coperto. Per un momento Chael fissò il vecchio senza riconoscerlo, poi spostò lo sguardo al rettangolo appena più chiaro alle sue spalle: stava facendo giorno. Una brezza carica di profumi forti penetrava a folate. – Perdonami se ti ho svegliato. Ma hai avuto un incubo, e gridavi. – Lo so. – Sarà così per un po’ di tempo. Succede a tutti, la prima volta. – È accaduto anche a te? – Anche a me è accaduto, sì, tanto tempo fa. Ma io sono un uomo mediocre, senza ambizioni, e non sono interessante. Non potevo dare emozioni. Chael fissò il soffitto. Era d’argilla e canne, fittamente intrecciato, bellissimo nella sua geometrica semplicità. – Devi portarmi via stamattina – mormorò quindi. – Non puoi: hai la febbre. Il tuo corpo e la tua mente rifiutano la violenza subita, e poi c’è la ferita, che si riapre non appena ti muovi. – Devi portarmi via lo stesso. Hai mai sentito che un umano abbia ucciso un Mu? Il vecchio Imarti lo fissò a lungo. – È questo che hai fatto? Chael sorrise, all’improvviso, feroce. – È stato solo il primo – la sua risposta era appena un sibilo, estranea ai suoi stessi orecchi. Per un momento ci fu silenzio. Il vecchio girò la faccia a guardare il rettangolo che si schiariva ad ogni attimo. – Questo era scritto, nello Specchio degli Eventi. – Che ne sai dello Specchio degli Eventi? – Ti ho detto che il mio percorso passa per Van, la città-tempio. Si fanno molte chiacchiere, là, su questo. – Non credo che esista, e se esiste nessuno sa riconoscerlo! – Esiste – ribatté Imarti. – E c’è ancora chi sa riconoscerlo: è Xar Mos, signore dell’isola di Sirai. Un Mu, principe della Dinastia – Non ci credo. – La Dinastia, all’inizio, era una buona cosa. Ma il tempo corrompe, e anche i poteri si corrompono. Questo è quanto ho sentito dire a Van. – Mi ci porti? – A Van? Sì, può essere una buona idea: ti darò degli abiti da pellegrino. Il vecchio si mosse per andarli a cercare. Chael appoggiò la faccia alla coperta ruvida, e per un poco restò con gli occhi fissi a guardare il mosaico della parete e a sentire il proprio respiro. Gli sembrava che null’altro fosse rimasto al mondo. Lasciarono il villaggio che era ancora molto presto. Una fine acquerugiola, normale per la stagione a dire di Imarti, e che sarebbe durata appena una mezz’ora, bagnava la polvere della lunga strada che tagliava la piana di Ouray-Van, dividendola quasi esattamente in due. A meridione, tra i Laghi Splendenti e la magnifica Capitale, c’era la valle di Mu-ley, la culla della Dinastia. A Settentrione c’erano le dolci colline che portavano alla penisola di Omik-le-ma. Una terra fertile e rigogliosa. – Questa via peggiora di stagione in stagione – borbottò Imarti tenendo il largo vran esattamente nel centro. – C’era un tempo, dicono, che la strada aveva un pavimento, e brillava come i laghi di Ouray brillano al sole. Vedi, giovane uomo del nord? Vedi come tutto si consuma? Chael non aveva voglia di rispondere. Se ne stava in parte disteso alle spalle di Imarti, nell’unico angolo lasciato libero dalle merci destinate al porto di Ik, tra ceste ed involti. Non stava scomodo, in effetti. Non era la sua posizione a renderlo insofferente. Imarti gli aveva dato una vecchia tunica azzurra e calzoni dello stesso colore, e con quegli abiti poteva dirsi relativamente al sicuro: nemmeno i nobili avevano molta voglia di occuparsi dei pellegrini diretti alla città-tempio. E tuttavia c’era qualcosa. Una specie di paura che poteva quasi essere rimorso; come se ogni albero, ogni filo d’erba, ogni nuvola che gli passava sul capo urlasse la sua colpa. Aveva ucciso un Mu. Aveva versato il sangue azzurro della Dinastia. Imarti lo guardò dubbioso. Chael fece uno sforzo per tornare al presente. – Quanto può essere vecchia questa strada? – chiese. – Chi può dirlo? Millenni. I Mu, all’inizio, erano buoni. Furono loro a tracciare le grandi strade che noi usiamo ancora. La strada di Vina-Nor, che unisce tutte le terre emerse, la strada di Nixi-Van e la strada Sacra, la più bella di tutte, e che porta alla capitale e fino al mare. Sei mai stato alla Capitale? – No. – È un peccato. La strada finisce al palazzo delle Ametiste Oscure. Lì c’è quello che ti attrae tanto. – Lo Specchio? – E non solo quello! La capitale si affaccia su una baia, e ci sono delle isole. Le leggende dicono che non sono di vera terra, ma che sono state costruite. Sono le isole della Corona, e in fronte, davanti alla città-porto di Moi, le Isole Gemelle. E poi c’è la Casa di Ori. – La Casa di Ori? Non ne ho mai sentito parlare. – Non me ne stupisco. E più antica persino della Capitale, e a Van dicono che è su quell’isola che i primi Mu sono giunti, tanto tempo fa. E dicono che è lì che è chiuso il segreto del loro potere. – E allora perché non se ne parla? Imarti si strinse nelle spalle. – Nessuno ci va più da molto tempo. È un posto strano. Io ci sono stato, una volta. C’è una specie di padiglione, sulla scogliera, e da lì una scala che scende in basso, su una spiaggia nera, e una passerella sospesa che porta all’Isola. La casa sembra... una bolla di sapone, opaca, e l’isola non tocca l’acqua. Ci sta sopra. – Come, sopra? – Cosi – esclamò Imarti, accostando le mani per mostrargli la distanza tra le due superfici. – Nessun umano, che io sappia, è mai riuscito a varcare quella passerella – concluse Imarti. – Ci hai provato? Gli occhi di Imarti brillarono. In parte era soddisfazione, per essere riuscito a strappare Chael dal suo mutismo e ad interessarlo a qualcosa. – Naturalmente ci ho provato. Ho anche tentato di andarci sotto con una barca, ma c’è qualcosa che non si vede e che impedisce di passare. Se è vero che la potenza Mu è lì, devo dirti tuttavia che è custodita molto miseramente, e per niente venerata. – Hai detto che è come una bolla di sapone opaca... – Sì. Ma brilla, e cambia colore quando cambia la luce. Non ha finestre, né porte che si possano vedere, e se non fosse per la passerella, si direbbe che possa volare via. – Vedi le cose in modo molto colorato, Imarti. – Può darsi. Ma quello che ti ho detto è la verità. Così come è vero che alla Casa di Ori non è data più alcuna importanza e che nessun Mu ci va. E non ci sono cerimonie. E questo da moltissimo tempo. – Io non capisco, quando tu parli di tempo, che cosa intendi – ribatté Chael. – Millenni. Questo intendo, quando parlo di tempo. Chael guardò sconsolato la lunga fila di vran che venivano in senso opposto, diretti a Mu-Nixi. – Dura da tanto, la nostra schiavitù? – All’inizio non era così, te l’ho detto. All’inizio i Mu hanno fatto molto per gli umani. – Questo dove lo raccontano? A Van? Dove onorano i loro dei? – Qui ti sbagli, Chael. I Mu non hanno dèi. La città-tempio di Van è una città di umani, costruita da umani per gli umani. Non ho mai sentito dire che un Mu adori qualcosa. Sostarono per mangiare nella locanda dove Imarti era solito fermarsi. Era un villaggio fiorente, ricco d’acqua, e la vita sembrava quieta e serena. Non si vedevano Mu, per quanto Imarti lo avesse avvertito che potevano incontrarne in ogni momento. Non era raro tuttavia che fornisse ad un pellegrino un passaggio per il suo viaggio, così nessuno si stupì, né fece domande. Chael tuttavia restò teso, e non riuscì a prendere altro che un po’ di frutta e poi tornò subito al vran, e si accovacciò tra il carico, fingendo di restarsene in meditazione. Quando ripartirono il traffico era molto intenso. Era una cosa normale in quella stagione, gli spiegò Imarti, poiché a Van vivevano non meno di diecimila persone, e altre cinquemila vi affluivano e defluivano quotidianamente. Impiegarono molte ore per coprire poca strada, e si fermarono a dormire in un secondo villaggio, molto vasto, che si allargava tra le colline e i fitti boschi. Imarti lo osservò per tutto il tempo della cena, che toccò appena. Nella locanda erano in molti, ma erano quasi tutti trasportatori; pochi pellegrini si permettevano il lusso di una cena, e pochi mercanti sentivano il bisogno di lasciare Mu-Nixi per andare alla città-tempio. C’erano tuttavia dei soldati, ad un tavolo, e qualche nobile nelle nicchie a loro riservate. – Non so se faccio bene a parlartene – mormorò Imarti ad un certo punto, vedendo il suo boccale di skor ancora colmo. – Ma qualunque cosa è meglio di quello che senti adesso. Non è così? – Adesso non sento più nulla – la voce di Chael era ostile. Imarti non si lasciò scoraggiare. – In questa zona, da qualche tempo, ci sono fermenti fra le truppe. I nobili sono intervenuti due volte, ma il fermento continua ad allargarsi. Gli occhi di Chael si incupirono. – E i Mu? – I Mu neanche si accorgono di quanto succede. Chael ricordò l’assenza di precauzioni nella dimora di Ala Iosi. I Mu erano così sicuri, così assolutamente certi della loro superiorità... – Si dice che alla testa del movimento ci sia un uomo, nativo dell’arcipelago di Musian-Ma. Era un soldato, prima, e anche un buon soldato, un comandante. Si dice che molte truppe gli siano rimaste fedeli. Si dice che, volendo... – Si dice, Imarti? Il vecchio alzò le spalle. – Il suo nome è Manor Tai. Ed è un uomo feroce e spietato. – Dove lo trovo? – Sarà lui a trovare te, se proprio vuoi incontrarlo. Che cosa ti passa per la mente, Chael? – Quello che volevi quando hai incominciato a parlare, Imarti. Sei molto abile. Imarti spinse via il piatto vuoto e si riappoggiò al sedile, armeggiando per accendersi la lunga pipa. – Qui ti sbagli di nuovo. Tempo fa, e questa volta intendo cinque o sei stagioni soltanto, ho visto il Mu di cui ti ho parlato. Il signore di Sirai. Chael abbozzò un cenno di fastidio: non voleva sentire parlare di un Mu. Di qualunque Mu. Ma Imarti lo ignorò. – Naturalmente non si rivolgeva a me, ma io l’ho sentito. Per quanto ti sembri strano, stava difendendo un umano dalla prepotenza di un Mu. L’ho sentito dire: avete perduto il tesoro della vostra mente. Non avete più memoria. Avete permesso che l’ombra crudele della nostra specie divorasse il patto, e tutto quanto era stato fatto per l’Armonia. Così verrà un uomo dal nord, e non lo vedrete. Starà tra voi, e avrà buon gioco della vostra negligenza e della vostra ottusità. Si servirà di quello che avete trascurato, e quando lo capirete la Dinastia sarà già distrutta. Disse questo, quasi con le stesse parole – concluse Imarti. – Sembra che lo ammiri – costatò Chael, infastidito. – È difficile dirlo; certo mi ha lasciato il segno. – Tutti i Mu lasciano il segno – ribatté Chael; vide riflessa la propria immagine nell’oro chiaro dello skor ormai caldo. – Sono io quell’uomo? – chiese infine. Imarti sostenne il suo sguardo. – Ti porterò ad Ik, dove prenderai il traghetto per Musian-ma. Io farò sapere del tuo arrivo. Chael assentì in silenzio, ma rabbrividì, come se un’ombra fredda gli si fosse posata sulle spalle. Riuscì a scorgere le innumerevoli guglie rosse della città di Van mentre vi giravano intorno, abbandonando la strada Nixi-Van per una strada minore, che scendeva fino alla città-porto di Ik. La città-tempio era completamente racchiusa da alte mura di pietra rossa, e saliva a terrazze, elevandosi su molte colline, sovrastata da una vera foresta di pinnacoli e cupole e guglie. La gran massa di pietra dava l’idea di qualcosa di estremamente caotico e confuso. Era completamente diversa da Mu-Nixi, che pur essendo una città-mercato era pur sempre una città Mu, dove dominavano luce, spazio e armonia. Ricordò come Imarti avesse detto che Van era una città di umani, e come nel nord si favoleggiasse della sua bellezza e delle sue ricchezze, tanto che un pellegrinaggio a Van era il sogno di un’intera vita. Lui stesso, che era venuto nelle Terre Fortunate per affari, aveva pensato di andarci. Questo molto tempo prima. E gli sembrava che, come per Imarti, anche per lui il tempo adesso volesse dire millenni. La città-porto di Ik sorgeva nella stretta baia con lo stesso nome, tra la penisola di Omik-le-ma e le alte coste degli Alberi Bianchi. Il vasto arcipelago di Musian-Ma, con le sette isole dai porti accoglienti e dalle acque pescose, vi si allargava davanti. Ik era un piccolo porto, estremamente affollato, verdissimo, con strette strade che scendevano a picco e le case abbarbicate l’una sull’altra. I nobili e i Mu risiedevano a Om, dalla parte opposta della baia, e quindi la città di Ik godeva di una relativa quiete. La guarnigione locale, composta tutta da gente dell’arcipelago, era tollerante verso gli umani, e sull’orlo della rivolta verso i nobili. Chael vestì di nuovo i suoi abiti del nord, salutò Imarti e poi si diresse al traghetto. Aveva pensato che qualcosa di così assolutamente nuovo come l’uccisione di un Mu avrebbe fatto scalpore, invece non se ne sapeva nulla. Ik era una città festosa nel caldo sole rosso del pomeriggio, che tramontava ad oriente. L’odore del mare gli riempì i polmoni. Era diverso dal suo mare freddo di Sur, questo. Era un mare amico, ricco e persino piacevole. Le barche andavano e venivano tra il porto e le isole senza che giganteschi mulinelli si aprissero ad inghiottirle. Chael non aveva mai messo piede su una barca, prima. Ma affrontò il traghetto con sufficiente confidenza, pagò il pedaggio e salì a bordo, andando sul ponte superiore. Il colore dell’acqua, così vivo e azzurro, era qualcosa cui proprio non era abituato, e restò un poco a guardare giù. Il traghetto, a due ponti e con una stiva capace, si infilò nel canale destinatogli tagliando veloce verso la prima, e la maggiore, delle isole. Erano già al largo, e Ik era lontana, quando scoprì i due Mu. Era quasi buio. E la sera, dolce, all’improvviso si riempì di gelo. Il traghetto non era affollato, ma c’erano soldati e contadini delle isole e qualche donna. Chael si buttò addosso il mantello e andò a sedersi sul ponte più alto. Lì, un paio di contadini stavano giocando a dadi con dei soldati. Era molto strano. Non aveva mai visto prima dei soldati giocare con dei contadini. Si accovacciò lì accanto. Le lampade erano già state accese, e dondolavano alla brezza che si stava rinforzando. Non guardava il gioco. Pure i suoi occhi erano incatenati al rotolare dei minuscoli dadi scintillanti. Erano dadi molto belli, degni di un nobile. Un sottile tentacolo di gelo gli si insinuò nella pelle: qualcuno aveva sentito la sua paura. Si mosse, brusco. Uno dei contadini, un uomo alto e grosso e con il viso quasi nascosto dal gran cappello di paglia nera, sollevò appena il capo, come se il suo movimento lo avesse irritato. Chael gli passò oltre e scese al ponte inferiore. Voglia di morte. Era questo, ciò che sentiva. Un gioco sottile, una sfida raccolta e ripetuta per il piacere di un’emozione finalmente estrema. Un modo per prendersi gioco di lui e della sua paura. Raggiunse il salone e salì alla sala riservata ai Mu. Sotto le vesti portava adesso una corta shran, che Imarti gli aveva procurato senza difficoltà, e aprì la porta cautamente, scivolando all’interno. I Mu erano a tavola, e due umani li servivano. Uomini dell’equipaggio, che gli rivolsero uno strano sguardo d’attesa. I Mu non alzarono gli occhi su di lui, indifferenti. In un angolo della stanza c’era una ragazza, ma stava china, e di lei Chael non riuscì a vedere altro che il lungo kivac bianco, e le braccia sottili, strette sul capo. I capelli erano di oro scuro, ma non erano stati pettinati, e le si arruffavano in riccioli lunghi fino alla vita. Neanche lei si mosse. Chael arrivò fin davanti al tavolo. Adesso non aveva più che un attimo: il gioco era alle fine. Uno dei Mu alzò gli occhi, e nello stesso momento e con un solo gesto Chael estrasse la shran e gli tagliò la gola, e la tagliò al secondo Mu portando indietro l’arma dalla doppia lama. I due inservienti, impietriti, lo fissarono sgomenti. Chael abbassò il braccio, pulì la shran nella tovaglia e poi si mosse verso la ragazza. – Uscite! – ordinò ai due umani. Sfiorò con la punta delle dita le spalle sottili e la pelle di seta del collo. La ragazza non si mosse. Le sollevò un poco il viso, ma gli occhi restarono chiusi. – L’hanno presa ad Ik, prima di imbarcarsi – disse uno degli umani, attardandosi. – Lo fanno sempre, per non annoiarsi durante la traversata. È nel loro diritto. – Chi sono? – chiese Chael, accennando al tavolo. – Il signore di Omik e suo figlio. Facevano spesso di queste traversate. Quelli che prendevano ad Ik difficilmente arrivavano vivi a Musian-Ma, e viceversa. – Conosci questa ragazza? – Sì. È la figlia di un traghettatore. È ancora una bambina, e io l’ho vista crescere. Sono contento di quello che hai fatto, straniero. Nessuno credeva che un umano potesse riuscirci. – Io vengo dal Nord e sono Kor. Chael Kor. Vai a chiamare l’uomo vestito da contadino che gioca a dadi con i soldati, sul ponte alto. Digli che lo aspetto qui. L’uomo assentì ed indietreggiò fino alla porta senza dargli le spalle. Chael sollevò la ragazza, e per un poco la tenne appoggiata contro di sé. Era gelata. Le labbra pallide erano strette in un sorriso innaturale. Chael la riappoggiò sul tappeto, e la coprì. Non poteva fare nient’altro per lei. Entrò prima il largo cappello di paglia nera, e poi il massiccio uomo al di sotto, che per un momento restò appena oltre la soglia, le mani sui fianchi. Tutti gli altri stavano dietro: soldati, contadini, equipaggio. L’uomo lentamente si tolse il cappello e lo buttò in un angolo. – Imarti diceva la verità, uomo del nord – disse. – Dovevi proprio vederlo con i tuoi occhi, Manor Tai? La voce era stata asciutta e dura. Chael si versò del vino nella coppa del Mu, e poi ne riempì una seconda, e gliela porse. – Scommetto che non hai mai bevuto in una coppa Mu. Tai sentì la sfida, e tuttavia esitò un istante. La coppa brillava di luce viva e c’era del sangue bluastro, all’esterno. Lo sfiorò con la punta delle dita, guardando Chael. – Che cosa mi offri, straniero? – Sono Chael Kor. L’ho già detto al tuo uomo. Avete sacrificato quella bambina per distrarre i due Mu e farmi agire. – È vero. Imarti era molto convinto su di te, Kor. Ma io sono prudente e la vita di un umano, come dicono i Mu, è meno di un soffio di vento. E ti chiedo ancora: che cosa mi offri? – Quello che ti manca, Tai. Quello che ti ha impedito di iniziare la rivolta e di esserne l’uomo. Gli occhi di Tai scintillarono. – Io sono feroce. – Imarti me l’ha detto. Ma io ho avuto da un Mu quello che tu non hai, Tai. Lui mi ha lasciato un’eredità pesante: la capacità di distruggere. Tai portò la coppa alle labbra. – Tutti gli uomini sul traghetto mi sono fedeli. Chael sorrise; un sorriso freddo che annegò nel vino scintillante. – Basteranno, per ora. Il traghetto deviò dalla sua rotta, a metà notte, e tenendosi sotto costa sorpassò il capo della penisola di Omik-le-ma, dirigendo verso la prima città-porto delle Provincie di Mezzo, Binia. Una piccola città, ancora dolce di clima, e piacevole, immersa nel verde pallido delle foreste di alar odorosi. Chael aspettò l’alba sul ponte più alto. Qualcosa di estremamente doloroso lo teneva sveglio, tormentandolo. Non aveva più pensato alla sua gente, a Sur. A suo fratello, cui sarebbe toccato il suo posto nella famiglia; a sua madre, al vecchio padre cui aveva dovuto obbedienza ma al quale aveva voluto bene. Quei volti e quella vita appartenevano a qualcun altro, perché il Mu prosciugandolo si era preso anche i suoi affetti e i suoi ricordi, e aveva lasciato solo fiamme. Albeggiava quando Manor Tai lo raggiunse. Adesso vestiva le insegne di comandante di guarnigione, e così mutato riusciva in qualche modo a contenere l’aria di ferocia che sprizzava da ogni suo movimento. Chael lo sentiva ostile e nemico. E tuttavia si girò verso di lui, e gli indicò l’insenatura larga e tranquilla di Binia, che ingrandiva. – Hai avuto il comando di questo posto, non è vero? – Imarti deve essere stato un chiacchierone, con te – ribatté Tai. – Imarti non ha detto più di quanto serviva. Hai fatto dei Mu ciò che ti ho ordinato? Tai assentì. Chael si staccò dal parapetto e si mosse a scendere dal ponte. – Voglio parlare a tutti i tuoi uomini. Da come ci muoveremo oggi dipenderà la nostra sorte. C’erano in tutto un centinaio di uomini sul traghetto, fedeli e addestrati. Si riunirono nel salone. I due Mu erano stati rivestiti con i mantelli preziosi. Le ferite avevano cessato di sanguinare, e adesso gli ampi colli rialzati le nascondevano. Ci volevano molti giorni prima che un corpo Mu manifestasse la rigidità della morte, e quasi una stagione prima che cominciasse a dare segni di corruzione: così i due Mu sembravano ancora dei commensali annoiati da un banchetto prolungato oltre misura. E il vederli turbava ancora gli umani. Chael voltò loro le spalle, sfiorando con lo sguardo l’angolo vuoto dov’era stata la ragazza. Incontrò gli occhi di Tai, duri. – Parlami di Binia, prima di tutto – lo interrogò Chael. – Quanto ci sei stato? – Otto stagioni. Non era un brutto posto né un brutto lavoro, ma i nobili erano esosi e la gente insofferente. Così c’erano spesso contese, e piccole rivolte. La guarnigione è forte di una cinquantina di uomini. Ci sono quattro case di nobili con seguiti piuttosto numerosi. E poi questa è stagione di mercato, quindi ci saranno molti mercanti. Binia è famosa per il suo legname. – Mu? – No, troppo umida e già fredda per loro. Lì arrivano soltanto i venti gelati dal Golfo Grande di Ur. – Allora ottanta uomini si divideranno in dieci gruppi da otto e occuperanno tutti i punti dove possono trovarsi i nobili. Questo vuol dire che cinque gruppi andranno alle case e gli altri cinque alle locande sulla piazza del mercato. I nobili di Binia hanno gli usi di tutti i nobili del resto del paese? – L’hai detto. – Quindi nessuno si aspetta di vedere armi in mano a dei mercanti e a dei pescatori. Ma dovranno colpire subito, senza dare ai nobili il tempo di capire quello che sta succedendo. – E noi? – lo interrogò Tai. – Noi andremo alla guarnigione. I nostri amici Mu ci faranno aprire le porte. Pensi che la guarnigione passerà dalla nostra parte, Tai? Tai valutò quella possibilità. – Quando vedranno che i Mu si possono uccidere senza che per questo il sole si oscuri... sì, è possibile. Conosco gran parte di quegli uomini. È gente del posto, gente che ha preso i favori dei nobili per vivere un po’ meglio, e che senza i nobili non è più nulla. Noi siamo l’unica alternativa al potere. Mi piaci, Chael! Chael non rilevò l’apprezzamento. – Voglio vedere gli uomini quando saranno pronti. Voglio vedere le armi, i travestimenti, e voglio sentirli parlare. Non ci dovranno essere sospetti. E quando avremo preso Binia ci muoveremo subito per Ur, e poi per Sur. – Perché cominciare dal nord? I Mu sono al sud! – Perché al nord raccoglieremo più facilmente uomini e armi. E i Mu non ci prenderanno sul serio, perché saremo lontani. – Dai retta alla profezia di Imarti? È questo, Chael? – il tono di Tai adesso era divertito. – Le profezie sono parole. Ma noi dovremo avere un impero, quando affronteremo quello dei Mu. Gli uomini avevano preso a sfilargli davanti, mostrandogli shran e punshaw. Il punshaw era stato modificato perché l’impugnatura non spuntasse al di sopra della spalla, e anche la lama era diversa rispetto a quella solita. Chael aveva già studiato qualcosa del genere, e vi avrebbe portato i suoi personali miglioramenti, non appena fosse stato a Sur. Tutti gli uomini parlavano senza sforzo con gli accenti di diverse parti della regione ed erano ottimi soldati; tutti, inoltre, avevano quella predisposizione alla ferocia che sprizzava da Tai, e che l’azione imminente rendeva visibile. Il traghetto entrò nel golfo di Binia salutato da un vento teso, umido, un po’ fresco, che faceva risuonare le migliaia di campanelli augurali appesi a tutti i pali delle strade, in lieve salita verso la piazza centrale. Chael disegnò la pianta della città mentre la barca compiva le lunghe operazioni di avvicinamento ed attracco. Disegnò la posizione delle quattro case nobili, delle locande, della guarnigione, seguendo i ricordi di Tai, e poi le mostrò ai capi di ciascun gruppo: riascoltò gli ordini impartiti, e infine si mossero. I gruppi lasciarono il traghetto alla spicciolata, ricostituendosi più avanti, non appena fuori dal porto. Per ultimo scese Chael, con Tai, e gli uomini rimasti che portavano i due Mu nella portantina chiusa con le insegne di Omik. Non c’erano vran a Binia. La gente si scostò intimidita, al loro passaggio. Non avevano Mu, ma dovevano conoscere gli effetti devastanti della loro presenza. Chael rabbrividì, al vento che lo colpiva in faccia, mentre salivano alla guarnigione. Qui e là distinse qualcuno degli uomini di Tai, ma solo perché aveva una vista acuta, e perché sapeva dove cercarli. Camminava dietro alla portantina, ma Tai si girava spesso verso di lui, e quando arrivò al portone Chael fu costretto a raggiungerlo. – Aprite alle insegne Mu del signore di Omik! – urlò. Il portale fu aperto immediatamente. La guarnigione era impreparata, e non appena dentro videro uomini che correvano qui e là, in cerca dei pezzi mancanti delle proprie uniformi. Chael gettò un’occhiata a Tai. – Questi non sono preparati a niente, tantomeno a combattere! Radunali. L’uomo che aveva sostituito Tai al comando, un giovane di Omik, Aned, si era già precipitato a rendere omaggio alla portantina chiusa. Era un giovane dalla faccia pallida, con un naso prominente e gli occhi acuti. Chael lo lasciò portare a termine il saluto previsto ai signori Mu, poi gli si avvicinò, sfoderò la shran e gliela appoggiò alla gola. Aned restò impietrito, senza osare un movimento. – Non hai mai visto un Mu ucciso da un umano? – gli chiese Chael. Il giovane sgranò gli occhi. Tai rise del suo terrore. – Dai al mio amico la possibilità di dire almeno una parola, Kor! – lo esortò. Chael allontanò di una frazione la lama dalla gola del comandante. – No – rispose Aned, e gli occhi andarono alla portantina, le cui cortine sbattevano al vento. Chael ne aprì una. – Allora guarda. E decidi in fretta da che parte vuoi stare. Aned allungò appena il collo verso le due forme che non potevano più fargli alcun male. – I nobili... – mormorò. – I nobili sono alleati dei Mu! – I nobili di Binia sono già tutti morti o stanno morendo – intervenne Tai. – Che cosa faranno i soldati? Aned alzò a mezzo una mano, allontanando di un palmo la shran dalla sua gola. – Sono con te, Tai. – No. Sei con Kor! – lo corresse Chael. – E i tuoi soldati saranno le prime truppe di Kor. Sei ambizioso, Aned? Gli occhi dell’uomo brillarono. – Sì. Lo sei. Tanto che hai venduto il tuo comandante per prendere il suo posto. – Non è vero! – protestò Aned temendo la rabbia di Tai. – Sei ambizioso – lo zittì Chael. – Ed io ti offro il comando, e la conquista della Capitale, al mio fianco. Sei anche un traditore, ma non ci tradirai, perché saremo i più forti. Hai capito, Aned? – Sì. Chael rinfoderò la shran. – Bene – mormorò, con un lieve sorriso freddo. – Allora raduna tutti gli uomini della guarnigione, ed esponi i Mu. Lascia che tutti li vedano. Poi presentati a me con i tuoi ufficiali. Abbiamo molto lavoro. Aned gettò uno sguardo furtivo a Tai, ma si mosse solerte e deciso. Chael salì sugli spalti. La sentinella gli fece rilevare i segnali: gli specchi in ciascuno dei punti chiave, e sui quali il sole si spezzava. A parte i segnali, Binia sembrava ancora calma, anche se a ben guardare c’era una certa corrente di folla che si apriva e si chiudeva come un serpente impazzito. – I primi effetti – pensò. La testa del serpente aveva imboccato il viale centrale, per salire alla guarnigione. Il fuoco di un incendio si alzava in volute pigre da una delle case dei nobili. Il vento era caduto. Chael voltò le spalle alla città che insorgeva.